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Autore Discussione: AMMORTIZZATORI SOCIALI: LA VERA RIFORMA NON È QUESTA  (Letto 2707 volte)
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« inserito:: Novembre 09, 2021, 08:03:01 pm »

AMMORTIZZATORI SOCIALI: LA VERA RIFORMA NON È QUESTA

L’estensione di Cig e Naspi a tutti i settori è stata compiuta col Jobs Act: quello di oggi è solo un ritocco marginale, oltretutto di dubbia opportunità – Quanto alla concertazione, la Cgil non condivide gran che degli obiettivi del Governo, né del come realizzarli; e Cisl e Uil paiono incapaci di esprimere una linea autonoma rispetto alla Cgil

Intervista a cura di Luca Monticelli, pubblicata su la Stampa del 7 novembre 2021 – In argomento v. anche la rassegna stampa del 25 ottobre su I giacimenti occupazionali inutilizzati.

Le condizioni per un nuovo patto tra governo e parti sociali, sul modello di quello di Ciampi del ‘93, «non ci sono». Almeno su una cosa, Pietro Ichino la pensa come Maurizio Landini. «Il presupposto della buona concertazione è che tra Governo e parti sociali ci sia la condivisione almeno degli obiettivi fondamentali e dei percorsi per realizzarli», spiega il giuslavorista. «Oggi il leader della Cgil non condivide gran che degli obiettivi del governo – sottolinea – né del modo per realizzarli». Mentre Landini minaccia lo sciopero, «Cisl e Uil paiono incapaci di esprimere una linea decisamente autonoma rispetto alla Cgil».

Professor Ichino, con la legge di bilancio è arrivata finalmente la riforma degli ammortizzatori sociali; che cosa ne pensa?
Se per riforma si intende l’estensione degli ammortizzatori a quasi tutto il tessuto produttivo, questa è già stata fatta con il Jobs Act, in particolare con il decreto n. 148 del 2015. L’intervento proposto in questa finanziaria è solo un modesto aumento della durata del sostegno del reddito per i settori non manifatturieri, che sono comunque già coperti.

La Cig, però, ora coprirà anche le microaziende del terziario con meno di cinque dipendenti.
Sì, la sola vera novità è questa, ma pare che le imprese interessate non ne vogliano sapere, perché rifiutano di farsi carico del contributo necessario.

Chi ha ragione?
A me sembra che avesse ragione il legislatore del 2015, che le aveva escluse. Perché nel pulviscolo delle imprese di dimensioni minime è troppo facile l’abuso di questo ammortizzatore, ed è troppo difficile stanarlo. Comunque, se la copertura viene estesa deve essere esteso anche il contributo.

Il reddito di cittadinanza è stato confermato e rifinanziato, anche se con qualche paletto. Il grande assente sembrano essere sempre le politiche attive.
Nel PNRR c’è un capitolo dedicato a questo tema, dal contenuto molto generico. Ed è in gestazione un decreto interministeriale, su cui è stata raggiunta un’intesa Stato-Regioni; ma è un testo molto prolisso e fumoso, che non indica obiettivi specifici, misurabili, collegati a scadenze temporali precise, cui le Regioni debbano considerarsi vincolate se non vogliono essere sostituite in via sussidiaria dall’ANPAL.
La Cgil minaccia lo sciopero. Per Landini non ci sono le condizioni per un nuovo patto tra governo e parti sociali sul modello Ciampi.
Certo che non ci sono: il presupposto della buona concertazione è che tra Governo e parti sociali ci sia la condivisione almeno degli obiettivi fondamentali e dei percorsi per realizzarli. Oggi il leader della Cgil [qui a sinistra nella foto con il ministro Orlando – n.d.r.] non condivide gran che degli obiettivi del governo, né del modo per realizzarli. E Cisl e Uil oggi paiono incapaci di esprimere una linea decisamente autonoma rispetto alla Cgil.
Sulle pensioni il governo ha optato per un rinvio. Qual è la strada per garantire un po’ di flessibilità alla legge Fornero?
La flessibilità è coessenziale al metodo contributivo di calcolo delle pensioni: tanto hai contribuito, tanto ricevi; se dunque vai in quiescenza prima, ricevi molto meno, perché contribuisci meno e percepisci la pensione più a lungo. Il problema è che non si accetta questo meccanismo molto semplice: si pretende che la pensione arrivi prima, ma senza decurtazioni. Cioè che, come sempre in passato, paghi Pantalone.
Si parla tanto di una pensione di garanzia per i giovani che hanno carriere discontinue e buchi contributivi. Lei ha una proposta?
Questo problema va risolto innanzitutto assicurando una congrua copertura contributiva per i periodi di disoccupazione, tra un lavoro e l’altro, e questo, con l’universalizzazione del trattamento di disoccupazione realizzata nel 2015 è stato fatto. Inoltre, investendo molto sui servizi al mercato del lavoro: perché il problema occupazionale delle nuove generazioni, in Italia, nasce dalla mancanza di percorsi che consentano ai giovani di conoscere il mercato e sfruttarne tutte le opportunità.
Già, ma se il lavoro non c’è…
Questo è l’errore: tra i Paesi europei maggiori l’Italia è quello in cui le imprese hanno maggiore difficoltà a trovare le persone che cercano. Come ho mostrato nel mio libro L’intelligenza del lavoro, abbiamo dei veri e propri enormi “giacimenti occupazionali” inutilizzati: parlo di molte centinaia di migliaia di posti che restano permanentemente scoperti.

Per i sindacati è un problema salariale. Lei come la vede?
Se così fosse sarebbe facile risolverlo aumentando gli standard retributivi. Purtroppo, invece, è soprattutto un problema di cattivo funzionamento dei servizi di cui parlavo prima: orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti e monitorata capillarmente nella sua qualità, assistenza alla mobilità.

Stiamo vivendo un balzo del pil ma l’occupazione cresce poco e soprattutto aumenta solo quella precaria. Come mai?
Da noi la Cig a zero ore ha l’effetto di mascherare le oscillazioni congiunturali dei livelli occupazionali; ma in tutti i Paesi è normale che l’aumento dei livelli occupazionali arrivi con qualche ritardo rispetto alla congiuntura positiva. Quanto al lavoro precario, il dato a cui occorre guardare non è quello del flusso delle assunzioni: accade dappertutto, oggi, che prevalgano quelle a termine; quello che conta è il dato di stock, che vede il tasso italiano di lavoro a termine abbastanza stabile intorno al 15 per cento, in linea con la media europea.

Differenza tra i minimi tabellari orari (comprensivi delle voci di retribuzione differita) dei principali CCNL e un minimo generale che venisse collocato a 9 euro

Sul salario minimo ci sono le solite resistenze. È vero che è uno strumento che potrebbe sfasciare la contrattazione?
No. Questa è una preoccupazione dei sindacati italiani non giustificata. Al contrario, uno standard minimo universale, possibilmente modulato in relazione al costo della vita regionale, può essere la garanzia necessaria per consentire il pieno sviluppo della contrattazione aziendale, che è a sua volta condizione per alimentare il circolo virtuoso tra aumento della produttività e aumento dei salari.

Da - https://www.pietroichino.it/?p=59968
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 10, 2021, 06:13:49 pm »

Pietro Ichino

LA CASA NELLA PINETA
IL VOTO SUL DDL ZAN AL SENATO E L’ERRORE MADORNALE DEL PD

In Parlamento, sulle materie che riguardano i diritti civili fondamentali è giusto che la regola sia quella del voto segreto: anche per mettere a nudo gli scollamenti interni agli schieramenti, come è accaduto nel caso del d.d.l. Zan

Editoriale telegrafico per la Nwsl n. 553, 9 ottobre 2021 – Sul disegno di legge contro la omo- e transfobia v. anche il mio editoriale telegrafico del 13 luglio 2021, Ddl Zan: il valore di una maggioranza molto ampia.

Tra il 1979 e il 1983, quando sono stato deputato, il voto segreto era la norma: per quasi tutte le delibere, che riguardassero il contenuto di leggi o l’elezione di persone a cariche pubbliche, le scelte operate dai parlamentari non erano conoscibili. In alcuni casi, quando il voto riguardava una materia controversa sulla quale si sapeva esservi divisioni in seno alla maggioranza, accadeva con una certa frequenza che nel dibattito l’0pposizione enfatizzasse l’importanza della decisione per indurre i “franchi tiratori” in seno alla maggioranza a entrare in azione. Tra il 2008 e il 2018, quando sono stato senatore, la regola era invece – come è tuttora – il voto palese, salvi i casi in cui esso riguardi singole persone, oppure materie riguardanti i diritti civili fondamentali. Sia nel corso della prima esperienza, sia nel corso della seconda, ho sempre visto la maggioranza “andare sotto” per pochissimi voti, e per lo più in concomitanza con assenze di qualche rilievo nelle file della stessa maggioranza. Comunque, i bravi segretari d’Aula del PCI prima e del PD poi, sia che i rispettivi partiti fossero all’opposizione o al governo, erano sempre in grado di individuare con precisione chirurgica le situazioni critiche, nelle quali la maggioranza era a rischio, sbagliando le previsioni al massimo di 3 o 4 voti. La cosa sconcertante che è accaduta il 27 ottobre scorso al Senato è che il PD abbia sbagliato la previsione non di 3 o 4 voti, ma di ben 23. Questo può spiegarsi soltanto in due modi: con la consapevolezza che la partita fosse irrimediabilmente perduta e la scelta di certificare la cosa in modo clamoroso (ma a che pro?); oppure con una sottovalutazione gravissima dei voti contrari in seno allo schieramento del centro-sinistra, e in particolare in seno allo stesso PD.

Quale che sia la lettura dell’accaduto, la morale che ne traggo non è quella – sostenuta da qualcuno – dell’inopportunità del voto segreto (su queste materie è giusto che in Parlamento esso sia la regola), bensì nel senso di un errore politico madornale commesso dal PD, rifiutando gli emendamenti proposti a luglio da IV. Peccato.

Da - https://www.pietroichino.it/?p=59930
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 10, 2021, 06:23:37 pm »

La nostra Carta consente già oggi, in caso di necessità, una possibile dilatazione “a fisarmonica” del ruolo del Capo dello Stato, in senso “semi-presidenzialistico”: lo si è visto sia con Giorgio Napolitano, sia con Sergio Mattarella

Primo editoriale telegrafico per la Nwsl n. 553, 8 novembre 2021 – Sullo stesso argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 25 ottobre scorso


GIORGETTI NON PROPONE UNA RIFORMA COSTITUZIONALE SURRETTIZIA

Sembra quasi che il ministro Giancarlo Giorgetti abbia letto e condiviso il mio editoriale della settimana scorsa sull’opportunità di eleggere Mario Draghi al Quirinale, con la prospettiva che da lì egli possa assicurare la continuità dell’azione dell’attuale Governo, evitando lo scioglimento anticipato delle Camere. Alla presa di posizione del ministro dello Sviluppo molti hanno obiettato che essa configurerebbe sostanzialmente una forma di semi-presidenzialismo, dunque una riforma costituzionale, la quale richiederebbe di essere approvata nelle forme previste dalla Carta.

Dissento: è proprio la nostra Costituzione attuale che prevede la possibilità di una sorta di ampliamento “a fisarmonica” del ruolo del Capo dello Stato, in tutte le situazioni – come quella che stiamo attraversando – nelle quali un interesse superiore del Paese imponga una tregua politica e il conseguente “passo indietro” dei partiti rispetto all’Esecutivo. Questo è già apertamente accaduto nel 2011-12, consule Napolitano; ma sarebbe nascondersi dietro a un dito non riconoscere che questo si è verificato anche nel primo anno di quest’ultima legislatura, quando Sergio Mattarella ha rifiutato la designazione di Paolo Savona all’Economia, per poi coltivare invece, durante tutto l’anno del governo giallo-verde, un rapporto fiduciario molto intenso con il ministro Giovanni Tria: il quale rispondeva di fatto al Quirinale (essendone protetto) almeno altrettanto quanto rispondeva a Palazzo Chigi.

Poiché tutti, ma proprio tutti, riconoscono l’assoluta correttezza costituzionale di Sergio Mattarella, questo conferma che la Costituzione prevede già oggi, eccome, il temporaneo dilatarsi delle funzioni del Capo dello Stato. Dunque, non ci sarebbe niente di inappropriato se nell’inverno prossimo il Parlamento, collocando Mario Draghi sul colle più alto, gli conferisse implicitamente anche il compito di garantire la continuità dell’azione dell’Esecutivo lungo le linee già individuate dallo stesso Draghi in veste di Premier.

Da - https://www.pietroichino.it/?p=59887
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