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Autore Discussione: Paolo FLORES D´ARCAIS..  (Letto 74210 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 05, 2010, 08:08:40 am »

Il “partito dell’amore” tra Orwell e Ceaucescu

di Paolo Flores d’Arcais,
da "Il Fatto Quotidiano", 2 gennaio


Quella del “Partito dell’amore” è una trovatina che farebbe acqua perfino nella più insulsa comicità da oratorio o nel più triviale umorismo da Bagaglino. Da scompisciarsi per la vergogna, insomma. Se i media la prendono per buona è solo in virtù (cioè in vizio) di un controllo ormai orwelliano – alla lettera – esercitato dal regime sui canali televisivi. Al punto che Berlusconi, vittima del dissennato lancio di souvenir da parte di uno psicolabile, pretende oramai alla santificazione, nemmeno avesse ricevuto le stigmate. A quando il moltiplicarsi delle reliquie, le boccette di terra di Arcore, le spine di cactus di Villa Certosa, i preservativi di Palazzo Grazioli? La vendita delle indulgenze è invece fiorente da tempo.

Siamo alla pretesa di un culto della personalità rivoltante, in perfetto stile Ceausescu. Del resto, la definizione di Berlusconi come un “Ceausescu buono” è del suo fedelissimo Confalonieri, che lo conosce da una vita e sa quel che dice. E che per correggere l’incresciosa definizione ha spiegato che voleva intendere uno “tipo il Re Sole”! Se questo è Berlusconi, uno che si crede il Re Sole, perché nella prossima riforma istituzionale bipartisan, non si stabilisce che l’inquilino di Palazzo Chigi venga sorteggiato fra quanti, scolapasta in testa o meno, credono di essere Napoleone? C’è poco da scherzare, infatti. Siamo al delirio quotidiano, reso possibile da una menzogna mediatica talmente onnipervasiva che ha trasformato in realtà l’incubo orwelliano della neolingua, nella quale le parole “significavano quasi esattamente l’opposto di quel che parevano in un primo momento” – il mafioso diventa eroe, l’odio amore, la latitanza esilio – ma il cui fine “non era soltanto fornire un mezzo di espressione alla concezione del mondo del Regime, ma soprattutto rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”.

Ci siamo già dentro, se i Galli della Loggia, Panebianco e altri Ostellino insistono dal pulpito sempre più teocon del Corriere della Sera a farfugliare la leggenda nera delle colpe della sinistra, ostaggio dei “cattivi” (Travaglio, Di Pietro, Santoro. E i magistrati che non guardano in faccia a nessuno, naturalmente) perché non ancora sufficientemente conquistata all’amoroso arrembaggio bipartisan contro la Costituzione repubblicana. Proviamo perciò ad uscire dall’incantesimo totalitario della neolingua (“altre parole erano ambivalenti e avevano significato positivo se applicate al Partito e ai suoi membri e negativo se applicate ai loro nemici”). In buon italiano le cose stanno così: lasciati definitivamente alle spalle gli anni di piombo – Brigate rosse e stragi di Stato – nella politica del nostro Paese l’odio era per fortuna e da tempo solo un ricordo. I politici godevano di un crescente disprezzo, a dire il vero meritatissimo, ma nulla di più.

È stato Berlusconi, solo ed esclusivamente Berlusconi, con i suoi alleati e signorsì mediatici, a reintrodurre nella vita pubblica questo sentimento. E nel momento di più autentica pacificazione, gli esordi di Mani Pulite, quando ogni sondaggio raccontava l’afflato quasi unanime del Paese intorno ai magistrati del pool di Borrelli, che applicavano senza sconti la stella polare di ogni liberaldemocrazia, la legge eguale per tutti. In quel corale anelito del Paese per fare pulizia di corruzione e altra criminalità politica, se vi fu qualche voce stonata, inclinante all’odio, non fu certo il tintinnar di monetine di fronte all’hotel Raphael, innocua manifestazione di disprezzo per il partitocrate Craxi, ma il cappio sventolato in parlamento da quelli che col tempo sono diventati alleati “perinde ac cadaver” del berlusconiano “Partito dell’amore”, attraverso una sequenza di amorevolezze in dolce stilnovo, pulirsi il culo col tricolore e far pisciare maiali su terreni destinati a luogo di culto religioso.

È Berlusconi e solo Berlusconi, con i suoi alleati e signorsì mediatici, ad aver di nuovo trasformato in nemici gli avversari politici.

E, prima ancora, i più onesti servitori dello Stato, i magistrati integerrimi che non si facevano piegare né da minacce né da lusinghe (e magari scoprivano e dunque incriminavano i loro colleghi corrotti proprio dalle aziende di Berlusconi). È questo mondo che ha inveito al grido di “killer”, dai pollici catodici del santificando di Arcore, contro magistrati che nella lotta alla mafia rischiavano ogni giorno la vita. Mentre ad Arcore, non ancora Unto del Signore, il signore della menzogna televisiva aveva già tenuto come commensale uno stalliere poco aduso ai cavalli, Attilio Mangano, che finirà i suoi giorni all’ergastolo per mafia. A meno che i “cavalli” di Mangano non fossero le partite di droga, come sostenuto da Borsellino nella sua ultima intervista, in cui fa anche i nomi di Dell’Utri e Berlusconi.

È Berlusconi che ha radunato la piazza intorno a una gigantesca bara che auspicava la morte di un imbelle Prodi. Inutile continuare: grazie a Travaglio e Gomez i lettori di questo giornale hanno trovato un elenco assai ampio – e tuttavia niente affatto esaustivo – delle sistematiche manifestazioni di odio con cui Berlusconi ha imbarbarito lo scontro politico. Nulla di tutto ciò sanno invece quanti traggono l’informazione esclusivamente dai telegiornali, circa nove italiani su dieci. Ed è allucinante che nel maggiore (speriamo ancora per poco) partito di “opposizione” si continuino a considerare democratiche delle competizioni elettorali che si svolgono dentro questo incubo orwelliano, trasformato in realtà anche per la loro acquiescenza. Del resto, è il mondo berlusconiano che ha cancellato dalla scena pubblica (che oggi quasi coincide con quella televisiva) ogni residuo di argomentazione razionale, addestrando allo squadrismo dell’interruzione e del “man-darla in vacca” manipoli di cloni della menzogna über alles (“al membro del partito” si richiede la capacità di “esprimere opinioni corrette in modo automatico, come un fucile mitragliatore una scarica di pallottole… Si sperava, da ultimo, di far articolare il discorso nella stessa laringe, senza che si dovessero chiamare in causa i centri del cervello”).

Questo odio si è fatto programma, reso esplicito di fronte ai parlamentari europei del Partito popolare (l’internazionale Dc, per capirsi): violentare la Costituzione repubblicana fino a sfigurarla, col vetriolo che costringa la “balance des pouvoirs” di magistrati e giornalismo al bacio della pantofola verso un governo “legibus solutus”. Il totalitarismo mediatico della menzogna onnipervasiva per tornare indietro di oltre tre secoli, prima di Jefferson e Montesquieu, in una parodia degradante e vomitevole della corte di Versailles.

L’odio berlusconiano contro la Costituzione – fondamento della nostra convivenza civile, che nasce dalla Resistenza, “questo patto/giurato fra uomini liberi/che volontari si adunarono/per dignità e non per odio” immortalato da Piero Calamandrei – è talmente attivo che ha costretto un cautissimo Presidente della Repubblica a denunciare il “violento attacco contro le fondamentali istituzioni di garanzia” perpetrato da Berlusconi, e un ondivago Fini a intimare “chiarimenti” (ma prendersi in risposta lo sputo di un “basta ipocrisie”, e rientrare nei ranghi).

È dunque da quella solenne – e colpevolmente rimossa – denuncia di Napolitano che l’Italia non ancora mitridatizzata nel gorgo orwelliano del totalitarismo televisivo deve ripartire (e il suo Presidente per primo): fermare l’odio significa infatti fermare questa violenza contro la Costituzione, le leggi ad personam e altri “vulnera”, non firmarle, e prima ancora non votarle.

(4 gennaio 2009)
da temi.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 16, 2010, 11:59:04 am »

30 gennaio e 6 marzo, il popolo viola torna a manifestare

Pubblichiamo un commento di Paolo Flores d'Arcais sulle prossime mobilitazioni decise dal popolo viola.

E, a seguire, una lettera di precisazioni da parte del "coordinamento viola" e la risposta del direttore di MicroMega.

di Paolo Flores d'Arcais, da "il manifesto", 12 gennaio

Il movimento viola (quello della straordinaria manifestazione del 5 dicembre) ha riunito sabato scorso a Napoli i suoi rappresentanti. In realtà un movimento, a differenza di un partito o di un corpo elettorale, non può essere «rappresentato», i viola sono i primi a saperlo. Un movimento non è un insieme definito di persone, abitanti di una circoscrizione o titolari di una tessera. È un insieme indefinito di lotte: gli unici che lo rappresenteranno davvero saranno i promotori delle battaglie di domani. Ma questo, ripeto, mi sembra che i viola siano i primi a saperlo.

Tanto è vero che la loro giornata di confronto si è conclusa con quattro decisioni: un più ampio incontro nazionale di rappresentanti per il 20 marzo, ma solo a conclusione di due scadenze di lotta, una a fine gennaio, con presidi simbolici in difesa della Costituzione davanti alle prefetture e una il 6 marzo, una giornata nazionale che dovrebbe replicare per importanza, ma con modalità differenti, il milione e mezzo di persone in piazza il 5 dicembre. La quarta decisione è un coordinamento di sette persone, in funzione di queste scadenze e a garanzia della più ampia circolazione di idee e informazioni sugli strumenti web del movimento (il facebook del popolo viola, per dire, ha quasi duecentomila iscritti, quello specifico per la manifestazione circa mezzo milione).

Queste decisioni, sobrie e precise, fanno ben sperare, e invitano a qualche riflessione: partecipata e coinvolta. Il movimento ha evitato il ripiegamento autoreferenziale, le fiaccanti elucubrazioni sulla propria identità, e si è concentrato sulle future iniziative. Le uniche, del resto, che ne definiranno l'identità e la capacità di avere un futuro. Contraddittorio, da questo punto di vista, è, semmai, il ventilato «manifesto viola» che dovrebbe essere elaborato (da chi?) nei prossimi giorni. Che senso ha, quando si è detto e ribadito che la difesa e realizzazione della Costituzione repubblicana è la stella polare del movimento? Elencare i valori che sono alla base della Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista, è sempre un esercizio utile. Ma a parole tutti sono deferenti verso quei valori, salvo poi calpestarli nella pratica. Un manifesto avrebbe senso perciò solo se, in coerenza con quei valori, delineasse un articolato progetto politico per il futuro, ma il movimento rifiuta - almeno per l'oggi, e ragionevolmente - una dimensione che lo trasformerebbe in qualcosa di simile a un partito.

Il vero manifesto viola saranno perciò le iniziative di lotta a cui il neonato coordinamento chiamerà i cittadini. La prima è fra poco più di due settimane. Sarà necessariamente simbolica e non di massa, ma ciò non significa che non possa diventare rilevante (come quella che ha visto qualche giorno fa a Milano la società civile protestare contro la minacciata «via Craxi»). Le modalità dei presidi costituzionali davanti alle prefetture sono ancora vaghe, speriamo che la fantasia del tam tam su internet produca anche questa volta innovazioni interessanti.

Inutile nascondersi, però, che il banco di prova e la cartina di tornasole sarà la nuova giornata nazionale del 6 marzo. Media di regime e simpatizzanti di ogni inciucio saranno pronti a cogliere qualsiasi sintomo di indebolimento rispetto al clamoroso successo del 5 dicembre. E non basterà neppure che quel successo venga ripetuto (benché sarebbe la dimostrazione di una straordinaria vitalità dell'opposizione civile che anima il paese). Purtroppo queste iniziative subiscono la logica delle utilità marginali: decrescenti, se non riescono ogni volta a produrre qualcosa di «più» e di «nuovo».

Il popolo viola, perciò, se vuole avere un futuro da protagonista, deve attrezzarsi a vincere questa sfida, a fare del 6 marzo una giornata di festa e di protesta che sia più grande, più significativa, più incisiva di quella già straordinaria del 5 dicembre. Che abbia, per dirla senza perifrasi, maggior peso politico. Le idee fin qui fatte trapelare sono suggestive ma vaghe, una rete che non più su internet ma fisicamente, tra città e città (lunghe catene umane, c'è in questo innegabilmente una certa eco dei girotondi, su scala moltiplicata) unisca i cittadini in un web sul territorio, a difesa della Costituzione e delle sue istituzioni (l'autonomia dei suoi magistrati, in primo luogo).

Credo sarebbe però opportuno che il tema della difesa della Costituzione diventi d'ora in avanti quello della realizzazione della Costituzione. I cui valori sono largamente disattesi. E in qualche caso addirittura contraddetti nella stessa Costituzione (vedi articolo 7, Concordato). Ma soprattutto, sarà decisivo che i viola sappiamo coinvolgere nella giornata del 6 marzo tutte, ma proprio tutte, le forze di opposizione civile presenti (e troppo spesso latenti) nella società italiana. Che sappiano trovare
le forme convincenti per qualcosa che vada oltre l'appello generico agli intellettuali, alla cultura-scienza-spettacolo.

Qualcosa che riesca invece a coinvolgere direttamente questi mondi - non attraverso qualche singolo esponente, ma con la stragrande maggioranza degli artisti, scienziati, filosofi - nella preparazione e realizzazione della giornata. E che lo stesso coinvolgimento, la stessa con-partecipazione protagonista, sappia realizzare con le lotte sociali che si vanno moltiplicando nel silenzio censorio dei media, e con i (non molti) settori sindacali che non le trascurano. Una giornata che veda infine nelle piazze gremite di tutte le città capoluogo di ogni regione, fra loro collegate, l'intera Italia civile unita intorno al progetto Costituzione e dunque contro l'attuale regime.

I rappresentanti viola hanno già dimostrato di sapere mantenere nei confronti dei partiti l'atteggiamento più equilibrato: chiedere senza complessi e pubblicamente il massimo sostegno finanziario e organizzativo (del resto i soldi che ai partiti arrivano sono i soldi degli elettori, i nostri soldi), anche ribadendo che dai palchi si esprimerà la società civile e non i partiti (i cui leader più intelligenti sanno del resto che saranno comunque interpellati dai media). E sottolineando le contraddizioni di quelle forze che, pur dichiarandosi di opposizione, non volessero dare alla manifestazione autonoma il doveroso sostegno materiale e morale.

Al 6 marzo mancano sette settimane e mezza. Non molto, per realizzare «più» del 5 dicembre. Speriamo che già nei prossimi giorni la rete viola sappia muoversi nella giusta direzione, dimostrandosi un vero catalizzatore dell'Italia civile.


---


Lettera aperta a Flores D'Arcais del "coordinamento viola"

Caro Paolo,
abbiamo letto il tuo intervento apparso sul Manifesto del 12 gennaio e che sta girando in rete in queste ore e vorremmo fare alcune precisazioni.
Noi abbiamo lanciato la manifestazione del 30 gennaio in difesa della Costituzione per far sì che sia un grande successo di mobilitazione nazionale. Leggiamo che tu la consideri “costituita da presidi simbolici e non di massa”, ma crediamo che tu abbia interpretato male la volontà sancita anche dalla decisione dell'Assemblea nazionale di Napoli.
In quella sede è stato stabilito che l'iniziativa del 30 gennaio sia l'inizio di un percorso che vede nel sancire l'applicazione delle regole costituzionali un unico obiettivo.
Quindi dire – come tu fai – che il 30 gennaio “sarà una manifestazione costituita da presidi simbolici e non di massa e quella del 6 marzo, viceversa, la cartina al tornasole dello stato di salute del Popolo Viola” è un equivocare le vere intenzioni che ci hanno motivato ad indire le iniziative.
D’altra parte, pensiamo che, né noi, né tu, né nessun altro, possa stabilire con tanta naturalezza, e a priori, quale delle due iniziative citate sia “la cartina di tornasole” e “il banco di prova” per il futuro del Popolo Viola.
Certo che vogliamo essere in tanti il 6 marzo. Ma vogliamo essere tantissimi il 30 gennaio e per questo ci stiamo adoperando assieme a centinaia di comitati locali del Popolo Viola e di altri nati spontaneamente per questa grande e per noi decisiva occasione.
Vogliamo riempire le piazze di ogni città d’Italia. Sempre… e sempre saranno i cittadini a decidere.
Noi crediamo che tu ci conosca abbastanza, avendoci sempre seguito, da sapere che siamo insofferenti, e ci scuserai per questo, a briglie di qualunque tipo.
Ci è difficile comprendere perché la manifestazione "Un sit-in in difesa della Costituzione" debba "necessariamente" essere simbolica.
Ci dici che se la nostra manifestazione diventerà rilevante potrà essere paragonata alla manifestazione contro la minacciata via di Craxi. Noi avremmo altre speranze. Noi abbiamo supportato a spron battuto quella di Milano contro la via a Craxi, ma ammetterai che una manifestazione in tutta Italia, in tutte le città, se diventerà rilevante, avrà (e lo speriamo tutti) ben altra risonanza.
Noi vogliamo, come te (ne siamo sicuri) che il tema della difesa della Costituzione diventi d'ora in avanti quello della realizzazione della Costituzione e proprio per questo contiamo su di te e su MicroMega per sostenere con forza anche questa nostra grande iniziativa nazionale del 30 gennaio.

Un caro saluto,
Coordinamento nazionale Popolo Viola

---

La risposta di Paolo Flores d'Arcais

Cari concittadini del “coordinamento”, grazie per la lettera. Voi, e oltre un milione di italiani, tra cui io, essendoci impegnati nella entusiasmante manifestazione del 5 dicembre, apparteniamo tutti al popolo viola, e che nessuno fra noi soffrirebbe “briglie” da parte di nessun mi sembra talmente ovvio che suona ridondante. Tutti, nel popolo viola, dobbiamo avanzare proposte, suggerimenti, critiche.
L’assemblea di delegati ha proposto due scadenze di lotta, una più riavvicinata e una più lontana, dando l’impressione (non solo a me, ma a tutte le persone con cui ne ho parlato) di proporre un “crescendo”. Del resto è semplice buon senso, è difficile svolgere in due settimane e in due mesi lo stesso sforzo organizzativo. Mi auguro anche io che già il 30 gennaio la partecipazione sia molto grande, ma sarebbe irrealistico pensare che possa, con pochi giorni di tempo, bissare l’oltre un milione di partecipanti del 5 dicembre. Tutto qui.
Mentre continuo a pensare che per il 6 marzo quello debba essere l’obiettivo, altrimenti non solo i media ma gli stessi partecipanti non vivrebbero la giornata come un successo. Perché, ci piaccia o meno, o un movimento si supera o rischia un declino. Penso che il 30 gennaio un’idea potrebbe essere di chiamare i migliori attori italiani a leggere integralmente la Costituzione di fronte alle prefetture “presidiate”. Aspetto l’appello del “coordinamento” per il 6 marzo, che è stato annunciato, per ogni altra idea e proposta, MicroMega ed io (come migliaia di concittadini) ci sentiamo già mobilitati, come parte del popolo viola, per la riuscita delle due manifestazioni.
Finché c’è lotta c’è speranza.
Un abbraccio
Paolo Flores d’Arcais

(13 gennaio 2010)
da temi.repubblica.it/micromega-online
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 20, 2010, 05:38:52 pm »

A due passi dalle acque cristalline dei caraibi, centinaia di camion portano i cadaveri

Si scava con le ruspe e si sepellisce in fretta. Uno scenario apocalittico

Fosse comuni a due passi dal mare E' Titanyen, la collina dei morti

In questo luogo  i killer al servizio dei Duvalier portavano le loro vittime


dal nostro inviato ALBERTO FLORES D'ARCAIS


TITANYEN - Il camion bianco ha finito di scaricare i cadaveri nella profonda buca di venti metri quadrati, la grande ruspa gialla li copre con il terreno fangoso. Prima di scomparire risucchiati nella terra sono un groviglio informe di corpi decomposti, gambe che si intrecciano, i colori lividi della morte.

Titanyen, quindici chilometri a nord di Port-au-Prince è l'ultima destinazione per le decine di migliaia di vittime del terremoto, il popolo dei diseredati, quelli senza identità e quelli che un nome lo hanno ma il funerale, con i fiori, i parenti e gli amici non lo avranno mai.

Le grandi fosse comuni si stendono su una collinetta a duecento metri dal mare. Se guardi da un lato vedi l'acqua azzurra e limpida, di fronte una dozzina di isolotti verdi, una spiaggia, il tipico paradiso caraibico; se ti volti dall'altro vedi pile di cadaveri ammucchiati in attesa che la terra li copra per l'eternità, senti il terribile odore della morte, lo stesso che si respira in mezzo ai detriti di Port-au-Prince. Un confronto che fa impressione.

"Quanti? E chi lo può dire". La donna in tuta arancione che muove la ruspa è al suo secondo giorno di questo triste lavoro: "Ne arrivano a centinaia, ieri quaranta-cinquanta camion. Cerchiamo di fare tutto il più velocemente possibile, è una zona isolata, non abbiamo problemi, anche se i curiosi come vede non mancano". I curiosi sono due dozzine di ragazzi e un paio di vecchi, che indicano altre fosse più piccole un centinaio di metri più avanti, in una buca che sembra scavata con le mani ci sono solo due corpi imputriditi mangiati dagli animali. Di loro non sembra occuparsi nessuno.


La collina di Titanyen la conoscono tutti. Perché sotto quelle tonnellate di terra non ci sono solo i morti del terremoto. Le fosse comuni di oggi sono state scavate su altre fosse comuni, quelle delle migliaia di oppositori della dittatura Duvalier (padre e figlio) che per tre decenni ha spadroneggiato ad Haiti, facendo massacrare dai machete dei Tonton Macoutes chi non si piegava.

Al burocrate governativo che ha scelto il luogo deve essere sembrata la soluzione più semplice, fosse comuni su fosse comuni. "Abbiamo iniziato da venerdì, io ho fatto avanti e indietro almeno dieci volte, ne avremo portati almeno trentamila".

L'autista del camion bianco si abbassa la mascherina, "i cadaveri li raccogliamo lungo le strade di Port-au-Prince, quelli che ci vengono segnalati e quelli che troviamo per caso. I familiari? Quelli che aspettano vegliando i corpi spesso ci chiedono di venire, ma naturalmente non è possibile. Per la grande maggioranza non c'è nessuno. Guardi laggiù il mare che bello, lo sa che questo è un luogo che porta fortuna?".
Non è una battuta quella dell'autista, le acque turchesi lì a poche decine di metri e quella piccola insenatura sono il luogo dove i più disgraziati vengono a bagnarsi, una vecchia credenza popolare dice che se hai perso il lavoro o l'amore, se sei malato, un bagno a "source piante" ti toglierà il malocchio. "È vero", conferma la donna della ruspa, "c'è sempre gente che viene qui, anzi veniva. Con quello che è successo, adesso dovrebbe venire l'intera città. Invece arrivano solo i morti".

Secondo le prime confuse stime a Titanyen sono stati seppelliti almeno quarantamila dei settantamila morti accertati, un numero che è a sua volta un terzo di quello reale (oltre duecentomila) stimato dagli americani. Difficile giudicare da quello che si vede qui, alcune fosse sono molto grandi, anche se ricoperte se ne possono intuire i contorni, altre sono più piccole. Poco più in là un'altra ruspa scava per prepararne di nuove, profonde circa tre metri.

Cinquantamila seppelliti senza un funerale, spesso senza un'identità, cosa che ad Haiti non si dovrebbe fare mai. Va contro la religione maggioritaria, un misto di cattolicesimo e credenze vodoo; non avere un funerale coi fiocchi, quello in cui i poveracci finiscono per spendere tutto quello che hanno, rende impossibile la comunicazione tra chi resta nel mondo terreno e chi va nell'aldilà. In un paese dove l'aspettativa di vita è poco sopra i quarant'anni e che ha una mortalità infantile altissima, la morte e i suoi rituali sono pane quotidiano.
"Li seppelliscono come animali", scuote il capo il vecchio che con un lungo bastone cerca chissà che in mezzo ai sassi e alla sterpaglia, "solo i ricchi muoiono bene". I ricchi sono quelli che oggi possono permettersi un funerale, una bara di legno e i fiori rossi, quelli che ottengono il permesso impossibile di far entrare i propri cari al cimitero in mezzo alla città.

Ufficialmente non c'è più un posto disponibile, ma lungo la "Rue de l'Enterrement", la strada delle pompe funebri che arriva fino al cimitero cinque bare sono in mezzo alla strada in attesa del proprio turno.
Davanti l'ingresso del camposanto anche il guardiano conferma ("non ci sono posti"), ma poi indica col cenno del capo un gruppo di persone che sono in attesa di entrare. In mezzo a loro è poggiata a terra una bara di metallo, fra pochi minuti almeno uno tra le migliaia di morti avrà una sepoltura come si deve.

 

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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 04, 2010, 12:15:49 am »

Flores d’Arcais: Caro De Magistris in Campania adesso tocca a te



di Paolo Flores d'Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 3 febbraio 2010

Dalla farsa alla tragedia: questo rischia di diventare l’appuntamento elettorale in Campania. Il regime di Berlusconi voleva candidare l’on. Cosentino, su cui pende un mandato d’arresto per camorra confermato dalla Cassazione. Ha deciso di soprassedere, ma solo per far scegliere a Cosentino medesimo da chi farsi sostituire.

Un gioco da ragazzi, perciò, per un’opposizione appena dentro la media del quoziente d’intelligenza: si presenta un candidato ineccepibile quanto a moralità ed efficienza, e si vince in carrozza. Ma nel Pd il segretario Bersani è evidentemente intenzionato a strappare a D’Alema l’oscar della stupidità politica, e quindi in Campania ha candidato il dalemiano De Luca, due rinvii a giudizio per associazione a delinquere, concussione, falso e truffa. Avremo perciò il mondo alla rovescia: un candidato di Berlusconi incensurato e un candidato “democratico” azzoppato in partenza dai carichi processuali. Ci vuole genialità per farsi del male in questo modo.

Questo scempio può essere ancora fermato. La farsa, anziché in tragedia, può trasformarsi in speranza. Luigi De Magistris deve annunciare la sua candidatura. Le personalità pubbliche della Campania democratica devono attivarsi con un’ondata di pressioni tale da costringerlo, il “popolo viola” deve aprire su Facebook “De Magistris candidato” che con un’alluvione di adesioni lo spinga a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”.

Di fronte alla candidatura De Magistris, anche gli strateghi del Pd potrebbero capire che alla sconfitta certa di un bi-rinviato a giudizio, e conseguente sputtanamento del partito, è preferibile puntare sulla vittoria di un ex magistrato che difende la Costituzione. Se poi decidessero per il “perseverare diabolicum”, De Magistris e la sua lista di società civile renderebbero comunque una vittoria di Pirro il trionfo annunciato del regime e della Camorra. Il candidato di Cosentino non raggiungerebbe la maggioranza assoluta, e il successo di De Magistris su De Luca aprirebbe, dopo la disfatta di D’Alema di fronte a Vendola, una pagina interamente nuova per l’opposizione democratica.

De Magistris ha ribadito la necessità di un “nuovo inizio”, che oltre l’Idv coinvolga associazionismo laico, base Pd, Sinistra radicale, “grillini”, insomma la società civile che resiste. Parole sacrosante, parole da leader. Ma leader si diventa con l’azione, e oggi l’emergenza democratica si chiama Campania. Concittadino De Magistris, non puoi sottrarti.

(3 febbraio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/flores-darcais-caro-de-magistris-in-campania-adesso-tocca-a-te/
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 25, 2010, 09:42:15 am »

Annozero e l'aggressione a Marco Travaglio

È ora di dire basta allo squadrismo tv

di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto Quotidiano, 21febbraio 2010


Questo giornale ha dovuto rammentarlo fin troppe volte: anche i rarissimi spazi televisivi non ancora appaltati al minculpop berlusconiano sono sistematicamente teatro di squadrismo mediatico, che tenta censura e bavaglio contro quanti – pochissimi – si ostinano ad argomentare razionalmente anziché berciare a dieci decibel.

L’aggressione di cui è stato oggetto Marco Travaglio nell’ultima puntata di “Anno Zero” è solo l’ennesimo episodio, benché il più grave perché insistito e consentito oltre ogni limite di decenza. Lo squadrismo mediatico funziona così: a chi prova con l’argomentazione razionale, e quindi rischia di convincere qualche milione di concittadini, il berlusconiano d’ordinanza tappa la bocca con l’olio di ricino della glossolalia di regime (glossolalia: s.f. La coniazione, talvolta patologica, di associazioni sillabiche prive di senso. Devoto-Oli, dizionario della lingua italiana) o col manganello di ingiurie e false accuse, vomitate come un mantra. Mai che ad una argomentazione, fatta esprimere liberamente e ascoltare compiutamente, la “mascherina” di regime risponda con una argomentazione. La sua unica argomentazione è l’interruzione, la potenza delle corde vocali a surrogato dell’impotenza della ragione.

Che senso ha, con questo andazzo, discutere ancora di par condicio? Perché si tollera, anche nelle ultime “riserve” di un giornalismo ormai in estinzione, la censura contro chi è ancora pensante, e vuole praticare il dialogos ad armi pari? Perché anche questo genere di ospite non viene garantito nel suo diritto alla parola? Chi vuole imporre la violenza della censura dovrebbe esserne impedito, e nulla è tecnicamente più facile da realizzare in uno studio televisivo. Basta che il microfono aperto, oltre al conduttore, lo abbia un ospite alla volta, è la scoperta dell’acqua calda.

E per favore non si tiri fuori la solfa che una trasmissione in cui ci si alterna a ragionare, senza schiamazzi e aggressioni, sarebbe noiosa. E’ vero il contrario, lo squadrismo mediatico che imbavaglia l’altrui parlare col rumore del proprio nulla belluino, toglie a chi ascolta il piacere di assistere ad una vera controversia, niente affatto “pacata”, aspra e anzi asperrima di giudizi e di argomenti, e di farsi poi una propria ponderata opinione. Sia chiaro, lo squadrismo fisico è, per un individuo che lo subisca, assai peggiore di quello mediatico. E ancora non siamo a tanto. Ma dal punto di vista degli effetti politici quello mediatico è equivalente. E se lo si lascia tracimare prepara il terreno per lo squadrismo tout court.

In passato, amici con cui ho sollevato questo tema hanno avanzato una variante dell’argomento del “male minore”: se i conduttori delle rare trasmissioni ancora di giornalismo, anziché di regime, si azzardassero a impedire le interruzioni-bavaglio dei Berlusconi-boys, anche le ultime “riserve wwf” del giornalismo-giornalismo televisivo verrebbero immediatamente chiuse. Questo argomento (come del resto tutta la tastiera del “male minore”) non mi ha mai convinto.

La volontà del regime, di chiudere ogni spazio che non sia prono al capovolgimento orwelliano della realtà, è conclamata. Ad arginarla sono solo le pressioni dell’opinione pubblica (oltre alle sentenze della magistratura). Non cedimenti corrivi ai rissosi del wrestling propagandistico e altri energumeni del “meno male che Silvio c’è!”. Anzi, un po’ di “immaginazione democratica” potrebbe tentare una meritoria operazione “ex malo bonum”, di fronte al tentativo della Commissione parlamentare di vigilanza di ostracizzare durante il periodo elettorale le poche trasmissioni non ancora minzolinizzate. L’on. Marco Beltrandi, radicale, relatore sulla misura in questione, ad una mia precisa domanda risponde via mail (scripta manent): “sicuramente le trasmissioni di approfondimento se scegliessero di non ospitare politici potrebbero andare in onda senza problemi”.

Perché non approfittarne? Perché anzi non rendere stabile una situazione che oggi potrebbe essere assunta per dribblare un diktat censorio? I politici, infatti, dovrebbero parlare con il loro agire, non con gli effetti annuncio delle chiacchiere televisive, smentite da chiacchiere altrettanto “solenni” del giorno dopo. Del resto, le “trasmissioni di approfondimento” si differenziano da quelle di “comunicazione politica”, secondo la classificazione ufficiale della Commissione di vigilanza, proprio per l’assenza dei politici. Ecco, trasmissioni di approfondimento, cioè discussioni di politica senza politici, e senza bavagli da interruzioni squadriste: sono certo che anche l’Auditel salirebbe.

(22 febbraio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/e-ora-di-dire-basta-allo-squadrismo-tv/
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 25, 2010, 06:00:14 pm »

Annozero e squadrismo tv

Lesa maestà catodica.

Colombo e Flores d’Arcais rispondono a Santoro   

da il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2010

MA LE CRITICHE SONO ANCORA LECITE?

di Paolo Flores d’Arcais

Michele Santoro ha totalmente ragione. Poiché mi sono permesso una critica e un suggerimento alla sua “gestione” degli ospiti di “Anno zero”, dove alcuni invitati tolgono ad altri il diritto alla parola con interruzioni ininterrotte, insulti ululanti e sovrapposizione di voce, Michele Santoro ha decretato che sono “un membro perfetto dell’Agcom” (non ho idea di cosa sia, ma è certamente una cosa brutta) e “un apologeta del Berlusconi-pensiero sul ‘pollaio’”.

Ben mi sta. Ho commesso il delitto di lesa Maestà catodica (ormai anzi al plasma), ho dimenticato che un conduttore di programma televisivo è come lo zar autocrate di tutte le Russie, solo lui conosce cosa sia il bene del suo popolo, e chi si azzarda a qualcosa che ecceda l’umile supplica è ipso facto un malvagio (in questo caso un apologeta del Berlusconi-pensiero). Non provo neppure a scusarmi, il delitto di lesa Maestà è per definizione e da secoli inescusabile in terra, come inespiabile è in cielo quello contro lo Spirito.

Del resto, per una buona confessione, come ci hanno insegnato al catechismo, non basta la contrizione per la colpa commessa, è necessario anche il “fermo proposito” di non peccare più, e io credo che invece mi capiterà ancora di inciampare nel temerario pensiero che tutte le Maestà, e financo i conduttori televisivi, siano esseri umani fallibili e limitati come noi, polvere che tornerà polvere, e dunque scambiarsi critiche e suggerimenti sia la normalità di una civile esistenza.

Perché il problema esiste, anche se Michele Santoro prende cappello al solo menzionarlo: un ospite che impedisce ad un altro ospite di argomentare, sovrapponendo la sua voce, le sue interruzioni sguaiate, i suoi insulti bercianti, realizza lavoro di censura che spesso sconfina in un vero e proprio manganello e olio di ricino mediatico.
Cose che accadono sempre più spesso, e sempre in una sola direzione, con “personaggi” ormai perfettamente addestrati al ringhiare e ragliare che imbavaglia l’opinione altrui e comunque schiaccia sul nascere ogni possibilità di controversia “ad armi pari”.

Suggerire di far qualcosa perché il confronto anche il più aspro avvenga invece sempre per argomentazione razionale e nel rispetto delle “modeste verità di fatto” (in mancanza del quale rispetto, scriveva Hannah Arendt, il totalitarismo è già in marcia) non mi sembra un bizzarro chiedere la luna, ma l’abc della democrazia liberale. E forse anche della buona televisione.

Michele Santoro ha il merito di fare dell’ottima televisione, con inchieste giornalistiche esemplari. E tanto più il suo lavoro è meritorio in quanto, nel deserto informativo dell’Impero berlusconiano, senza Gabanelli, Iacona e Santoro gli italiani che non leggono un quotidiano (nove su dieci) nulla verrebbero a sapere del groviglio di cloache sulle quali poggia lo sbrilluccichio di cartapesta dell’Italia raccontata minzolinescamente, groviglio che sta portando rapidamente allo smottamento definitivo del paese.

Proprio perché ha saputo innovare e fare scuola sul giornalismo d’inchiesta, però, Michele Santoro potrebbe riflettere se non valga la pena inventare e sperimentare inedite modalità di “gestione” degli ospiti, che realizzino davvero e per tutti il diritto all’argomentazione. E che magari avrebbero il plauso di milioni di cittadini telespettatori. E che in un vicino domani potrebbero a loro volta essere considerate esemplari. Michele Santoro non accresce invece i suoi già cospicui meriti o la sua autorevolezza, se reagisce alle critiche e ai suggerimenti con l’albagia e gli anatemi di un Bruno Vespa qualsiasi.

p.s.
Michele Santoro ha iniziato la sua risposta a Marco Travaglio scrivendo che “siamo diversi e con diverse opinioni su molte cose: legalità, moralità, libertà e televisione”. Trascuro la televisione, metto tra parentesi le libertà e la moralità, sul cui significato esistono discussioni che riempiono biblioteche, ma la legalità? Incuriosisce davvero in cosa possa consistere tale differenza, visto che la “opinione” di Marco in proposito è semplicemente e limpidamente quella standard di quanti si riconoscono nei valori della Costituzione repubblicana. E’ davvero e solo una curiosità, sinceramente e senza secondi fini.    
TALK-SHOW ÜBER ALLES


---


di Furio Colombo

Santoro, tante volte giustamente difeso in nome della libertà del suo lavoro e del suo programma, pensa che questa difesa sia una dichiarazione di sacralità, una sorta d’inchino collettivo.

Questa persuasione divide il mondo (o almeno la sua audience) in credenti e miscredenti. I miscredenti gli sono antipatici anche se hanno fatto la fortuna di Annozero. Per esempio Marco Travaglio, a cui Santoro sembra dedicare la classica frase delle aziende di Confindustria al bravo manager improvvisamente licenziato: “Mio caro, nessuno è indispensabile”. È una frase da Luiss nei giorni peggiori, ma a Santoro piace. E infatti nella sua lettera un po’ padronale così si rivolge – imprudentemente  – a Travaglio, la persona che gli spettatori di Annozero, il giovedì sera aspettano di più.

In questa lettera però il condottiero di Annozero non può perdonare la mancanza di adorazione neppure a chi, come Paolo Flores d’Arcais, ha riempito piazze e numeri di MicroMega in difesa di Santoro e della sua televisione. E a me dedica la frase che segue e che un po’ sfida il buon senso, un po’ la comune conoscenza dei fatti, un po’ il pubblico stesso di Annozero: “Un apologeta del Berlusconi-pensiero sul ‘pollaio’. Proprio come Furio Colombo e le sue invettive contro i talk-show”. Noto, con tristezza, l’uso della parola “invettiva” in luogo della parola   “critica”, un’involontaria concessione al linguaggio pacato di Bondi. Continua Santoro: “D’Arcais e Colombo sono convinti che debba regnare l’ordine del discorso (scritto) che, ovviamente per loro, non è quello del telegiornale di Minzolini ma quello di Report, celebratissimo esempio di trasmissione basata sul principio d’identità e non contraddizione”.

L’argomento è utile per capire. Contrappone chiarezza e contraddittorio, come se si trattasse di una scelta (o l’una o l’altro) tra incompatibili opposti e illustra i principi a cui Santoro (ma anche gli altri conduttori di talk-show) ispira il suo lavoro che sente come “insostituibile” e unico. Sulla qualità non c’è discussione. Persino Porta a Porta è un programma tecnicamente molto buono. E se si potessero doppiare gli interventi, come nei film americani, si avrebbe un buon programma. Quanto a Ballarò colpisce la felicità giovane e orgogliosa del conduttore Floris per il suo programma. Passeggia nell’etere di RaiTre con lo stesso gusto vincitore con cui si porta in giro in città la prima bella ragazza conquistata nella vita, esibita con un silenzioso e infantile “vedete? È mia!”.

Ormai bisogna valutare l’insieme di questi programmi perché l’oltraggio di non considerarli la fine del mondo dell’informazione politica li ha fortemente legati. Esempio: martedì sera (23 febbraio) Floris a Ballarò ha dato al suo programma una copertina alla copertina del bravissimo comico Crozza. Il protagonista era Roberto Natale (Federazione della stampa) invitato in modo un po’ perentorio a dire come sarà povera la televisione e il mondo quando Ballarò e i suoi fratelli saranno sospesi per insufficienza di rappresentanza politica. Al suo Ballarò, Roberto Natale se l’è cavata bene. Ha suggerito “grandi temi importanti per tutti senza invitare i politici”. Buona idea, non per far felice la Commissione di Vigilanza, non per antipolitica, ma per salvarsi dalla claustrofobia, unica in occidente, dei talk-show italiani.

Floris stava chiedendosi in pubblico e senza imbarazzo che cosa ci riserva il destino se improvvisamente dal Suo, o da altri programmi analoghi, mancassero “loro”. Chi sono loro? Sono “gli ospiti”, sono sempre gli stessi, chi per intere legislature, chi per lunghi anni, a cavallo fra un governo e l’altro.

Ed ecco gli ospiti di Floris la sera del 23 febbraio: Bersani (invece di Franceschini), Scaiola (invece di Bondi), Bocchino (invece di Cicchitto), Polito (invece di Adornato), Todini, giovane imprenditrice carina (invece di Guidi, giovane imprenditrice carina, invece di Marcegaglia che non può esserci sempre). Fate presto a immaginare i nomi di riserva, non più di dieci in uno stretto elenco senza eccezioni. Dai rispettivi elenchi nessuno   sgarra mai.

Floris si pone come fine massimo l’accostare le due parti e indurle a “fare insieme”. Vespa punta con accortezza al trionfo del regime. Santoro è un domatore nato: vuole scontro e sangue ma tocca a lui tenere a bada le belve. Delle eventuali vittime (la reputazione di Travaglio) gli importa poco. Ma le sue belve sono sempre le stesse, come gli ospiti del salotto di Vespa, una “short list” che fa ruotare sempre le stesse persone fidate, dieci politici su mille in servizio, e tutto il resto del mondo escluso. Infatti i conduttori, per sopravvivere, scelgono i politici assieme ai politici. E i politici scelgono sempre se stessi. Sicuro che non abbia ragione Roberto Natale quando dice: “Grandi temi, niente politici, come nei talk-show nel resto mondo”?

(25 febbraio 2010)
da http://temi.repubblica.it/micromega-online/lesa-maesta-catodica-colombo-e-flores-darcais-rispondono-a-santoro/
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 07, 2010, 11:41:28 pm »

Decreto salva liste, Flores d’Arcais: “Napolitano come Facta?”

di Paolo Flores d'Arcais

Voglio evitare in una situazione così drammatica dei toni che potrebbero sembrare esageratamente polemici. Ma non posso fare a meno di dire che il comportamento del presidente Napolitano ricorda in modo impressionante il comportamento del governo Facta ai tempi della marcia su Roma.

In un paese democratico esistono delle leggi, leggi che i politici stessi in Parlamento hanno fatto e che sono tenuti a rispettare.
Non è accettabile la logica che le leggi si fanno rispettare per i nemici e si interpretano per gli amici, perchè questa è la fine dello stato di diritto. Di fronte all'incapacità e alla cialtroneria di gruppi dirigenti regionali del partito di Berlusconi, che non sono riusciti a presentare regolarmente le loro liste, l'unica via da seguire era quella della legge, ovvero ciascuno ha diritto a fare dei ricorsi e vi sono dei magistrati deputati a decidere. Cercare di stravolgere questo procedimento democratico significa infliggere alla democrazia liberale un vulnus gigantesco.

Il fatto che poi si dica che le regole sono cose secondarie rispetto alla sostanza indica il baratro in cui ormai il nostro Paese è arrivato. Mi domando se non sarebbe responsabile da parte delle opposizioni dichiarare apertamente che in queste condizioni saranno loro a ritirare tutte le liste dalle elezioni e a non parteciparvi.

(6 marzo 2010)
da temi.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Maggio 03, 2010, 08:37:44 am »

Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2010


Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che il Papa voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso? Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”.

Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile.

Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend.

Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia.

E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile).

E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (…) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”.

Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale.

Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto.

Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)?

Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari.

Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime.

Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché…

(28 aprile 2010)
da temi.repubblica.it/micromega-online
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« Risposta #23 inserito:: Maggio 03, 2010, 08:40:02 am »

DISASTRO AMBIENTALE

Il Mississippi aspetta l'impatto

La Bp: "Cupola per imbrigliare la perdita"

Sul delta del fiume si attende con frustrazione l'arrivo della marea nera. Per i pescatori l'incubo della bancarotta totale.

La macchia continua a crescere. Oggi a Venice anche l'amministratore delegato della Bp

dal nostro inviato ALBERTO FLORES D'ARCAIS


VENICE - Migliaia di litri di solventi chimici versati in mare aperto e all'imbocco dei canali, barriere galleggianti che formano un muro di gomma sulla superficie delle acque, incendi in mare aperto. Sul delta del Mississippi si aspetta con ansia e frustrazione l'impatto della gigantesca marea nera e l'inevitabile disastro ambientale. La grande macchia continua a crescere, ha già superato i 10mila chilometri quadrati, ma a poche ore dall'arrivo del presidente Obama non ha ancora impattato in modo decisivo con le coste della Louisiana.

Gli sforzi per contenere il flusso di greggio ha prodotto per ora risultati limitati. Le fragili barriere naturali delle paludi del delta, il brutto tempo e le onde marine alte oltre due metri rendono tutto più complicato mentre cresce la rabbia della gente del luogo contro la British Petroleum (principale responsabile, anche per la reticenza iniziale) e la Casa Bianca, accusata di essersi mossa troppo in ritardo. Oggi il tempo peggiorerà ancora, su tutta la zona sono previste forti tempeste e anche il programma di Obama, che arriverà nella tarda mattinata, potrebbe subire qualche contrattempo.

E dalla Bp arrivano messaggi contraddittori. Uno dei più alti dirigenti ha detto al New York Times che il colosso petrolifero ha "usato praticamente tutti i mezzi a disposizione". Ma qualche ora dopo il colosso petrolifero ha annunciato che potrebbe andare a buon fine in una settimana il tentativo di ingabbiare la perdita con una cupola.

"Le coste sono state solo parzialmente toccate", sostiene l'ammiraglio Thad Allen, comandante della guardia costiera, da ieri capo dell'unità di crisi chiamata a gestire il disastro annunciato. Nelle sue parole non molto ottimismo: "Sono in corso operazioni massicce", ma è "logico" prevedere che la marea "arriverà sulla terraferma" e potrebbe anche "condizionare la navigazione in tutta l'area". Il vento che soffia da sudest la spingerà per settimane anche verso Mississippi, Alabama e Florida e nello scenario più drammatico potrebbe provocare un disastro ambientale fino alle barriere coralline delle Keys a sud di Miami.

Per i pescatori del delta del Mississippi l'incubo è quello della bancarotta totale e della perdita del lavoro per anni, se non per decenni, qualcuno ipotizza che potrebbe essere "peggio dell'uragano Katrina". Cercano di salvare tutto il salvabile, raccolgono i gamberi, le ostriche, i granchi prima che sia troppo tardi, molti hanno firmato un accordo con la Bp che gli ha offerto un lavoro temporaneo per "ripulire il mare", altri hanno rifiutato. In mare aperto le barche non ci vanno più, è possibile solo fare un giro di un paio d'ore lungo i corsi d'acqua che formano il delta del più grande fiume degli Stati Uniti e anche inoltrandosi un po' tracce del greggio non se ne vedono ancora. Come ancora non c'è traccia, aparte casi isolati che si contano seulle dita di una mano, di animali colpiti dalla marea. A Venice la situazione è un po' surreale, tutti sanno quello che sta per accadere ma di visibile c'è poco o nulla.   

Oggi, quasi in contemporanea all'arrivo del presidente americano, sarà a Venice anche l'amministratore delegato della Bp. I costi che la società petrolifera è chiamata a sostenere sono immensi, oltre un milione e mezzo di dollari al giorno solo per tamponare l'avanzata della marea e decine di cause collettive che potrebbero costargli diversi miliardi di dollari.

Il governatore repubblicano della Louisiana Bobby Jindal si è fatto paladino della rabbia della gente accusando la Bp ma anche la Casa Bianca. "Sono stanco di aspettare che Bp tiri fuori un piano e che la guardia costiera lo approvi, faremo il possibile per proteggere le nostre coste anche a costo di farlo da soli". Per Jindal, che potrebbe essere un candidato repubblicano alla presidenza nel 2012, la marea nera "rappresenta "una minaccia non solo per le nostre coste ma anche per la nostra cultura e il nostro modo di vita".

Come è stato possibile arrivare a questo punto? Come si può fermare il disastro prima che diventi ancora peggiore? Sono queste le due domande che tutti si fanno e a cui nessuno è stato ancora in grado di dare una risposta e che provocano le proteste della gente della Louisiana e degli altri Stati coinvolti. Ieri sera la guardia costiera ha ammesso che è "praticamente impossibile" quantificare le migliaia di barili di greggio che fuoriescono dalla piattaforma affondata. Si era partiti con mille, poi cinquemila, adesso potrebbero essere tre o quattro volte tanto. Se, come ha previsto Hans Graber, oceanografo  del Center for Southeastern Tropical Advanced Remote Sensing dell'Università della Florida, la marea nera dovesse essere intercettata dalla corrente del Golfo, il disastro ambientale non si fermerà fino all'Oceano Atlantico: "non è più questione di se ma è questione di quando".

(02 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/05/02/news/obama_louisiana-3758614/
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« Risposta #24 inserito:: Maggio 16, 2010, 11:53:36 am »

Governissimo, sì o no?

Dibattito tra Paolo Flores d’Arcais e Luca Telese

da Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2010



Transizione necessaria
Perché possano svolgersi elezioni vere bisogna prima risolvere tre questioni: legalità, informazione imparziale, nuova legge elettorale

di Paolo Flores d’Arcais

Governo tecnico? Dipende. L’emergenza che vive l’Italia è un’emergenza democratica, il passaggio già avvenuto dal malgoverno (che non sarebbe una novità, è praticamente la costante dell’ultimo mezzo secolo) al regime, e la sua rapida trasformazione in peggio (perché al peggio non c’è mai fine) attraverso innesti già programmati di vero e proprio fascismo, come la legge sulle intercettazioni che garantisce la galera ai giornalisti ancora giornalisti (il loro mestiere sarebbe infatti informare) e impedisce ai magistrati di indagare seriamente su tutti i reati per i quali le intercettazioni sono “conditio sine qua non”, calpestando con ciò il dettato costituzionale della “obbligatorietà dell’azione penale”. Da questo avvitamento antidemocratico, i cui modelli sono del resto due fraterni amici di Berlusconi, Putin e Gheddafi, l’Italia non uscirà certo grazie all’opposizione, secondo il modello dell’alternanza in uso nelle democrazia liberali europee anche le più malmesse, visto che da noi l’opposizione è un simulacro, ha la consistenza dei lemuri, non agisce e neppure parla, qualche volta semmai pigola e cinguetta, tranne quando i gerarchetti sopravvissuti si insolentiscono (obliquamente) l’un l’altro. Dalla morta gora della ruberia di cricche e caste l’Italia perciò uscirà, se uscirà anziché finire in un precipizio di stile greco, solo attraverso la crisi interna dell’attuale maggioranza di malgoverno. Crisi della quale si vanno accumulando motivi e sintomi ma per la cui apertura manca ancora l’ingrediente irrinunciabile, un barlume di coraggio e di coerenza tra il dire e il fare di una fronda, quella di Fini e dei “suoi” (non sappiamo quanti), che fin qui da brava fronda si è limitata a stormire. Se in politica valesse la regola di una razionalità anche minima, la crisi dovrebbe aprirsi sul federalismo o sulla giustizia, visti gli appelli alle ragioni della nazione e della legalità repubblicana che lo stormire di Fini e dei suoi ha replicato in ogni trasmissione tv. Ma l’incidente scatenante potrebbe invece avvenire sulla proverbiale buccia di banana di una questione assolutamente minore, come pure il governo potrebbe continuare a malgovernare per i prossimi tre anni senza inciampare mai nell’auspicabile (per quel che resta della nostra convivenza civile) capitombolo di un voto sfavorevole che costringa il caimano alle dimissioni. Qualora il fausto evento accadesse davvero, però, il problema posto ipoteticamente dall’immarcescibile Pier Ferdinando Casini, e sdegnosamente snobbato dal suo alter ego di partitocrazia Walter Veltroni, diventerebbe la non aggirabile questione del giorno. Nella speranza che gli eventi ci sorprendano dal punto di vista del calendario, proviamo a discuterne per non trovarci “sorpresi” politicamente, dovesse una volta tanto accadere il meglio e non il peggio. Quel giorno, infatti, il dilemma sarebbe proprio: elezioni o governo di transizione? Dipende. Le due cose, a voler essere dei democratici coerenti, non sono infatti in contrapposizione ma anzi debbono integrarsi necessariamente. Perché per “elezioni” dobbiamo intendere delle elezioni democratiche, mentre quelle che si dovessero svolgere “sic stantibus rebus” assomiglierebbero all’accezione di democrazia cara al caro amico Putin. Tre sono infatti le questioni da risolvere preliminarmente, perché possano svolgersi delle elezioni democratiche non solo di nome ma, approssimativamente almeno, anche di fatto. Legalità, informazione imparziale, nuova legge elettorale. Già nelle passate elezioni la situazione dei media era di uno squilibrio ingiurioso in sé e offensivo per i criteri minimi di qualsiasi democrazia occidentale (non a caso siamo stati retrocessi al 72° posto, come paese dove l’informazione è solo “parzialmente libera”). Nel frattempo l’occupazione “manu militari” dell’etere è minzolianamente proseguita con gli stivali delle sette leghe, e dovesse passare la legge sulle intercettazioni saremmo addirittura alla fascistizzazione “in progress”. Perché ci siano elezioni democratiche, perciò, è inutile continuare a nascondersi dietro un dito: bisogna liberare l’etere (bene comune esattamente come l’aria) dall’attuale manomorta berlusconiana, dall’esproprio feudale compiuto in nuce un quarto di secolo fa con la legge Mammì e perfezionato anno dopo anno (la voracità del caimano c’era già tutta, bella e squadernata). Questo in primo luogo. Ma bisogna anche garantire che valga il principio “una testa un voto”, anziché quelli alquanto incompatibili con la democrazia liberale che suonano “una pallottola un voto”, “una bustarella un voto”, “un ricatto un voto”, che sono invece ormai una presenza dilagante nell’Italia devastata da mafie, corruzione e altre lepidezze per le quali l’impunità di regime è sempre più garantita. Il che significa, se non si vuole affrontare un cancro con l’aspirina o peggio l’omeopatia, che si tratta di tornare alla situazione legislativa del ’92, abrogando con un sol tratto di penna tutte le norme, troppo spesso bipartisan, penali e procedurali, che hanno regalato ai delinquenti ogni ben di Dio impunitario e a magistratura e polizia frustranti e punitive camicie di forza. Dando vita, infine, a una legge elettorale, uninominale o proporzionale (o mista) che sia, ma rispettosa del principio di rappresentanza, oltre che dell’obiettivo della governabilità. La quale ultima, come è noto, la sanno raggiungere anche le dittature. Quando parla di governo tecnico, Casini ha in mente queste misure, preliminari ad un ritorno alle urne? Sarebbe allora opportuno chiamarlo con il suo vero nome: governo di lealtà costituzionale. Casini però pensa a qualcos’altro, tutto interno alla Casta e ai suoi maneggi. Non è un buon motivo, comunque, perché questo “governo di lealtà costituzionale” non sia fin da ora l’obiettivo e il “tormentone” di ogni democratico.



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Così si regala l’anticasta a B.
Questa soluzione non paga sul piano della tattica né su quello dell’utilità e del gioco machiavellico. Ma soprattutto, non funziona su quello democratico

di Luca Telese

C’è un 40 per cento buono di italiani che – più o meno da quindici anni – fa questo sogno: svegliarsi una mattina e ritrovarsi a Palazzo Chigi un nuovo Comitato di Liberazione nazionale, una union sacrée democratica, un governo di salvezza nazionale che metta tutti insieme per cacciare “Il puzzone”, per far cadere Silvio Berlusconi e sostituirlo con qualsiasi cosa, pur di allontanarlo dalla stanza dei bottoni. Bello (di sicuro) impossibile (forse). Ma anche sbagliato (soprattutto). Le motivazioni per coltivare questa amena speranza, ovviamente, non mancano. Anche chi pensava malissimo dei dirigenti del centrodestra non immaginava che sette esponenti del governo sarebbero finiti contemporaneamente sotto inchiesta per reati gravi (o gravissimi). O che avremmo assistito al puerile balletto di “A mia insaputa” Claudio Scajola. Nessuno, nemmeno armato di grande fantasia, avrebbe mai ipotizzato che un sottosegretario fosse giudicato incandidabile (per i suoi rapporti con la camorra) dalla sua stessa maggioranza , o immaginato il diluvio delle leggi ad personam, liberticide o ammazza inchieste scomode che ci sono state regalate in questa porzione di legislatura. Poi – per giunta – a far cadere in tentazione i sognatori, sono arrivate le due ciliegine sulla torta: la ribellione di Gianfranco Fini e il vaticinio di Pier Ferdinando Casini. Domenica, ospite di Lucia Annunziata, Casini ha rinfocolato la speranza dell’Italia del quaranta per cento: “Un governo tecnico di salute pubblica, primo o poi è inevitabile”. Ora, tutte queste speranze e ragioni sono espresse con molta efficacia, qui a lato, da Paolo Flores d’Arcais. Se c’è “un’emergenza democratica” – ragiona Paolo in estrema sintesi – a brigante brigante e mezzo: qualsiasi cosa pur di ripristinare la legalità. Credo che questo suo articolo aprirà un grande dibattito, un dibattito necessario e utile. Ma confesso che leggendo le sue motivazioni ho detto – nella nostra riunione di redazione – che mi sento combattuto come l’omino di Altan, quello che soavemente confessa: “A volte ho dei pensieri che non condivido”. Ecco: leggo, capisco, sono tentato di condividere, ma allo stesso tempo non ce la faccio. In primo luogo perché li ho seguiti da cronista, tutti i governi tecnici di questo sgarrupatissimo ventennio di transizione italiana. Quello di Ciampi – oggi idolatrato da una nube di nostalgia retroattiva superiore ai suoi meriti – non lasciò leggi memorabili al Paese, se non altro perché non poteva prendere grandi decisioni: era un governo in cui la politica entrava di contrabbando, e in cui non si sapeva da chi provenisse il mandato né quale fosse. Quello di Dini, venne inaugurato drammaticamente dal “bacio del rospo”, dalle lacrime in aula di Marida Bolognesi (alcuni “eroi” di Rifondazione, fra cui Nichi Vendola ruppero con il loro partito per farlo nascere) e da un grido di battaglia contro i berluscones che nell’emiciclo di Montecitorio in bocca al suo premier suonava simpaticamente improbabile (“Adesso mi sono rotto il cazzo!”). Ricordo la fila di deputati leghisti nell’ufficetto di Bossi che all’epoca diceva cose godibilissime: “Basta con il mafioso di Arcore” e “A Silvio bisogna segare il balconcino da piccolo Duce”. Il bilancio si chiude con Umberto “il miglior alleato” di Berlusconi e Dini che ritorna “a casa”, come Lassie, nel centro-destra (a via della Conciliazione era quello appisolato vicino a Fini, mentre lui ululava). È stato bello, ci abbiamo sperato, ma non c’è nulla da fare. Il governo D’Alema – strano caso di auto-cannibalismo a sinistra ai danni di Prodi – riuscì a regalare la pallida esperienza “del D’Alema bis” con la caccia ai voti, il sottosegretario missino Misserville (simpaticissimo, ma costretto alle dimissioni in 24 ore per aver portato il busto del Duce nel primo esecutivo post comunista del dopoguerra) e una dimenticabile parentesi di calciomercato parlamentare, con il gruppo misto che cresceva ogni giorno come una metastasi. Ci siamo divertiti, è vero, a raccontarlo quel suq trasformista. In cui – come nell’ultimo Prodi – si andava a caccia di voti con il pallottoliere, finendo a regalare gli sgravi benzina in Trentino e Val d’Aosta per ottenere una fiducia dall’Svp o dell’Union Valdôtaine. Adesso, per favore basta: non si può più. Io non so perché Casini – una vita per costruirsi fama da moderato – abbia scelto proprio la locuzione estrema della “salute pubblica”, che evoca Madame de Guillotine e il Terrore. Ma in ogni caso bisogna che i sognatori si rassegnino all’idea: non si esce dal berlusconismo con una scorciatoia o un golpe. Non c’è un intermezzo della salute pubblica che prepara un nuovo inizio. Il berlusconismo (e il leghismo) hanno costruito in questo paese un blocco sociale vero, una solida coalizione di interessi. Hanno costruito una leadership, hanno ottenuto un mandato. Pensare che i 20 “vietcong finiani” possano diventare il piede di porco con cui si scardina questa maggioranza (intanto bisogna vedere se loro sono d’accordo, e non sembra) è una trappola onirica. E poi Berlusconi si può battere, ma non si può rimuovere. Ricordo che per anni si parlava di come sarebbe scomparsa la Lega senza il carisma di Bossi: ebbene, nel 2004 Bossi fu colpito dall’ictus, la Lega rimase un anno senza padre, alle Europee il partito crebbe. Il governo tecnico non paga sul piano della tattica, quindi, ne su quello dell’utilità e del gioco machiavellico. Ma soprattutto, non funziona su quello democratico. Regalerebbe a Berlusconi una campagna elettorale anti-Casta. E regalerebbe ala sinistra la parte della Casta. Come se ce ne fosse bisogno.

(11 maggio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/governissimo-si-o-no-dibattito-tra-paolo-flores-darcais-e-luca-telese/
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« Risposta #25 inserito:: Maggio 16, 2010, 11:54:32 am »

La “teocrazia debole” di Ratzinger, una minaccia per la democrazia.

Flores d’Arcais replica a Navarro-Valls

di Paolo Flores d'Arcais, da Repubblica

Joaquìn Navarro-Valls ha pubblicamente confessato il programma di "teocrazia debole" che la Chiesa gerarchica di Karol Wojtyla prima, e quella di Joseph Ratzinger oggi, stanno tenacemente perseguendo. Con esiti fin qui fallimentari nel mondo, ma di peculiare successo nella "eccezione" Italia. Non meraviglia perciò che l' articolo dell' ex portavoce di Giovanni Paolo II, ancora oggi autorevolissimo nell' esprimere umori e "desiderata" della Chiesa vaticana, prenda le mosse proprio dall' apologia del "caso italiano", osannato perché «è veramente considerevole il ruolo assunto dalla religione» nel dibattito (e soprattutto nella realtà del potere, ma su questo Navarro-Valls sorvola), per cui «l' enorme complessità e originalità di questo Paese» (cioè le macerie morali e materiali a cui l' ha ridotto il berlusconismo) «costituisce una ricchezza stimolante che altrove manca del tutto».

All' ex portavoce di Wojtyla l' Italia appare dunque il luogo provvidenziale in cui sperimentare l' obiettivo che il cattolicesimo gerarchico ha scelto come stella polare: «Una democrazia deve riconoscere il valore di verità, naturale e generale, della religiosità umana, considerandolo un diritto comune, indispensabile cioè per il bene di tutti». Papale papale. Con questa logica, però, l'ateo, lo scettico, il miscredente, insomma il cittadino che non si riconosca in alcuna "religiosità umana", verrebbe irrimediabilmente colpito da ostracismo, e declassato a cittadino di serie B. Il suo ateismo, infatti, non solo non troverebbe posto in questo discriminatorio "diritto comune", ma verrebbe implicitamente tacciato di essere contrario al "bene di tutti".

Tanto perché non ci siano equivoci, infatti, Navarro-Valls aggiunge che «non è possibile, in effetti, escludere il valore politico e solidale della religione senza estromettere, al contempo, anche la giustizia dalle leggi dello Stato». E perché mai? Veramente Thomas Jefferson, eminente padre della democrazia americana - paese sempre citato come eden di libertà fondata su una religiosità onnipervasiva - , garantiva l' opposto: «Il manto della protezione costituzionale copre il giudeo e il gentile, il cristiano e il maomettano, l' indù e il miscredente di ogni genere» proprio perché la Costituzione «ha eretto un muro di separazione tra Chiesa e Stato». Wojtyla e Ratzinger hanno invece sistematicamente gettato l' anatema su ogni versione di «libera Chiesa in libero Stato». Una legge che prescinda dalla religione avrebbe niente meno che «estromesso la giustizia», riassume con precisione Navarro-Valls, renderebbe illegittima la democrazia trasformandola in un vaso di iniquità.

È esattamente quanto sostenne Papa Wojtyla di fronte al primo parlamento polacco democraticamente eletto, se la maggioranza parlamentare avesse promulgato una legge sull' aborto difforme dal diktat della morale vaticana. In perfetta sintonia papale la conclusione di Navarro-Valls: «La consapevolezza democratica di base» deve riconoscere che «la religione è un valore umano fondamentale e inevitabile, il quale deve essere valorizzato e garantito legalmente nella sua rilevanza pubblica» (sottolineatura mia). Con l' aggiunta finale di un criptico ma inquietante «a prescindere dal resto».

E invece no, dal "resto" non si può affatto prescindere. Perché il "resto" è che la democrazia si fonda sull' autos nomos di tutti i cittadini, singolarmente e collettivamente presi. Nella democrazia sono i cittadini che «si danno da sé la legge». E nessun altro prima o sopra di loro. Se i cittadini non potessero decidere la legge liberamente, ma obbedire a una legge già data (dall' Alto, dall' Altro), non sarebbero sovrani, «per la contraddizion che nol consente», secondo un padre Dante molto tomistico e che quindi dovrebbe andar bene anche a Navarro-Valls.

Che la giustizia secondo il dettame della religione diventi tassativa e vincolante per la democrazia significa espropriare il cittadino della sovranità e riconsegnarla a Dio. Tecnicamente si chiama alienazione: alienare i famosi diritti inalienabili. Alienazione che coincide con l' annientamento stesso della democrazia. Insomma e senza perifrasi: la sovranità di Dio è incompatibile con la sovranità dell' uomo, in cui consiste la democrazia. Dovrebbe essere una ovvietà, da oltre un paio di secoli. Ma nell' italica «ricchezza stimolante che altrove manca del tutto» tutto è invece permesso. E sia.

Quale Dio, però? Il Dio cristiano dei valdesi - compassionevole - riconosce ai suoi figli il diritto all' eutanasia, quello di Ratzinger - gelido - lo nega, quello di Küng (cristiano cattolico come Ratzinger) di nuovo lo consente, il Dio dei "Testimoni di Geova" proibisce ogni trasfusione di sangue anche a costo della vita, il Dio di altri (sempre lo stesso, perché l' Uno) esige invece mutilazioni sessuali per le bambine. E si potrebbe continuare. Quale di queste incompatibili verità dovrà assumere lo Stato nella sua legge, per ottemperare alla pretesa di Navarro-Valls di «concepire la religione come un valore assoluto»?

Senza dimenticare che a pretendere che sia fatta la volontà di Dio, anziché quella democratica dei cittadini, c'è poi sempre in agguato un "Gott mit uns" che battezzerà di giustizia religiosa ogni terrena efferatezza. Naturalmente, in una democrazia liberale i cittadini non possono stabilire per legge "qualsiasi cosa", neppure con maggioranze plebiscitarie. Ma il limite all' esercizio della loro autonomia è la loro autonomia stessa, non un' eteronoma volontà di Dio (magari agghindata da "legge naturale"). Che è poi la volontà di chi pretende di conoscere la volontà di Dio e parlare in suo nome (in psichiatria si chiama delirio di onnipotenza).

Non si possono, a maggioranza, violare i diritti individuali sulla vita, la libertà, eccetera, di ciascuno, perché del ciascuno si distruggerebbe o amputerebbe la sovranità, dunque l' autonomia. Dio e la religione, come si vede, non c' entrano un bel nulla. L' anti-relativismo della democrazia sta tutto e solo nel comune riconoscimento - interiorizzato come ethos repubblicano - delle inalienabili libertà di ciascuno (fino a che non violano identica libertà altrui: dalla vignetta blasfema all' eutanasia, esattamente come non si proibisce la superstizione della Sindone o la sofferenza terminale volontaria). "Religiosità" civile, se si vuole. Che la "teocrazia debole" di Ratzinger e Navarro-Valls pretende invece di sovvertire.

(12 maggio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-teocrazia-debole-di-ratzinger-una-minaccia-per-la-democrazia-flores-darcais-replica-a-navarro-valls/
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 23, 2010, 11:00:48 am »

Da che pulpito verrà la predica

Il Cavaliere moralizzatore, l’ultima fiction del Regime

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2010


Chi lancerà nei prossimi giorni a reti unificate un solenne e accorato anatema contro i ladri della Casta? Avete sbagliato. Sarà Silvio Berlusconi. Non sganasciatevi, non è una battuta, è la nuova tattica annunciata dal Caimano medesimo attraverso una velina (nel senso originale del termine: verità ufficiosa di regime).

Il Capo ha infatti minacciato che d’ora in poi non coprirà più i cortigiani che rubano: grazie a lui “hanno avuto soldi e onori”, e se l’avidità li acceca li licenzierà in tronco e con ignominia. Come fa un Padrone, del resto, col maggiordomo che ruba le posate d’oro.

Con questa scelta tattica, l’aspirante Duce ha in realtà aperto la campagna elettorale. Cavalcare lo schifo che monta nel Paese contro la grassazione permanente ed esponenziale delle cricche (che – alla lettera – si arricchiscono sul sangue: di lavoratori non pagati, che per disperazione si suicidano), e anzi di questo schifo farsi l’unico paladino.

Infatti, Lui si è fatto straricco da sé (e la legge Mammì e altri decreti Craxi?), dunque non ha bisogno di rubare, gli elettori lo sanno e per questo si fidano, addirittura felici di farsi sudditi, purché Lui butti a mare qualche scherano preso con troppe dita nella marmellata, e ormai impresentabile.

È una tecnica vecchia come la prepotenza e la manipolazione dei dispotismi. I servi della gleba in Russia per secoli hanno continuato a maledire i boiardi come causa delle proprie disgrazie, e a venerare invece come loro difensore (e anzi “piccolo padre”) il capo di quei boiardi, lo zar autocrate. Che ogni tanto ne faceva fuori qualcuno, prendendo i classici due piccioni: accrescere il proprio potere rispetto ai feudatari e la propria popolarità presso il popolino.

Non disdegnò la stessa tecnica Mussolini, “si parva licet”, con i gerarchi. Erano loro i colpevoli delle cose storte, lo tenevano all’oscuro e lo consigliavano male, per stupidità o per tradimento. L’Uomo della Provvidenza, invece, lavorava per il bene di tutti fino a notte fonda.

Insomma, la storia ci dimostra che per far credere l’incredibile – nel caso di Berlusconi, che il nemico giurato della Cricca dei papponi che sta spolpando l’Italia è lo stesso Caimano della Cricca – basta poco: il monopolio della comunicazione. Di cui l’aspirante Egocrate è lussuosamente e orwellianamente provvisto.

Per diventarne dotato TOTALMENTE vuol fare approvare entro giugno la legge che toglie ai magistrati la possibilità di scoprire i papponi di regime, e manda in galera i giornalisti che racconteranno ancora qualcosa. Un tassello di fascismo vero e proprio. Chi non lo impedirà sarà peggio che servo: complice.

(15 maggio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/da-che-pulpito-verra-la-predica/
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« Risposta #27 inserito:: Giugno 07, 2010, 09:30:31 am »

Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2010

Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che il Papa voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso? Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”.

Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile.

Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend.

Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia.

E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile).

E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (…) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”.

Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale.

Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto.

Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)?

Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari.

Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime.

Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché…

(28 aprile 2010)
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« Risposta #28 inserito:: Giugno 27, 2010, 09:28:53 am »

Il "colpo di Stato strisciante" e il ruolo del Quirinale

Flores d’Arcais a Napolitano: “Presidente, perchè ha nominato Brancher ministro?”


di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2010

Caro Presidente, unanime è lo sdegno per il comportamento di spudorato dileggio delle istituzioni messo in atto dal neoministro Aldo Brancher, che ancora fresco di giuramento, utilizza la nuova carica non già per onorare “fedeltà alla Repubblica e osservanza della Costituzione” ma per sottrarsi a un tribunale della medesima Repubblica, cioè per calpestare e irridere il principio che è solennemente scolpito in tutte le aule di tale istituzione: “La legge è eguale per tutti”. Unanime lo sdegno, si può ben dire, visto che le critiche alla “fuga” dalla giustizia del neoministro Brancher sono esplicite anche in almeno due settori della maggioranza, quelli che fanno riferimento alla “Lega” e al presidente della Camera on. Fini e perfino in un “Giornale”.

Del resto, caro Presidente, lei sa bene che Aldo Brancher è noto alla giustizia penale italiana fin dal 1993, quando i magistrati del Pool di Milano trovano le prove di due “mazzette” da 300 milioni versate dal Brancher (braccio destro di Confalonieri alla Fininvest) al Partito socialista e al ministro liberale della sanità De Lorenzo. Lei sa bene, Presidente, che il Brancher fu condannato in primo grado e in appello, e riuscì a non scontare la condanna solo per via di una prescrizione e di una depenalizzazione nel frattempo intervenute, di cui la Cassazione dovette prendere atto. Intervenute non per grazia dello spirito santo, ma di un potere politico che aveva ormai nel proprietario della Fininvest (poi Mediaset) un “padrone” di crescente prepotenza.

Quello perciò che non possa fare a meno di chiederle, Presidente, è perché lei abbia nominato un personaggio del genere come ministro.
E “ministro per l’Attuazione del federalismo”, oltretutto, ministero di pura invenzione, ministero sfacciatamente “ad personam”, visto che il ministro per il federalismo esiste già, è l’on. Bossi, il quale ha immediatamente ribadito il suo ruolo unico su tale tema.

Insomma, caro Presidente, era chiaro a lei come era chiaro a tutti che il ministero a cui Berlusconi le chiedeva di nominare Aldo Brancher era solo un “ministero di legittimo impedimento”, un ministero per potersi rifiutare – in barba alla “legge eguale per tutti” – di andare in un’aula di tribunale a difendersi da accuse assai pesanti (“appropriazione indebita”, non certo un delitto “politico” o di opinione ).

Perché, nonostante tutto ciò, lei ha deciso di nominare Brancher ministro? L’articolo 92 della Costituzione è infatti esplicito: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri”. Il soggetto e protagonista costituzionale di tutto questo agire è il Presidente della Repubblica, cioè lei. Ovvio che le “proposte” che il Presidente del Consiglio avanza non si possono cassare per mero capriccio, ma ancora più ovvio che cassare si possono (e forse moralmente si devono) se per puro capriccio il capo del governo le ha avanzate, o per motivi tanto palesi quanto palesemente inconfessabili, perché costituzionalmente abietti.

Ora che Aldo Brancher fa della sua nomina l’uso per il quale quel ministero inesistente, doppio e fantasma, era stato da Berlusconi inventato (i suoi costi sono invece reali e materialissimi, prelevati “mettendo le mani in tasca agli italiani”), monta l’unanime indignazione. Tardiva, come la proverbiale chiusura delle stalle a buoi già scappati (così come apprezzabile, ma a detta degli esperti inattuabile, la nota con cui lei giudica non ammissibile questo ricorso del ministro al “legittimo impedimento”). E monca, visto che poi tutti si guardano bene dall’avanzare a lei la domanda che questo giornale, con assoluto rispetto, già le ha posto ieri con l’editoriale del direttore.

E su cui, sempre con lo stesso rispetto, crediamo doveroso insistere. È infatti sacrosanta, e adeguata alla “cosa stessa”, l’escalation lessicale che si leggeva ad esempio ieri sul più autorevole quotidiano italiano, il quale denunciava “con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero”, e “in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni”, e nel sito parlava di “uso privato delle istituzioni” e “ignominia di questa nomina”, che lei avrebbe “firmato con la morte nel cuore”.

Del resto, anche i più moderati definiscono “regime” quello berlusconiano e Umberto Eco addirittura di “colpo di Stato strisciante”.
Di fronte a quella che viene dunque ormai descritta – giustamente – come vera e propria eversione, l’unica possibilità di salvezza – oltre all’impegno di milioni di cittadini, il cui “resistere, resistere, resistere” continua a manifestarsi nelle piazze, negli appelli, nei blog – è costituito dal “resistere” di tutte le istituzioni di garanzia, i cui poteri la nostra bellissima e invidiabile Costituzione ha voluto a salvaguardia delle libertà di tutti.

Tra questi, Presidente, in primo luogo i suoi poteri. Lei, tramite il suo ufficio stampa, non ha mancato di palesare irritazione profonda contro il richiamo critico che da queste pagine più volte è venuto nei suoi confronti, per l’uso a nostro giudizio minimalistico che lei ha fatto dell’articolo 74, secondo cui “il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione” (non solo dunque la palese anticostituzionalità: qualunque motivo che il Presidente ritenga seriamente argomentabile). Speriamo che in questa circostanza non risponda né con nuova irritazione né con un ancor più preoccupante silenzio.

Vede signor Presidente, a differenza di quanti dichiarano in pericolo la Repubblica, ma che ritengono che proprio per questo lei non vada in nessun modo chiamato in causa, perché costituisce l’estremo usbergo delle libertà repubblicane, io sono profondamente convinto che tacere non sarebbe sintomo di rispetto, ma semmai di disprezzo o comunque di colpevole noncuranza per ciò che lei rappresenta, l’istituzione più alta, “l’unità nazionale” nel vincolo della Costituzione. Quest’unità, questa Costituzione, sono quotidianamente profanate dall’attuale governo.

Contro tali profanazioni lei ha la possibilità di esercitare poteri spesso dalla immediata efficacia pratica, sempre dall’altissimo peso simbolico. E il peso simbolico è nella vita politica spesso decisivo. Perciò la logica, e ancor più il rispetto che porto alla sua Presidenza, mi fanno dire: o i discorsi che sempre più unanimemente sentiamo, e di cui ho citato sopra solo un autorevolissimo esempio, sono irresponsabile demagogia, oppure, se sono veri (e io credo che siano verissimi) la difesa della convivenza civile, garantita dalla nostra Repubblica grazie alla Costituzione nata dalla Resistenza, ha bisogno che lei usi pienamente dei poteri che tale Costituzione le assegna.

È già accaduto nella storia della nostra patria che il mancato esercizio di poteri legittimi abbia consentito a prepotenze illegittime di conquistare il potere, e di legalizzare così la loro illegalità – non ho certo bisogno di ricordarle l’inazione di Luigi Facta, da tutti i democratici retrospettivamente sempre condannata. Lei è di tempra completamente diversa, e per questo mi rivolgo a lei. Entro l’estate si pretenderà la sua firma ad una legge che, impedendo ai magistrati indagini efficaci su crimini gravissimi e mandando in galera i giornalisti che informano, costituisce – tecnicamente parlando – un primo elemento di fascismo vero e proprio.

Carlo Marx scriveva che nella storia le cose si ripetono sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Io non lo credo, perché sono meno ottimista. In Europa scrivono di continuo che l’Italia con Berlusconi sta vivendo nella farsa. Impedire che si trasformi in tragedia dipende da tutti noi, noi cittadini, in primo luogo, e da lei, Presidente, che per tutti gli italiani che ancora credono nella Costituzione è non a caso il “primo cittadino” .

Quando, all’inizio del suo mandato, le rivolsi una “lettera aperta” le chiesi, attraverso il suo addetto stampa, se dovessi usare il “tu” a cui eravamo abituati o il “lei” che mi sembrava più consono dato il suo nuovo ufficio. Mi fece sapere che preferiva continuassi a rivolgermi a lei con il “tu”. Così ho dunque sempre fatto.

Se ora trasgredisco, la prego di credermi che non è certo per sottolineare una distanza o una freddezza di affetto personale.
Anzi, sono più che mai solidale con la fatica e l’angoscia che l’esercizio della più alta carica le costa in tempi tanto calamitosi per le libertà repubblicane. Lo faccio solo per sottolineare il rispetto con cui, da cittadino a “primo cittadino”, le rivolgo questo invito accorato e allarmato a fare uso pieno dei suoi poteri contro il “macero delle istituzioni” con cui il governo sta travolgendo il paese.

Prima che sia troppo tardi.

(26 giugno 2010)
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 20, 2010, 11:16:06 pm »

Napolitano mette il bavaglio al Csm

Il presidente Napolitano ha messo il bavaglio al Csm.

Questa la nuda verità, se non vogliamo usare perifrasi. Il consigliere Livio Pepino aveva chiesto una seduta plenaria urgente per affrontare la questione morale tra i giudici, visto quello che è emerso con la P3. Il vicepresidente Mancino aveva bloccato gli interventi degli altri consiglieri, mandando una lettera a Napolitano. Il quale ha risposto: no, non con questo Csm.

Ha risposto così non perché, come ha ricordato Marco Travaglio, “sarebbe curioso se, a rimediare allo scandalo, fossero attuali consiglieri che s’intrattenevano al telefono o al bar col geometra irpino Pasqualino Lombardi e altri pitreisti”, ma con una motivazione esattamente opposta. Nella sua lettera il presidente Napolitano è infatti tassativo: bisogna stare “bene attenti a non gettare in alcun modo ombre sui comportamenti di quei consiglieri che ebbero a pronunciarsi liberamente, al di fuori di ogni condizionamento, su quella proposta di nomina concorrendo alla sua approvazione”, e questo deve valere non solo per l’attuale Csm, che dunque non se ne dovrà occupare, ma anche per quello di prossimo insediamento.

A cui viene dettata con “alto monito” una linea di “troncare sopire”. Perché è ovvio che il Csm, di oggi come di domani, e qualsiasi altro magistrato che stia svolgendo indagini penali su tale marciume, non getteranno mai ombre su chi ha scelto Marra liberamente, preferendolo per libera ma pessima valutazione a chi aveva meriti infinitamente superiori. Ma è altrettanto certo, perché registrato indelebilmente sui nastri delle intercettazioni, che la P3 si è mossa per rovesciare una scelta che sembrava nelle ovvietà delle cose pulite, e ci è riuscita: qualcuno che basandosi sui meriti intendeva votare Renato Rordorf si è inopinatamente convinto della improbabile superiorità di Alfredo Marra.

Scoprirli e sanzionarli, senza guardare in faccia a nessuno: questo dovrebbe essere il compito del Csm, se vuole restituire credibilità alla magistratura. Questo era l’alto monito che ci si poteva attendere da Napolitano. E invece…

Paolo Flores d'Arcais

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