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Autore Discussione: Bruno Tinti - Giustizia e informazione, ultima spiaggia  (Letto 5997 volte)
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« inserito:: Gennaio 05, 2008, 12:13:15 am »

Giustizia e informazione, ultima spiaggia

Bruno Tinti *


Intervengo volentieri nel dibattito aperto da Travaglio e proseguito dai colleghi Palamara e Ingroia. Voglio affrontare un aspetto che riguarda uno dei pericoli più gravi per il nostro Paese: il controllo dell’informazione. I casi dei giudici Forleo e De Magistris sono perfetti per spiegare quel che sta accadendo. Da moltissimo tempo (nel 1994 ci fu un’assai pubblicizzata indignazione per la fuga di notizie sull’invito a comparire notificato a Berlusconi mentre era a Napoli), a nessuno importa nulla del fatto che, da quel che si sa dei processi di cui parlano giornali e tv, vengano commessi molti reati; che chi forse li ha commessi aggredisca i giudici che lo processano; che queste aggressioni talvolta abbiano successo; che i giudici che fanno questi processi siano sottoposti a loro volta ad altri processi, penali e disciplinari. Invece tutti si preoccupano che di queste cose, ohibò, si osi parlare, si scriva sui giornali (le tv in genere trascurano il tutto, impegnate come sono in programmi serissimi tipo Grande fratello); addirittura che si arrivi a mettere in scena i fatti, come ha fatto Annozero sul caso Forleo, rispettando il canovaccio, ma facendolo recitare da attori professionisti.

E va bene: se a nessuno frega niente dei possibili reati commessi dalla classe dirigente e dei relativi processi, allora parliamo di ciò che sembra essere davvero importante: le «fughe di notizie» e il dibattito che su queste notizie trafugate si svolge in alcune (poche) trasmissioni tv. Faccio un esempio del tutto inventato: circa 500 persone tra gli addetti ai lavori (magistrati e avvocati) sanno che cosa è un «leverage buy out». Quanti cittadini lo sanno? Mah, facciamo 5 mila. Queste 5.500 persone sanno dunque che, fino alla modifica dell’articolo 2358 del codice civile, l’acquisto di azioni di una società effettuato mediante prestiti o garanzie rilasciate dalla società stessa era proibito; e che adesso, invece, è consentito. Immaginiamo che, nel corso di un procedimento penale, si scoprisse, magari da intercettazioni, che questa modifica era stata discussa da Berlusconi e/o Tremonti (la norma venne modificata quando c’erano loro) con uno o più imprenditori impegnati in scalate societarie e molto interessati a comprarsi alcune società facendosi fare da queste prestiti o garanzie, nel che consiste appunto il leverage buy out. E immaginiamo che i due altissimi esponenti della classe dirigente dessero il via libera a questi loro amici, garantendo che la legge si sarebbe fatta presto e bene, in modo da consentire loro questo acquisto che, con quelle modalità (le garanzie e i prestiti da parte della società che volevano comprarsi), non sarebbe stato lecito. L’oggetto del processo penale sarebbe stato così tecnico che certamente non sarebbe stato compreso dalla quasi totalità dei cittadini; e, d’altra parte, il processo stesso sarebbe stato così lungo che una sentenza, anche solo di primo grado, sarebbe arrivata dopo molti anni dal fatto.

Ma si può davvero pensare che i cittadini non avessero il diritto di sapere, subito (forse di lì a qualche mese ci sarebbero state le elezioni), che i più alti esponenti del governo di allora facevano accordi clandestini (magari anche illeciti, ma questo l’avrebbero deciso i giudici) con amici loro, assicurando vantaggi a scapito dei concorrenti? Si può davvero pensare che la gestione privata del potere di legiferare attraverso il condizionamento del Parlamento da parte del Governo, sia circostanza che i cittadini devono ignorare? Ma questi cittadini come dovrebbero decidere se votare Tizio o Caio? Sulla base dei cartelloni pubblicitari o degli spot televisivi (magari subliminali)?

Supponiamo poi che i giudici civili e penali che si fossero occupati del caso fossero stati aggrediti (si capisce, verbalmente), vilipesi, minacciati, alla fine allontanati da quel processo, proprio mentre ne stavano venendo a capo; e supponiamo anche che, sballottati da queste violenze provenienti da tutte le parti, questi giudici si fossero lasciati andare un po’, avessero commesso qualche ingenuità, detto qualche parola di troppo, redatto provvedimenti suscettibili di critica. Si può davvero pensare che questa guerra combattuta dalla classe dirigente (magari innocente tecnicamente) per non essere assoggettata al controllo di legalità (che non significa condanna, significa accertamento) avrebbe dovuto essere nascosta ai cittadini?

Si tratta di un esempio frutto della mia fantasia e della mia indignazione sul piano tecnico quando arrivò la riforma dell’articolo 2358 del codice civile. Ma è evidente che, in un caso come questo, nessuno potrebbe dire che i cittadini se ne devono stare zitti e buoni, ignari di quel che succede, lasciando lavorare politici e magistrati e attendendo di leggere, dopo qualche anno, le sentenze dei giudici su un fatto di cui ovviamente non capirebbero più niente. Un po’ come i passeggeri di un treno che non si sa dove va, né quando né se si fermerà, perché tutto è in mano al capotreno e nessun altro deve metterci bocca.

Allora, è tanto difficile da capire che solo l’informazione più completa e approfondita ci consente di vivere in un Paese democratico? Che la democrazia non consiste nel sistema di elezione dei governanti (se è per questo noi ormai siamo in una situazione di conclamata oligarchia), ma nell’assoggettamento di tutti i cittadini - governanti e governati - allo Stato di diritto? Che il controllo sulla effettività di questa fondamentale, irrinunciabile regola di democrazia può avvenire solo attraverso l’informazione?

Scendiamo ai casi concreti. Ma davvero non vogliamo sapere che Fazio e Fiorani concordavano al telefono la scalata di Antonveneta? Cioè: noi non vogliamo sapere prima del tempo (e quale? Dopo il primo grado, dopo l’appello, dopo la Cassazione, magari dopo il rinvio in appello e la nuova Cassazione, magari dopo la sentenza per prescrizione?) che il Governatore della Banca d’Italia appoggiava un banchiere (piccolo piccolo, un banchiere del quartierino) nell’acquisto di un grande istituto bancario con modalità particolarmente pittoresche? Davvero non vogliamo sapere che Governatore e banchiere colloquiavano con esponenti del governo e della maggioranza di centrodestra, mentre l’assicuratore Consorte concertava con deputati e senatori Ds l’acquisto di Bnl da parte di Unipol? E perché il presidente di un partito dell’allora opposizione voleva «sognare» (in compagnia di chi?) se un furbetto del quartierino si comprava una banca? Sarà tutto regolare; ma che i vertici dei due maggiori partiti italiani abbiano interessi di questa rilevanza in operazioni finanziarie apparentemente fatte da privati, il cittadino lo deve sapere. Davvero non vogliamo sapere che Berlusconi raccomanda al Saccà qualche signorina nella speranza di ribaltare così (grazie a una signorina!) la maggioranza che sostiene il governo avversario? Che c’entra il processo penale o civile con questi fatti? Per meglio dire, certo che c’entra: si accerterà se questi fatti sono o no penalmente rilevanti; ma questo è un fatto tecnico, del tutto irrilevante per i cittadini.

Tutte queste cose, penalmente rilevanti o no (si vedrà), devono dunque interessare i cittadini; perché i cittadini hanno il diritto di sapere chi li governa, chi sta guidando il treno e dove li vuole portare. Se non lo sanno, se tutti glielo vogliono tenere nascosto, se i capotreni di ogni fazione strepitano quando non riescono a tenerglielo nascosto e congiurano per stabilire nuove regole che vietino ai vari addetti al treno di raccontare quel che hanno scoperto in sala macchine (anche quando non c’è più segreto di indagine), questo non è più un treno: è un carro bestiame.

Ma c’è pure di peggio. I giudici hanno sbagliato, forse, magari, chissà. Facciamo finta che la Forleo e De Magistris abbiano parlato troppo ed emesso provvedimenti criticabili. Quindi che facciamo, li processiamo disciplinarmente e li trasferiamo? Chissà quante sentenze sbagliate o criticabili la Cassazione riforma ogni giorno: li processiamo tutti, i giudici che le avevano emesse? Ovviamente no: riformiamo le loro sentenze, magari scriviamo qualche inciso sulla loro eventuale impreparazione giuridica; ma gestiamo il processo «nel sistema». Non ci pensiamo nemmeno a processare, a delegittimare, a trasferire i magistrati. E i cittadini non lo debbono sapere che, invece, alla Forleo e a De Magistris stanno succedendo proprio queste cose? E, se la risposta è «no, i cittadini non lo devono sapere» perché il processo si fa nelle aule giudiziarie o del Csm e alla fine vi sarà una sentenza emessa secondo giustizia, allora che facciamo alla Vacca? Per chi se lo è dimenticato, Letizia Vacca sarebbe quella componente del Csm che ha svolto funzioni di indagine nella I Commissione che si occupa di Forleo e De Magistris: una via di mezzo tra il Pm e il vecchio Giudice Istruttore. Eppure, mentre faceva le indagini, andava a spiegare ai giornali e alle tv che i due sono «cattivi giudici» e vanno cacciati al più presto; anzi altri come loro saranno presto stanati e «colpiti». Questa non è una inammissibile, gravissima, vergognosa, delegittimante fuga di notizie e anticipazione di giudizio?

Nel Paese che ha reso lecito il leverage buy out; nel Paese che punisce il senegalese che vende il cd contraffatto con pene da 1 a 6 anni di reclusione (arresto in flagranza, intercettazioni telefoniche e circuito processuale privilegiato) e il falsificatore di bilanci di una società quotata con pene da 15 giorni a 4 anni (sempreché il falso non sia troppo piccolo: deve superare l’1% del patrimonio della società almeno, se no, scherziamo?, non è reato); nel Paese in cui i partiti ingeriscono nell’acquisto delle banche e i politici tentano di comprarsi altri politici; nel Paese in cui le Vacca anticipano le sentenze di condanna del Csm contro i giudici che stanno processando; nel Paese in cui il Csm non dice una parola per condannare questo comportamento di uno dei suoi componenti e prosegue nel giudizio come se nulla fosse successo; ecco, in un Paese così l’Associazione nazionale magistrati che fa? Depreca le presunte «fughe di notizie» su questa o quell’inchiesta sui giornali e in tv e auspica che non vi sia contrapposizione tra le istituzioni. Ma dove vivete, cari colleghi dell’Anm? Ma non ve la ricordate la favola del lupo e dell’agnello? Ma non lo vedete che le Forleo, i De Magistris, le persone come noi stanno a valle e i lupi - o quelli che si cerca di capire se sono lupi - stanno a monte e continuano ad accusarci di intorbidargli l’acqua? Ma soprattutto: non vi rendete conto che l’Anm non è un istituzione pubblica, ma il sindacato dei giudici? Lo sapete o no che il sindacato tutela i suoi iscritti? Purtroppo, sempre più spesso, l’Anm sembra essere intesa come l’anticamera del Csm: è il Csm infatti che deve osservare imparzialità, autonomia, indipendenza, e anche riservatezza certo; e, a parte la Vacca, mi consta che lo faccia. Ma l’Anm, che ha indetto quattro scioperi sotto il governo Berlusconi, ora che governa l’Unione si mette a stigmatizzare, auspicare, precisare e tutto quell’armamentario ipocrita che ci indigna (questo sì che indigna) quando lo sentiamo in bocca ai politici?

Negli anni 30 un certo Martin Niemoller scrisse una bellissima poesia: «Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio: non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici, io rimasi in silenzio: non ero un socialdemocratico. Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce: non ero un sindacalista. Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la sua voce». Ma davvero così pochi si rendono conto che siamo all’ultima spiaggia?

* procuratore aggiunto a Torino



Pubblicato il: 04.01.08
Modificato il: 04.01.08 alle ore 9.03   
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 18, 2008, 03:28:22 pm »

Aria pesante al tribunale di Santa Maria Capua Vetere

Pm e procuratore: sospetti, faide e denunce

Accuse di strabismo giudiziario nelle inchieste su appalti e sanità al procuratore capo Maffei
 
DAL NOSTRO INVIATO


SANTA MARIA CAPUA VETERE (Caserta) - Il giorno degli arresti, due distinti signori si aggiravano nei corridoi della Procura colloquiando amabilmente con i giornalisti, chiedendo loro notizie sull'inchiesta, e soprattutto da quali fonti le avessero apprese. Erano due carabinieri in incognito, incaricati da uno dei magistrati titolari dell'indagine di prendere informazioni e redigere la relazione di servizio. C'è un'aria pesante al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e non da ieri. Sospetti, faide tra pubblici ministeri, denunce di abusi. E accuse di strabismo giudiziario nelle inchieste su appalti e sanità formulate dall'interno al procuratore capo Mariano Maffei, molto simili a quella che giungono ora da Clemente Mastella.

«Un Vietnam» è la sintesi di un giudice ovviamente anonimo. Una situazione di conflitto perenne che finisce per lambire anche l'inchiesta sull'Udeur campano. L'oggetto del contendere è Maffei. In due denunce presentate nel novembre 2007 al Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Napoli alcuni suoi pubblici ministeri lo accusano di aver creato un clima «insostenibile» basato sul sospetto e sulla delazione. L'esposto riferisce di ufficiali di Polizia giudiziaria interrogati dai sostituti di fiducia di Maffei, tra i quali viene citato Alessandro Cimmino, titolare dell'inchiesta Udeur, al solo scopo di ottenere informazioni sui magistrati «dissidenti».

Il fascicolo «autoassegnato»
La denuncia più scabrosa riguarda però un altro argomento, alcune indagini sulla sanità casertana definite «anomale», dove l'anomalia consisterebbe nel comportamento del sostituto procuratore Maria Di Mauro, che all'inizio del 2006 con l'appoggio di Maffei si sarebbe autoassegnato un procedimento su alcuni dirigenti dell'Azienda Sanitaria Locale Caserta 2 e Giuseppe Tatavitto, direttore dell'ospedale di Santa Maria Capua Vetere, pur essendo a conoscenza dell'esistenza di una inchiesta in corso condotta da un collega sulla stessa persona, per gli stessi reati. Prima di autoassegnarsi il fascicolo, la dottoressa Di Mauro si era sempre astenuta dalle inchieste sulla Asl 2 di Caserta, in quanto suo marito, l'avvocato Aurelio Marino, è consulente legale dell'Asl in questione. Questa volta l'astensione non viene chiesta, anche se la notizia di reato riguarda un concorso dell'Asl nel quale il testimone chiave a carico di Tatavitto è il direttore della Asl stessa, ovvero il datore di lavoro di Marino. La posizione dei responsabili dell'Asl indagati viene stralciata. Nel procedimento principale, diventano addirittura parti offese, mentre lo stralcio si conclude con una archiviazione.

Tra i metodi poco ortodossi di Maffei figura anche l'apertura di un fascicolo a carico di alcuni magistrati della procura di Santa Maria Capua Vetere allo scopo - così riferisce la denuncia - di fare indagini sulle loro attività. Pubblici ministeri vengono «interrogati» ufficiosamente, al telefono, da pm dello stesso ufficio. Gli atti vengono mandati alla Procura di Roma, che archivia definendo «inesistente» la notizia di reato. E' questo grappolo di denunce che induce il Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Napoli a chiedere e ottenere nell'ottobre del 2007 l'invio degli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia. Ma alla fine del novembre 2007 arriva un altro esposto che inevitabilmente interseca l'ispezione in corso e l'attuale indagine su Mastella. L'inchiesta sull'Udeur campano, per ammissione dello stesso Maffei, consiste nell'unione di tanti fascicoli diversi tra loro, tutti assegnati al pm Cimmino e poi unificati nell'attuale procedimento. Una di queste indagini comincia nel luglio 2005. Giacomo Caterino e Domenico Bove, consiglieri provinciali Udeur vengono indagati con il direttore generale dell'Amministrazione provinciale Anthony Acconcia per falso ideologico e turbativa d'asta, in relazione alla modifica del piano regolatore del Comune di Casagiove. I primi due vengono arrestati e poi scarcerati dal Tribunale del Riesame.

«Anomalie nell'indagine»
Il 30 novembre 2007, Caterino spedisce un esposto al Procuratore generale di Napoli, nel quale segnala «anomalie nell'indagine» e richiama l'attenzione sul rapporto di parentela tra Maffei e il presidente della Provincia di Caserta Sandro De Franciscis, suo nipote. Ex enfant prodige dell'Udeur, vincitore a sorpresa delle elezioni provinciale del 2005 per il Campanile, De Franciscis ha «tradito» Mastella per il Pd portando con sé altri funzionari del partito e intere sezioni. Una diaspora che ha causato la scomparsa dell'Udeur in molti comuni del casertano. Diventa «il» nemico. Secondo Caterino, i vincoli familiari potrebbero aver negato al procuratore capo la necessaria serenità di giudizio nei confronti del presidente della Provincia.

Il caso De Franciscis
A sostegno della sua tesi, l'assessore provinciale Udeur segnalava il diverso trattamento ricevuto dal direttore generale Acconcia, uomo di fiducia di De Franciscis, al vertice della macchina amministrativa, più di mille uomini, ma non ritenuto responsabile del suo funzionamento e controllo. Ma l'affondo riguarda soprattutto De Franciscis. Nel corso delle indagini - secondo la denuncia di Caterino - sarebbero state raccolte testimonianze, anche di assessori provinciali della sinistra radicale, che attribuirebbero a De Franciscis la diretta responsabilità, non solo politica, delle modifiche al Piano regolatore, che avrebbero reso edificabili terreni di proprietà di Carlo Panella, padre della compagna di Acconcia e di Vincenzo Natale, dirigente locale del Pd. Secondo Caterino queste dichiarazioni proverebbero l'ingerenza di De Franciscis. Il nipote di Maffei è stato ascoltato come persona informata dei fatti. Il Riesame di Napoli ha accolto alcune delle tesi dei difensori di Caterino, invitando la procura ad indagare anche su altri aspetti dell'inchiesta.

Marco Imarisio
18 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 23, 2008, 11:46:46 am »

23/12/2008
 
Macché privacy
 
BRUNO TINTI
 

Ormai è un riflesso pavloviano: si apre un’indagine su qualche esponente politico e parte la campagna antintercettazioni.

Che vanno abolite o al massimo consentite solo per reati di terrorismo e mafia; concesse solo da un collegio di tre (al momento ma non si sa mai, magari cinque o forse sette sarebbe meglio) giudici che possano valutare con imparzialità la richiesta del PM, che non sia persecutoria; e che assolutamente non finiscano sui giornali, nemmeno quando siano diventate pubbliche e ne sia legittima la conoscenza.

La novità di questi giorni è che la linea dura, anzi durissima, è sostenuta solo dal Presidente del Consiglio, che in effetti di queste cose se ne intende; i suoi alleati (e anche l’opposizione) qualche distinguo sui reati per i quali le intercettazioni possono essere consentite lo propongono. Ancora una volta, nessuno si chiede quali sono i veri motivi per i quali ai politici viene la schiuma alla bocca quando si parla di intercettazioni. Nessuno ha sostenuto che le intercettazioni non servono per scoprire i reati. Ed è ovvio: si tratta dell’unico strumento di indagine possibile quando vi è una convergenza di interessi tra il cittadino (che corrompe) e il politico (che si fa corrompere), sicché confidare nel pentimento dell’uno o dell’altro è come credere a Babbo Natale. Durante l'estate hanno raccontato la storiella dell’eccessivo costo e dell’eccessivo numero delle intercettazioni. Ma si trattava di informazioni false: i 300 milioni (su 7 miliardi del bilancio della Giustizia) comprendevano le somme pagate ai periti e consulenti del PM, per le missioni della polizia giudiziaria, le trascrizioni degli interrogatori e via dicendo. E comunque, se le intercettazioni si pagano troppo, è colpa del legislatore che non prevede per i gestori telefonici il solo rimborso del costo sostenuto. Quanto al numero, è stato necessario informare il ministro della Giustizia che le persone intercettate sono poche centinaia e non migliaia. Alla fine si sono attestati sulla linea della riservatezza violata: non è giusto che, per scoprire qualche reato in più, venga violata la privacy dei cittadini italiani. E questa, al momento, è la tesi prevalente.

Anche questa tesi è falsa. La privacy dei cittadini italiani non corre alcun rischio. Prima di tutto per la maggior parte dei reati le intercettazioni non sono possibili oppure non sono utili; chi ruba al supermercato, chi picchia la moglie, chi lascia la macchina in sosta con il tagliando falsificato non viene intercettato. E poi l’interesse a rendere note le intercettazioni che riguardano il comune cittadino è pari a zero. Non si spreca spazio e carta per raccontare i fatti di una persona qualunque. La «privacy violata» è quella di un paio di migliaia di politici. E allora chiediamoci: sapere che qualche politico appoggia qualche banchiere, che qualche amministratore pubblico favorisce qualche imprenditore, che qualche dirigente pubblico deve la sua nomina all’amicizia di qualche ministro; non è necessario in uno Stato democratico? E, attenzione, saperlo oggi, quando il fatto risulta dalle stesse parole dei protagonisti, e non fra 10 anni, quando ci sarà la sentenza di prescrizione della Corte di Cassazione e il colpevole (prescritto) potrà consegnare ai giornali la sua proterva dichiarazione di innocenza «finalmente» accertata. Ma chiediamoci anche: se si trattasse di fatti che non costituiscono reato e che però danno la misura della statura etica e politica di chi appartiene alla classe dirigente, non sarebbe bene conoscerli? Io facevo il Procuratore della Repubblica; se si fossero intercettate mie telefonate con qualche mafioso che mi invitava con regolarità nella sua riserva di caccia e che mi ospitava a casa sua, non avreste voluto saperlo? Non avreste voluto sapere che tipo era quel magistrato che aveva il potere di avviare un processo nei vostri confronti? E non è, allo stesso modo, necessario che i cittadini sappiano che razza di gente li governa?

E infine. Se anche la risposta a queste domande fosse: no, non è necessario, anzi non è giusto; davvero pensate che la tutela di questa presunta privacy valga la certezza dell’impunità per i reati commessi abitualmente da una classe politica per cui etica e legge sono solo fastidiose astrazioni?
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 11, 2009, 11:48:00 am »

11/3/2009
 
Giudizio e pregiudizio
 
 
 
BRUNO TINTI
 
Le indagini sullo stupro della Caffarella sono state simili a molte altre: veloci, rapida identificazione dei presunti responsabili, confessione immediata, riconoscimenti da parte delle vittime e dei testimoni, prelievo di campioni di Dna. Ci sono tanti processi così.

Poi la ritrattazione. Anche questo capita molto spesso. Si ritratta quanto detto alla polizia, ai carabinieri, al pubblico ministero. E i magistrati che debbono giudicare cercano di capire quanto vale questa ritrattazione. Da un lato la professionalità e la correttezza delle istituzioni, dall’altro le affermazioni degli imputati che, certo, hanno un interesse evidente a mentire.

A chi credere? Certe volte non è un’indagine difficile. È vero, dice l’imputato, ho confessato, ma mi hanno intimidito, mi hanno minacciato, mi hanno promesso che..., mi hanno picchiato. E io ho confessato, ma non è vero. È possibile, certo, che questo avvenga. Però ci sono prove, testimonianze. Hai confessato e infatti quel teste ti ha riconosciuto; c’è la tua impronta sulla porta, l’arma, il vetro; c’è un filmato in cui ti si vede mentre rapini la banca.
C’è il Dna, il tuo, sui vestiti della vittima.

E allora non ti crediamo quando ritratti, menti, è solo una disperata difesa. Certe volte è più complicato, non ci sono altre prove che confermino la confessione. Da un lato le istituzioni, polizia, pm, che affermano di aver ricevuto e verbalizzato quella confessione; dall’altra l’imputato che le accusa di violenze e di intimidazioni a cui non ha potuto resistere; e così ha confessato; ma non è vero, sono innocente, dice. Però non ci sono lesioni, non ci sono tracce, non ci sono testimoni delle percosse o delle minacce; e l’imputato ha confessato e non ha scampo se non ritrattando. Non gli si crede quasi mai; non si può credere a una polizia torturatrice, a un pm che non cerca il vero colpevole ma un colpevole pur che sia.

Certe volte è molto più complicato. La confessione è stata resa davvero senza minacce né violenze; ma è stata resa per proteggere qualcun altro. Capita spesso: un minorenne viene arrestato con altri, maggiorenni, per spaccio di droga; scagiona tutti e dice: ho spacciato io, da solo, gli altri stavano comprando. È falso ma lui se la caverà con poco o niente, è minorenne, gli altri finirebbero in galera; così confessa. Poi magari ritratta. E qualche volta capita anche che qualcuno confessi; e poi arriva la prova certa, indiscutibile, che invece è innocente. E ci si chiede: perché allora ha confessato, non c’è nessuno da scagionare, nessuno da proteggere. E magari ti dice: mi hanno picchiato, mi hanno minacciato, mi hanno spaventato. E qui le cose si fanno difficili. Perché, quale altra spiegazione trovare a un comportamento altrimenti inspiegabile? E poi le cose si complicano ancora. Accusare se stessi di un reato che non si è commesso è autocalunnia. Accusare qualcuno di un reato che non ha commesso è calunnia. Sì, però occorre che ciò sia stato fatto con dolo, volontariamente e sapendo che la confessione e le accuse sono false. Ma, se si è costretti a confessare e ad accusare? Se mi spaventano, mi minacciano, mi picchiano fino a quando non cedo e confesso e accuso? Allora, dice l’articolo 46 del codice penale, non sono punibile e «del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza».

Sappiamo poche cose del processo per lo stupro della Caffarella: sappiamo che il Tribunale della Libertà ha annullato l’ordinanza di misura cautelare per lo stupro; secondo il Tribunale, Alexandru Iszoitka Loyos e Karol Racz sono innocenti. Non sappiamo come hanno ragionato i giudici, ma possiamo ragionevolmente pensare che sia stato attribuito maggior valore alla prova del Dna - non era quello di Loyos e Racz - che ai riconoscimenti e alle testimonianze; e l’esperienza insegna che i riconoscimenti sono prove quasi sempre poco tranquillizzanti. Sappiamo che Loyos è stato nuovamente arrestato con l’accusa di calunnia e autocalunnia: avrebbe accusato falsamente se stesso e Racz di aver commesso lo stupro, reato che, secondo il Tribunale della Libertà, non hanno commesso. Proprio non sappiamo perché il pubblico ministero e il gip ritengano che questa condotta sia stata volontaria; non sappiamo perché non abbiano voluto dar credito alla spiegazione di Loyos: mi hanno picchiato, non ho potuto resistere, ho dovuto confessare; ma sono innocente. E, se non sappiamo, non dobbiamo emettere giudizi. La magistratura italiana merita fiducia e rispetto: e ragioni per tenere in prigione Loyos (Racz è detenuto perché accusato di un altro stupro) ce ne debbono essere.

C’è però una cosa importante che dobbiamo ricordare. Nelle aule di giustizia c’è scritto: «La legge è uguale per tutti». È difficile ricordarsene quando il reato è odioso e le persone accusate d’averlo commesso risvegliano le nostre paure più profonde: sono aggressive, violente, estranee, spaventevoli; le sentiamo diverse e ci fanno paura.
Però la civiltà di un Paese si misura in questi momenti, quando il pregiudizio rischia di sopraffare il diritto.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 03, 2009, 05:29:48 pm »

/4/2009
 
Se i giudici hanno paura

BRUNO TINTI
 
Per l’ennesima volta c’è il sospetto che qualche politico importante sia stato preso con le mani nel vasetto della marmellata. La procura di Bari ha da tempo chiuso le sue indagini che riguardavano il ministro Raffaele Fitto per i reati di associazione a delinquere, concussione, falso ideologico, corruzione, peculato, concorso in interesse privato in una procedura di amministrazione straordinaria e turbativa d’asta. Come prevede il codice di procedura, i procedimenti sono stati sottoposti al Giudice per le indagini preliminari; uno dei due è ancora in fase di udienza preliminare; per l’altro, Fitto è stato rinviato a giudizio.

Adesso il suo collega Alfano ha inviato i suoi ispettori presso la Procura di Bari. La supposizione che si tratti della solita ispezione intimidatoria e, se gli riesce, punitiva è seducente; tanto più che, dicono le agenzie, Alfano si è mosso su sollecitazione dello stesso Fitto. Niente di nuovo sotto il sole comunque: hanno fatto così dai tempi delle ispezioni alla Procura di Milano che indagava su Berlusconi. E tutto questo suggerisce qualche (inquieta) riflessione.

È evidente che gran parte della classe dirigente del Paese non riesce a comprendere che l’amministrazione della giustizia si deve svolgere in maniera indipendente e autonoma rispetto ai desideri, alle opinioni, ai voleri della politica. È straordinario come Alfano e gli altri come lui non arrivino a rendersi conto che un’ispezione disposta in coincidenza con un processo nei confronti di un uomo politico e dietro sollecitazione di questi costituisce un’obiettiva interferenza, tale da intimidire i giudici che lo debbono giudicare.

Può essere interessante ricordare che, il 23 febbraio, il ministro della Giustizia spagnolo, Mariano Bermejo, si è dimesso. Aveva passato (come faceva per abitudine, essendone amico) un weekend andando a caccia con il giudice Garzón che stava investigando su Francisco Correa, importante esponente del Partito popolare che, come è noto, è all’opposizione. È stato criticato perché si poteva sospettare (sospettare, non è mai emerso alcunché di concreto) che egli potesse approfittare delle circostanze per raccomandare al giudice un’inchiesta severa (nei sospetti: parziale, ingiusta, prevenuta) da cui il suo partito avrebbe tratto vantaggio. È stato anche criticato perché era andato a caccia senza possedere la licenza... Si è dimesso. Per un sospetto (un sospetto) di parzialità. Nel nostro Paese il ministro della Giustizia invia ispezioni presso i giudici che indagano sui suoi compagni di partito; addirittura l’ex ministro Mastella le inviò presso il magistrato che indagava su di lui.

Ma c’è un’altra cosa che lascia perplessi. L’Associazione nazionale magistrati, il sindacato dei giudici, è composta da persone che, come tutti i giudici, conoscono a menadito gli articoli 101 della Costituzione (quello che dice che i giudici sono soggetti soltanto alla legge); 104, quello che dice che la magistratura è autonoma e indipendente da ogni altro potere; e 112, quello che dice che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (sicché, se pensa che Fitto sia un associato a delinquere, un concussore, un corruttore, un peculatore e tante altre cose poco commendevoli, non può che spedirlo davanti a un giudice perché queste accuse siano accertate). È successo che l’Anm, quando ha appreso dell’ispezione ordinata da Alfano, ha emesso un severo (magari severo è un po’ troppo, che dire, critico, forse ispirato a vigile attesa) comunicato in cui dice di esprimere «piena solidarietà ai colleghi della Procura di Bari» e di condividere «l’auspicio che l’inchiesta amministrativa affidata agli ispettori ministeriali possa svolgersi senza pregiudizio né interferenze sull’attività giurisdizionale». Non proprio un altolà ma un flebile richiamo, questo sì.

Solo che, quando era De Magistris a essere «ispezionato», mentre indagava su Mastella e coindagati (per tre volte di fila perché, come dichiarò il suo sottosegretario Luigi Scotti, anche lui magistrato, nelle prime due non si era trovato niente ma il ministro era tanto scrupoloso e voleva essere tranquillo), in quel caso l’Anm non ebbe nulla da dire; nemmeno un flebile «auspicio» che le ispezioni si svolgessero senza pregiudizio delle indagini.

Il punto è che questo atteggiamento timido sulle iniziative aggressive della politica rischia di aggravare lo stato di sconcerto, di solitudine e di paura (sì, di paura) di molti magistrati. Ieri i titolari dei fascicoli su Fitto hanno scritto una lettera al Csm, chiedendo di sapere entro quale limite devono esercitare «il dovere istituzionale di salvaguardare la funzione giudiziaria da interferenze indebite o improprie».

Tutti i magistrati conoscono benissimo questo limite; come lo conoscevano i magistrati della Procura di Milano che non consegnarono mai agli ispettori i fascicoli concernenti gli imputati Berlusconi, Previti e altri, coperti dal segreto investigativo che vale (ma lo sanno tutti) anche per il ministro. Chiedere al Csm che ha condannato De Magistris una direttiva in tal senso è certamente ispirato a ovvie ragioni di autotutela; ma è anche segno di profonda sfiducia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 19, 2009, 10:03:23 am »

19/5/2009
 
Il magistrato? Cieco per legge
 

 
BRUNO TINTI
 
Il Parlamento (beh, non esageriamo, il governo, che lo obbligherà a votare la fiducia) sta per emanare una nuova legge che impedirà al Pm di prendere, di propria iniziativa, notizia dei reati. Fino ad ora c’era l’articolo 330 cpp che faceva obbligo a Pm e polizia di non aspettare le denunce dei cittadini: se un reato era stato commesso e se il Pm se ne rendeva conto, doveva subito aprire un’indagine. In realtà proprio così sono cominciati molti processi importanti. Ne ricordo uno per tutti, aperto proprio da me, quand’ero procuratore aggiunto a Torino: Telekom Serbia, che permise di smascherare il complotto ordito nei confronti di Prodi, Dini e Fassino, accusati falsamente di aver intascato tangenti in occasione dell’acquisto fatto da Telecom Italia di una parte del pacchetto azionario di Telekom Serbia. Adesso il Pm non può più aprire un’indagine di sua iniziativa: se un reato è stato commesso la polizia deve mandargli un rapporto (oppure un privato cittadino deve fare denuncia); altrimenti niente, l’indagine non comincia e il processo non si fa.

Proviamo a immaginare che un ladruncolo in perfetta salute entri in un commissariato e ne esca con la faccia pesta; ovvero che un indagato per violenza carnale, pur essendo innocente, confessi alla polizia d’averla commessa. Non solo un sagace Pm ma qualunque persona ragionevole immaginerà che il primo è stato pestato e che il secondo potrebbe averlo fatto perché minacciato o picchiato. Adesso, con la nuova legge, se le violenze eventualmente commesse dalla polizia vengono denunciate, il Pm aprirà un’indagine; se invece, come talvolta accade, verrà spiegato che le scale erano ripide e quell’incapace è inciampato; oppure che, in un momento di sconforto, il depresso di turno ha deciso di accusarsi di un reato mai commesso, non si potrà fare nulla. Certo, i due malcapitati potranno denunciare autonomamente il fatto; oppure lo potrà fare un collega o addirittura un superiore dei poliziotti che (forse) hanno pestato il primo e minacciato o torturato il secondo. Non sono situazioni molto frequenti.

Oppure proviamo a immaginare che qualche politico accetti le consuete tangenti per favorire qualcuno dei suoi passati o futuri elettori; e che il risultato della corruzione sia un appalto che non doveva essere attribuito, una concessione edilizia contraria alla legge e al piano regolatore, una nomina a un importante incarico pubblico che non doveva avvenire, finanziamenti pubblici dati a chi non ne ha diritto oppure utilizzati per scopi non istituzionali. E proviamo a immaginare che uno dei tanti ispettori, funzionari, ufficiali di polizia giudiziaria di specchiata onestà e di grande capacità investigativa, che collaborano con le Procure della Repubblica, si renda conto dei reati che vengono commessi e cominci a indagare. E proviamo a immaginare che i ministri dll’Interno, della Difesa o delle Finanze (rispettivamente superiori gerarchici di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza), espressione di quella stessa classe politica che ha applaudito l’autocertificazione d’innocenza di Mastella, che ha immediatamente preso le difese di Del Turco, che ha ordinato le ispezioni negli uffici giudiziari che indagavano il governatore Fitto... ma l’elenco è sterminato; ecco, proviamo a immaginare che telefonino al prefetto, al questore, al comandante generale dell’Arma o del Corpo; e che ordinino (ne hanno la facoltà) di smetterla, di non fare alcuna indagine, di lasciar perdere. Cosa pensate che accadrà? E come si sentiranno i poliziotti, i carabinieri, i finanzieri che hanno lavorato come bestie e a cui verrà detto che non se ne parla nemmeno, tutto nel cestino?

Per finire, provate a immaginare che cosa accadrebbe in Abruzzo, se il presidente del Consiglio, che ha già manifestato la sua insofferenza per le eventuali inchieste che la Procura della Repubblica dell’Aquila avrebbe potuto iniziare nei confronti dei criminali che avevano costruito i palazzi con la sabbia di mare, spiegasse ai ministri competenti che, adesso che si può per via della nuova legge, sarà proprio bene assicurarsi che Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza non facciano pervenire rapporti a questi Pm che fanno solo del male. Insomma, il Pm reso cieco per legge; e i suoi cani guida addestrati a obbedire ai comandi di qualcun altro.
 
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