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Autore Discussione: Paolo FLORES D´ARCAIS..  (Letto 69765 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Agosto 15, 2010, 04:30:34 pm »

Contro B. Fini può vincere

Ai suoi “alleati” Berlusconi chiede solo tre cose: credere, obbedire, combattere.

Il vero fascista è lui.

Per Berlusconi non esistono alleati: o sei un servitore o sei un nemico.

Per Berlusconi non esistono lo Stato e le sue istituzioni: esistono solo le sue proprietà, governo compreso.


Il paradosso è che contro Berlusconi oggi sono schierate – speriamo sempre più efficacemente – persone che nel Msi stavano all’estrema destra, con Rauti, mentre l’ex-Pci sta a cuccia sotto le ali dell’ex-giovane di bottega di Forlani (ricordate il Caf?), Pierferdinando Casini. E quattro chiacchiere di quattro Serracchiani non cambieranno un bel nulla, fino a che non si trasformano in opposizione-rottura nei confronti dei D’Alema e Veltroni (e relative controfigure).

Contro Berlusconi Fini può perfino vincere. Se davvero manterrà la promessa intransigenza sulla legalità.

Perché allora si presenteranno a bizzeffe i provvedimenti berlusconiani che della legalità fanno strame, su cui sarà costretto a far cadere il governo. A quel punto dovrà scegliere tra governissimo, cioè mega-inciucio, e governo di lealtà costituzionale, che tolga a Berlusconi il maltolto, l’etere televisivo che è di tutti e che Berlusconi grazie a Craxi ha espropriato annettendolo a Villa Certosa. Speriamo che Fini non si faccia consigliare da D’Alema, e segua solo la logica. Ho detto “speriamo”: non è una previsione, è una possibilità, che l’azione della società civile democratica – se riprenderà le lotte – può rendere meno improbabile.

Paolo Flores d'Arcais

(3 agosto 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/contro-b-fini-puo-vincere/
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« Risposta #31 inserito:: Settembre 22, 2010, 11:51:53 pm »

Risposta a Scalfari

Caro Eugenio, all’opposizione serve un “Papa protestante”

di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 22 settembre 2010


Caro Eugenio,
domenica, nel tuo consueto editoriale su Repubblica, hai affrontato la questione politica cruciale: “La sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?”. Per formulare una diagnosi, ma soprattutto per indicare una terapia, hai creduto di poter dividere “il popolo di sinistra” secondo “due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti”, che puntualmente elenchi. Ma il dramma, concludi, è che “finora i cuochi [la nomenklatura Pd] si sono occupati d’altro. Non si sa bene di che cosa”. Conclusione impietosa ma ineccepibile (di cosa si siano occupati in realtà è noto: carriere e altri interessi personali, non sempre confessabili).

Credo invece che fuorviante sia la polarità che istituisci tra sognatori e realisti. Del resto ammetti tu stesso che “spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona”. E un classico della Realpolitik come Max Weber ammoniva che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.

Atteniamoci comunque al più occhiuto realismo. Tu insisti, giustamente, che anche in politica, e forse più che mai in politica, almeno quella democratica, bisogna chiamare le cose col loro nome. Che un’arancia è un’arancia. E un riformista? Un politico che realizza riforme, direi. Sui sedici anni che ci dividono dalla famosa “discesa in campo” di Berlusconi, circa la metà hanno visto il centrosinistra al governo. Riforme? Nessuna. E dire che non c’era poi molto da sforzarsi. Cominciando dal famoso “conflitto di interessi” per il quale la legge c’è già, risale al 1957, esclude dalla vita politica i privati che abbiano concessioni pubbliche (di valore superiore a una tabaccheria, fu spiegato allora).

Sulla base di quella legge Berlusconi non era eleggibile. Bastava che la giunta parlamentare per le elezioni la rispettasse. Non lo fece, neppure col centrosinistra in maggioranza. Calpestando la “legge eguale per tutti” che è scritta nelle aule dei tribunali, avallando l’opposta “Costituzione materiale” secondo cui “Berlusconi è più eguale degli altri”. Che coincide – mi insegni – con quella della geniale Fattoria degli animali di Orwell (dove gli animali “più eguali” sono i maiali).

Né fu distrutto il duplice e mortificante monopolio televisivo: di Berlusconi sulla tv privata e della lottizzazione partitica su quella “pubblica”. Anzi, il centrosinistra varò un provvedimento (ad personam! Ad Berlusconem!) per vanificare la sentenza che aveva riconosciuto il diritto di Europa 7 di avere le frequenze abusivamente utilizzate da Rete 4. E nulla fece, va da sé, per eliminare il monopolio della pubblicità, che è lo scrigno di sicurezza contro ogni pluralismo televisivo.

Quanto alla giustizia, riformismo significa far concludere (che è l’opposto di far morire) i processi in tempi ragionevoli, cioè brevi. Basterebbe calcolare la prescrizione sul rinvio a giudizio, e gli azzeccagarbugli degli imputati eccellenti non avrebbero più interesse a tirar le cose in lungo. E introdurre il reato di “ostruzione di giustizia”, sul modello e con la severità anglosassone, mentre invece si è depenalizzato di fatto quello di falsa testimonianza. E garantire le intercettazioni legali a costo zero, come dovere delle compagnie telefoniche che ottengono le lucrosissime concessioni pubbliche, punendo invece con durezza inaudita quelle illegali degli infiniti Pio Pompa, amorevolmente protette anche dal centrosinistra col segreto di Stato.

Non parlo del raddoppio delle risorse materiali per l’amministrazione della giustizia e per l’azione delle forze dell’ordine (cancellieri che scrivono a mano, benzina per le volanti pagate di tasca propria...) perché sento già l’obiezione: mancano le risorse. Mancano? E i 275 miliardi annui (annui! Calcolo della Confindustria che corregge la precedente stima di “soli” 125 miliardi) rubati dall’evasione non sono risorse pubbliche? Perché nei sette anni dei due governi Prodi e del governo D’Alema ne sono stati recuperati solo alcuni insignificanti coriandoli? Non dovrebbe essere questa la prima azione del più moderato dei riformismi?

Sai bene, caro Eugenio, che potrei continuare a lungo. Del resto il giornale che tu hai fondato è costretto a ricordare costantemente la latitanza di riforme necessarie, e assolutamente possibili. Smettiamola almeno, perciò, di parlare di riformismo e di riformisti per i dirigenti del centrosinistra, TUTTI, visto che hanno governato a lungo quanto Berlusconi e non hanno riformato un prospero (su scuola e laicità hanno toccato l’efferatezza). Sono degli inguaribili NON-RIFORMISTI: un’arancia è un’arancia.

Ma Prodi la seconda volta aveva la sincera intenzione di fare sul serio, sostengono i suoi nostalgici, solo che non aveva i numeri. È proprio vero che le nere disgrazie del presente colorano di rosa le grigie mediocrità del passato. Se Prodi ebbe al Senato solo un paio di voti di vantaggio, non dipese da un destino cinico e baro e meno che mai dagli elettori, ma da una decisione delle nomenklature del centrosinistra, che Prodi puntualmente ingoiò. Erano infatti pronte quasi dappertutto le “Liste civiche regionali”, accreditate di risultati variabili tra il 4% e il 12%: bastava presentarle in tre Regioni e al Senato Prodi avrebbe avuto la stessa maggioranza che alla Camera. Erano liste sul modello di quelle sperimentate in molte comunali, non liste “girotondine”.

Tuttavia la nomenklatura dei D’Alema e Veltroni disse no. E alla richiesta di spiegazioni del rifiuto, visto che venivano accolte nell’alleanza le liste dei pensionati e dei consumatori (risultati previsti: da prefisso telefonico): perché loro sono un problema tecnico, voi potreste essere un problema politico. Tradotto: non vogliamo alleati che non siano totalmente proni alle nostre nomenklature. E così si sono consegnati mani e piedi allo statista di Ceppaloni. Ne converrai anche tu: lungimiranza e realismo non abitano presso i nostri non-riformisti. Un’arancia è un’arancia.

Quanto al ritorno sulla scena di Veltroni l’Africano, sottoscrivi la sua proposta di ricorrere a un “Papa straniero”, cioè, fuor di metafora, a un leader della coalizione che venga dalla società civile anziché dai partiti. La proposta non è nuova, venne avanzata qualche mese fa proprio dal direttore del tuo giornale, Ezio Mauro. Figurati se non sono d’accordo anch’io, che ho cominciato a proporre un “partito azionista di massa” – che nascesse dal crogiuolo di sinistra de-nomenklaturizzata e movimenti della società civile – già all’origine di MicroMega, ormai un quarto di secolo fa.

Il problema è CHI. Perché Veltroni ha già dimostrato cosa intenda per società civile con le nomine parlamentari dei Colaninno jr e dei Calearo. Questo’ultimo, benché in formato mignon, perfino più reazionario di Marchionne. Non è certo piegandosi ancora di più all’orizzonte dei (dis)valori berlusconiani che il centrosinistra sconfiggerà Berlusconi. Perciò è essenziale che il “Papa straniero” sia soprattutto un “Papa protestante”. Altrimenti tra il regime Berlusconi-Marchionne e una sua copia appena inzuccherata di veltronismi gli elettori del centrosinistra resteranno a casa a milioni. Che è quanto sta accadendo da anni e che costituisce il vero problema, come tu stesso sottolinei: un terzo di coloro che andranno a votare non ha ancora deciso.

È dunque semplice dabbenaggine quella dei politici che calcolano il 50% più uno, necessario per vincere, come somma delle quote attuali dei partiti. Imbarcare Casini conta zero. Conta solo convincere quell’elettore su tre ancora indeciso. Contano perciò i (pochi) obiettivi programmatici, e la credibilità di chi governando promette di realizzarli. I nomi, per un “Papa protestante” non mancano: economisti, giuristi, giornalisti, scienziati, magistrati (niente imprenditori o finanzieri, per favore).

Quanto al programma, ha ragione Michele Serra, la firma oggi più amata (dopo Altan) del giornale che hai fondato, quando sostiene che “la benzina politica e culturale per reagire al degrado... negli ultimi vent’anni è stata reperibile soprattutto nei movimenti della società civile” e che “il dramma del Pd è il suo moderatismo congenito”, mentre “con la fine del vecchio mondo bipolare serviva una nuova radicalità democratica”. Un’arancia è un’arancia.

Realizzare la Costituzione, il programma già c’è. L’opposto di quanto il centrosinistra ha fatto nei suoi sette anni di governo. Se non era utopistico nel ’48, oggi dovrebbe essere addirittura ovvio. Non è perciò con alchimie partitocratiche, che finirebbero nel nulla dei veti reciproci e delle ambizioni incrociate, che si troverà il leader capace di unificare il “popolo della Costituzione”. Ma con un grande sommovimento di opinione pubblica (e di lotte e movimenti nella società civile), che metta capo a primarie vere, aperte, senza vantaggi per i candidati di apparato.

Un sommovimento nel quale una testata come quella che hai fondato ormai giocherà un ruolo esplicito, dopo il tuo “endorsement” al Papa straniero. Repubblica è certamente un grande giornale. Pure, non solo Il Fatto rappresenta l’unico successo editoriale in una stagione di crisi, ma l’unica voce che sta coinvolgendo nuovi giovani lettori, ormai tutti in fuga verso il Web. Ecco perché conto che una tua risposta costituisca l’inizio di un più ampio e serrato confronto, che faccia da catalizzatore del sommovimento di opinione pubblica con cui – attraverso i giornali, i siti Internet, il mondo del volontariato, le lotte civili e sociali – potremo far uscire l’opposizione dal suo stato attuale di cronica minorità.

(22 settembre 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/caro-eugenio-all-opposizione-serve-un-papa-protestante/
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 22, 2010, 11:52:45 pm »

Orfani di leadership

La svolta impressa da Fini alla legislatura e l’assenza di una figura che unisca le diverse forze contro Berlusconi.
Ecco una breve rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna.


di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2010


L’offerta politica d’opposizione non è mai stata così ampia, variegata, lussureggiante, eppure mai come ora il cittadino che si oppone a Berlusconi si è sentito tanto orfano di rappresentanza. Se questa lancinante contraddizione non viene sanata prima delle elezioni, Berlusconi vincerà di nuovo e realizzerà la trasformazione del suo attuale regime in un totalitarismo vero e proprio. Diverso da quelli del secolo scorso, postmoderno e luccicante, ma egualmente mostruoso.

Oggi di opposizioni a Berlusconi (ciascuna con il suo leader) ne esistono almeno sei. Ecco una breve rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna.

L’opposizione oggi più rilevante, e sulla cresta dell’onda mediatica, è quella di Gianfranco Fini, a realizzazione del detto “gli ultimi saranno i primi”. Non si può però dimenticare che Fini era nella Genova del G8, durante la mattanza della caserma Diaz, e ha continuato a difendere i funzionari che per quell’abominio sono stati condannati in appello. A Mirabello Fini ha rivendicato come antecedente ideale Almirante (il “fucilatore Almirante”, non sono consentite amnesie) e fatto tributare l’ovazione a Mirko Tremaglia, volontario repubblichino non pentito (anzi). E ha continuato a sostenere che Berlusconi, fino a che è primo ministro, deve essere sottratto ai processi (un’opinione, benché aberrante e in contrasto con i richiami alla legalità) sul modello di altre democrazie europee (un fatto, ma falso).

E tuttavia non sono pochi gli elettori tradizionalmente di sinistra (del Pd ma perfino di Rifondazione), che mai voterebbero Casini e che invece dichiarano che oggi, sic stantibus rebus, voterebbero Fini. Perché ha affermato senza troppi giri di frase che: Berlusconi ha una concezione proprietaria dello Stato, dunque agli antipodi di qualsiasi democrazia liberale; Berlusconi non capisce né la divisione dei poteri né il primato della legalità, che sono invece valori non negoziabili; Berlusconi usa i media per distruggere chi non si prostra ai suoi voleri; Berlusconi è uno stalinista. Fini insomma ha detto ciò che avrebbe dovuto dire qualsiasi oppositore. Lo dice con quindici anni di ritardo, ma nel Pd queste cose continua a non dirle nessuno.

Il Pd, dunque, ovvero il maggior partito della (non) opposizione. Il suo vizio di fondo è tutto qui. Eppure continua a raccogliere un quarto abbondante dei consensi di quanti dichiarano che parteciperanno al voto. E che tuttavia non perdono occasione per far capire ai dirigenti del partito che vorrebbero una politica ben diversa, definitivamente scevra da inciuci. E si ritrovano invece a dover ingoiare, nella “loro” festa, la presenza degli Schifani, come fossero degli statisti. Ma sui vizi ormai strutturali del ceto politico del Pd, comprese le new entries che spesso fanno rimpiangere i bolsi burocrati delle generazioni che li precede (sembra impossibile, ma è così) è inutile dilungarsi.

Questo giornale è costretto a farlo ogni giorno. Resta la divaricazione – crescente – tra dirigenti (nazionali, regionali, provinciali, di quartiere, fatte salve le eccezioni canoniche e sempre più da lanternino) e militanti, tra dirigenti e potenziali elettori. Che restano un patrimonio insostituibile per l’opposizione, anche se oggi è un patrimonio congelato o sperperato, grazie a quei dirigenti che non riescono a rovesciare e che non si decidono ad abbandonare. La riprova di questo scarto è la travolgente simpatia che accoglie e circonda Nichi Vendola nelle feste dell’Unità e in ogni occasione a forte presenza di base Pd. Simpatia meritata e significativa. Meritata, perché Vendola incarna un riformismo che rifiuta l’inciucio, e può esibire un buongoverno regionale introvabile nel sud e sempre più raro anche altrove (probabilmente la Toscana e l’Emilia, e poco più). Significativa, perché Vendola ha vinto le primarie contro il Pd, e anzi direttamente contro D’Alema, ma con i voti di gran parte del “popolo Pd”. È convinto di poter ripetere il risultato della Puglia a livello nazionale. Ma qui viene fuori la debolezza della sua “narrazione”, difficilmente in grado di riunificare tutti i motivi di opposizione positiva a Berlusconi. Non per troppa radicalità, sia chiaro, ma per troppa vaghezza, di programmi e di staff.

In concorrenza con Vendola c’è inoltre Di Pietro. La sua opposizione è l’unica che in Parlamento abbia coerenza, e a questo si deve perciò il raddoppio (e oltre) di voti alle elezioni europee, ma tale coerenza viene poi contraddetta con le scelte in fatto di dirigenti locali, in genere primatisti della transumanza da un partito all’altro, veri e propri fari di opportunismo e di imenoplastica politica. Di recente, dopo l’ennesimo scandalo che ha portato all’abbandono da parte di un parlamentare per diatribe interne Di Pietro, immaginando di formulare una domanda retorica, ha esclamato: dovrei cacciarli tutti? E invece la risposta è “sì”, un rotondo SI’, perché solo liberandosi della gran parte dei dirigenti locali entrerebbero finalmente nell’Idv le energie dei nuovi elettori, nate nei movimenti di impegno civile, che lo schifo per i cacicchi locali tiene lontane dalla “militanza” nell’Idv.

Resta l'opposizione di Grillo. Che però rifiuta programmaticamente alleanze possibili con chicchessia, nella convinzione che l’autoreferenzialità sarà il veicolo di un consenso al suo “movimento cinque stelle” tale da travolgere non solo Berlusconi ma ogni berlusconismo anche senza il ducetto di Arcore. Temo si tratti di un wishful thinking.

Della sesta “opposizione”, quella “centrista”, quella di Cuffaro-Casini e di Rutelli-Montezemolo non vale davvero la pena parlare. Solo la stupidità ormai ciclopica dei dirigenti Pd può dare a tali figure un credito qualsivoglia. Dunque, sovrabbondanza di opposizioni, ma in realtà indigenza a tutt’oggi assoluta per la prospettiva di un’opposizione vincente. Alle sei figurine pubblicate ieri in prima pagina dovrebbe perciò essere aggiunto una casella bianca, un profilo vuoto con un punto interrogativo. Nessuno di quei sei leader può essere il leader che unifichi e porti alla vittoria una maggioranza “per la Costituzione”, i suoi valori e la sua realizzazione, che nel paese credo sia invece schiacciante. Come trovarlo, quel leader?

Innanzitutto bisogna aver chiaro che non potrà nascere da alchimie partitocratiche. Troppo spesso si ragiona – con perfetta mancanza di realismo – come se i partiti fossero proprietari dei rispettivi pacchetti di voti. E dunque, il Pd più l’Udc fa... Invece i partiti prendono quei voti, ma da elettori totalmente disaffezionati (tranne ristrettissime clientele), elettori che non intendono affatto ubbidire alle manovre e agli accordi tra le varie oligarchie e nomenklature della casta. Elettori che il leader capace di sconfiggere se lo vogliono scegliere. Altrimenti molti di loro alle urne neppure ci andranno (il Pd in un pugno di anni ha perso qualcosa come cinque milioni di voti!).

Ma questa non-rappresentatività dei partiti ha il suo lato positivo. Infatti ci sono incompatibilità fra gruppi dirigenti che non hanno un corrispettivo di incompatibilità tra gli elettori. Insomma, Bersani non riuscirà mai ad allearsi contemporaneamente con Di Pietro e con Casini, ma molti elettori di questi tre partiti non avranno alcuna difficoltà a unirsi sotto una leadership credibile per la realizzazione di un programma di “giustizia e libertà”. Perché quegli elettori, nella maggioranza dei casi, sono cittadini “senza collare”, senza fedeltà di appartenenze. La più estrema mobilità elettorale è oggi la costante. Le masse operaie di Sesto San Giovanni (la “Stalingrado d’Italia”!) sono passate a Forza Italia, alla Lega, poi di nuovo al centrosinistra, e magari schifate ora resteranno a casa. E la stessa cosa vale ormai ovunque nel Paese.

Perciò il leader capace di unificare la voglia crescente e smisurata di archiviare per sempre il regime delle cricche e delle menzogne, non potrà che essere individuato fuori degli apparati, non potrà che venire dalla società civile, da un grande movimento e sommovimento di opinione pubblica. E infine, attraverso primarie vere.

(10 settembre 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/orfani-di-leadership/
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 09, 2010, 09:23:13 am »

Il Giornale e la libertà di stampa

Per favore, non ci vengano a dire che la procura di Napoli minaccia la libertà di stampa! L’inchiesta che vede sotto accusa la direzione del Giornale non ha nulla a che fare con la libertà di stampa e tutto a che fare con ciò che nel linguaggio corrente si chiama ricatto e in linguaggio giuridico l’accusa di “concorso in violenza privata”. Che viene infatti rivolta dalla procura di Napoli a Sallusti e Porro, direttore e vicedirettore del Giornale. Un giornale ha il diritto, anzi il dovere – cui pochissimo ottemperano – di fare inchieste scomode per i potenti. Ma per pubblicarle, non per usarle ad altri scopi. Guardiamo perciò la sequenza degli eventi.

Marcegaglia, presidente di Confindustria, pubblica sul Corriere della Sera un’intervista considerata come un duro attacco al governo Berlusconi. Parte un sms di Porro all’assistente di Marcegaglia, Renato Apisella, con un inequivocabile “Ciao Rinaldo domani super pezzo giudiziario sugli affari della family Marcegaglia”. Segue telefonata fra i due in cui Porro spiega “Adesso ci divertiamo per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcecaglia come pochi al mondo!” e per fare buon peso aggiunge che non sta affatto scherzando.

La Marcegaglia chiama il braccio destro di Berlusconi da una vita, Fedele Confalonieri, perché intervenga. Seguono nuove telefonate di Porro a Apisella, in cui propone: “Dobbiamo trovare un accordo perché se no non si finisce più, qui…la signora se vuole gestire i rapporti con noi deve saper gestire”. Specificando: “Quello che cercavo di dirti è che dobbiamo cercare di capire come disinnescare in maniera reciprocamente vantaggiosa, vantaggiosa nel senso diciamo delle notizie delle informazioni della collaborazione no”.

Se fosse un telefilm si tratterebbe della famosa e definitiva “pistola fumante”. Ma Porro, sostenuto da Feltri, la butta in pochade. E’stato tutto uno scherzo per divertirsi alle spalle di Apisella. Alla Marcegaglia proprio uno scherzo non era sembrato, visto che fa mettere a verbale dalla procura di Napoli che “dopo il racconto che Arpisella mi fece, ho sicuramente percepito l’avvertimento di Porro come un rischio reale e concreto per la mia persona e per la mia immagine… “Il Giornale” e il suo giornalista hanno dunque tentato di costringermi a cambiare il mio atteggiamento … Non mi era mai capitato che un quotidiano ovvero qualsivoglia altro giornale tentasse di coartare la mia volontà con queste modalità per ottenere una intervista ovvero in conseguenza di dichiarazioni da me precedentemente rilasciate”.

Ma visto che al “Giornale” dicono di essere giornalisti e basta, aspettiamo che pubblichino le venti puntate di inchiesta solennemente annunciate.

Paolo Flores d'Arcais

(7 ottobre 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-giornale-e-la-liberta-di-stampa/
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 09, 2010, 09:23:57 am »

Verso il 16 ottobre

Tiro alla Fiom, sport nazionale


di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2010

La Fiom è sotto tiro, contro l’organizzazione dei metalmeccanici e contro i suoi dirigenti è iniziata una vera e propria campagna di criminalizzazione. Siamo ormai alle velate accuse di proto-terrorismo, mentre quelle di violenza e di squadrismo si sprecano. Il pretesto sono due episodi avvenuti a Roma e a Merate (provincia di Lecco) due giorni fa. Ma il “la” era stato già dato in precedenza dal Corriere della Sera con un articolo in prima pagina di Dario Di Vico (ex dirigente della Uil ed ex vicedirettore del quotidiano) dall’appetitoso titolo “La Fiom e la strategia delle uova”, nel quale si addebitavano senza tante distinzioni a Maurizio Landini e all’organizzazione che dirige la responsabilità di “ripetuti assalti alle sedi della Cisl” (a Treviglio e a Livorno).

Ora, è ben noto che “le parole sono pietre” e parlare di “assalti a sedi sindacali” significa rievocare lo squadrismo di Mussolini che devastava con gli opimi finanziamenti degli agrari gli ultimi ridotti delle organizzazioni dei lavoratori. Ma tutto quello che è stato invece imputato ai lavoratori di Treviglio, perfino secondo la ricostruzione unilaterale della Cisl, è un lancio di uova dai trenta metri di “debita distanza” cui li teneva un cordone di polizia. Quale “assalto” si possa compiere in tali condizioni è più enigmatico della sfinge. Stessa storia per l’analogo episodio a Livorno.

Quando la verità raccontata è di parte

Quanto a Merate, “le cose sono andate in tutt’altro modo” come ha spiegato puntualmente il segretario generale della Fiom Lombardia, Mirco Rota (noto oltretutto come esponente dell’ala più moderata del sindacato): “Fosse vera l’irruzione nella sede Cisl, si tratterebbe di un atto gravissimo. Ma a Merate le cose sono andate in tutt’altro modo. Lo dicono i fatti, non la Fiom. Attorno alle 10, quattro lavoratori – tra i quali due delegati della Fiom – si sono presentati davanti alla sede della Cisl. Dopo aver preavvisato le forze dell’ordine, due di loro – sotto gli occhi della forza pubblica – sono entrati nei locali e hanno consegnato un volantino. Gli altri due sono rimasti all’esterno. La storia è finita. Non abbiamo altro da aggiungere, se non il nostro profondo dissenso verso qualunque forma di protesta non civile, sbagliata e dannosa”.

A Roma, poi, l’estraneità della Fiom alle scritte che hanno imbrattato la sede Cisl è addirittura conclamata, visto che tali scritte sono firmate “Action diritti in movimento” (sigla enigmatica, ma certamente non Fiom) e che Maurizio Landini ha condannato “con la più netta contrarietà gli episodi di intolleranza che hanno interessato sedi della Cisl”. (Poiché, aggiungiamo noi, ogni gesto di violenza è demenza).

Perché allora questa insistenza insensata – attenendosi ai fatti sul clima di violenza e squadrismo che verrebbe alimentato dalla Fiom? In realtà, il motivo per cui è iniziata la campagna di criminalizzazione contro il sindacato metalmeccanico era stato “confessato” nell’articolo di Di Vito: i dirigenti Fiom sono refrattari a piegarsi alle “relazioni industriali orientate alla collaborazione”, nel senso preteso da Finmeccanica e Confindustria secondo il ben noto e anticostituzionale diktat Marchionne.

Ecco perché Landini, Cremaschi e gli altri dirigenti Fiom vengono accusati di “surriscaldare la temperatura in fabbrica”, come se non fossero Marchionne e Sacconi e la loro politica selvaggiamente anti-operaia a far salire la tensione. Ecco perché vengono accusati di voler impedire che si firmino i contratti di altre categorie, come se non si trattasse esattamente dell’opposto: la Fiom non rifiuta né la contrattazione né il suo esito positivo (un sindacato fa questo per mestiere), rifiuta invece che l’esito delle prossime vertenze segni un arretramento delle condizioni dei lavoratori di oltre mezzo secolo, arretramento tale da far rimpiangere addirittura la politica anti-sindacale dell’ingegner Valletta.

Quanto all’accusa contro la Fiom di “presentare Raffaele Bonanni come il nuovo campione del sindacalismo giallo”, non sono certo i dirigenti metalmeccanici a farlo, sono semmai molti lavoratori a pensarla così.

La criminalizzazione secondo Di Vico

Infine la Fiom va criminalizzata perché, come sottolinea Di Vico, sta diventando il punto di riferimento e di aggregazione di altri settori sindacali, anche non operai, quello del pubblico impiego e soprattutto quello della scuola. Insomma, la Fiom va criminalizzata perché potrebbe diventare il modello di un sindacato che lotta, pensate un po’! Eppure proprio di questo hanno bisogno i lavoratori, le cui condizioni salariali e normative hanno conosciuto un peggioramento tragico proprio mentre cricche di grassatori e di evasori prosperano con redditi (illegali) a sei zeri. Proprio di questo, anzi, ha bisogno l’intero Paese.

Infine, non è certamente un caso – anzi è una sincronia evidente – che la campagna di criminalizzazione del sindacato di Maurizio Landini (“che fa rima con la vecchia segreteria di Rinaldini”, accusa Di Vito, come se Rinaldini non fosse ancor oggi il miglior candidato alla segreteria generale della Cgil, come se il passaggio dalla segreteria Fiom a quella Cgil non fosse stata la norma in tutti i decenni della “grandezza” del sindacato fondato da Di Vittorio) si apra quando mancano pochi giorni alla manifestazione Fiom del 16 ottobre a Roma, attorno a cui si sta mobilitando – per la liberazione dal regime di Berlusconi-Marchionne e per la realizzazione della Costituzione –
l’intera società civile, dai cristiani di base ai precari della scuola, dalle associazioni antimafia ai gruppi viola.

Una manifestazione a cui hanno aderito Altan e Tabucchi, Sabina Guzzanti e Ascanio Celestini, Moni Ovadia e Corrado Stajano, Sonia Alfano e Luigi De Magistris, Furio Colombo e Pancho Pardi, Gianni Vattimo e Lidia Ravera, Giorgio Parisi e Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo e Valerio Magrelli, per non parlare di don Mazzi, don Farinella, don Barbero, don Fiocchi, don Sudati, don Fiorini, don Antonelli...

La Fiom non è affatto isolata. Sono anzi certo che la mobilitazione dell’Italia civile accanto e in sinergia con la Fiom crescerà ancora, anche per rispondere alla criminalizzazione di cui viene fatta oggetto.

(8 ottobre 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/tiro-alla-fiom-sport-nazionale/
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 21, 2010, 09:08:54 am »

Le contraddizioni di Bersani e Galli della Loggia


Per una bizzarra sincronia, ieri tanto Bersani quanto Galli della Loggia hanno sferrato un durissimo attacco alla logica e alle sue regole più elementari. Il primo lo ha fatto in una intervista a “la Repubblica” dedicata alla manifestazione Fiom, il secondo con un editoriale del “Corriere della sera” dedicato a Berlusconi.

Bersani sostiene che il Pd deve stare sia con la Fiom che con Bonanni. Solo che Bonanni ha concluso la manifestazione Cisl a piazza del Popolo (quattro gatti) al marchionnistico grido di “dieci, cento, mille Pomigliano!”, Landini quella della Fiom (un mare incontenibile di operai e cittadini) chiedendo lo sciopero generale contro il “modello Pomigliano”, proponendo il salario sociale, l’obbligo per legge che ogni contratto venga approvato (o respinto) dal voto della base operaia, e il contratto nazionale unico per grandi comparti (industria, commercio, ecc.), cioè l’opposto della frammentazione contrattuale che tanto piace alla marchionnistica combriccola Bonanni, Sacconi e altri Angeletti. Bersani dovrebbe leggersi almeno un verso di padre Dante per sapere che non può cavarsela con la solita chiacchiera ecumenica, non può tenere insieme la strategia Fiom e la capitolazione Bonanni, “per la contradizion che nol consente”, Inferno, canto XXVII, v.120, cerchio dei “fraudolenti”.

Galli della Loggia si toglie invece il prosciutto dagli occhi e spiega ai suoi lettori – con soli sedici anni di ritardo – che “il Pdl (così come prima Forza Italia) … nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze”. Di modo che “l’operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano… rimasta per sua stessa colpa a metà … rischia dunque di finire con Berlusconi”.

A Galli della Loggia non passa neppure per la testa che la destra sdoganata da Berlusconi è proprio quella degli “affaristi”, delle cricche degli appalti, dell’impunità per le ruberie, degli scudi fiscali, insomma la destra di Mackie Messer, tanto è vero che Fini sente la tentazione di rompere (quanto ai “nani e ballerine” di cui parlava Rino Formica a proposito del Psi di Craxi, rispetto alle Brambilla e agli Alfano, insomma al personale politico “sdoganato” da Berlusconi, fanno ormai la figura dei giganti).

Ammonisce ineffabile Galli della Loggia che quella di Berlusconi fu “un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse”, peccato che per il momento sia rimasta a metà. Figuriamoci se dovesse riuscire fino in fondo.

Paolo Flores d'Arcais

(19 ottobre 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-contraddizioni-di-bersani-e-galli-della-loggia/
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 21, 2010, 09:09:42 am »

La Piazza Fiom: cosa viene dopo

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2010

Per capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili, implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò.

COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile. Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori de Il Fatto: dopo quattro ore di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori. Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica ... Quella dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale. Se la dimensione della manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla “scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come “isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che la sua piattaforma “radicale” si è conquistato.

PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.) anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.). Questo significa che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci, cento, mille Pomigliano”.

SECONDO, la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema, che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile (accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”). Proposta accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc. Anche qui siamo esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva” imposta dalla globalizzazione.

TERZO, l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo. Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse con la firma unanime dei sindacati. Una vera e propria “rivoluzione copernicana” che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali troppo impegolate con l’establishment. È questa strategia alternativa ad essere stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio Landini. Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil.

MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo: colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale. Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali.

LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce. Ma la Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista (o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti civili individuali e collettivi. Aprendo con ciò una prospettiva davvero inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che – radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA. Di questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori dipendenti vengano com-pensati da “più tasse per i ricchi”.

ECCO PERCHÉ, nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva grazie ai Cuffaro).

LA LEZIONE della Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non si conquistavano affatto. Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una “vocazione maggioritaria”.

QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa “azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo. Qui possiamo solo fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo necessaria ma ormai improcrastinabile. E meno che mai potrà venire dal qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le energie giovanili degli elettori “cinque stelle”. Bisognerà che le forze più consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere l’equazione della democrazia.

(20 ottobre 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-piazza-fiom-cosa-viene-dopo/
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 24, 2010, 11:25:55 pm »

Idv e questione morale, Flores d’Arcais: “Di Pietro porta l’Idv al suicidio”

di Alessandro Calvi, da Il Riformista, 24 dicembre 2010

Paolo Flores d’Arcais, allora, c’è o no una questione morale nell’Italia dei Valori?
Sì. E a differenza di voi del Riformista guardo alla cosa con grande preoccupazione perché la crisi dell’Italia dei Valori indebolisce quel che resta della democrazia nel nostro Paese.

E di chi è la responsabilità di questa crisi?
La responsabilità è sempre di chi ha più peso, quindi nell’Idv è di Antonio Di Pietro.

Ma si può condividere o è soltanto sua?
Sua.

Flores d’Arcais, filosofo e direttore di MicroMega, si riferisce al manifesto “L’Idv e la questione morale”, firmato da Luigi De Magistris, Sonia Alfano e Giulio Cavalli. Si tratta di nomi di peso, slegati dalla “vecchia politica” e che rappresentano l’ala più movimentista del partito. Citando Enrico Berlinguer, i tre partono dal caso Scilipoti-Razzi e chiedono «una brusca virata». «Abbiamo un patrimonio da cui ripartire - scrivono - ed è quella “base” pensante e operativa, che non ha timore di difendere a spada tratta il suo leader Di Pietro ma nemmeno di rivolgersi direttamente a lui per chiedere giustizia e legalità all’interno del partito “locale”».

Quando nasce la crisi dell’Idv?
Nasce con il successo alle europee. Raddoppia i voti perché inserisce candidature di grande valore simbolico, De Magistris e Alfano in primo luogo, che aprono ai movimenti della società civile. A quel punto Di Pietro ha solo due strade: consentire che i nuovi elettori possano fare irruzione anche nel partito in quanto militanti, o illudersi di continuare ad accrescere la messe elettorale mantenendo gruppi dirigenti locali spesso di provenienza Udeur e comunque adusi alla transumanza politica e del tutto estranei alle lotte radicali della società civile, fatte salve le solite eccezioni.

E lui ha scelto la seconda strada.
Lo dimostra in primo luogo l’ultimo congresso dell’Idv, un’autentica parodia di democrazia. I “tradimenti” sono solo l’ovvia conseguenza di un partito il cui ceto politico locale, per benedizione e volontà di Di Pietro, è ancora largamente mastelliano.

La transumanza è terminata o invece il rubinetto potrebbe riaprirsi?
Dati i personaggi, potrebbe aprirsi ancora, in qualsiasi momento.

Ritiene che vi sia un problema soltanto di calsse dirigente o anche di scelte e di linea politica?
C’è problema di struttura del partito, non di linea politica. Il tanto deprecato giustizialismo di Di Pietro è invece l’unica forza di questo partito (semmai è quello che manca al Pd). Questo comporta però uno scarto ormai diventato abisso fra una linea politica sacrosanta di opposizione frontale al regime e una conduzione del partito a livello nazionale e locale che la contraddice radicalmente.

Cosa dovrebbe fare allora Di Pietro?
Quello che avrebbe dovuto fare dopo le elezioni europee con il congresso: un grande big bang che rifondasse l’Idv con i movimenti derla società civile.

È questo che chiede quel manifesto?
Sì. Mi domando però se ormai non sia già troppo tardi.

Siamo di fronte a una rottura?
La risposta di Orlando, Donadi e Pedica - che, fatte le debite proporzioni, ricorda alla lettera l’atteggiamento del Pci nei confronti dei dissidenti del manifesto - fa pensare che Di Pietro voglia andare al suicidio. Senza gli elettori conquistati dalle candidature di movimento tornerebbe verso un innocuo 3 o 4 per cento.

Lei era stato il primo a porre certe questioni.
Errare humanum, perseverare diabolicum.

Con un Idv che si avvia al suicidio e il Pd che è qullo che è, che scenario si apre?
Quello di un regime in decomposizione che punta ormai a misure fasciste per sopravviere. E di una opposizione vera che ormai esiste solo nel paese e nelle sue lotte, quelle dei metalmeccanici Fiom come due mesi fa, e quelle degli studenti in questi giorni.

(24 dicembre 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/idv-e-questione-morale-flores-darcais-di-pietro-porta-l%E2%80%99idv-al-suicidio/
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 17, 2011, 11:19:46 am »

Sì ai diritti, No ai ricatti

Un sindaco Fiom per Torino.

Le opposizioni dovrebbero riconoscere nel sindacato un alleato contro il berlusconismo

di Paolo Flores d’Arcais, Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2011


Per vincere un referendum basta un voto oltre il 50 per cento. Ma quello di Mirafiori non era un referendum. Doveva essere un plebiscito.
Un plebiscito ottenuto col ricatto, anzi con la rappresaglia preventiva di massa: se vince il No siete licenziati tutti, perché portiamo via la Fiat da Torino. I “sindacati di comodo” avevano perfino fissato l’asticella dell’umiliazione che avrebbe dovuto annientare la Fiom: un 80 per cento di Sì. Sappiamo come è andata. Il Sì ha ottenuto il 54%, ma solo grazie al voto dei quadri e impiegati (che hanno approvato i sacrifici di chi sta alla catena, non i propri!). Fra gli operai avrebbe prevalso di nove voti, e nei reparti dove il diktat si applicherà davvero, lastratura e montaggio, ha vinto nettamente il No.

Questo risultato, comunque modestissimo per la volontà di potenza di Marchionne, è stato ottenuto non solo con l’immondo ricatto di rappresaglia preventiva che abbiamo ricordato, ma con il linciaggio morale che additava nei lavoratori delle carrozzerie i responsabili dei licenziamenti di massa dell’indotto (cinque per ogni licenziato Fiat, si diceva, con linguaggio da decimazione), con l’intimidazione vera e propria ai sindacalisti Fiom che distribuivano volantini (“se vince il No veniamo in massa a casa tua, perché ci dovrai mantenere tu”), con il dispiegamento di tutta la potenza di fuoco mediatica di un regime che si è immediatamente riconosciuto nella prepotenza anti-operaia di Marchionne (il Dna anticostituzionale non è acqua). E con l’ostilità puntuale e masochistica del maggior partito di opposizione (presunta), che si è bensì diviso, ma tra l’infamia del “sì a Marchionne senza se e senza ma” di un puffo rottamatore in foia di carriera, di un sindaco di Torino appiattito sullo slogan padronale degli anni Cinquanta (“ciò che va bene per la Fiat va bene per l’Italia”) e lo slalomismo ponziopilatesco dei big del partito, che comunque “se fossi un operaio Fiat voterei Sì”.
Per non parlare della Cgil e del suo neosegretario generale, Susanna Camusso, che ha bensì alzato la voce contro Marchionne, ma solo in zona cesarini e nel disfattismo di uno sciopero generale rifiutato, benché il suo predecessore e sponsor Epifani lo avesse promesso (a nome della Cgil, non suo personale) a un milione di manifestanti Fiom il 16 ottobre in piazza san Giovanni.

Il risultato del voto è perciò questo: Marchionne non ha più alibi, deve mantenere la solenne promessa dell’investimento annunciato, e articolarla nel piano industriale fin qui custodito come un ennesimo segreto di Fatima. Mentre la Fiom, isolata e aggredita – anche nel mondo del centrosinistra che pure dovrebbe vivere quel sindacato come una propria costola – dimostra non solo di essere in modo schiacciante il sindacato più rappresentativo dei lavoratori, ma raccoglie anche rispetto e consenso crescenti, in modo esponenziale, nella società civile democratica. L’organizzazione di Landini, di Airaudo, di Cremaschi, dimostra di avere la capacità di difendere i sacrosanti diritti degli operai che rappresenta, e al contempo di difendere gli interessi generali costituzionali, a repentaglio definitivo nella convergenza a tenaglia tra concezione padronale dello Stato del Putin di Arcore e concezione aziendale “credere obbedire produrre” dell’italiano di Detroit.

Perché, come è evidente a chi conosca appena le tabelline, il diktat di Marchionne non nasce da calcolo economico. È stato lui stesso, qualche anno fa, a dichiarare che il costo del lavoro incide nel prodotto Fiat per un modestissimo 7%. Se dunque ora gli operai alla catena verranno spremuti anche un 5% in più (il che per la qualità della loro vita sarà tremendo), la competitività dell’auto modello Marchionne aumenterebbe dello 0,35%. Tre o quattro decine di euro per vettura. Niente, insomma. Marchionne non mirava in primo luogo a prodotti più competitivi, ma all’annientamento della Fiom, al dominio in fabbrica senza possibilità di contestazione organizzata e organizzabile, alla “obbedienza pronta, cieca e assoluta” degli operai, ora e sempre, nei confronti delle mutevoli esigenze del padrone.

È quello che NON ha ottenuto. La Fiom è più forte che mai. E lo scontro sul diktat Marchionne, ormai presentato come il modello di tutte le relazioni industriali e anche di quelle costituzionali (“Marchionnizzare l’Italia” è il titolo ormai quasi quotidiano dell’apertura del “Foglio” di Giuliano Ferrara), non può che spostarsi a livelli più generali. Nelle fabbriche, con lo sciopero nazionale dei metalmeccanici del prossimo 28 gennaio. E nel paese, nella politica, nelle vicende elettorali. Perché, se lasciati soli, alla lunga (e anche alla breve, purtroppo), gli operai saranno sconfitti, e con loro i precari, e gli studenti, e tutti i democratici. Ma se le opposizioni riconosceranno nella Fiom la punta di diamante dell’Italia che può risorgere dalle macerie cui l’ha ridotta il berlusconismo, la “vittoria” più che dimezzata di Marchionne potrebbe inaugurare la caporetto anche di Berlusconi. Ecco perché sarebbe auspicabile, e anzi necessario, che un sindacalista Fiom si candidasse alle primarie di Torino contro lo spento e subalterno Fassino, per sconfiggere poi il berlusconian-leghista d’ordinanza. Il nome, sotto la Mole, lo conoscono tutti.

(16 gennaio 2011)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-sindaco-fiom-per-torino/
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:50:27 pm »

Rubygate

Gioie del sesso e devoti di regime

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto quotidiano, 12 febbraio 2011


“In mutande ma vivi” è l’esibizionistico titolo che Giuliano Ferrara ha voluto dare alla manifestazione indetta “contro il moralismo puritano e ipocrita” di chi si ostina a pensare che il comportamento di Berlusconi sia incompatibile con i requisiti minimi di un politico (“statista” sarebbe parola grossa) delle liberaldemocrazie occidentali. L’iniziativa si svolgerà questo pomeriggio a Milano al Teatro Dal Verme, nome perfettamente propiziatorio e provvidenzialmente adeguato (dappoiché nomina sunt consequentia rerum).

Lo scopo dell’adunata di cotanta goliardia tristemente appassita nel servo encomio di “Lui Culomoscio” (definizione di una fan e pupilla del medesimo – la classe non è acqua – non di esecrabili “azionisti”) è fornire ai minzolini di tutte le testate di regime l’occasione per svillaneggiare in anticipo la manifestazione promossa da alcune donne, non certo in nome del moralismo e nemmeno della moralità, ma della necessità di una seppur minima decenza nel comportamento sulla scena pubblica (che del resto è richiesta dall’articolo 54 della Costituzione – anche per questo invisa alle cheerleader di Forza Arcore? – che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”). Manifestazione che domenica dilagherà in decine e decine di piazze con centinaia di migliaia di partecipanti, nel minimalismo dei pennivendoli di regime.

Del resto, la manifestazione “Dal Verme” è solo il diapason di una campagna che la setta dei libertini devoti, falsamente libertini ma effettivamente devotissimi al già menzionato “Lui C.”, va sviluppando da mesi sul superdeficitario Foglio (malgrado i milioni elargiti ogni anno dal governo e pescati nelle tasche degli irrisi non-evasori), e che ha segnato una trafelata accelerazione da quando Ilda Boccassini, Pietro Forno e Antonio Sangermano, hanno doverosamente aperto un’inchiesta per una concussione platealmente rivelata dal medesimo “Lui” – altresì “utilizzatore finale” (l’espressione è del suo avvocato onorevole Ghedini) di una prostituta, questa volta minorenne – con una telefonata alla Questura di Milano (su una linea ufficiale che registra): per ottenere, grazie al peso della sua carica, una “altra utilità”, cioè l’indebito rilascio della minorenne che avrebbe potuto inguaiarlo. Il manipolo dei finti libertini di Giuliano Ferrara vuole infatti da mesi far credere che gli avversari (soprattutto le avversarie) del regime liberticida di Berlusconi, in gioventù sessantottina teorizzanti e talvolta anche praticanti “porci con le ali” delle gioie della liberazione sessuale, si siano trasformate/i in occhiuti bacchettoni e laide beghine e vogliano imputare a “Lui”, in sinergia con i “guardoni” delle procure, quanto vorrebbero ancora ma non possono. Invidia e risentimento, insomma, altro che legalità e moralità.

Ferrara e la sua coorte di devotissimi di “Lui” sanno benissimo di mentire per la gola. Ma con la cassa di risonanza di un controllo televisivo quasi totalitario è molto facile far diventare bianco il nero. Contano su questo, sull’incubo orwelliano della neolingua sontuosamente realizzato da “Lui-con-quel-che-segue”.

E invece. Libertari e garantisti siamo rimasti (e libertini talvolta, ma questa è irrinunciabile privacy). Libertari: pensiamo che in fatto di sesso, tra adulti consenzienti, di tutto e di più. Adulterio, masturbazione, orge, sadomasochismo, uso di pornografia e “gadget” sessuali, scambio di coppie, prostituzione, financo sesso con animali (se non si dà luogo a maltrattamento), e chi più ne ha più ne metta, il tutto sia in chiave etero che omo che transessuale. Nessuno, magistrato o giornalista che sia, in questa sfera privata deve poter mettere becco.

Le righe che precedono le ho scritte oltre un mese fa, sul sito del Fatto (quasi duecentomila visitatori al giorno), e gli unici dissensi sono stati di qualche lettore animalista. Bacchettoni e beghine, si tranquillizzi il devotissimo Ferrara, non albergano da queste parti. Quanto alla tutela della privacy, noi giustizialisti-giacobini-girotondini-azionisti (sempre e comunque trinariciuti nel nostro affetto per la Costituzione nata dalla Resistenza), siamo più rigidi della Comunità europea, per non parlare degli Usa (“che hanno sempre ragione” secondo il lapidario servilismo di “Lui”, prono-americano solo se si tratta di guerre) dove la tutela della privacy della persona pubblica è per legge infinitamente minore di quella del privato cittadino. Noi no. Noi pensiamo che debba essere la stessa, catafratta, e che solo il politico possa stabilire le eccezioni che lo riguardano. Se fa della difesa della famiglia un tema per ottenere consensi, legittima qualsiasi domanda o inchiesta sulle proprie infedeltà. Se si dedica a campagne contro i gay non può invocare la privacy qualora si scopra un suo penchant omosessuale, se propone leggi draconiane contro la prostituzione (clienti compresi) ogni sua utilizzazione di prostituta diventa fatto pubblico, se dichiara che certe cose non le ha mai fatte, anziché limitarsi al secco “fatti miei”, rende legittima la curiosità giornalistica sull’eventuale menzogna. Altrimenti no. Chiaro il criterio, devotissimo Ferrara?

Quanto alla gioiosa libertà sessuale: cosa c’entra il sesso libero, che è condiviso e reciproco piacere per il piacere (o per amore, o per curiosità, gioco, sperimentazione...) con l’acquisto a ore di un corpo, o di un’infornata di corpi, mossi non già da gioiose voglie ma da “danaro o altra utilità”, auri sacra fames capace di compensare lo schifo, confessato pre e post alle amiche, per le carni in smottamento alla cui virilità chimico-meccanicamente artefatta devono dedicarsi? Se non capisci la differenza lascia perdere, devotissimo Ferrara: non parlare di cose che non conosci.

(12 febbraio 2011)
da - temi.repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Febbraio 28, 2011, 03:30:51 pm »

La Chiesa simoniaca di Ratzinger, Bertone e Bagnasco


La Chiesa simoniaca di Ratzinger Bertone e Bagnasco sabato ha riscosso il suo prezzo: il forsennato attacco di Berlusconi alla scuola pubblica (“travisato”, ovviamente: peccato ci sia la registrazione video), dopo che il suo governo ha coperto la scuola clericale d’oro e altre utilità. E’ il prezzo dell’indulgenza, per il silenzio della Chiesa gerarchica sulle colpe di Berlusconi, l’ultima delle quali è il sesso (oltretutto posticcio): ben più gravi lo spergiuro, i furti delle cricche, l’odio contro i diversi e gli ultimi. Il prezzo dell’indulgenza: siamo tornati, cioè, alla vendita delle indulgenze, un regresso di alcuni secoli, altro che prima del Concilio di Papa Roncalli.
La Chiesa simoniaca, appunto. Possibile che contro la deriva anticristiana della Chiesa di Ratzinger Bertone e Bagnasco, che ha accompagnato sistematicamente gli scandali del regime di Berlusconi, fin qui si abbia notizia di una sola iniziativa pubblica del mondo cattolico?
Quella presa dal “Centro giovanile Antonianum” e che ha raccolto nel silenzio dei media ormai oltre mille adesioni su  https://sites.google.com/site/anchenoiabbiamounsogno/home.

Dove si dice: “Siamo convinti che come cristiani non si possa più tacere di fronte a quanto sta accadendo nel nostro paese'”.
E amaramente aggiunge: “Un giorno chi guida la Chiesa in Italia riuscirà a denunciare i comportamenti inaccettabili con chiarezza e determinazione, perché avrà come unico interesse l'annuncio della Buona Notizia. In situazioni come quelle odierne, dirà che chi offende ed umilia le donne in modo così oltraggioso non può governare un paese. Dirà che coinvolgere minorenni in questo mercato sessuale è, se possibile, ancora più sconcertante. Dirà che chi col denaro vuol comprare tutto, col potere vuol essere al di sopra delle leggi, con i sotterfugi evita continuamente di rendere conto dei propri comportamenti, costui propone e vive una vita che è all'opposto di quanto insegna il nostro maestro Gesù. Per evitare ambiguità dirà chiaramente che questa persona è il nostro Primo Ministro”.

Possibile che i tanti gruppi, purtroppo fra loro divisi, di cattolici cristiani, epperciò laici, non trovino il modo di comunicare, coordinarsi, unirsi? Il sito www.micromega.net mette a loro disposizione la sezione “altra chiesa” per-ché questo mondo di credenti democratici cessi di essere una “Chiesa del silenzio”, e pubblicizza intanto il sito dell’appello dell’Antonianum perché tutti i credenti refrattari a un cattolicesimo di “scribi farisei e sepolcri imbiancati” lo inondino di firme. https://sites.google.com/site/anchenoiabbiamounsogno/home.

Paolo Flores d’Arcais

(28 febbraio 2011)
da - temi.repubblica.it/micromega-online
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 16, 2011, 10:13:28 am »

Primarie vere, subito

di Paolo Flores d'Arcais,
da il Fatto quotidiano, 13 ottobre 2011

Due zombie tengono sequestrato il Paese. Berlusconi e Bossi stanno costringendo l’Italia allo sfacelo, pur di non cedere il potere nemmeno ai propri complici di ogni omertà (il famoso “passo indietro”). Che si tratti di due zombie è ormai certo al di là dell’idiomatico “ragionevole dubbio”. Nessun voto di fiducia cambierà questa realtà, se un governo può finire in minoranza ogni giorno perché uno Scilipoti si ritiene non sufficientemente ripagato e un Tremonti adulato. Ma i due zombie, proprio perché ormai politicamente dei “morti viventi”, possono procurare al paese ulteriori sciagure, visto che istituzionalmente sembra impossibile fermarli.

Tra un paio di settimane il Parlamento assisterà all’ennesimo scempio: una maggioranza di lacchè che manda al macero migliaia di processi (denegando giustizia a migliaia di vittime e familiari) pur di salvare lo zombie di Arcore dalla condanna che lo aspetta nel processo Mills.

Non possiamo immaginare che il Presidente della Repubblica firmerà una legge che della legge fa strame, ci sentiremmo offensivi solo a pensarlo, ma proprio questa è invece la “road map” di Berlusconi: impunità nei processi in corso, crisi “amica” a gennaio e voto a marzo con la legge elettorale “porcata”. Sembra inaudito che a dettare l’agenda politica possano essere ancora l’amico di Putin e il suo compare “ditomedio”, ma i frondisti democristiani e leghisti, e le loro sussurrate minacce, hanno credibilità e consistenza ameboidi.

Sarà bene prepararsi, perciò, perché marzo è vicinissimo. Berlusconi ha già “in pectore” “Forza Silvio”, dove troveranno posto solo troiette e prosseneti, ma soprattutto criminali e piduisti. Bossi farà piazza pulita di chi non abbia i requisiti dell’uomo vichiano “tutto stupore e ferocia”. La società padronale ha già i suoi Montezemoli e Marcegaglie e Della Valle in pole position.

E l’opposizione democratica? Il Pd nel giro di un paio di settimane dispiega la sua opulenza con i raduni concorrenziali dei veltroniani, degli ex-rottamatori soft (Civati e Serracchiani), dei diversamente berluschini (Matteo Renzi), dei succubi di Bagnasco (in ritiro bipartisan a Todi). Un orizzonte di masochismo che lascia sgomenti.

Bersani, Di Pietro e Vendola devono perciò convocare – ora, subito – le primarie per gennaio, altrimenti a gennaio, quando il caimano aprirà la sua crisi, D’Alema ci dirà che è troppo tardi.
Primarie vere, cioè primarie aperte – senza condizioni – ai candidati della società civile. Che questa volta non starà a guardare, si spera.

(13 ottobre 2011)

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« Risposta #42 inserito:: Novembre 12, 2011, 09:54:00 am »

Finale col trucco?

di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 10 novembre 2011


Berlusconi non si è dimesso. Ha promesso che lo farà, e le sue promesse sono meno autentiche dei suoi capelli. Berlusconi in realtà vuole continuare a comandare, ad esercitare la smisurata e anticostituzionale concentrazione di potere che ha precipitato l’Italia in un regime. Ha cercato di tirare a campare mantenendo il gioco nelle sue mani, il famoso maxi-emendamento a cui condizionare le dimissioni. Magari infilandoci i soliti provvedimenti ad personam per le sue aziende e il suo testamento (contro Veronica e i di lei figli), e per la sua impunità giudiziaria. Lo ha fatto in passato, perché mai non anche ora?

Berlusconi ha provato addirittura a commissariare Napolitano, intrecciando maxi-emendamento “europeo”, dimissioni e voto anticipato in un’unica e indissolubile vicenda. Il presidente della Repubblica, concedendogli le dimissioni in differita, ha forse sottovalutato una volta di più che Berlusconi è animale politico della specie caiman crocodilus, famiglia alligatoridae, che già un anno fa utilizzò lo spostamento di un mese del voto di fiducia per comprarsi i voti mancanti. Se ne deve essere accorto, se ha diffuso la nota tagliente e irrituale con cui dà l’altolà agl’incombenti trucchi di Berlusconi.

Se ne devono essere accorti anche le opposizioni, pronte purtroppo a digerire il maxi-emendamento senza nessuna dose di equità, che hanno però imposto un calendario a tappe forzate: voto al Senato venerdì, alla Camera sabato, dunque domenica Berlusconi già fuori da Palazzo Chigi. Berlusconi giura e spergiura (le due cose in lui fanno tutt’uno) che non si ricandiderà, ma si può scommettere che farà carte false e gesti da piromane per impedire che le dimissioni significhino la sua fine politica (e del potere anticostituzionale accumulato), per prolungare l’agonia e cercare di rovesciare i verdetti.

Lo spread è a livelli da default, da rovina per i milioni di italiani che possiedono titoli di Stato. L’essenziale della (im)moralità di Berlusconi è tutta qui: per evitare la propria fine, ben venga la catastrofe del Paese. Contro i prossimi trucchi criminali di questo Mackie Messer, è sperabile che l’opposizione sia pronta e agguerrita.

p.s.

Come volevasi dimostrare: appena ha capito che Napolitano darà comunque a Monti l’incarico, Berlusconi ha scoperto che “Monti è una scelta ineludibile”, e si prepara a condizionarlo: vuole che al ministero della Giustizia resti il “suo” Nitto Palma. Naturalmente a far cambiare opinione (è il suo nuovo “giuro e spergiuro”: ieri sulle elezioni anticipate, domani chissà) a Berlusconi non sono stati i destini dell’Italia ma il crollo in borsa di Mediaset, che per lui sono la stessa cosa.

Ora vedremo cosa faranno Napolitano e Monti, per la giustizia e per il sistema televisivo, le due uniche cose che interessino a Berlusconi. Alla speculazione finanziaria l’impunità di Berlusconi e la negazione della giustizia eguale per tutti, ovviamente non importano nulla. Ma agli italiani in carne ed ossa sì. Sarà una cartina di tornasole per il nuovo governo, almeno quanto la “equità” (che non ci sarà) sui provvedimenti economici. Se Napolitano e Monti daranno su questo garanzie a Berlusconi vorrà dire che si saranno piegati: oggi la loro credibilità presso gli italiani è altissima (non sempre meritatamente, a modesto parere di chi scrive), ma sull’impunità a Berlusconi e il monopolio ai vari Minzolini potrebbe crollare di colpo.

(10 novembre 2011)
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 09, 2011, 10:56:36 pm »

Il rischio di Monti

di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto quotidiano, 8 dicembre 2011

Se il decreto “salva Italia” resta quello che è (un decreto “salva privilegiati”) il governo dei tecnici rischia grosso, addirittura di fallire già nella culla.

A Monti la sorte (e Napolitano) ha offerto una opportunità straordinaria, quella di potere decidere in assoluta libertà e secondo coscienza i contenuti della manovra: i due partiti maggiori, Pd e Pdl, la fiducia l’avrebbero votata comunque, magari “obtortissimo collo”, per non andare a elezioni immediate col marchio di affossatori dei titoli pubblici (che sarebbero precipitati con “effetto Argentina”). Dal professore della Bocconi non si pretendeva neppure la tanto sbandierata (e nei fatti svillaneggiata) “equità”, ma molto meno: un colpo al cerchio e uno alla botte. Purché eguali per intensità, energia e “cattiveria”.

Il colpo alla botte, al “terzo Stato”, è arrivato: tutto e subito. Con aspetti addirittura odiosi: l’adeguamento delle pensioni già ora copre solo il 70% dell’aumento del costo della vita, il che significa l’impoverimento anno per anno. Bloccarlo per due anni significa rivoltare il coltello nella piaga di chi è alle soglie della povertà, e ogni lacrima in proposito – per quanto sincera – è lacrima di coccodrillo. Il colpo al cerchio dei privilegiati invece non si è visto affatto.

Bastava aumentare le aliquote Irpef per i redditi alti (sopra i 75 mila euro all’anno, e aliquote progressivamente incrementate per chi ne guadagna 200, 500...), prelevare una “una tantum” sulle pensioni più ricche (alcune fino all’indecenza) e sulle “buonuscite” milionarie (Guarguaglini docet). E soprattutto sui capitali “scudati”: la tassa dell’1,5% dimostra che un prelievo non è affatto incostituzionale (mai lo avrebbero proposto i Tecnici e firmato il Custode della Costituzione), e visto che gli antipatrioti dei capitali all’estero avevano pagato il 5% anziché il 30% preteso dai governi moderati e di destra di Cameron e Merkel c’era un margine del 25% in cui pescare senza fare torto alcuno ai suddetti fedifraghi fiscali.

Il governo può ancora correggersi, dappoiché “errare humanum, perseverare diabolicum”. E dovrà comunque decidere della propria “natura” sulla questione delle frequenze tv digitali (che al valore di mercato porterebbero in cassa 4 o 5 miliardi: esattamente la grassazione compiuta contro i pensionati). Se saranno regalate a Berlusconi sarà inevitabile che il governo Monti finisca per apparire come un mero “berlusconismo dal volto educato”. Consegnandosi ai desiderata del Caimano, il governo rischia di cadere non appena al Caimano farà comodo.

(8 dicembre 2011)

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« Risposta #44 inserito:: Gennaio 04, 2012, 07:45:40 pm »

Senza legalità nulla cambia


di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 3 gennaio 2012


L’emergenza è lo “spread”? Anche. Ma la vera emergenza strutturale in cui l’Italia si avvita da un ventennio, e la cui mancata soluzione rende impossibile affrontare tutte le altre urgenze, dal debito pubblico all’occupazione, dal fisco allo sviluppo, dalle grandi opere alla sicurezza e al welfare, ha un solo nome: legalità. La legalità è il “grande rimosso” del discorso politico e della coscienza collettiva, il grande assente nell’azione di governo e nel dibattito sui media.

Il Capo dello Stato ammonisce che evasione fiscale e corruzione sono pratiche intollerabili, ma sono vent’anni che lo sentiamo ripetere, rischia di essere una giaculatoria se alle parole non seguono immediatamente i fatti. Il governo Monti simpatizza col modello danese di flessibilità del lavoro, ma un ex-ministro rivela che dopo averlo studiato in loco il governo Prodi rinunciò a importarlo, perché mancavano le condizioni culturali che ne impedissero l’abuso: un diffuso senso dello Stato e della legalità, appunto. Ora si parla di “crescita”, dunque di opere pubbliche, di incentivi, di liberalizzazioni e privatizzazioni, ma un chilometro di ferrovia o di autostrada costa in Italia due o tre o quattro volte più che in Francia o Germania: il costo della mancata legalità. E in passato ogni bene pubblico è stato svenduto, coniugando impoverimento dello Stato, nuove inefficienze, indecenti arricchimenti di amici degli amici: su scala ridotta, il modello degli oligarchi putiniani. Per indigenza di legalità, anche qui.

Diventa retorico e rischia di apparire insultante, perciò, pronunciare una volta di più la parola “equità” se non si mette mano a una vera e propria “rivoluzione della legalità”. Sono due facce della stessa medaglia, esattamente come giustizia e libertà. La rivoluzione della legalità oltretutto, è l’unica riforma a costo zero. Anzi, a introito sicuro, progressivo, ciclopico. Tra evasione, corruzione, mafie, ogni anno vengono sottratte ricchezze equivalenti a cinque o dieci manovre “lacrime e sangue”. In questi vent’anni – esattamente il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa e cominciava “Mani Pulite” – la politica ha fatto di tutto per favorire i “mariuoli” anziché la legalità. Portando l’Italia sul lastrico. Se il governo Napolitano-Monti-Passera vuole essere credibile, ed evitare la sacrosanta rabbia del “Terzo Stato” che monta, ha una strada maestra: abrogazione delle leggi ad personam, manette a evasori e per falso in bilancio e ostruzione di giustizia. Eccetera. La legalità presa sul serio.

(3 gennaio 2012)

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