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Autore Discussione: Il male dell’Italia è il capitalismo? Analisi controcorrente degli ultimi ...  (Letto 3308 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Dicembre 22, 2021, 03:49:20 pm »

Il male dell’Italia è il capitalismo? Analisi controcorrente degli ultimi 50 anni

  scritto da Econopoly il 13 Dicembre 2021
RES PUBLICA

Post di Michele Boldrin, Joseph Gibson Hoyt Distinguished Professor presso la Washington University di Saint Louis, e Matteo Fatale, master in Finance al collegio Carlo Alberto –

Si sprecano ormai gli scritti tesi a dimostrare che i problemi concreti dell’economia italiana e di altre economie occidentali dipendono da una qualche generale proprietà del sistema “capitalista” e, in particolare, dagli errori analitici di una supposta “teoria economica dominante” che di questo sistema sarebbe, al contempo, apologeta e creatrice.
L’articolo pubblicato su Econopoly e firmato da Riccardo D’Orsi qualche settimana addietro, costituisce un caso esemplare di tale diffusa teoria che alimenta, in buona parte della sinistra italiana, fantasie tanto antiche quanto dannose. Secondo l’autore dell’articolo esiste un corpus teorico dominante che (a) ha determinato le politiche economiche degli ultimi anni e, (b) si fonda su una serie di falsi assiomi, i seguenti.
1. L’economia di mercato tende spontaneamente alla piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro).
2. Data la relazione inversa tra salari e occupazione, flessibilizzando il mercato del lavoro si ottiene più alta occupazione, più alta competitività internazionale e maggiore attrattività del mercato interno.
3. Sindacati e istituti regolatori rappresentano una distorsione di meccanismi altrimenti efficienti.
4. La domanda aggregata non ha alcun ruolo nel determinare l’andamento di lungo periodo della produttività, la quale viene determinata dal lato dell’offerta.
Dalla messa in pratica di politiche basate su presupposti falsi ed argomenti logici erronei come i precedenti conseguono tutti, o quasi, i guai economico-sociali che ci affliggono.

Vi sono qui tre aspetti che vanno considerati, anzi quattro.

(i) In che senso le affermazioni precedenti definiscono la struttura portante della teoria economica “dominante”?
(ii) In che maniera tali assiomi informano le politiche economiche adottate in Italia ed in Europa durante gli ultimi, diciamo 10-50 anni?
(iii) Che relazione esiste fra le politiche economiche effettivamente adottate ed i fattori critici reali che l’autore dell’articolo attribuisce all’applicazione politica degli assiomi 1-4?
Il quarto aspetto (che non tratteremo ma a cui sarebbe interessante poter dedicare una riflessione più ampia) riguarda la supposta relazione fra questo “sistema capitalista” – che non viene mai definito ma muta sempre – e la supposta “teoria economica dominante” che discenderebbe dalle quattro scemenze elencate sopra.
Il pattern argomentativo è un po’ sempre lo stesso ed inizia dalla produttività. Secondo l’autore dell’articolo essa in Italia ha smesso di crescere negli anni ’90 a causa del consolidamento fiscale che fece seguito alla crisi finanziaria del 1992 e da lì non ha più potuto riprendersi a causa della continua austerità che ha bloccato la spesa pubblica. Prima di venire alla fantasiosa teoria, guardiamo i fatti.
Iniziamo con due misure degli indici di produttività italiani. Tante cose si possono apprendere da questi grafici ma non che la crescita della produttività si sia arrestata negli anni ‘90. Si era fermata almeno 10-15 anni prima, in piena esplosione del debito pubblico, quella stessa esplosione che causò la crisi finanziaria del 1992. Che la TFP misurata in PPP arresti la propria crescita nel 1980 e da allora cada continuamente mette anche fine alla comica idea secondo cui svalutando si inducano guadagni di produttività aggregati. Nota per i lettori maggiormente curiosi: quest’ultima invenzione costituisce un pilastro portante della strana teoria che gli autori dell’articolo cercano di sostenere. Gli anni ‘80 del secolo scorso furono puntellati da continue “svalutazioni competitive” volute dai governi CAF, i cui risultati (assieme a quelli dell’espansione del debito) sono ora tanto palesi quanto drammatici.
 
Un terzo indice di produttività merita la nostra attenzione prima di passare alla supposta “teoria” sottesa alle affermazioni che i fatti contraddicono. Quello che segue è un indice della produttività oraria reale del lavoro italiano, in media fra i vari settori. Svariate cose saltano agli occhi, su alcune di esse torneremo. Qui ci basta evidenziare che la crescita maggiore degli ultimi 40 anni avviene proprio in coincidenza dell’aggiustamento fiscale (la prima austerità) post 1992 mentre la successiva “bonanza” berlusconian-tremontiana iniziata nel 2001 apre le porte alla prolungata battuta d’arresto che ancora oggi sperimentiamo (1).
 
Veniamo ora alla base teorica degli “eventi” che abbiamo appena provato non essere avvenuti. Il lettore si chiederà che ragioni vi siano per perdere ulteriore tempo, visto che i fatti su cui la supposta teoria si fonda non sussistono. La ragione è presto detta: in un certo mondo che intende definirsi di “sinistra” ed include i responsabili economici di Lega e Fratelli d’Italia (nel Bel Paese tutto oramai è possibile) ci si appiglia a qualsiasi stramberia pur di chiedere maggior debito pubblico. Un vecchio e confuso articolo di Kaldor che utilizzava una (dubbiosa assai) regolarità empirica evidenziata anni prima da Verdoorn sostenne che esistono rendimenti crescenti di scala aggregati. C’era un fondamento teorico per questa affermazione?
No: l’analisi storica e teorica oltre che microeconomica, da Joseph Alois Schumpeter in poi, aveva mostrato e continua a mostrare che le innovazioni e solamente le innovazioni generano crescita economica nel lungo periodo. E che, infatti, quello che a Marshall ed altri poteva aver suggerito l’esistenza di rendimenti di scala crescenti in certe industrie (elettriche, acciaio, chimica, trasporti navali, eccetera) altro non era che il rapido cambiamento tecnologico che avevano sperimentato. Verdoorn usa dei dati, piuttosto poveri e mal assortiti, per stimare una relazione statistica fra variazioni del PIL e della produttività del lavoro. La relazione ovviamente esiste, visto che una enorme letteratura empirica su dati di tutto il mondo dice che il reddito per capita cresce solo quando la produttività lo fa.

Kaldor usò questo fatto per cercare di estrarne una causalità inversa. Se aumenta la domanda (esogenamente, per spesa pubblica) allora aumenta anche la produttività perché i rendimenti aggregati di scale sono crescenti. Evidenza a sostegno? Nessuna, ma se ignori il cambiamento tecnologico che avviene nel primo mezzo secolo XX (o anche nel secondo) e fai finta che la tecnologia del 1966 (anno del paper di Kaldor) sia la stessa del 1911 (anno del libro di JAS) allora puoi anche sognare che se voghiamo a milioni su migliaia di barconi diventiamo veloci come un Airbus 380. A Kaldor (che era un Lord molto di sinistra) interessava raccontare che il Regno Unito aveva bisogno di maggior spesa pubblica per uscire dall’incipiente stagnazione da cui le opposte politiche di un’antipatica signora lo fecero invece uscire circa un decennio dopo…
L’argomento di Kaldor – da allora trattato come un dogma da chi pensa che un debito pubblico crescente garantisca sia il socialismo che la felicità – venne ulteriormente specializzato dal medesimo e da tal Thirlwall in un’altra legge secondo cui la crescita di un paese dipende essenzialmente dalla sua bilancia dei pagamenti. Se esporti tanto ed importi poco cresci, altrimenti no; Bagnai’s economics, insomma. Da svariati decenni la “legge di Bagnai” viene banalmente falsificata dagli USA, da UK, dalla Cina, dal Giappone e… dall’Italia fra gli altrimolti paesi, ma fa nulla (2). Quella stessa “legge”, per mano del CEPAL ed altre fantasiose scuole di economia alternativa, va distruggendo, da circa 70 anni, i sistemi economici dei paesi dell’America Latina i quali, perseguendo “export-led growth & import-substitution”, rimangono in una povertà, sia relativa che assoluta, apparentemente senza fine.

Questa fantasiosa teoria della “crescita tirata dal debito pubblico e dalla svalutazione” non dedica attenzione alcuna alle competenze tecniche della popolazione, alle tasse e alla burocrazia che scoraggiano qualsiasi tipo di attività. Ugualmente, nessuna parola viene spesa sugli investimenti diretti esteri che portano know how e tecnologia o sul creare un tessuto fertile per gli investimenti interni. Si rifletta, per un breve momento, solo su questo dato: prima della pandemia le imprese a controllo estero rappresentavano lo 0,3% del totale, garantendo l’8% degli occupati (1,4 milioni di addetti), generando il 15% del valore aggiunto totale e il 22,4% della spesa in ricerca e sviluppo nel nostro paese. Gli investimenti diretti esteri, nel periodo 2013-2018, ammontano a meno della metà di quelli diretti verso la Spagna e ci collocano all’ultimo posto delle principali economie europee.

Ma veniamo agli assiomi erronei. Che essi siano gli assiomi di una qualche teoria economica esistente i nostri non lo provano, per la semplice ragione che non potrebbero. Ecco brevemente il perché.
1. Se mai fosse esistita in passato, l’economia “di libero mercato” oggi non esiste di certo. Quali possano essere le proprietà di un sistema economico privo di alcuna forma statale lo discuteremo se e quando dovesse mai profilarsi. Nei sistemi economici oggi esistenti sulla terra lo “stato”, nelle sue mille articolazioni, interviene in modo dominante. In Italia, per esempio, il sistema politico controlla tra i 2⁄3 ed i 3⁄4 del PIL annuale. Se si intende parlare di politiche economiche in Italia oggi, di questo paese reale occorre parlare. Lasciamo le disquisizioni teoriche sui modelli astratti a chi sia in grado di farle con profitto e chiediamoci, con gli autori dell’articolo, “Questo sistema non sembra portare neanche lontanamente alla piena occupazione. Perché?” Sarebbero in grado di spiegarci quali sono le cause?
2. Da nessuna parte alcuno ha mai teorizzato una “flessibilizzazione assoluta” (concetto privo di senso visto che pacta sunt servanda ed i contratti di lavoro pacta sono) del mercato del lavoro. Si è invece discusso delle forti disparità di trattamento fiscale, contributivo e contrattuale fra un settore e l’altro (pubblico vs privato, micro-mini aziende vs medio-grandi), fra gruppi di età (giovani vs anziani, insider vs outsider) e fra aree economiche (trattamenti uguali in condizioni diverse, Nord vs Sud). Ognuno di questi trattamenti differenziali, prodotto di un’incessante e secolare attività legislativa, andrebbero discussi nei loro meriti specifici e l’articolo in questione non lo fa. Inventa una teoria neoliberista del mercato del lavoro assolutamente flessibile che né in Italia né in altri paesi occidentali è mai stata proposta. Che senso ha discutere di un’invenzione?
3. Quando si parla di sindacati si parla di tutti i sindacati, non solo di CGIL-CISL-UIL o, più in generale, dei sindacati dei lavoratori dipendenti. Il ruolo delle organizzazioni di categoria, da Confindustria e Confcommercio alla CGIL, nella gestione del mercato del lavoro italiano è cruciale e va affrontata. Non sono né il male totale né il bene ed il loro ruolo va discusso caso per caso. Non vi è dubbio, come una letteratura enorme ed unanime dimostra, che le eccessive rigidità ed i privilegi introdotti dalle varie
organizzazioni di categoria in certi settori dell’economia abbiano costruito un’economia duale che svantaggia in particolare i giovani. E non vi è, simmetricamente, alcun dubbio che in altri settori del sistema economico italiano manchino garanzie contrattuali e salari degni. Se si vuole ragionare su questi temi occorre essere precisi e specifici, non fare vaghe affermazioni ideologiche generali che occultano la realtà dei fatti.
4. Forse gli autori dell’articolo non se ne rendono conto ma, nel lungo periodo, non esiste la “domanda aggregata” indipendente dall’offerta aggregata. Nel lungo periodo esiste solo la capacità di un sistema economico di creare reddito attraverso la produzione di beni e servizi vendibili a prezzi superiori ai costi. E questo determina sia domanda che offerta. L’affermazione secondo cui alimentando la domanda di beni attraverso trasferimenti pubblici determinerebbe la crescita della produttività non è solo contraria, come abbiamo mostrato, ad ogni pezzo di evidenza storica ma è anche e semplicemente vuota sul piano logico.

Ovviamente i critici della “economia dominante”, possono sempre provare che i dati da noi riportati sono erronei e che una misurazione corretta delle statistiche economiche italiane mostra che la crescita del debito e della spesa pubblica ha fatto aumentare la produttività quando aumentava, ovvero tra la fine degli anni ‘40 e la fine degli anni ‘70. Buona fortuna.

NOTE
1) Nota per i non addetti ai lavori. Mentre la TFP cerca di stimare l’impatto aggregato del cambiamento tecnologico “di per se”, la produttività oraria risponde anche a variazioni nell’ammontare di capitale per lavoratore ed alla crescita dei salari reali nei settori in cui il PIL viene calcolato al “costo dei fattori”, anche in assenza di variazioni della produttivita’ reale (nel settore pubblico in particolare). Questo dovrebbe aiutare a capire per quale ragione la produttività del lavoro inizi a rallentare parecchio dopo lo stop nella crescita della TFP.
2) Telegraficamente: USA cresce con deficit di bilancia dei pagamenti dal 1970, idem UK. Più crescono più negativa è la loro bilancia commerciale, mentre questo non vale per il deficit pubblico. Esattamente l’opposto di Kaldor! In Italia, dal 1990 in poi, la correlazione zero; prima è il contrario. Idem per Cina e Giappone che non cresce dal 1993 o cresce poco ma la cui bilancia commerciale rimane altamente positiva. I dati son facili da trovare in rete.

https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/12/13/economia-capitalismo-debito/?uuid=96_eTOmVUZC
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 25, 2022, 03:39:01 pm »

Un semipresidenzialismo a Costituzione invariata. Con Draghi al Quirinale (di C. Martelli)

Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>
08:39 (6 ore fa)
a me

https://www.huffingtonpost.it/politica/2022/01/24/news/il_tempo_dell_incertezza_e_il_semi_presidenzialismo-7575570/
 
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