MicroMega ricorda Oscar Luigi Scalfaro, un Presidente davvero Custode della Costituzione
Scalfaro: Il senso dello Stato e i suoi nemicidi Oscar Luigi Scalfaro, da MicroMega 2/2001
La strategia degasperiana
Dalla Provvidenza ho avuto il dono grandissimo di essere stato vicino a De Gasperi. Molto vicino. E anche un secondo dono, di cui non ho merito alcuno: che De Gasperi non mi ha fatto sottosegretario. Dunque, il fascino della sua figura, che ho sentito fortissimo – giusto o sbagliato che fosse – non è influenzato da alcun dare/avere, per quanto pulito e ineccepibile.
La sua prima caratteristica era l’enorme equilibrio nel cercare sempre con gli altri un denominatore comune fondato su una grande ricchezza umana. Di De Gasperi mi aveva colpito l’impostazione strategica, di grandissima apertura d’ali. I francesi parlerebbero di envergure. C’erano molti problemi urgenti. Li potremmo riassumere sotto la dizione generica di «giustizia sociale». Nei giorni e nei primi anni successivi alla Liberazione, indubbiamente il problema più sentito era primum vivere, perché cruciale, il tema della libertà. L’Unione Sovietica era in mano a Stalin, le notizie ancora non erano chiare, lo stesso famosissimo libro di Kravcenko Ho scelto la libertà non era ancora uscito, ma la scelta strategica di De Gasperi di privilegiare la libertà e di puntare sulla politica estera fu fondamentale.
Sia chiaro: con gli Stati Uniti non ha mai avuto atteggiamenti che non fossero di altissima dignità. Non li ha mai considerati infallibili. Ma gli Stati Uniti non hanno peccato contro la libertà. Ecco il perché della scelta atlantica. Risento in me i suoi discorsi di politica estera. Ne rivedo il volto e il modo di parlare: sembrava lo scultore che prepara la grande arcata. Da qui anche le alleanze nella politica interna, con i partiti di sicura sensibilità in tema di libertà e di democrazia: liberali, repubblicani, e anche demolaburisti e azionisti, che rappresentavano una posizione molto a sinistra, ma inattaccabili sulle questioni di libertà.
Mi ricordo che De Gasperi, nel consultare l’opposizione sulle questioni di politica estera, secondo la grande tradizione democratica occidentale, ha sempre chiamato Nenni, mai Togliatti, per l’opposta concezione dell’uomo e dello Stato e per la marcata sudditanza in politica estera con l’Unione Sovietica.
Bisogna tener conto che ai tempi dell’Assemblea Costituente eravamo un po’ tutti chiusi nelle nostre reciproche torri. A me e a molti miei colleghi cattolici, perciò, colpiva vedere il dc Campilli passeggiare sotto braccio al comunista Pesenti, nel salone dei passi perduti a Montecitorio. La separazione era rigida, secondo la logica comunista che anche un rapporto umano finiva per indebolire una posizione politica.
Una volta, a confermarmi questa tesi, fu Davide Lajolo, nome di battaglia nella Resistenza «Ulisse», allora direttore dell’Unità. Fu ancora lui a dirmi, di Togliatti, che mancava di sentimento umano ed era uomo di considerevole aridità. Eppure il degasperismo, e la sua grandezza, è stato anche questo: aver scritto la Costituzione insieme a uomini come Togliatti. Una pagina incredibile. Io sono stato all’Assemblea Costituente, come un allievo, a cercare di non perdere quella grande lezione: l’incontro di tre grandi culture, quella cattolica, quella marxista-leninista, quella laica moderata.
Il dialogo con i diversi schieramenti
Eravamo inesperti in fatto di dialogo, dunque carenti di una particolare ricchezza umana. Però c’erano quelli che erano stati in montagna insieme, alcuni che già si erano incontrati. Ricordo il vescovo di Novara, un cappuccino eroico, monsignor Leone Ossola, già prigioniero degli inglesi in Africa, che mandò i sacerdoti della sua diocesi in montagna, dove si moriva tutti i giorni, a stare vicini ai partigiani. Li inviò non come preti combattenti (anche se ve ne furono) bensì come preti-preti, per condividere in un rapporto umano e spirituale particolarmente ricco la vicenda di chi combatteva. Fu una pagina estremamente positiva. Fu proprio monsignor Ossola a presentarmi, nel periodo clandestino, il comandante partigiano comunista Cino Moscatelli.
La Resistenza combattuta insieme ha voluto anche dire condividere sofferenze, e questo è un grande patrimonio, una ricchezza che crea legami formidabili. Credo di aver raccontato più volte un episodio davvero significativo: De Gasperi era ministro degli Esteri, e attraverso gli scarsi mezzi della diplomazia nascente, della Croce Rossa e del Vaticano, cercò notizie di una figlia di Nenni, deportata nei lager e di cui non si sapeva più nulla. Alla fine De Gasperi fu informato che era stata trovata morta. Il ministero degli Esteri era dove adesso c’è la presidenza del Consiglio, e il quotidiano Avanti! che Nenni dirigeva era a tre o quattro minuti da lì, dietro via del Vicario. Quando venne informato che era stata trovata morta mi disse: ho telefonato a Nenni e gli ho detto: vengo da te! Lui ha capito. E poi: cosa può dire un padre ad un altro padre in queste circostanze, anche perché lui, che è molto rispettoso del sentimento religioso, non ha però fede. Mentre continuavo a pensare ho attraversato la piazza, ho fatto questa scaletta, mi sono trovato, abbracciato, a piangere insieme. E poi aggiunse: queste cose, sai, né lui né io le potremo dimenticare mai.
Il valore della sofferenza
Tutte le sofferenze condivise nella Resistenza, dalle montagne al Laterano, hanno creato un patrimonio comune che ha reso possibile la grande pagina della Costituente. Veramente grande pagina. Ecco perché l’antifascismo è il punto di origine, il fondamento della nostra Repubblica che non si può cancellare.
Oggi siamo invece arrivati ad affermazioni di incredibile gravità. Quando il capo dell’opposizione minaccia che cambierà la Costituzione – anche nella prima parte – con la sua sola maggioranza, sostenendo che questa prima parte ha sapore di comunismo, si tratta, in termine tecnico, di ignoranza crassa, cioè ignoranza pesante e colpevole, che esclude la buona fede. Perché basta leggerla, la Costituzione, non è neanche necessario conoscere le vicende storiche da cui è nata, per sapere che nessun valore di libertà, nessun diritto è in essa stato compromesso. Quindi, quando si parla in quel modo si compie un attentato alla Costituzione. Un conto è proporre modifiche – in questo caso devono essere prese in considerazione – un altro è minacciare con evidente tracotanza di sovvertire la Costituzione con una qualsiasi maggioranza.
La prima parte della Costituzione non si può toccare. Non si deve toccare. I valori fondamentali, che in essa sono scritti, possono anche essere indicati come la proclamazione dei diritti della persona umana. Sono dunque intoccabili. Diversamente, si compie un attentato contro la civiltà di un popolo. Non c’è dubbio.
Verità e chiarezza per la pacificazione
Questo taglio delle radici, questo parificare tutto, democrazia e dittatura, è inaccettabile. Vuol dire innanzi tutto negare la storia, negare la verità. Per questo ritengo che sono state pronunciate frasi rischiose, perché non sufficientemente chiare, quando si è parlato dei giovani che scelsero la Repubblica di Salò. Un giovane può avere un numero indefinito di attenuanti. Abbiamo avuto in Parlamento giovani che avevano fatto i Littoriali… e ci sono stati quelli che si sono rifiutati… Il sottoscritto, da studente universitario, si dispiacque quando nacque il nuovo codice per celebrare il ventennio del fascismo con la collaborazione di tanti giuristi cattedratici. Altri docenti universitari hanno preferito perdere la cattedra, piuttosto che giurare fedeltà al fascismo: li ammiro profondamente.
La pacificazione può nascere solo dal rispetto della verità. Ci sono stati degli eccessi, e anche fatti criminosi, da parte di partigiani. Questo è tanto più grave perché veniva da chi si batteva per la libertà. Io lo considero perfino una aggravante, proprio perché i partigiani erano schierati dalla parte giusta, dalla parte della libertà. Gli altri, che hanno scelto Salò, erano dalla parte sbagliata, dalla parte della dittatura contro la libertà. Possono aver vissuto momenti eroici ed eroicamente averci lasciato la pelle, ma erano dalla parte sbagliata. Non è un’accusa, è una constatazione. Se non si rispetta questa realtà, questa verità, viene meno ogni base per un retto giudizio e ogni fondamento per la pacificazione. Salta tutto: ogni rapporto umano, ogni dialogo.
C’è stata, purtroppo, già alla Costituente, la forzatura polemica delle sinistre di identificare il «fascismo» con la destra: la destra è sempre fascista, inserendo con ciò un elemento di confusione molto grave. In un paese libero una posizione di destra, anche dura, è legittima e direi necessaria. Siamo fuori dell’ordine costituzionale, appena ci si rifà alla dittatura. Ma anche una posizione di sinistra può diventare illegittima: quando la sinistra finisce in Br, evidentemente siamo fuori dell’ordine costituito.
Libertà e giustizia
Torniamo alla libertà come tema strategico prioritario. Su di esso nasce la socialdemocrazia. Quella scissione fu un atto di coraggio enorme compiuto da Saragat. Ma è evidente che la vita quotidiana di un popolo, specie di un popolo che esce dalla guerra, è una vita dove conta, e molto, anche la giustizia, che è parte integrante del concetto di libertà. Entrambe discendono dalla verità, non solo secondo il concetto evangelico. Il problema, allora, era drammatico. C’era tanta gente in condizioni non già di povertà ma di vera e propria miseria. Ricordo, come fosse ieri, quando De Gasperi ci raccontò che aveva telefonato a Fiorello La Guardia, già sindaco di New York, responsabile degli aiuti del piano Marshall, dicendogli: sono il presidente del Consiglio dell’Italia, lei è italiano e so che ama l’Italia. Se qui le navi arrivano con viaggio normale arrivano dopo sette-otto giorni, e intanto potrebbe scoppiare la rivoluzione, perché abbiamo pane per due giornate. Fiorello La Guardia dirottò le navi. Arrivarono a Palermo, a Venezia, a Genova: fu una cosa veramente commovente.
Dunque, nel momento in cui si affrontano i temi di giustizia sociale, qual è il denominatore comune coi liberali, persone degne (basti pensare non solo ad Einaudi, ma a Badini Confalonieri, Villabruna)? La libertà non poteva restare l’unico criterio. Bisognava varare immediatamente anche grandi riforme sociali. Ricordo che in Consiglio dei ministri ci fu una sfuriata di Scelba, ministro dell’Interno, perché la riforma agraria faticava tanto a nascere. E intanto c’erano i morti a Melissa nelle manifestazioni per la terra ai contadini. A questo punto il denominatore comune si estendeva alla sinistra, perché nessuno può negare l’impegno e la combattività delle sinistre su questo tema. Quando dissi queste cose a un congresso della Dc a Roma, nei primi anni Cinquanta (si teneva al Teatro dell’Opera e presi la parola dopo Giovanni Gronchi), malgrado fossi un giovane deputato poco conosciuto, terminai il discorso accolto da un’ovazione a non finire. Lo stesso De Gasperi mi abbracciò. Un manifesto fascista, invece, diffuso in tutta Italia mi accusava di comunismo. Io lo vidi in Sicilia.
Del resto De Gasperi lo disse chiaramente: la Democrazia cristiana è un partito di centro che guarda verso sinistra, che si muove verso sinistra. E io, con la semplicità e l’impreparazione di un giovane, durante l’Assemblea Costituente, parlando al gruppo Dc, avevo proposto: prendiamo le encicliche sociali e il radiomessaggio di Pio XII per il 40° della Rerum novarum; in un dialogo con un liberale serio, quanti di quei principî potevano essere condivisi? E quale denominatore comune potevano trovare presso uomini della sinistra, anche marxisti ma riformisti, con tutta la loro ricchezza umana?
Ma parliamo di liberali. Oggi si può dire che c’è un mondo liberale? No. Quel mondo ormai – almeno per ora – in questa destra non trova posto (forse qualcuno uti singulus…). Che un liberale riesca a sentirsi a casa sua con questa destra mi pare davvero un controsenso.
Oltre a quanto detto sopra a proposito della prima parte della Carta Costituzionale, è tutto il modo di agire di questo schieramento che non ha nulla a che fare con i principi liberali. Parla e decide uno solo! E parla solo per slogan. Ci sono docenti universitari, in quello schieramento, che non dicono più una parola. E l’unico che parla se ne esce con espressioni non condivisibili. Con quale coraggio può dire di avere come punti di riferimento De Gasperi e Sturzo?
Liberismo senza etica
Mi fermo, con molto rispetto, alle soglie del discorso economico, che non è il mio. Anche qui, però: nemmeno da un punto di vista di un mero ed esasperato liberismo, questa destra e il suo leader hanno le carte in regola. In tutto il mondo, infatti, liberismo vuol dire antitrust e soluzione del conflitto di interessi. Su questo il centro-sinistra ha sbagliato. Il conflitto di interessi è un tema che, in democrazia, non ammette compromessi. Consentire che tale conflitto permanga, fa saltare il patto di convivenza fra cittadini anche sul piano economico. È una cosa molto grave e non può essere tema di transazione.
Il dialogo con l’opposizione è sempre auspicabile, e dunque bisogna mettere in conto compromessi e accomodamenti. Ma questa era ed è una questione di principio. Assoluta. È stato gravissimo non imporre la soluzione di quel conflitto subito dopo la vittoria dell’Ulivo. È stato un secondo errore riproporla a poche settimane dalle elezioni, fornendo l’occasione pretestuosa all’opposizione di presentarsi come vittima.
Sappiamo che c’è una legge del 1957 che definisce l’ineleggibilità e l’incompatibilità. In parlamento, in quegli anni, io succedetti all’onorevole Lucifredi come presidente della Giunta per le elezioni, che dichiarò la incompatibilità per circa 120 parlamentari, di cui almeno una settantina appartenenti al mio partito. Era motivo di incompatibilità, per esempio, far parte del consiglio di amministrazione di una banca, e per molte altre cariche, tutte di peso assolutamente inferiore all’attuale concessione delle frequenze di tre reti televisive. Facevano eccezione solo gli enti morali, quali una casa per anziani, un asilo infantile. A Zaccagnini, capogruppo Dc, che insisteva perché accettassi la presidenza della Giunta, avevo risposto in modo negativo dicendo chiaramente: io applico la legge, ma temo che non se ne desideri l’applicazione. Poi dovetti assumermene la responsabilità. Fui «imputato» di fronte al presidente della Camera Bucciarelli Ducci.
Mi ricordo un’altra polemica in proposito, sui sindacalisti parlamentari che erano nei consigli di amministrazione di enti di previdenza. Camera e Senato, sottolineando che per gli enti di assistenza era prevista la compatibilità con il mandato parlamentare, vi avevano assimilato gli enti previdenziali. Io mi opposi, poiché assistenza e previdenza sono due concetti per nulla assimilabili, e ottenni dalla Giunta che tutti i sindacalisti eletti si dimettessero da presidenze e consigli di quegli enti. Altrimenti sarebbero stati dichiarati decaduti da parlamentari. Ma ciò non avvenne al Senato.
Anche all’estero, sia chiaro, non sempre il problema è risolto. Ci sono intrallazzi ed escamotage, e la potenza delle lobby. Basti pensare che quando il presidente Clinton ha cercato di intervenire sulla libera vendita delle armi, è stato schiacciato dalla forza della lobby dei fabbricanti, malgrado il susseguirsi di episodi tragici.
Il senso dello Stato
Per un liberale vero l’elemento irrinunciabile è il senso dello Stato. E lo Stato non può essere trattato come un’azienda, perché così si perde proprio il senso dello Stato. Einaudi, che era liberale e liberista, sostenne che l’economia è ancella della politica. Non la padrona.
Naturalmente, capire e tener fermo il senso dello Stato è faticoso. Ma irrinunciabile. Anche nella storia del mio partito, la Democrazia cristiana, ci sono stati momenti di caduta del senso dello Stato. Di contaminazione con interessi privati. Una delle contaminazioni peggiori che possano esserci. Io penso addirittura, e non da oggi, che in un cittadino che è titolare di un’enorme ricchezza già vi sia uno status che non lo rende idoneo a governare.
Ma senso dello Stato vuol dire anche rigoroso rispetto del potere autonomo della magistratura. E su questo tema basterebbe richiamare la recente aggressione del capo dell’opposizione contro la Corte Costituzionale: evidentemente cosa assai grave. La Corte non ritiene di difendersi: rimane bersaglio dell’accusatore. Non è la prima volta che avviene. Ricordo che io fui costretto a intervenire severamente, quando ero al Quirinale, per stigmatizzare un incredibile attacco contro la Corte che a breve distanza di tempo sarebbe stata chiamata a decidere sull’ammissibilità o meno di alcuni referendum. In quella difesa fui, allora, lasciato più o meno solo.
Riprendendo il discorso sul senso dello Stato, non si possono approvare gli attacchi alla magistratura di chi dà la sensazione che autonomi, indipendenti e imparziali siano i magistrati quando gli danno ragione.
La Chiesa ha impiegato anni per apprezzare il sistema democratico. Ne sono certo: lo ha fatto con una bellissima motivazione che è espressa nel finale della Centesimus annus. Nel capitolo «Stato e cultura» la democrazia è vista come l’irrinunciabile spazio della partecipazione. Che è esercitata nelle scelte politiche, nella possibilità di eleggere i governanti e di verificarne l’operato. Di cambiarli, anche. Ma la distinzione dei poteri – fondamentale – quella c’è già nella Rerum novarum, a dimostrazione della sua essenzialità.
Certo, a tener fermo il senso dello Stato ci si scontra con una mentalità diffusa. Ho parlato di senso dello Stato per far capire che partecipazione e responsabilità sono le condizioni perché lo Stato funzioni.
Inutile nascondersi, però, che si è insinuata un’onda di sostegno a posizioni che giudico inaccettabili. C’è un certo mondo, anche cattolico, che dice: questo Scalfaro che ha portato i comunisti alla testa del governo… L’Osservatore Romano scrisse che il capo dello Stato aveva deciso di dare l’incarico a Massimo D’Alema. Il capo dello Stato, in realtà, aveva appena proposto all’attuale suo successore, Ciampi, allora ministro del Tesoro, di presiedere un governo per far approvare la legge finanziaria e arrivare alle elezioni europee. Ciampi si era dichiarato disponibile quando, con incredibile immediatezza e conseguente sorpresa, fui avvertito che in parlamento era già nata una nuova maggioranza: con il contributo di Cossiga insieme con Mastella. Unanimemente designava Massimo D’Alema Presidente del Consiglio. Secondo la nostra Costituzione quando il parlamento genera una maggioranza e questa esprime un premier, il capo dello Stato può solo prenderne atto.
Che si fosse fatta una nuova maggioranza lo dimostrano le cifre: perché Romano Prodi cadde per mancanza di un voto. Il nuovo governo nacque con trenta voti di maggioranza, che non sono pochi.
Eppure anche Ciampi avrebbe avuto una maggioranza per la fiducia: di questo resto convinto. Anche perché in quei frangenti sul parlamento agisce, giustamente (lo sottolineo in modo positivo), la paura dello scioglimento, e il parlamento, saggiamente, difende la sua sopravvivenza. Nel mio settennato ho detto mille volte una cosa: primo dovere del capo dello Stato è fare l’impossibile perché le istituzioni vivano il loro tempo fisiologico. Ho ceduto quando? Quando c’è stato quel voto referendario dell’80 e più per cento in favore della legge elettorale maggioritaria. In quel caso era doverosa la domanda su quale fosse la legittimazione del parlamento in carica. Non potevo prendere la legge che dal referendum scaturiva e metterla in un cassetto: sarebbe stato veramente un atto non costituzionalmente corretto. Ma altrimenti ho sempre difeso a oltranza la scadenza naturale del mandato parlamentare.
Altro che «ribaltone»!
Quando nel dicembre del ’94 l’attuale capo dell’opposizione mi chiese di sciogliere le Camere, per via di quello che poi è stato chiamato il ribaltone, mi rifiutai. Cosa è un ribaltone? Che si tolga la maggioranza a chi ce l’ha e la si passi agli altri. La «maggioranza» del ’94 era FI più An in contrasto con Bossi. E Bossi aveva detto contro Fini, in campagna elettorale, tutte le ingiurie possibili. Perciò quando Bossi, nel dicembre, cioè dopo nove mesi dalle elezioni, toglie la fiducia, il presidente del Consiglio sale al Quirinale e dice: mi dimetto, perché non ho più la maggioranza. Infatti la maggioranza si era dissolta. Poi ritorna al Quirinale e chiede tre cose: scioglimento delle Camere, elezioni anticipate, e «le elezioni le faccio io».
In queste condizioni si va alle urne: con un parlamento che non ha un anno di vita? Siccome io rimasi ad ascoltare queste richieste, l’interlocutore riprese e disse testualmente: ti ho chiesto tre cose, ti ho fatto tre domande, cosa rispondi? E questa è la registrazione, puntuale, di quei pochi momenti. Risposta: rispondo tre no, perché se io dovessi rispondere sì tradirei la Costituzione, perché finirei per compiere un atto, lo scioglimento, che sarebbe fatto solo in favore della tua parte. Questo non è lecito per il capo dello Stato che su questa Carta ha giurato fedeltà.
Ricordo che, pochi giorni dopo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, non sentii quasi la relazione: tanto avevo la testa che continuava a ruminare per cercare una via idonea alla soluzione della crisi.
Ho avuto gravi preoccupazioni in questa grande crisi politica: con due grandi partiti che si disgregano c’è il rischio della rivoluzione, e se la rivoluzione fosse scesa in piazza, inimmaginabili sarebbero state le conseguenze. Assai fondato in me era il timore della disgregazione dello Stato. Anche la moneta crollava. Un giorno, l’attuale capo dello Stato, allora governatore della Banca d’Italia, mi venne a dire: ho messo in vendita questa mattina i titoli di Stato, nessuno li ha comprati. Ho telefonato alle banche che comprino e io pago le banche. Cioè: lo Stato mette in vendita i suoi titoli e lo Stato se li ricompra, credo che sia peggio della moneta che crolla, peggio, perché è la sfiducia totale.
Questi due pericoli, con l’aiuto di Dio, e con l’autentico impegno di quanti, nelle responsabilità e tra la gente, vi hanno creduto, siamo riusciti a superarli. Ma sono stati pericoli veri. Fortissimi. Questo era lo sfondo di una realtà tremenda.
Una proposta senza precedenti: il premier indicato dalla minoranza
Torniamo alla inaugurazione dell’anno giudiziario 1995. Dissi: presidente, viviamo ancora una situazione tesa, a rischio. Non posso sciogliere le Camere e seguire le altre tue richieste, la Costituzione non me lo consente. Devi perciò fare un passo indietro. Prendi atto che sei in minoranza e io farò un passo che non ha precedenti nella storia d’Italia. Anche se sei in minoranza, sarai tu a darmi il nome della persona che devo chiamare per fare il governo; è essenziale che teniamo insieme questo nostro paese. E su sua indicazione ho chiamato Dini. In realtà aveva fatto anche il nome di Cossiga, poi però lo aveva escluso. Oltre al nome di Dini aggiunse: facciamo un governo distaccato dai partiti, quindi anche senza nessuno ministro dell’attuale governo.
Ventiquattr’ore dopo o giù di lì, viene da me Dini che mi aveva già presentato una lista di ministri. È stato detto e scritto che io avevo imposto a Dini una mia lista. Non me lo sono neppure sognato. Mai. Ma i falsi sono di casa in un certo giornalismo. Dini mi disse questa frase: presidente, ormai sono anch’io un traditore. Sono stato chiamato dal presidente del Consiglio dimissionario, presente il comando supremo del suo movimento. Mi hanno chiesto di inserire nella compagine cinque ministri del governo in carica: il presidente del Consiglio, quindi, aveva già cambiato totalmente idea. Dini allora mi disse: io rimetto il mandato.
Ho risposto: questa cosa con me non può capitare, perché sono sempre stato contrario alle crisi fatte in sede di partito e fuori del parlamento. Nella legislatura precedente c’è una proposta di modifica costituzionale che porta il mio nome. È stata votata alla Camera ma seppellita al Senato. Specificava come ogni crisi di governo dovesse necessariamente passare per il parlamento. Quindi ho detto a Dini: ti presenti in parlamento. Otterrai la fiducia perché il parlamento non vuole lo scioglimento delle Camere. Ed ha ragione.
Al presidente dimissionario avevo già detto: se tu voti questo governo, lo rendi tuo, metti la tua mano a sua tutela. E il giorno che si ritiene che si debba dimettere – Dini è persona di tua fiducia, l’hai fatto tu ministro del Tesoro – gli fai sapere che l’esperienza di governo ha fatto il suo tempo. Certamente Dini la chiuderà. Ma se non lo sostieni, ti sfugge totalmente.
Dopo di che loro non lo votarono.
Il famoso ribaltone, che non è mai esistito, fu realizzato a fronte di un governo che aveva perso la maggioranza, con il presidente del Consiglio che si era – giustamente – dimesso, con una proposta di soluzione della crisi che usciva da tutti gli schemi: con il nuovo premier indicato da quello dimissionario e ormai in minoranza. Senza contare che, in tutte le democrazie occidentali, dove vige il maggioritario secco, la crisi di governo non porta automaticamente allo scioglimento delle Camere. Non esiste questa procedura.
In Italia il cosiddetto «ribaltone» è solo un prodotto aziendale. È un prodotto confezionato dal bombardamento dei mezzi di comunicazione.
(conversazione con Paolo Flores d’Arcais)
(30 gennaio 2011)
da -
http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-il-senso-dello-stato-e-i-suoi-nemici/