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Autore Discussione: Paolo FLORES D´ARCAIS..  (Letto 74212 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Novembre 04, 2013, 05:32:46 pm »

Cancellieri, dimissioni subito

di Paolo Flores d’Arcais

“Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me”. E’ questa la risposta standard del ministro della Giustizia Cancellieri a qualsiasi familiare di qualsiasi detenuto che denunci condizioni psicosomatiche di grande sofferenza per la condizione di carcerazione? E qualsiasi familiare di detenuto ha la certezza – di cui evidentemente gode la famiglia Ligresti – di passare il filtro dei centralini e delle segreterie (o addirittura può avere a disposizione il cellulare del ministro per chia-marlo direttamente)?

Se la risposta a entrambi i quesiti è un rotondo SI’ le richiesta di dimissioni al ministro della Giustizia possono effettivamente palesare malevolenze strumentali. Se invece non è così, se la famiglia della detenuta Ligresti ha avuto un interessamento che sia anche “tanticchia” (come direbbe Salvo Montalbano) diverso e migliore di quelle dei detenuti “comuni”, allora il ministro Cancellieri deve dimettersi e anzi avrebbe dovuto già farlo, e suona incredibile che non lo abbia ancora chiesto il premier Letta e che non sia già risuonato il doveroso monito d’ordinanza del Quirinale. Perché la legge è eguale per tutti, e se per i Ligresti è un po’ più eguale che per gli altri non stupiamoci poi se Berlusconi pretende che per lui sia ancora molto più eguale assai. Ma queste cose possono avvenire nella “Fattoria degli animali” di Orwell, dove i maiali sono più eguali degli altri, in un paese democratico non sono tollerabili.

Le dimissioni del ministro Cancellieri dovrebbero essere ovvie. Del resto le hanno chieste due testate spesso in polemica fra loro come “La Repubblica” e “Il Fatto quotidiano” (a dimostrazione di come le posizioni politiche non c’entrino ma si tratti di elementare DECENZA). Quest’ultimo nell’editoriale di ieri di Marco Travaglio (“In un paese normale il ministro della Giustizia non parla con i parenti di un’amica arrestata per gravi reati, rassicurandoli con frasi del tipo: “Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me”. Né tantomeno chiama i vicedirettori del Dipartimento Amministrazione penitenziaria per raccomandare le sorti dell’amica detenuta. Ma, se lo fa e viene scoperto da un’intercettazione telefonica (sulle utenze dei familiari della carcerata), si dimette un minuto dopo”), il primo qualche ora dopo nell’editoriale del sito www.repubblica.it, editoriale non firmato e dunque attribuibile al direttore Ezio Mauro (“Annamaria Cancellieri nega interferenze sul caso Ligresti. Ma non spiega la contraddizione di un ministro della Giustizia che subito dopo un arresto telefona in famiglia per dare “solidarietà”. Da quella telefonata nascerà una richiesta d’aiuto dei Ligresti: “faccia qualcosa”. Da qui la segnalazione da parte del ministro al Dap. E infine l’sms di Antonino Ligresti che chiede conto al ministro: “Novità”? E la pronta risposta: “Ho fatto la segnalazione”. C’è una sola cosa che la Cancellieri non ha mai detto davanti alle richieste dei Ligresti, la più semplice: sono il Guardasigilli, ho dei doveri di Stato. Questa mancanza e quella premura imbarazzano le istituzioni. Il ministro ne tragga le conseguenze”).

Non c’è davvero nulla da aggiungere. A parte una valanga di indignazione di cittadinanza, di mail da inviare a Palazzi, Colli e giornali, perché nelle prossime ore avvenga quello che in ogni altro paese europeo sarebbe già avvenuto.

(2 novembre 2013)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/cancellieri-dimissioni-subito/
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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 19, 2014, 12:28:39 am »

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Tsipras alla Commissione Europea, l’appello degli intellettuali

di Paolo Flores d'Arcais | 18 gennaio 2014

Oggi rendiamo pubblico questo appello corredato dalle sole firme dei suoi estensori. Nei prossimi giorni renderemo pubblica anche la lista delle adesioni che stiamo raccogliendo, e che sono già ora, prima ancora del suo lancio, molto numerose e qualificate.

La lista per le elezioni europee a cui proponiamo di dar vita con questo documento sarà una lista di cittadinanza assolutamente autonoma, promossa da personalità della cultura, dell’arte e della scienza e da esponenti di comitati, associazioni, movimenti e organismi della società civile che ne condividono gli obiettivi e i contenuti, e che non verrà “negoziata” con alcun partito. Questo sia per segnare una netta discontinuità con il passato, sia per sottolineare la novità di questa proposta: l’adesione a questa lista elettorale non deve essere confusa con l’affiliazione ad alcuno dei partiti esistenti o in fieri e non ha alcuna pretesa identitaria.

Questa lista avrà un comitato di garanti formato tra i firmatari dell’appello, che non si candideranno. Avrà un comitato promotore, con compiti operativi.

Su questa base le realtà organizzate come i partiti, o loro strutture, le associazioni politiche o culturali,  i centri sociali – che vorranno sostenere questo progetto sono le benvenute e possono contribuire al suo successo anche presentando proposte di candidatura di propri iscritti, purché rispondenti alle caratteristiche indicate nell’appello. E potranno sostenere la lista, la raccolta delle firme e le attività connesse alla campagna elettorale, costituendosi in uno o più comitati di sostegno dotati della più ampia autonomia, seguendo il modello già adottato nella campagna per i referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei sevizi pubblici locali, modalità che ha garantito il successo in quella iniziativa referendaria.

L’Europa al bivio

L’Europa è a un bivio, i suoi cittadini devono riprendersela. Dicono i cultori dell’immobilità che sono solo due le risposte al male che in questi anni di crisi ha frantumato il progetto d’unità nato a Ventotene nell’ultima guerra, ha spento le speranze dei suoi popoli, ha risvegliato i nazionalismi e l’equilibrio fra potenze che la Comunità doveva abbattere. La prima risposta è di chi si compiace: passo dopo passo, con aggiustamenti minimi, l’Unione sta guarendo grazie alle terapie di austerità. La seconda risposta è catastrofista: una comunità solidale si è rivelata impossibile, urge riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente sacrificata e uscire dall’Euro. Noi siamo convinti che ambedue le risposte siano conservatrici, e proponiamo un’alternativa di tipo rivoluzionario. È nostra convinzione che la crisi non sia solo economica e finanziaria, ma essenzialmente politica e sociale. L’Euro non resisterà, se non diventa la moneta di un governo democratico sovranazionale e di politiche non calate dall’alto, ma discusse a approvate dalle donne e dagli uomini europei. È nostra convinzione che l’Europa debba restare l’orizzonte, perché gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più. Solo attraverso l’Europa gli europei possono ridivenire padroni di sé.

Per questo facciamo nostre le proposte di Alexis Tsipras, leader del partito unitario greco Syriza, e nelle elezioni europee del 25 maggio lo indichiamo come nostro candidato alla presidenza della Commissione Europea. Il suo paese, la Grecia, è stato utilizzato come cavia durante la crisi ed è stato messo a terra: in quanto tale è nostro portabandiera. Tsipras ha detto che l’Europa, se vuol sopravvivere, deve cambiare fondamentalmente. Deve darsi i mezzi finanziari per un piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro con comuni piani di investimento e colmi il divario tra l’Europa che ce la fa e l’Europa che non ce la fa, offrendo sostegno a quest’ultima. Deve divenire unione politica, dunque darsi una nuova Costituzione: scritta non più dai governi ma dal suo Parlamento, dopo un’ampia consultazione di tutte le organizzazioni associative e di base presenti nei paesi europei.

Deve respingere il fiscal compact che oggi punisce il Sud Europa considerandolo peccatore e addestrandolo alla sudditanza, e che domani punirà, probabilmente, anche i paesi che si sentono più forti. Al centro di tutto, deve mettere il superamento della disuguaglianza, lo stato di diritto, la comune difesa di un patrimonio culturale e artistico che l’Italia ha malridotto e maltrattato per troppo tempo. La Banca centrale europea dovrà avere poteri simili a quelli esercitati dalla Banca d’Inghilterra o dalla FED, garantendo non solo prezzi stabili ma lo sviluppo del reddito e dell’occupazione, la salvaguardia dell’ambiente, della cultura, delle autonomie locali e dei servizi sociali, e divenendo prestatrice di ultima istanza in tempi di recessione. Non dimentichiamo che la Comunità nacque per debellare le dittature e la povertà. Le due cose andavano insieme allora, e di nuovo oggi.

Oggi abbiamo di fronte una grande questione ambientale di dimensioni planetarie, che può travolgere tutti i popoli, e un insieme di politiche tese a svalutare il lavoro, mentre una corretta politica ambientale può essere fonte di nuova occupazione, di redditi adeguati, di maggiore benessere e di riappropriazione dei beni comuni. È il motivo per cui contesteremo duramente il mito della crescita economica così come l’abbiamo fin qui conosciuta. Esigeremo investimenti su ricerca, energie rinnovabili, formazione, trasporti comuni, difesa del patrimonio culturale. Sappiamo che per una riconversione così vasta avremo bisogno di più, non di meno Europa.

Proprio come Tsipras dice riferendosi alla Grecia, in Italia tutto questo significa rimettere in questione due patti-capestro. Primo, il fiscal compact: il pareggio di bilancio che esso prescrive è entrato proditoriamente nella nostra costituzione, l’Europa non ce lo chiedeva, limitandosi a indicare sue «preferenze». Secondo, il patto di complicità che lega il nostro sistema politico cleptocratico alle domande dei mercati: chiediamo una politica di contrasto contro le mafie, il riciclaggio, l’evasione fiscale, la protezione e l’anonimato di capitali grigi, la corruzione, in un’Europa dove non sia più consentito opporre il segreto bancario alle indagini della magistratura. Significa infine difendere la Costituzione nata dalla Resistenza, e non violarne i principi base come suggerito dalla JP Morgan in un rapporto del 28 maggio 2013, cui i governanti italiani hanno assentito col loro silenzio. Significa metter fine ai morti nel Mediterraneo: i migranti non sono un peso ma il sale della crescita diversa che vogliamo. Significa darsi una politica estera, non più al rimorchio di un paese– gli Stati Uniti– che perde potenza ma non prepotenza. La pax americana produce guerre, caos, stati di sorveglianza. È ora di fondare una pax europea.

Le larghe intese, le rifiutiamo in Italia e in Europa: sono fatte per conservare l’esistente. Per questo diciamo no alla grande coalizione parlamentare che si prepara fra socialisti e democristiani europei, presentandoci alle elezioni di maggio con una piattaforma di sinistra alternativa e di rottura. Nostro scopo: un Parlamento costituente, che si divida fra immobilisti e innovatori. Siamo sicuri fin d’ora che gran parte dei cittadini voglia proprio questo: non l’Unione mal ricucita, non la fuga dall’Euro, ma un’altra Europa, rifatta alle radici. La chiediamo subito: il tempo è scaduto e la casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio nella sua tana minuscola e illusoria.

L’Italia al bivio

Questo è l’orizzonte. A partire da qui avanziamo la proposta di dare vita in Italia a una lista che alle prossime elezioni europee faccia valere i principi e i programmi delineati.

Una lista promossa da movimenti e personalità della società civile, autonoma dagli apparati partitici, che sia una risposta radicale alla debolezza italiana. Una lista composta in coerenza con il programma, che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio.

Una lista che sostiene Tsipras ma non fa parte del Partito della Sinistra Europea che lo ha espresso come candidato. I nostri eletti siederanno nell’europarlamento nel gruppo con Tsipras (GUE-Sinistra Unitaria europea). Una lista che potrà essere sostenuta, come nel referendum acqua, dal più grande insieme di realtà organizzate e che non si manterrà con i rimborsi elettorali.

Una lista che con Tsipras candidato mobiliti cittadine e cittadini verso un’Altra Europa.

Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/18/tsipras-alla-commissione-europea-lappello-degli-intellettuali/848479/
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 10, 2014, 05:07:35 pm »

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Tsipras alla Commissione Europea, ben venga lo straniero

di Paolo Flores d'Arcais
8 febbraio 2014

E’ il “nemico numero uno dell’Europa” secondo la testata tedesca Der Spiegel. In realtà Alexis Tsipras, leader della coalizione greca “Syriza” (in testa ai sondaggi) ama moltissimo l’Europa. Non quella dei banchieri che giocano alla roulette con le nostre vite, però. Quella dei cittadini. E dunque una “Europa dei cittadini” vuole cominciare a costruirla non solo per i cittadini ma con i cittadini. Ieri è stato in Italia, prima alla “Stampa estera”, poi al teatro Valle occupato (pieno come un uovo, anzi in realtà debordante, compreso il foyer, e con centinaia e centinaia di persone che sono rimaste in strada), infine alla trasmissione Otto e mezzo di Lilli Gruber, insieme a Barbara Spinelli.

Ha spiegato il suo progetto, che prevede “più Europa”, ma un’Europa radicalmente diversa da quella attuale, e in assoluta contrapposizione non solo alla signora Merkel ma anche a quella “sinistra di establishment” che con la Merkel ha realizzato in Germania la “Grosse Koalition” e che in Italia pratica da un ventennio l’indecoroso (è un eufemismo) inciucio con Berlusconi. Un’Europa da edificare rimettendo in discussione gli attuali trattati, negoziando una non-restituzione del debito di almeno il 60% (questa la percentuale che negli anni ’50 l’Occidente “abbuonò” proprio alla Germania!), rendendo davvero democratiche le istituzioni di Strasburgo e di Bruxelles con trasformazioni radicali di tipo costituzionale.

E ha ufficializzato la nascita della lista che in Italia candiderà il suo nome per la Presidenza della Commissione: una lista della società civile, una lista di cittadinanza attiva, una lista rigorosamente autonoma dai partiti, che è stata promossa da Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale (e da chi scrive), che ha superato già le 20 mila adesioni (puoi aderire qui), che ha raccolto il sostegno di personalità di orientamento assai diverso (ma tutte ovviamente nell’arco della democrazia presa sul serio e della Costituzione quale via maestra da percorrere realizzandola anziché “rottamandola”) come Furio Colombo e Michele Serra, Curzio Maltese e Andrea Scanzi, Moni Ovadia e Carlo Freccero, Gustavo Zagrebelsky e Lorenza Carlassare, Roberta De Monticelli e Massimo Carlotto, Corrado Stajano e Nadia Urbinati …

I sei promotori saranno i garanti dell’intero processo con cui la lista verrà realizzata. In realtà saranno in sette, perché proprio Tsipras ha accettato di essere accanto a loro il settimo garante, perché questa lista non ripeta fallimentari esperienze minoritarie del passato. Il nome della lista sarà scelto nei prossimi giorni con un referendum tra tutti coloro che hanno aderito (il cui numero sta crescendo a vista d’occhio, vedi su www.micromega.net). Una lista che dovrà raccogliere 150mila firme per essere presentata. Un impegno improbo (i partiti presenti in parlamento, che cercano di mantenere il monopolio della politica come “cosa loro”, ovviamente sono esentati dalla raccolta delle firme), ma un “sogno” realizzabile. Tsipras ha ricordato che ancora poco tempo fa, quando la sua coalizione era al 3,4% ma lui indicava una politica di governo alternativo, gli davano del pazzo. Ora i sondaggi lo vedono al primo posto. E un sondaggio di La7 riportava questo dato: il 53% degli italiani non si riconosce né nell’europeismo filo-establishment del Pd, né nelle scelte reazionarie delle destre, né nell’euroscetticismo di Grillo.

Lo spazio per una “lista Tsipras” della società civile c’è. Lo stesso Tsipras, che è un leader di sinistra, ha ricordato che si tratta di andare anche oltre la sinistra, non però con la “moderazione” a cui invitano i genuflessi davanti agli establishment. E ha aggiunto che se a questa intransigente ma inclusiva radicalità ha già aderito un commissario di polizia come Salvo Montalbano, possiamo farcela. Ora dobbiamo costruirla insieme, questa lista: i protagonisti siete voi.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/08/tsipras-alla-commissione-europea-ben-venga-lo-straniero/874378/
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« Risposta #78 inserito:: Giugno 07, 2014, 09:23:30 am »

Presidente Renzi, perché non vuole fare sul serio contro il partito dell’impunità?
   
Pubblichiamo uno stralcio del lungo editoriale di Paolo Flores d’Arcais che aprirà il numero 4/2014 di MicroMega in uscita il 17 giugno.


di Paolo Flores d'Arcais, twitter.com/Flores_dArcais

Il voto europeo in Italia ha un solo vincitore, anzi un solo nome: Matteo Renzi. […]

Proprio perché “Matteo” ha sbancato, dato scacco matto, fatto en plein, inflitto il cappotto, o quale altra metafora si preferisca (astenersi “asfaltato”, per favore: stilisticamente disgustoso), il grande problema per lui comincia ora. Chi ha tutto il potere non ha più nessun alibi. Quello che non fa, va tutto a carico suo.

Ora, il problema economico dell’Italia si chiama evasione fiscale, corruzione, mafia, il resto è epifenomeno. Una massa monetaria enorme, equivalente a una decina di “manovre fiscali” tipo “lacrime e sangue”, viene rapinata ogni anno da quei tre fenomeni. Grassazione gigantesca e permanente, che basterebbe aggredire significativamente (la metà, perfino un terzo della ricchezza comune saccheggiata), per disporre di risorse tali da soddisfare contemporaneamente aneliti alla sicurezza e pulsioni allo sviluppo, meno diseguaglianza e più crescita: salario di cittadinanza, incentivi a piccole e medie imprese, investimenti massicci in cultura istruzione e ricerca, boom di autostrade telematiche e di energie rinnovabili … e via riformando. Grassazione che, oltretutto, seleziona gli imprenditori seconda la capacità di “essere ammanicati” anziché secondo le tradizionali doti weberiane o schumpeteriane – propensione al rischio, innovazione, per non parlare della razionalità ascetica – distorcendo e ammorbando il mercato in direzione Mackie Messer.

La chiave di volta della ripresa economica, per uscire dalla crisi economica, perciò, in Italia si chiama giustizialismo: una rivoluzione della legalità, intransigente nel colpire invischiati con mafie (o comunque corrivi), corrotti, evasori: cominciando dai piani alti, dai ricchi e potenti, politici finanzieri e imprenditori, dall’establishment insomma (altrimenti non è intransigenza, e rende il tartassato da Equitalia una vittima o un eroe). [En passant: giustizialismo e garantismo sono la stessa cosa, se i termini non vengono manipolati: la legge eguale per tutti, per l’ultimo dei “villani” e il primo di “lorsignori”. Poiché “giustizialismo” è stato usato da berlusconiani e inciucisti come anatema contro coloro che, semplicemente, “hanno fame e sete della giustizia” (beati, secondo Gesù, Matteo 5,6), assumiamolo con orgoglio, quel termine, facciamone una bandiera].

La stessa “rottamazione” delle forme più ottuse ma onnipervasive di burocratismo, e del familismo amorale che strangola in culla ogni meritocrazia, non verrà neppure avviata, senza una stagione di giustizialismo, che garantisca manette ai grandi evasori (in primis per conti cifrati all’estero), abrogazione della prescrizione dopo il rinvio a giudizio, introduzione del reato di intralcio alla giustizia, autoriciclaggio, ecc., oltre alle restaurazione e/o ampliamento e/o inasprimento per falso in bilancio, voto di scambio, aggiotaggio e tutta la panoplia dei crimini da colletti bianchi.

Esattamente quanto Renzi NON intende fare. […]
Renzi si racconta favole, se pensa di poter ammodernare il paese senza aggredire con roncola e anzi machete il viluppo affaristico/politico/criminale, senza bonificare la melmosa morta gora in cui sono avvilite le capacità imprenditoriali e santificate le rapacità criminali, tra “autorities” complici sempre e comunque, e una “informazione” simile alle tre scimmiette. La vigente “costituzione materiale” italiana, avvolgente muro di gomma che vede irresponsabilità burocratica, illegalità e favoritismo, saturare, in amorosi sensi, ogni poro della vita istituzionale e sociale.

Renzi sembra intenzionato a fare qualche pulizia: dei piccoli privilegi, però, non dei grandi. Che si chiamano impunità, in tutte le sua articolazioni e proteiformi varianti. Giovanni Berneschi, boss finanziario di Banca Carige e “inamovibile vicepresidente dell’Abi”, proprio di questo si vantava in ogni telefonata (per fortuna intercettata) con i suoi pari della Specie (di cui la Casta è solo una sezione). Non si vantava, anzi: descriveva una situazione ambientale. Pensare che la stragrande maggioranza dei banchieri non si collochi – quanto a pratica della corruzione – nel corpaccione centrale della curva statistica di Gauss, non sarebbe neppure ingenuità ma volontà complice di non sapere.

Agli albori della irresistibile ascesa di Matteo Renzi, scrivevamo (prendendolo molto molto sul serio, vista l’analogia): “Il liberale Gobetti sapeva che in Italia un capitalismo moderno, e una borghesia non di rapina, poteva affermarsi solo in alleanza con forze in rivolta morale e materiale contro l’esistente stato di cose. E il liberale Renzi, che anzi si picca di essere più progressista di un liberale tout court? La struttura di classe della società italiana è del tutto incomparabile con quella di quasi un secolo fa, va da sé, ma il problema delle alleanze, sociali e di opinione, si pone in modo fortemente analogo”. Il terreno ineludibile di questa alleanza si chiama giustizialismo, ma Renzi NON vuole scendere in questo campo, dove si gioca la partita decisiva.

Post scriptum
L’articolo che apre il prossimo numero di MicroMega (in edicola a metà giugno) è stato chiuso il 29 maggio. Prima del clamoroso “caso Mose”, e conseguente ultima retata di establishment.

Tutte le donne e gli uomini del Presidente, e infine anche Renzi in prima persona, appena avuta notizia dei 35 arresti, hanno dichiarato la volontà di “tolleranza zero” verso la corruzione, e proclamano anzi che le misure che già stanno realizzando valgono come esempio e vanno in tale direzione.

Purtroppo non è vero. La legge delega 67, del 28 aprile, già approvata alla Camera, elimina la carcerazione preventiva per reati con pene fino a cinque anni: se fosse stata approvata anche dal Senato, quelli del “Mose” sarebbero tutti a spasso a fare dichiarazioni contro la persecuzione giudiziaria! Approvarla ora sarebbe delinquenziale. Ma non risulta che lei, Presidente Renzi, abbia dichiarato che la 67/28 aprile muore qui.

Lei, presidente Renzi, ha detto che la corruzione politica andrebbe punita come l’alto tradimento. Se davvero vuole mandare all’ergastolo i politici corrotti (l’ergastolo è infatti previsto per l’alto tradimento), non saremo certo noi “giustizialisti” a opporci. Tuttavia basterebbe assai meno. Con i fatti, però, non con le dichiarazioni per i Tg.

Se lei vuole effettivamente combattere la corruzione ci sono misure stranote (e a costo zero) di sicura efficacia (proprio per questo l’establishment corrotto le ha sempre bloccate). Mi permetto di farle un succinto elenco (non esaustivo), noto anche ai sassi:

(1) abrogazione della prescrizione non appena intervenga il rinvio a giudizio; (2) gare d’asta “chiuse”, senza possibilità di rivedere i costi in corso d’opera; (3) ritorno alla concussione prima dello “spacchettamento” (che ha diminuito le pene per i politici); (4) possibilità di intercettazione per tutti i reati corruttivi e “manageriali” (oggi solo se il massimo è superiore ai 5 anni); ritorno al falso in bilancio nella forma più severa degli scorsi decenni; (5) idem per la falsa testimonianza (un tempo era previsto l’arresto immediato in flagranza); (6) introduzione del reato di intralcio alla giustizia, con ampiezza di fattispecie e pene deterrenti di stile anglosassone; (7 … 12) mi fermo qui, ma altre misure analoghe sono perfettamente note, mentre solo l’autoriciclaggio sembra previsto da una prossima legge, e intanto la legge pseudo-antimafia ha poche settimane fa reso indagini e contrasto più ardui anziché più facili.

Insomma, rinunci pure all’alto tradimento e relativo ergastolo, se si limitasse a una dozzina di provvedimenti veri come quelli che abbiamo richiamato l’Italia cambierebbe radicalmente verso. Mi permetto di dubitare che avrà il coraggio di questa dozzina di misure. Se avessi torto ne sarei felice, e come me milioni di italiani onesti, e le chiederemmo scusa coram populo per aver dubitato della sua coerenza tra dire e fare.

(6 giugno 2014)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/presidente-renzi-perche-non-vuole-fare-sul-serio-contro-il-partito-dell%E2%80%99impunita/
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« Risposta #79 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:51:47 pm »

Contro l’inciucio Renzi-Berlusconi c’è una battaglia che si può vincere subito
   
Di Paolo Flores d’Arcais

Nell’accordo piduista Renzi-Berlusconi, benedetto da Napolitano, c’è molto di peggio che non il Senato dei nominati (il Senato andava semplicemente abolito e contemporaneamente il numero dei deputati portato a cento).

Il vero elemento golpista del patto piduista del Nazareno è costituito invece dalla legge elettorale, che consentirà a una forza di minoranza un controllo totale non solo del legislativo ma anche delle istituzioni di garanzia: Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale.

Nell’ambito di questa legge elettorale super truffaldina e micidiale per la democrazia, l’elemento più grave è dato dalla vera e propria istigazione a delinquere rappresentata dall’incentivo alla presentazione di liste locali di clientelismo mafioso e liste nazionali di indecenza corporativa.

Sarà infatti vantaggioso presentare liste che non hanno alcuna possibilità di eleggere un deputato ma che concorreranno alla somma dei voti con cui la coalizione potrà ottenere i premi di maggioranza truffaldini. Liste improbabili e impensabili in paesi civili ma che nelle prossime elezioni saranno presenti davvero, tipo la lista “Forza Dudù”, che Berlusconi ha già fatto sottoporre a test dalla sua sondaggista di fiducia, con raccapriccianti esiti positivi.

E altrettanto vantaggioso sarà presentare in ogni circoscrizione liste di mozzaorecchi locali coalizzate con i partiti principali dell’uno o dell’altro schieramento, liste che sul piano nazionale conteranno per lo zero virgola qualcosa ma su quello locale possono anche raggiungere consensi a due cifre. Basterà perciò avere una lista di clientelismo locale affaristico e/o mafioso in ogni circoscrizione e l’incremento nazionale per una coalizione potrebbe toccare il 10 per cento!

Di questo sconcio che fomenterà una vera e propria metastasi letale per la democrazia, i gettonatissimi politologi di establishment alla D’Alimonte & Co. nulla dicono, vuoi perché nella loro insipienza non se ne sono neppure accorti, vuoi perché lo sanno ma establishment oblige.

Eliminare la possibilità che questi due tipi di lista possano concorrere alla somma dei voti delle coalizioni è imprescindibile se non si vuole portare a dismisura lo sfregio alla democrazia che comunque questa legge elettorale realizzerà.

Dovrebbe perciò essere obiettivo primario delle opposizioni, e innanzitutto del M5S che resta l’unica attuale opposizione effettiva all’establishment (Lega e Sel ne fanno sontuosamente parte), imporre un emendamento che stabilisca la soglia minima di voti (due o tre per cento a livello nazionale, meglio ancora il quattro o la soglia che verrà stabilita per avere deputati) al di sotto della quale una lista non concorre alla determinazione della somma di una coalizione.

È una battaglia di elementare civiltà, ma è anche una battaglia che può essere vincente, perché sarà difficile perfino per i pasdaran dell’inciucio Berlusconi-Renzi difendere una norma di così sfacciata valenza clientelar-affaristico-mafiosa. E tale battaglia avrà l’ulteriore effetto virtuoso, se condotta con l’intransigenza doverosa e anche con il sacrosanto can-can dell’ostruzionismo parlamentare più chiassoso e mediaticamente pagante, di sbattere in faccia agli italiani che ancora si illudono del carattere riformista del governo Renzi e magari imputano al M5S di saper dire solo dei “no”, come il “fare” del governo sia sempre più spesso la prosecuzione, perfino allargata, delle “porcate” dell’epoca berlusconiana (altro che rottamazione!) e come l’opposizione sappia invece essere propositiva e radicale: unica forza davvero riformista.

Infine, è incomprensibile come una tale battaglia non l’abbiano già lanciata “dissidenti” del Pd come Casson e Mucchetti, che pure hanno alzato le barricate per ignominie assai meno ignominiose.

(4 agosto 2014)

DA - http://temi.repubblica.it/micromega-online/contro-l%E2%80%99inciucio-renzi-berlusconi-c%E2%80%99e-una-battaglia-che-si-puo-vincere-subito/
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« Risposta #80 inserito:: Ottobre 23, 2014, 11:24:47 am »

Il torto di Marco Travaglio nella sua disputa con Santoro

Di Paolo Flores d’Arcais

Marco Travaglio ha torto. Infatti ha evidenziato il motivo del suo contendere con Santoro in questi termini: “Esiste ancora nel talk show uno spazio indipendente per il talk inteso come racconto di fatti veri al riparo dallo show, cioè del pollaio gabellato per ‘contraddittorio’ e ‘ascolto’ dove chi ha torto e mente passa dalla parte della ragione e della verità? (...) Prima di domandarsi se il collaboratore fa la pace col conduttore e torna a bordo, andrebbe sciolto un rebus: cosa rimane, del giornalismo come lo conosciamo tutti, nei talk show?”.

Nulla, ovviamente. Ma la degradazione della verità di fatto a mera opinione, e dunque la correlativa santificazione di ogni menzogna a opinione che vale quanto l’altra, non è questione che mette a repentaglio solo il giornalismo, bensì costituisce in sé un colpo durissimo e diretto assestato contro la democrazia in quanto tale.

Dunque Marco Travaglio ha torto a “minimizzare” come problema del giornalismo qualcosa che riguarda invece l’essenza stessa della democrazia: Santoro, trattando Travaglio – che cerca ostinatamente di dare voce alle modeste verità di fatto – come un “opinionista” alla stregua dei Burlando, Santanchè, Brunetta, Minzolini, Fassino/a e altri habitué del pollaio/ring (mentre è uno dei pochissimi cronisti, cioè trascrittori fedeli di fatti, che ancora restino nel giornalismo italiano), spaccia overdose di una convinzione per la democrazia mefitica e micidiale.

Hannah Arendt lo ha spiegato in modo definitivo già mezzo secolo fa, dimostrando e sottolineando che mettere sullo stesso piano le opinioni, inevitabilmente soggettive e arbitrarie, con le verità di fatto significa già compiere un passo cruciale verso il precipizio del totalitarismo.

Nel saggio “Verità e politica scrive”: “Ciò che appare ancora più inquietante [ha appena parlato della Germania di Hitler e della Russia di Stalin] è che nei paesi liberi, nella misura in cui verità di fatto sgradite vengono tollerate, esse sono spesso, consciamente o inconsciamente, trasformate in opinioni”. Ma in questo modo “è in gioco la stessa realtà comune fattuale”, il nostro essere-insieme, cioè il tessuto minimo e irrinunciabile di una convivenza che non sia alla mercé di pochi (i padroni-manipolatori della “verità”, appunto). Da qui la conclusione, tanto perentoria quanto argomentata per pagine e pagine: “la libertà di opinione è una farsa a meno che l’informazione fattuale non venga garantita e i fatti stessi siano sottratti alla disputa”.

 

E’ quanto cerca di fare (e fa) ostinatamente Marco Travaglio, cui non riesce di confondere – come avviene invece a tutti i conduttori televisivi – l’imparzialità (che significa il riconoscimento sovrano delle modeste verità di fatto) con l’equidistanza (che significa che se in una giornata di sole Burlando sostiene contro Travaglio che piove, vuol dire “pioggia qua e là, bello altrove”, se poi la “disputa” è tra due politici, e sia Burlando che Scajola sostengono che piove, pioggia è, al di la di ogni ragionevole dubbio).

Opinioni e verità di fatto sono di natura radicalmente eterogenea, tanto è vero che “nessuna epoca passata ha tollerato tante opinioni diverse su questioni religiose o filosofiche; la verità di fatto, però, qualora capiti che si opponga al profitto e al piacere di un dato gruppo, è accolta oggi con un’ostilità maggiore che in passato”. Ecco perché la resistenza delle modeste verità di fatto alla loro assimilazione a mere opinioni, resistenza che dovrebbe essere l’abc morale di ogni giornalista e insieme il suo più elementare ferro del mestiere, costituisce più che mai la cartina di tornasole dello stato di salute o di estinzione di una democrazia.

Dunque, ecco perché mi auguro che Marco Travaglio continui a difendere quei pochi minuti di verità fattuali e di giornalismo che ancora albergano nello show di Santoro, ormai indistinguibile da quelli di Vespa&Co.

Naturalmente, come osservava amaramente Hannah Arendt “le probabilità che la verità di fatto sopravviva all’assalto del potere sono davvero esigue”. A ciascuno di noi, secondo le sue possibilità, fare in modo che aumentino. Chi tace acconsente.

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« Risposta #81 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:40:59 pm »

Parlamentari M5S, il tempo stringe: giustizia e libertà o harakiri

   di Paolo Flores d’Arcais

Cari rappresentanti eletti nelle liste del M5S (mi rivolgo ovviamente a tutti, anche se successivamente “espulsi” o usciti, poiché con il mio voto ho contribuito ad eleggervi tutti), secondo quando solennemente affermato più volte da Beppe Grillo voi siete i dipendenti di oltre otto milioni e mezzo di cittadini che hanno votato M5S. Dunque, nella stessa quota parte della mia sovranità (un ottoemezzomilionesimo) anche miei dipendenti. Io tuttavia preferisco restare al dettato costituzionale, e considerarvi i miei rappresentanti senza vincolo di mandato, persone cioè che si sono impegnate a rappresentare chi li avesse votati (a “implementare” la loro sovranità attraverso la delega) sulla base del programma reso pubblico e della capacità a interpretarne coerentemente i valori a fronte delle situazioni inedite che in politica si danno continuamente.

Credo sia evidente, perciò, che le critiche e le preoccupazioni che esporrò non sono ubbie personali mie, visto che tanto i risultati elettorali quanto i sondaggi indicano che una metà di quegli oltre otto milioni e mezzo di cittadini non rinnoverebbe il suo voto al M5S, e non pochi fra coloro che lo confermerebbero lo farebbero solo faute de mieux, per mancanza di alternative, obtorto collo. Per realismo, insomma: perché non votare equivale a parcellizzare il proprio voto fra tutte le liste, secondo le percentuali di chi ha infilato la scheda nell’urna.

Io sono fra quanti, sic stantibus rebus, ancora voterebbe M5S. Ma, come ho scritto nell’editoriale del numero di MicroMega appena uscito, “consapevole però di esprimere in tal modo non già una compiuta politica ma un rutto (sacrosanto) verso gli altri partiti, e nulla più”. È invece a qualcosa di più, molto di più, che vorrei servisse il mio voto: ad alimentare attraverso una concreta azione politica giorno per giorno, la speranza di un futuro in cui il tasso di giustizia e libertà della nostra vita associata aumenti anziché diminuire.

Voi potevate essere questa politica e questa speranza, ma sembrate ferocemente intenzionati a rinunciare ad ogni azione politica, a cancellare la speranza, a dilapidare il patrimonio che con i nostri milioni di voti vi abbiamo consegnato.

Che sia così ve ne siete accorti voi stessi, siete divenuti voi stessi (una parte di voi, almeno: crescente, mi sembra) portatori delle inquietudini e/o della delusione e/o della rabbia di tanti che vi hanno votato, al punto che una crisi che si ispessiva per stagnazione e autoparalisi e inibizione di vero dibattito è comunque e finalmente precipitata, costringendovi all’occasione di onorare le promesse fatte agli elettori o di piombare nell’avvitamento che prelude alla fine.

Ve le ricordo queste promesse, quelle essenziali, almeno: capovolgere il rapporto instaurato dai partiti tra base e vertici, sia nel senso di militanti e dirigenti che di elettori ed eletti, facendo del M5S uno strumento in mano ai cittadini stessi (sia gli attivisti dei meet up e gruppi di base sia i simpatizzanti non organizzati sia gli elettori-e-basta). A questo scopo (questo!) utilizzare la “rete”, per fare in modo che effettivamente uno valga uno. Costruendo così un fare politica fondato non più sulla possibilità di fare carriera, che anzi viene uccisa in culla, ma quale semplice servizio civile per i cittadini stessi. Insomma la passione politica, non i privilegi della Casta. Anzi, la passione politica per abrogare i privilegi della Casta.

Per cui nel programma che i comizi di Grillo hanno esposto agli elettori (i programmi scritti non li legge nessuno, infatti) quello che più ha risuonato è stato: una grande redistribuzione della ricchezza in senso egualitario attraverso il salario di cittadinanza e la cancellazione delle pensioni d’oro e degli stipendi altrettanto d’oro (oltre a una miriade di “altre utilità” locupletate oggi a Casta e dintorni), la sostituzione delle opere faraonico-corruttivo-mafiose (ponte sullo stretto e altre Tav) con le grandi opere diffuse davvero necessarie (cablaggio dell’intero paese, assestamento e manutenzione dell’equilibrio idrogeologico, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale …), la lotta senza quartiere a corruzione, criminalità organizzata e intreccio affaristico-politico (quell’insieme di norme e di comportamenti coerenti che la Casta definisce giustizialismo).

Queste le promesse.
E invece: una decisione cruciale come quella di dar vita a una sorta di politburo di cinque persone (inutile nascondersi dietro un dito, trasparenza vuol dire chiamare le cose con il loro nome, e in un vertice collettivo anche ristretto di per sé non c’è nulla di male: neppure in un leader, anzi, dipende se poi “uno vale uno” viene comunque rispettato) viene decisa dalla trojka Grillo/Casaleggio/Casaleggo jr (quest’ultimo a che titolo: dinastico, imprenditoriale, imprenditorial-dinastico? Sempre a strame di democrazia minima, comunque), e sottoposta alla “rete” in confezione a pacchetto chiuso e inemendabile, da votare ad horas, ma proprio nel senso letterale: entro le 19. Che i sì siano oltre il 90% va da sé (meglio faceva solo Stalin, che riusciva anche a superare il 100% dei voti, e i suoi epigoni della schiatta di Kim-il-Sung).

Tutto questo si chiama plebiscitarismo e costituisce la negazione compiuta di ogni idea di democrazia. Se “uno vale uno”, la necessità di un politburo si discute, consentendo a tutti di intervenire con proposte fra loro alternative, e se poi lo si costituisce il numero delle candidature deve essere aperto, i nomi proposti discussi pubblicamente argomentando pro e contro, meriti e difetti, e il voto limitato (2 o 3 voti per eleggerne 5): sono ovvietà che non bisognerebbe neppure richiamare.

Del resto. È tutta la vita democratica di cui il M5S ha garantito di volersi fare strumento che latita: in che modo gli elettori possono far sentire la loro voce? Il sito www.beppegrillo.it è gestito come una casamatta assediata o un ufficio postale sotto censura militare. In che modo i militanti possono decidere, se contano solo i “certificati” sul web a una certa data, a prescindere dal lavoro reale sul territorio? E chi certifica i certificatori? E in che modo un cittadino comune può “iscriversi” al movimento? Cosa contano ormai anche deputati e senatori, visto che Grillo può decidere di fare carta da cesso della regola per cui ogni proposta di espulsione deve passare dai gruppi parlamentari prima di andare al voto in rete (e di ogni altra regola, secondo umore e digestione)?

Molti mesi fa (forse più di un anno fa) ho proposto a tutti voi una serie di incontri tra parlamentari e persone della società civile impegnate nelle varie lotte (di opinione e sociali), che MicroMega era disponibile a organizzare. Credo di aver avuto due risposte. Ma senza uno scambio continuo tra eletti ed elettori, tra parlamentari e società civile, diventate autoreferenziali come i partiti che giustamente stigmatizzate.

In questa direzione MicroMega (e io personalmente) tornerà alla carica, con proposte puntuali di seminari, convegni, dibattiti, azioni comuni (raccolte di firme, proposte di legge) sui temi cruciali della nostra vita politica.

Spero che la decisione di Grillo di nominare cinque suoi rappresentanti (di questo infatti si tratta) abbia presso di voi l’effetto di un “tana libera tutti” per una discussione libera, non autoreferenziale, argomentata (troppo spesso, non solo sul web, si riduce invece a viscerali like/not like dove logica e fatti brillano per assenza), anziché segnare l’accelerarsi di una diaspora inevitabilmente opportunistica e di un arroccamento inevitabilmente settario (le due facce di una stessa occasione perduta). Non avete molto tempo. Non abbiamo molto tempo.

(29 novembre 2014)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/parlamentari-m5s-il-tempo-stringe-giustizia-e-liberta-o-harakiri-2/
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« Risposta #82 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:32:33 pm »

Legge elettorale, Roma, Presidente della Repubblica: il M5S deve essere decisivo (dipende solo da lui)
Dall’impasse di Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale alla situazione del comune di Roma dopo l’esplosione di Mafiacapitale, fino all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.
Ecco come il Movimento 5 Stelle potrebbe essere protagonista in modo straordinariamente efficace. Perché continua a giocare di rimessa?

di Paolo Flores d'Arcais

Cari parlamentari eletti nelle liste M5S, come vostro rappresentato vi sottopongo alcune riflessioni che certamente terrete in considerazione.

La forza che col nostro voto vi abbiamo dato può esercitarsi nella attuale situazione – di crisi morale politica ed economica sempre crescente – in modo straordinariamente efficace. Faccio solo tre esempi: la legge elettorale, la situazione del comune di Roma dopo l’esplosione di Mafiacapitale, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.

La legge elettorale continua ad essere elemento cruciale della trattativa tra Renzi e Berlusconi, e una pietra d’inciampo dell’accordo politico-istituzionale tra i due. Il M5S potrebbe, come si dice nell’unico gergo con cui ormai i media parlano di politica, quello calcistico, entrare a gamba tesa, o con una metafora scacchistica, compiere la “mossa del cavallo”, insomma diventare protagonista, utilizzando i nostri voti, anziché spettatore passivo, ibernandoli o dissipandoli. E partecipare come protagonisti non significa affatto edulcorare la propria radicalità, ma anzi esercitarla davvero anziché conservarla nella teca delle parole.

Cosa che invece il M5S continua a fare, ripetendo come un mantra che sul sistema elettorale la decisione è già stata presa perché “rete locuta causa finita”. Ma con queste superstizioni non si fa politica radicale, perché per essere radicale una politica deve essere innanzitutto azione.

Ora, proprio l’impasse in cui Renzi e Berlusconi si trovano per la legge elettorale vi offre (ci offre!) l’occasione di diventare protagonisti, di lanciare voi (noi!) una proposta che ponga il M5S al centro della scena politica e costringa gli altri a misurarsi con la propria (vostra, nostra) radicalità. Basterebbe mettere sul tappeto il sistema uninominale a due turni, con ballottaggio al secondo fra i due più votati al primo (erroneamente lo si definisce “alla francese” benché in Francia al secondo turno possano passare anche un terzo e un quarto candidato, se hanno ottenuto il 12,50% al primo, con possibilità di pastette fra partiti per il “désistement”).

È il sistema con cui si eleggono i sindaci. Oltretutto è proprio il sistema che ha permesso al M5S di compiere il grande salto (prima della vittoria di Pizzarotti a Parma le prospettive non erano certo un quarto e oltre dei voti), inoltre è il sistema elettorale più amato dagli italiani poiché per i sindaci funziona benissimo, e infine Renzi e Berlusconi dovrebbero arrampicarsi sugli specchi per rifiutarlo, perché in vari momenti i rispettivi partiti lo hanno magnificato (anche se ora per calcoli di bottega immediati non lo vogliono più).
Perché dunque non fare di questo tema un vostro (nostro!) agire politico, anziché lasciare campo libero alle varie componenti della Casta?

Roma, devastata da Mafiacapitale, offre un’occasione ancora più imperdibile. Marino è persona onesta, e costantemente in conflitto col Pd (che aveva ormai deciso di farlo fuori). Ha commesso e continua a commettere gaffes, stupidaggini, errori. Ma è pur sempre giulebbe rispetto a quello che passa il convento partitocratico affaristico-criminale (ora tutti i media si sbracciano a dire che erano cose note, ma quando alcune rarissime testate parlavano della destra di Alemanno come criminale, e di mezzo Pd anche, era tutto uno stracciarsi di vesti contro i “giustizialisti”, “manettari” e “girotondini-giacobini”). Perché il M5S continua a giocare di rimessa anziché ad agire da protagonista?

Infatti significa giocare di rimessa lasciare che le proposte (perfino alquanto ragionevoli) vengano da Rutelli e siano riprese da Marino, mentre sarebbe agire da protagonisti prendere l’iniziativa e proporre in modo ultimativo e credibile a Marino la costituzione di una “giunta degli onesti”, cambiando tutti gli assessori, discutendoli insieme a partire dalle competenze presenti nella società civile, che lo stesso M5S dovrebbe individuare e proporre. Che senso ha ridursi invece ad un altro mantra, quello dello scioglimento o commissariamento, che in concreto significa affidare il governo della città ad una persona scelta dal ministro dell’Interno, il cui nome è Angelino Alfano? Cosa è più radicale? Oggi uno dei “cinque” del direttorio ha giustamente chiesto per il M5S la presidenza dell’assemblea comunale e della commissione alla trasparenza. Ma perché chiamarsi fuori da una “giunta degli onesti”? Non nel senso di farne parte con propri esponenti (neanche esponenti del Pd dovrebbero farne parte) ma di indicarne e discuterne i nomi tratti dalle competenze della società civile.

Quanto alla Presidenza della Repubblica: perseverare diabolicum, come è noto. E si rischia di perseverare se si continua a dire che nella scorsa occasione si è fatto il massimo e il meglio in coerenza con i valori del movimento. Non è vero. Si poteva, e si può, fare di più, senza perdere di radicalità, anzi. Si tratta, come al solito, di occupare il luogo strategico dello scontro, anziché giocare di rimessa o collateralmente, accomodandosi nella mera testimonianza.

Se se vuole fare decidere alla rete la rosa dei primi dieci nomi, si faccia, ma assai più seriamente. Con una discussione sul sito che cominci subito, che comporti proposte argomentate, e discussioni su ciascuno di essi altrettanto argomentate, che sia aperta agli elettori e non solo ai militanti (oltretutto quelli “certificati” e entro una certa data), che veda esprimersi apertamente i vari deputati. Allora, a conclusione di questa elaborazione collettiva di settimane, il voto avrebbe un significato non occasionale, non semplicemente emotivo, non prono alla mera notorietà mediatica (e anzi di quel medium che è un sito generalmente troppo autoreferenziale: quel sito infatti sarebbe stato aperto quanto più possibile a simpatizzanti ed elettori).

A questo punto i dieci nomi dovrebbero essere affidati ai parlamentari, per dare al M5S i margini di manovra necessari in qualsiasi azione che si svolga in Parlamento, e massime in una elezione del Presidente della Repubblica, dove votazione per votazione cambia lo scenario e la possibilità di incidere efficacemente. I parlamentari ovviamente si sentirebbero moralmente obbligati a rispettare le indicazioni della rete, ma tra un indicato al primo posto che dopo varie votazioni non ha alcuna possibilità, e uno al terzo o quarto, che può diventare un outsider con effettive probabilità per i veti reciproci con cui gli altri partiti hanno bruciato i rispettivi candidati, consentire ai gruppi parlamentari di poter decidere non sarebbe certo opportunismo “contro la rete” ma possibilità di rendere efficaci le decisioni della rete, anziché velleitarie e di mera testimonianza.

(6 dicembre 2014)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/legge-elettorale-roma-presidente-della-repubblica-il-m5s-deve-essere-decisivo-dipende-solo-da-lui/
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« Risposta #83 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:53:48 pm »

Un Paese ad alta digeribilità
Mafia capitale e le chiacchiere degli smaliziati
L’inchiesta su Roma

Di Ernesto Galli della Loggia

Non è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita. È - si direbbe - la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo all’ordine del giorno?

Non è vero che la politica, perlomeno quella nazionale - come ci viene detto - è sbalordita, è sconvolta, è pronta a correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino Alfano detto l’altro ieri che «Roma non è una città marcia, Roma non è una città sporca, è una citta sana»? E come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena - da Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli - ha mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa.

E visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è mai capitato d’interessarsi di quanto sta venendo fuori oggi. Così come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto), ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata alla Lega delle cooperative. Chissà come mai.

In Italia funziona così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio capitolino di galantuomini come «er cecato» e «er maialotto», si pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del Pd romano: peraltro già ridotta da tempo a un Ok Corral per politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi, sono in grado di apprezzare l’efficacia. L a verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un dibattito accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere, e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo sindacale». Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di decenza.

Gli «smaliziati» di professione, i quali - mischiando l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo renziano attuale - non sopportano giustamente che si parli di declino dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica. Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri , quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24 ore su 24. Quella politica che si ostina a non capire che il Paese ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica, del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi, se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo - uno scatto morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto - ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa.

7 dicembre 2014 | 09:57
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_07/mafia-capitale-chiacchiere-smaliziati-39f69cf8-7de0-11e4-9639-7f4a30c624ee.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:04:05 pm »

10 gennaio 2015 | micromega.net    

Terrorismo, Dio, laicità
 
Qui di seguito l’editoriale del direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais e gli interventi di Valerio Magrelli, Vinicio Capossela, Marco d’Eramo, Raffaele Carcano, Angelo d’Orsi, Pierfranco Pellizzetti, Alessandro Robecchi, Cinzia Sciuto, Alessandro Esposito.
 
di Paolo Flores d'Arcais
 
Eroi delle libertà democratiche, pronunzia tempestivamente il presidente Hollande. È vero. Wolinski e i suoi compagni di Charlie Hebdo erano infatti libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale.

Oggi ne fanno il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, Papi e Leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, devono ora tutti allinearsi a difesa del diritto alle “enormità” con cui gli “estremisti” irresponsabili appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà. Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo.

La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. Ad un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti.

Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!) è ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali. Anche, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele.

Il cristianesimo per fortuna è stato costretto a venire a patti con la democrazia laica, benché ancora non la accetti pienamente. Il fondamentalismo alberga perciò nel suo seno in dosaggi infinitamente minori di quello islamico, questo è certo e nessuna comparazione è possibile, non dimentichiamo però che sono stati cristiani militanti quelli che hanno assassinato negli Usa medici e infermieri che rispettavano la volontà di abortire di alcune donne. Donne, medici, infermiere che Wojtyla e Ratzinger hanno bollato più volte come responsabili del “genocidio del nostro tempo”, nazisti postmoderni, insomma.

La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista.

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« Risposta #85 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:36:25 pm »

Il Vaffanculicum di Renzi e la robbbetta di opposizione
   
Di Paolo Flores d'Arcais

Sulla legge elettorale “Italicum” (che la Boschi della vignetta del geniale Mannelli su Fatto quotidiano ribattezza “Vaffanculicum”) Matteo Renzi va allo scontro frontale.

Quando stampa e tv non siano totalmente plaudenti, due tamburellanti interrogativi caratterizzano i commenti: perché il Premier cerca questo “scontro finale” su un tema che interessa poco e niente alla stragrande maggioranza degli italiani? E fare dell’Italicum/Vaffanculicum una sorta di piccolo Armageddon della politica nostrana è segno di forza o di debolezza?

Sul primo punto la risposta è facilissima: Renzi cerca la battaglia campale su un tema i cui contenuti non interessano, e quindi sfuggono ai più, proprio per questo: che sarà vissuta come una battaglia in cui i contenuti contano pressoché zero, e dunque per i cittadini conteranno solo le “posture” e le “virtù” che in tale battaglia si manifesteranno: la coerenza dei propositi contro la tradizione delle lungaggini, l’energia contro la palude, il nuovo contro il vecchio, la riforma contro la conservazione, il coraggio di rischiare contro la vocazione a rassicuranti compromessi, ecc. Insomma la durlindana rottamatrice contro la melmosità delle nomenklature.

Renzi perciò ne uscirà benissimo, vinca o perda (molto probabilmente vince). Tanto più che i suoi antagonisti nel centro-sinistra sono giganti della tempra di Bersani e Letta, D’Alema e Bindi, e infine Speranza (vi rendete conto?!), robbbetta che nessuno che abbia residui di lucidità può prendere minimamente sul serio, e la cui rottamazione resta una delle “gesta” che hanno fornito a Renzi il suo primigenio patrimonio di credibilità e consensi.

Altra cosa sarebbe stata se nel centro-sinistra l’opposizione si fosse manifestata in modo netto e coerente (al momento di ogni voto) su tutte le questioni cruciali, a cominciare dal problema del problema, la giustizia, e con esso quello dei media (e la legge bavaglio che li connette), e insomma fosse stata frontale fin dall’inizio, visto che il disegno di Renzi era evidente e organico. Ma un’opposizione capace di fare questo non sarebbe stata capace, quando era al governo (per quasi otto anni, in epoca berlusconiana) di tutto il miserrimo cabotaggio, e il berlusconismo di risulta, e la mimesi di corruzione, e insomma sarebbe stata una cosa completamente diversa fatta da persone completamente diverse. Mentre la robbbetta questo era in grado di dare, al governo e all’opposizione: in termini di libertà e giustizia, anche in dosi omeopatiche, il nulla.

A questo punto è chiaro che l’Armageddon formato twitter che vuole realizzare Renzi è una prova di forza, non di debolezza. Una prova con un margine di rischio, ovviamente, ma una prova di forza. E’ il compimento della rottamazione. Ottenuta in una sola mossa insieme a una trasformazione strutturale che rende l’esecutivo padrone dell’intera vita politica del paese: un regime plebiscitario di minoranza, dove con un terzo dei voti, e se le altre forze sono divise, si controlla il parlamento manu militari, si nominano tutti gli organismi di garanzia, si domina la tv di Stato, insomma si fa il bello e il cattivo tempo senza “lacci e lacciuoli”.

Il berlusconismo realizzato. Grazie a quanti (la famosa robbbetta e anche qualcuno in più) hanno per anni e anni stigmatizzato come estremista chi combatteva senza transigere il regime di Arcore, hanno addirittura considerato “demonizzazione” e fanatismo l’uso del termine regime, e si sono dati voluttuosamente a ogni genere di inciucio, spacciandolo per genialità strategica e convincendo non pochi guru-gonzi del sistema mediatico e di “opinione”.

Oggi siamo una non-democrazia senza opposizione, e quelle che passano per tale sono talvolta mero fascismo e/o razzismo rimpannucciato (Salvini, Meloni, ecc.), o pezzi di nomenklatura di finta sinistra non certo migliore della robbbetta (Vendola & Co). Resta il M5S, con le stranote contraddizioni, volatilità, dogmatismi, irrazionalità esoteriche, ma anche passione civile della base.

Motivi di speranza pochi, dunque. Pochissimi. A incrementarli può esserci solo l’inventiva e le iniziative concrete che ciascuno di noi saprà costruire, per quanto in apparenza isolate e impotenti, senza aspettare che “arrivi” da chissà dove un nuovo strumento di azione politica di massa.

(29 aprile 2015)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-vaffanculicum-di-renzi-e-la-robbbetta-di-opposizione/
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« Risposta #86 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:52:28 pm »

“Riprendiamo dal sito www.micromega.net”   

29 agosto 2015 | micromega.net    

Renzi l'iperberlusconiano

Di Paolo Flores d'Arcais
 
Al meeting di CL Matteo Renzi ha confessato pubblicamente di essere la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi. Dalla giustizia all’informazione, dal lavoro alla riforma istituzionale, non c’è un solo elemento della lobotomizzazione della democrazia tentata da Berlusconi che Renzi non stia realizzando. Contro la quale ora ha però poco senso indignarsi. Occorre invece riflettere sul perché le straordinarie energie che l’antiberlusconismo aveva saputo suscitare nella società civile non abbiano trovato adeguata espressione politica.

[Questo articolo può essere ripreso anche integralmente, purché preceduto (preceduto) dalla dicitura “riprendiamo dal sito www.micromega.net” e fatto seguire dalla dicitura “copyright © Paolo Flores d’Arcais”]

Se si trattasse di omosessualità diremmo che è stato un coming out. Ma trattandosi di un cattolico praticante, ed essendosi svolta in una location che più cattolica non si può, il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, è d’uopo invece parlare di CONFESSIONE. Matteo Renzi ha confessato pubblicamente: di essere la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi, anzi di essere la realizzazione del berlusconismo adeguata ai tempi, cioè alla non implementazione del berlusconismo con i mezzi di Berlusconi (l'intermezzo dei governi-nullità Monti e Letta non merita menzione: de minimis non curat praetor).

Confessione solenne, coram populo e urbi et orbi, che non a caso uno dei bracci armati del berlusconismo, le falangi devote di CL e del cattolicesimo di Mammona, ha salutato canonizzando il nuovo leader post Pd a punto di riferimento.

Che la confessione ci sia stata, e inequivocabile, si dimostra per tabulas. Nell’immediato dopoguerra, quando il regime di Mussolini è spazzato via dalla vittoria della Resistenza nell’ambito della vittoria militare alleata (Roosevelt Churchill Stalin), dopo la Liberazione cui fa seguito la Repubblica e la sua Costituzione (firmatari il comunista Terracini e il democristiano De Gasperi, giurista di riferimento l’azionista Calamandrei), i fascisti che vogliono combattere la Rottura e trovare i mezzi efficaci per ristabilire una Continuità non sono i rottami nostalgici di Salò ma quanti predicano l’ideologia delle non ideologie: oltre sia il fascismo che l’antifascismo.

Così Renzi col berlusconismo e l’antiberlusconismo, papale papale. Ovviamente senza la tragedia del fascismo, i morti i torturati gli incarcerati gli esiliati … il berlusconismo non è stato il fascismo [“Fascismo e berlusconismo”, MicroMega 1/2011] è stato “l’equivalente funzionale e postmoderno del fascismo” (ivi) e il renzismo ne costituisce l’apoteosi effettiva (come già analiticamente dimostrato in “Sinistra e parresia”, MicroMega 8/14).

In realtà, quando dice che ci si deve liberare del berlusconismo e dell’antiberlusconismo Renzi ha di mira solo quest’ultimo, non c’è un solo elemento del berlusconismo che non abbia fatto proprio e non stia realizzando: giustizia, informazione, lavoro, riforma istituzionale, i quattro capisaldi della lobotomizzazione della democrazia (già in crisi da decenni di partitocrazia) tentata dal Cavaliere per antonomasia poi Criminale qualificato. Lobotomizzazione che implica la distruzione di tutti i contrappesi che fanno della democrazia liberale un sistema di governo limitato: magistratura autonoma, informazione indipendente, sindacati rappresentativi e forti, impossibilità di occupare a maggioranza le istituzioni di garanzia.

Di fronte a questa realizzazione del berlusconismo ha però poco senso indignarsi. È addirittura offensivo e vergognoso se a farlo sono quanti propiziarono o subirono le stagioni dell’inciucio (si pecca egualmente per atti e per omissioni, e più che mai per viltà). Non dimentichiamo che la “sinistra” di establishment è stata al governo quasi otto anni in questi ultimi venti, che pure chiamiamo giustamente “ventennio berlusconiano”, visto che tali governi niente hanno fatto “di sinistra” (il governo Prodi col suo pessimo ministro della giustizia si segnalò per una persecuzione contro "Mani pulite" da far invidia al precedente governo Berlusconi).

I pochi che invece parlarono di regime, come era doveroso vista che si trattava di una verità fattuale, e che poi pochi non erano (oltre un milione a san Giovanni a Roma il 14 settembre del 2002 in una indimenticabile “festa di protesta”, ad esempio), benché da trovare col lanternino tra intellettuali e altri “opinion maker”, anziché piegarsi nella nostalgia dovrebbero provare a capire perché quelle straordinarie energie che suscitarono e catalizzarono nella società civile non hanno trovato espressione politica. Espressione politica adeguata, che il 25% di voti al Movimento 5 Stelle è ancora l’onda lunga di quella stagione di lotta, dai girotondi ai popoli viola alle manifestazioni contro il bavaglio ai se non ora quando, ma un'onda che non metterà palafitte e dunque non sarà mai alternativa (benché in mancanza di essa resti il solo voto possibile del non piegarsi e non mollare).

Questa riflessione abbiamo già avviato per tempo, nel numero 1/14 (dialogo con Rodotà) e nel numero 8/14 (Sinistra e Parresia), ma bisognerà tornarci, soprattutto dopo l’articolo di Rodotà su Repubblica del 25 agosto, che giustamente si scaglia contro “il risveglio tardivo dei critici di Renzi”, ricordando che “in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute” e “non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto”. Bisognerà tornarci, e presto, perché riguarda tutti noi che abbiamo combattuto Berlusconi e che quella alternativa non abbiamo saputo o voluto costruire, o addirittura abbiamo distrutto alternative in cantiere, malgrado ci siano state offerte parecchie occasioni, anche nei due o tre anni più recenti.

(29 agosto 2015)
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« Risposta #87 inserito:: Novembre 29, 2015, 05:30:50 pm »

Da Ingroia a Tsipras fino a Grillo, Flores d’Arcais in marcia verso il nulla
Il Fattone   
L’endorsement del direttore di Micromega mette in difficoltà perfino Di Battista

C’è qualcosa di commovente in Paolo Flores d’Arcais, il direttore di MicroMega, qualcosa che ispira tenerezza in chi lo ascolta: come l’omino Duracell è sempre in marcia, con la risolutezza un po’ cocciuta di chi pensa soltanto a sé nella convinzione che il mondo prima o poi si adeguerà, e ogni volta che cambia direzione – il che gli accade molto spesso – è il mondo che ha cambiato verso, mentre lui, impettito, riprende la sua marcia lineare verso il nulla.

Ieri, ci riferisce il Fatto, ha invitato Stefano Rodotà e Alessandro Di Battista alla presentazione del nuovo numero di MicroMega, e per l’occasione si è solennemente dichiarato grillino: “A sinistra non ci sono più corpi da rianimare. I Cinque stelle sono l’unico movimento votabile, e lo faccio convintamente da anni”. Naturalmente non è affatto vero: alle ultime europee Flores è stato fra i garanti della Lista Tsipras, alle precedenti politiche dichiarò di aver votato la “Rivoluzione civile” di Ingroia – due successi clamorosi, davvero difficili da dimenticare. Ma Flores sbianchetta il proprio passato, forse per ingraziarsi il suo nuovo eroe, Beppe Grillo, e convintamente spiega che “c’è solo una forza che rappresenta le istanze di rappresentanza e legalità, ed è il M5s”.

Neppure il cronista del Fatto riesce a rimanere serio, e nel riportare le parole di Flores osserva: “Troppa grazia, per Di Battista”, descrivendolo “con postura da studente rispettoso” ma anche un pochino preoccupato: “Incassa, ma deve fugare subito sospetti di deriva sinistroide”, e dunque ribadisce che “il Movimento è oltre le ideologie, sinistra e destra sono corpi morti”. Ma Flores-Duracell è già in cammino e non c’è modo di fermarlo: “Il M5s non deve essere autoreferenziale, deve passare all’offensiva”. Come? “Raccogliendo migliaia di firme sul web”. Questa Di Battista deve averla già sentita: ma è un ragazzo educato, e aspetta educatamente che il dibattito finisca.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/da-ingroia-a-tsipras-fino-a-grillo-flores-darcais-in-marcia-verso-il-nulla/
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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:24:56 pm »

Giustizialismo e (è!) garantismo
[Questi testi possono essere ripresi anche integralmente da qualsiasi testata, purché con puntuale riferimento alla fonte]

Di Paolo Flores d’Arcais

Pubblichiamo volentieri questo intervento duramente critico di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, contro il saggio del dottor Gratteri che costituisce uno degli assi portanti dell’ultimo numero di MicroMega.
E, ovviamente, la risposta di Gratteri. Quale sia la posizione della rivista si evince in modo cristallino dal titolo che abbiamo dato a questo scambio di interventi.

Che riguarda due temi: il nodo giustizialismo/garantismo in generale, e la questione del lavoro nelle carceri. Gonnella dopo una serie di affermazioni tanto polemiche (al limite dell’ingiuria) quanto apodittiche sul primo tema, si concentra soprattutto sul secondo. La discussione rimane in proposito aperta, anche se il parallelo fatto dal dottor Gratteri col lavoro non retribuito nei centri di disintossicazione avrebbe dovuto suggerire a Gonnella maggior cautela, anziché spericolate analogie con lager e gulag, visto che in alcun di questi centri addirittura si paga per essere “costretti” a lavorare e visto che esistono già casi in cui un detenuto può scegliere di scontare una parte della pena in regime di disintossicazione attraverso il lavoro anziché in carcere.

Quanto al più generale nodo giustizialismo/garantismo:
Che parecchi decenni fa “giustizialismo” significasse l’ideologia del peronismo non dice nulla sulla “cosa” di cui si tratta oggi. La storia di ogni lingua è piena di lemmi che hanno avuto significati assai diversi nel tempo e privi di connessioni reali fra loro.

“Giustizialismo” è l’etichetta polemica e nelle intenzioni ingiuriosa che il regime di Berlusconi, e assai spesso anche l’inciucio dalemiano e post, ha utilizzato contro i magistrati, i giornalisti e la parte di opinione pubblica (cioè i cittadini) che hanno preso sul serio il dettato costituzionale della “legge eguale per tutti”. MicroMega ha deciso di fare propria con orgoglio questa etichetta, anziché ridursi alla posizione difensiva di altri settori dell’opinione pubblica comunque fedeli al dettato costituzionale, proprio per smascherare il carattere propagandistico dell’accusa e volgerla contro gli autori, dimostrando come il “giustizialismo” per il quale si stracciavano farisaicamente le vesti costituisse in realtà il massimo di garantismo realizzato nelle vicende giudiziarie italiane.

Lo abbiamo fatto in numerosi articoli e saggi che hanno dimostrato dati alla mano come il trattamento giudiziario degli imputati di Mani Pulite abbia costituito, statisticamente parlando, un “sogno” ahimè inarrivabile per la maggior parte degli imputati nel nostro paese, proprio sotto il profilo del rispetto dei diritti della difesa e del rapporto tra condanne e accuse, che indica come molto raramente (cioè molto ma molto più raramente che nella media italiana) vi siano state incriminazione che non hanno retto alla prova dei tre gradi di giudizio.

Quando perciò Gonnella parla di giustizialismo (compreso quello di MicroMega, a e anzi in primis, visto che sul sito di MicroMega scrive, e fa riferimento a un numero della rivista pubblicizzato con “Solo il giustizialismo ci può salvare!”) come di “una sorta di avallo acritico al lavoro di una parte della magistratura” di acritica c’è solo la sudditanza culturale e psicologica che in questo caso Gonnella manifesta rispetto al pensiero unico berlusconian-inciucista. Noi le sentenze, o le incriminazioni – e insomma il lavoro dei magistrati in qualsiasi fase – le critichiamo tutte le volte che ci sembrano non rispettare i fatti e la logica, le leggi e la Costituzione. Attenendoci sempre al principio garantista che la colpevolezza va dimostrata “al di là di ogni ragionevole dubbio” (benché tale espressione non caratterizzi l’ordinamento italiano, molto meno tassativo, ma quello anglosassone) e anzi all’antico e per millenni non applicato “in dubio pro reo”.

Con la differenza che riteniamo ineludibile che nella argomentazione processuale e giuridica la logica bisogna usarla davvero, senza confonderla con la capziosità azzeccagarbugliosa che abbiamo visto all’opera in tante difese di personaggi del regime, e purtroppo anche in talune assoluzioni di questo ventennio che non passa.

Sfugge poi del tutto a Gonnella il paradosso in cui lo porta il suo anti-giustizialismo: poiché infatti “il garantismo penale è una teoria nobile che ci protegge dai soprusi di Stato, dagli abusi delle autorità, dalla violenza istituzionale della tortura”, dovrebbe essere agli antipodi, ad esempio, della recentissima sentenza con cui nessuno è stato condannato per l’assassinio di Stefano Cucchi. E che invece è stata salutata da tutti i “garantisti” come un luminoso esempio di liberazione dalle ipoteche giustizialiste che troppo a lungo, sull’onda di Mani Pulite, avrebbero avuto corso nel nostro paese.

Resto invece dell’idea che tale sentenza non sia affatto garantista ma semplicemente ingiusta, e che tale fosse per metà anche la sentenza di primo grado, che aveva assolto i poliziotti che Cucchi hanno avuto “in cura”. Proprio logica e fatti avrebbero dovuto portare a sentenze di condanna.

Ma se si continua invece con la canea anti-giustizialista questi sono poi gli ineludibili frutti, e i “garantisti”, non solo in versione berlusconiana ma anche in versione pannellian-manconiana, a queste sentenze di assoluzione (o altre di avvelenatori industriali e di assassini per lucro sulle misure di sicurezza) hanno il dovere di fare un monumento.


Contro il giustizialismo
Di Patrizio Gonnella *

La teoria del garantismo penale come teoria che pone limiti al potere affonda le sue radici nell’illuminismo giuridico e nell’opera eccezionale e attuale di Cesare Beccaria di cui ricordiamo i 250 anni di vita. «Ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere più generale così: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall'assoluta necessità è tirannico». Il garantismo penale è una teoria nobile che ci protegge dai soprusi di Stato, dagli abusi delle autorità, dalla violenza istituzionale della tortura.

Ogni sua interpretazione nel segno della impunità dei potenti, come quella che abbiamo assistito negli ultimi due decenni, è una manipolazione frutto di strumentalizzazioni da parte dei politici. Il giustizialismo era il nome della dottrina politica peronista a sua volta intrisa di populismo. È filosoficamente, politicamente, culturalmente, storicamente, giuridicamente agli antipodi rispetto a quanto Beccaria scriveva in ‘Dei delitti e delle pene’.

Il giustizialismo nella sua versione più recente italiana indica una sorta di avallo acritico al lavoro di una parte della magistratura. Esso è in conflitto ontologico con la limpidezza illuminista dell’opera di Cesare Beccaria fondata sulla dignità umana, sull’uguaglianza e sulla consapevolezza della crudeltà delle pene in quanto tali. Qualora poi il giustizialismo si dovesse concretizzare nelle affermazioni che andrò qui di seguito testualmente a riportare esso di fatto andrebbe a coincidere con il ritorno alla pre-modernità giuridica, ovvero a quel panorama di pene corporali e supplizi di cui abbiamo letto in ‘Sorvegliare e punire’ di Foucault.

Così scrive Nicola Gratteri nell’ultimo volume di MicroMega dedicato alla ‘Giustizia’, esponendo un suo programma di quasi-ministro nonché di presidente di una commissione nominata da Matteo Renzi per rendere più efficiente la macchina della giustizia e per contrastare il crimine organizzato.

«La stessa cosa dovrebbe fare il detenuto in carcere, e cioè lavorare, ma sempre tenendo presente che il lavoro dev’essere concepito come terapia, come elemento cardine di una rieducazione e di un reinserimento sociale. Quando si dice che il detenuto, se lavora, dev’essere pagato e noi non abbiamo i soldi per pagare 40 mila detenuti, si tratta di un ragionamento sbagliato, perché il lavoro dev’essere qui concepito appunto come terapia, senza pensare a una sua remunerazione. Far valere questo principio sarebbe una rivoluzione all’interno dell’universo carcerario. Si pensi a quei tanti detenuti che hanno ormai 50, 55 anni e che non hanno mai lavorato in vita loro. Oltretutto, in questo modo potremmo impiegare una quantità di persone in lavori socialmente utili, facendo pulire loro tutte le spiagge, le fiumare, i fiumi e le montagne del paese, che diventerebbe a quel punto il paese più pulito del mondo. Allo stesso tempo, si tratterebbe di qualcosa che, per il detenuto, ha una valenza terapeutica».

Sorvolo su quanto scrive prima intorno alla riapertura delle carceri nelle isole di Pianosa e Asinara, luoghi dove la Corte Europea dei Diritti Umani nei casi Labita e Indelicato riscontrò la tortura sistematica. Sorvolo su proposte che abbiamo sentito da decenni ripetere da esponenti principalmente della destra (‘rimandare gli immigrati a scontare la pena nei loro paesi’) e che non hanno riscontro nella pratica giudiziaria, amministrativa e nelle relazioni pubbliche e internazionali (infatti va ricordato che i Paesi di provenienza spesso non li vogliono, che in quei Paesi i detenuti potrebbero essere a rischio di tortura, che ci sono 3 mila e 500 detenuti italiani all’estero che a questo punto dovremmo riprenderci in virtù delle clausole di reciprocità). Sorvolo sulla proposta di chiudere tutte le carceri con meno di 100 posti (una visita a Secondigliano o Poggioreale forse sarebbe utile a comprendere cosa accade e come si vive nelle carceri dove c’è l’internamento di massa). Mi soffermo sull’idea del lavoro come terapia e dunque del lavoro gratuito.

Il lavoro gratuito come terapia degrada il detenuto kantianamente a cosa. Il detenuto sarebbe dunque un malato da curare. Il lavoro sarebbe la medicina. Il lavoro gratuito non è altro che lavoro coatto. Il diritto internazionale vieta i lavori forzati. La storia delle tirannie – nazionalsocialista ma anche stalinista – è una storia iconograficamente nota al mondo anche tramite le immagini dei lavori forzati. Auschwitz-Birkenau era un campo di lavori forzati. Così recitano le Regole Penitenziarie Europee: «Il lavoro penitenziario deve essere considerato come un elemento positivo del trattamento, della formazione del detenuto e della gestione dell’istituto… Nella misura del possibile, il lavoro deve essere tale da conservare e aumentare la capacità del detenuto di guadagnarsi normalmente la vita dopo la sua dimissione... L’organizzazione e il metodo di lavoro negli istituti devono avvicinarsi, nella misura del possibile, a quelli che regolano un lavoro nella società esterna, al fine di preparare il detenuto alle condizioni normali del lavoro libero… Deve essere previsto un sistema equo di remunerazione del lavoro dei detenuti».

Lo dice l’Europa dunque che il lavoro non può che essere retribuito. Lo dicono secoli di storia di sfruttamento umano. Lo afferma perentoriamente l’articolo 8 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 entrato in vigore in Italia nel 1976: «A nessuno può essere richiesto di svolgere lavoro forzato». Non vi sono eccezioni. Il lavoro gratuito e terapeutico non è altro che un altro modo di qualificare il lavoro forzato. D’altronde in una società libera neanche le imprese vogliono il lavoro coatto e gratuito in quanto si andrebbe a manipolare il mercato all’esterno rendendolo non competitivo. L’unico lavoro gratuito ammissibile dal mercato resterebbe quello non produttivo, inutile. Sorprende che un ritorno alla pre-modernità penale arrivi da chi presiede una commissione nominata dalla presidenza del consiglio dei ministri.

La questione penitenziaria è una questione complessa che ha a che fare con la società, con il diritto interno e internazionale, con i diritti umani, con l’urbanistica e l’architettura, con il welfare, con il fisco, con la sicurezza. Per poterla affrontare non basta avere fatto l’investigatore, seppur ai massimi livelli. Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di taumaturghi, di litanie, di soluzioni giustizialiste. Necessita di razionalità e umanità, doti presenti in tanti operatori – direttori, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, criminologi, volontari, religiosi, poliziotti – che da decenni si sbattono e battono per una pena rispettosa dell’articolo 27 della Costituzione.

A me la parola rieducazione non piace. A maggior ragione se vi si lega la parola terapia. Ricorda cose tristi di un passato tirannico dove la pena era connotata da contenuti etici, religiosi e medici. A me piace la parola dignità. Fortunatamente è anche la parola che piace alle Corti interne e internazionali. Il programma di Nicola Gratteri assomiglia molto a quello dell’ex ministro Castelli. Abbiamo già dato.


Irresponsabile confondere garantismo e impunità
Di Nicola Gratteri **
Le categorie del garantismo penale invocate da Gonnella fanno parte del bagaglio di ogni giurista moderno che operi in una realtà democratica e rispettosa dei diritti individuali come quella italiana. Di esse mi sono sempre fatto interprete, e nel momento in cui ho accettato l’incarico di presiedere la Commissione sulle riforme voluta da Renzi mi sono posto anche il problema di tutelare i diritti e le garanzie individuali dell’imputato e del detenuto.

Altra questione è l’ordine logico e cronologico della tutela dei diritti individuali, all’interno dello Stato di diritto. Se non v’è dubbio sul fatto che nessuno deve compiere abusi e vessazioni sui reclusi, va però ricordato che il diritto penale trova la propria origine nel bisogno di tutelare i beni giuridici di coloro che sono stati offesi dal reato, sia come individui, sia come appartenenti ad una collettività, che è lo Stato in cui noi tutti ci riconosciamo.

Ben vengano dunque i contemperamenti del garantismo al dovere dello Stato di perseguire i reati, ma attenzione a non superare la soglia della rinuncia alla difesa dei diritti violati degli individui. Perché altrimenti verrebbe negata la funzione stessa dello Stato di diritto e ad esso si sostituirebbe l’arbitrio dei criminali, tutelati a prescindere nel loro agire contro le regole, già prima di commettere i reati e così incentivati nel compimento di atti antisociali.

Ragionare sul garantismo è dunque importante, ma ispirare le riforme sul presupposto di ritenere prevalenti le ragioni di chi delinque su quelle di chi subisce reati è da irresponsabili. Non è una questione politica – o comunque non solo – è una questione di rispetto della Costituzione e delle priorità in essa previste nella tutela dei beni giuridici.

Con buona pace di Gonnella, chi ha commesso uno stupro non avrà mai più ragione di chi lo ha subito, e non potrà averne fino al punto di chiedere un risarcimento alla società o di essere messo agevolmente in condizione di commetterne altri. Questo perché il diritto è contemperamento degli interessi che vengono in conflitto – ed è dunque anche cura dei diritti del detenuto – ma non mai sovvertimento degli stessi, come si finisce per auspicare, pur partendo le mosse dai nobili principi del garantismo.

Lo sforzo che intendo compiere come magistrato ed all’interno della Commissione che presiedo non è finalizzato ad occupare posti di potere o ad indirizzare verso scelte ideologicamente orientate, ma solo a far funzionare la Giustizia nell’interesse di cittadini. A far si che le lungaggini non impediscano il raggiungimento del fine di giustizia e che una efficienza rispettosa dei diritti di tutti si sostituisca alla babilonia in cui è precipitato il sistema penale, col concorso involontario del disinteresse della politica, dell’incapacità dell’amministrazione e degli interessi delle organizzazioni criminali.

Ragionando con le categorie estremiste di chi paragona al nazionalsocialismo lo sforzo di quanti si battono per una Giustizia che funzioni si potrebbe agevolmente ribattere che proporre la liberazione di assassini e stupratori – prendendo a presupposto l’inciviltà, tutta da dimostrare, del nostro sistema penale – richiama principi di anarchismo parimenti antidemocratici ovvero corrisponde agli interessi della criminalità mafiosa e organizzata in genere. Ma farebbe torto alle ragioni del diritto replicare con argomenti che recano offesa all’interlocutore.

Gonnella non è un giurista e gli possono essere perdonate le ampie approssimazioni del suo ragionamento. Persino gli può esser perdonato l’aver egli confuso l’obbligo del lavoro, - inteso come necessità di dar prova della volontà di reinserirsi attraverso comportamenti di pubblica utilità, prova che uno Stato che si rispetti deve pretendere nel corso di una pena che “tenda alla rieducazione” - con i lavori forzati che sono ben altra cosa. Ma non gli si può consentire di dire che non gli piace la “rieducazione”. Perché quella finalità è scritta nella Costituzione proprio per segnare un punto di equilibrio e di rispetto delle regole dello Stato e dei beni giuridici di cui esso si fa portatore. E se dunque non gli piace la Costituzione e neppure lo Stato di diritto rimangono solo l’ideologia e il pregiudizio, e allora tutto per il lettore sarà più semplice da comprendere.

* presidente di Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”
** magistrato, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria e presidente della Commissione per l’elaborazione di proposte di riforma per il contrasto della criminalità organizzata

(3 novembre 2014)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/giustizialismo-e-e-garantismo/
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« Risposta #89 inserito:: Settembre 10, 2016, 10:34:49 pm »

Roma, il M5S corre verso il disastro

Di Paolo Flores d'Arcais

Ben tre settimane fa, il 15 agosto, ho messo in rete il seguente tweet: "Se il sindaco #Virginia #Raggi continua con il 'raggialemanno magico' (#Marra #Romeo #Viggiano ...) porta la #giunta e il M5S al disastro". Dieci giorni prima, esattamente un mese fa, il tweet era invece stato: "Se il #sindaco #Virginia #Raggi continua a servirsi anche di una sola persona del giro #Alemanno tradisce coloro che l'hanno votata".

Il "raggialemanno magico" è più che mai dominante nella giunta, è riuscito a far fuori tutti i possibili "competitor", in compenso la giunta è a pezzi e il M5S rischia il disastro. L'assessore Muraro è indifendibile, e ogni ora di sua permanenza e arroccamento del sindaco sul suo nome peggiora una situazione già disastrosa. Indifendibile non tanto per l'indagine (dipende dall'imputazione e dagli elementi a carico) ma per la plateale e reiterata menzogna, e soprattutto per le frequentazioni, le scelte, le decisioni, spesso scellerate, nel caso Ama, che l'esemplare articolo di Iacoboni, che riportiamo qui sotto, documenta dettagliatamente. E la nomina di De Dominicis al bilancio, un ex magistrato della Corte dei Conti consigliato dall'avvocato Sammarco e ammiratore sfegatato e ditirambico di Giulio Andreotti (altro che rifiuto dei "poteri forti"!) aggiunge buio a buio.

Sembra che purtroppo i "competitor" possibili in seno alla giunta, il superassessore Marcello Minenna e il capo di gabinetto Carla Raineri, fossero sensibili alle sirene delle Olimpiadi-Malagò e altri richiami di establishment. Sembra insomma che di uno scontro tra due pezzi di establishment (anche se "diversamente impresentabili") si sia trattato, mentre gli elettori che hanno votato M5S a Roma lo hanno fatto per voltare radicalmente pagina, cioè per avere una giunta radicalmente libera da qualsiasi "inciucio" con qualsiasi establishment.

I vertici nazionali del M5S sono stati assolutamente incapaci, "per opere o per omissioni", come si dice nel catechismo (anche nel M5S ai vertici nazionali e locali i cattolici assai fedeli sono in sovrabbondanza), con le due personalità di punta, Di Maio e Di Battista, che ricordavano i surplace di Maspes e Gaiardoni anziché la capacità di decisione e responsabilità politica degli statisti.

Questo il quadro. Desolante. E tuttavia al momento il voto M5S resta l'unico possibile, visto che le alternative sono il disastro in atto di mediocrità autoritaria e vuoto arrogante e ipocrisia e menzogne in quantità industriale dei Renzi e Berlusconi (che vuole tornare per interposta persona). Oggi la lucida disperazione impone di votare ancora M5S, anche perché il sindaco di Roma non è quello di Torino, ma il consenso per disperazione (ancorché lucida) non dura a lungo. Nella società civile le risorse cui potrebbe attingere il M5S ci sono, e abbondantissime. Una stolta autoreferenzialità sta portando invece questo movimento/speranza a innescare un processo di implosione: autoreferenzialità che al dunque diventa inciucio con poteri opachi e brutti assai, come il caso di Roma sta evidenziando.

* * *

Le mani della Muraro sull’Ama. Ecco la lista delle epurazioni

di Jacopo Iacoboni, da La Stampa, 5 settembre 2016

Il boccone è Ama. Ma il boccone è anche uno strumento: per controllare la politica, avere voti e stare nelle partite economiche. Attorno ai rifiuti, a Roma si è giocata e si sta giocando una partita feroce e sanguinosa, per le sorti della giunta Raggi, del suo assessore all’ambiente e naturalmente per la qualità del servizio ai romani. Paola Muraro si è scontrata pesantemente con Marcello Minenna sul piano di ristrutturazione dell’azienda, che l’assessora ha scritto e La Stampa è in grado ora di raccontare nel dettaglio. Un progetto che finirà sul tavolo dei pm, in cui non c’è alcun riferimento alla ristrutturazione industriale, né un piano economico-finanziario, né delle linee guida strategiche o un ripensamento della macrostruttura, ma emerge invece prepotente un’urgenza: epurare i dirigenti nemici e sostituirli con dirigenti fidati. Per assecondare alcune logiche che qui possiamo spiegare.

Le mani di Paola Muraro su Ama si allungano risolutivamente in una riunione del 26 agosto. Alla riunione partecipano Marcello Minenna e la Muraro, dal Campidoglio, Alessandro Solidoro e Stefano Bina (presidente e dg) in collegamento telefonico. Il verbale viene trasmesso dal gabinetto del sindaco all’azienda (col protocollo Roma Capitale, Gabinetto del sindaco, 27 agosto 2016, N. Prot. RA/55796). La trasmissione è firmata Marcello Minenna. Il primo a essere rimosso è Pietro Zotti, direttore industriale da cui dipendono anche i due impianti di trattamento biomeccanico dei rifiuti di Ama (il dirigente è Marco Casonato, anche lui rimosso). Rimuovere Zotti significa togliergli qualunque arma di difesa, un domani qualunque cosa dicesse contro la Muraro passerebbe per la vendetta di un dirigente rimosso. Il secondo è Leopoldo D’Amico, già fatto fuori da Panzironi, il presidente dell’era Alemanno, e tornato, nella gestione Fortini, come capo del progetto degli Ecodistretti. Non un fulmine di guerra, ma una persona di cui tutti in azienda parlano bene. La sua rimozione serve a Muraro nel quadro del mantenimento del consenso interno con i comitati di Rocca Cencia.
 
Il terzo da far fuori è Saverio Lopes, 41 anni, proveniente da Acea e poi Atac, direttore delle risorse umane. E qui la storia incrocia direttamente interessi elettorali. Lopes è giovane, capace. Ma ha tanti nemici. Facendo fuori Lopes, Muraro fa cosa gradita alle Usb e ad Alessandro Bonfigli, il potente capo della Cisl in Ama e amico di Marcello De Vito, una comune simpatia ideologica (a destra). Lopes è particolarmente inviso perché la sua battaglia cardine è stata contro l’assenteismo e il consociativismo nella gestione aziendale; Lopes denunciò brogli nell’accaparramento delle deleghe sindacali, e favorì il licenziamenti dei 41 di Parentopoli. Favorì, anche, una scissione sindacale che portò via 500 tessere dalla Cisl di Ama (tessere che valgono 120mila euro all’anno). Bonfigli, che chiede e ottiene la testa di Lopes, era stato estromesso dalla Cisl nel maggio 2016; ma a giugno vince la Raggi, e contemporaneamente lui torna in sella in come capo Cisl in Ama.

Insomma: destra (network Alemanno), carabinieri, sindacati di base e pezzi (non i migliori) di Cisl sono sullo sfondo di questa Muraro story, e dei voti che essa significa per Virginia Raggi. In quella riunione del 26 agosto, Muraro decide dunque di togliere Zotti e D’Amico (le loro deleghe vanno tutte al nuovo dg Bina, che non ne è affatto contento, perché si trova gravato di un carico enorme di responsabilità, e connessi rischi giudiziari), e soprattutto di epurare Lopes. Solidoro, allora presidente, e Minenna, sono contrari a rimuovere Lopes (addirittura pensavano di nominarlo dg), ma la Muraro fa la voce grossa, alla sua maniera. A quel punto lo scontro è totale. Minenna, amico e mentore di Solidoro, qualche giorno dopo si dimette. Solidoro strappa l’ordine di servizio per la rimozione di Lopes e si dimette pure lui.

Tutto da rifare? No. Muraro riconvoca tutti i dirigenti Ama il 2 settembre - agendo come fosse l’amministratore dell’azienda, non l’assessore - e comunica che in Ama ci sarà anche Giancarlo Ceci, responsabile della programmazione del M5S, a darle una mano. Un’occupazione stile prima repubblica. Infine, Muraro chiama Giuseppe Rubrichi, 66 anni, oggi dirigente per la sicurezza sui luoghi di lavoro, e gli offre il posto di Lopes. Rubrichi nel 2000 finì nell’inchiesta per l’inceneritore di Colleferro, dove bruciavano rifiuti che non dovevano essere bruciati. Non tirò in ballo nessun altro, allora. Una sua nomina potrebbe far rientrare di fatto in gioco, a dirigere gli impianti, quell’Alessandro Muzi, in buoni rapporti con Manlio Cerroni, l’imprenditore “re delle discariche” romane, che nella prima uscita pubblica della Raggi con Muraro, a Rocca Cencia, si fece fotografare accanto a sindaco e assessora esibendo potenza e copertura politica. È un grosso boccone, Ama. Chi controlla Ama ha in mano mezza Roma.

(6 settembre 2016)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/roma-il-m5s-corre-verso-il-disastro/
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