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Autore Discussione: Giovanni Maria Flick - Dei diritti e delle paure  (Letto 2944 volte)
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« inserito:: Gennaio 03, 2008, 12:13:18 am »

Dei diritti e delle paure

Giovanni Maria Flick


Esiste oggi, drammaticamente, un agitato sentire sociale che - più o meno consapevolmente - associa tutta una serie di fenomeni, assai diversi tra loro, incanalandoli nell’unico, grande filone «emergenziale». Così, sentiamo evocare il concetto di emergenza tutte le volte in cui si è in presenza di una violenza che oltrepassa l’episodicità; in cui si assiste a episodi delittuosi che hanno una parvenza di serialità, per provenienza e modalità; o in cui si è di fronte a quella microcriminalità diffusa, che si esprime con cadenze costanti. La presenza multietnica nelle nostre metropoli viene vista, immediatamente, come un’emergenza epocale al pari della tutela delle vittime; in generale, il problema della sicurezza viene, sempre più spesso, spostato «verso l’alto», ossia in quel contenitore onnicomprensivo ormai conosciuto - anche dai non addetti ai lavori - come “diritto penale dell’emergenza”.

In esso, oggi, si tende a far confluire un po’ di tutto: dalle emarginazioni sociali ai disadattamenti della convivenza tra etnie diverse; dalla rinascita del “diritto penale d’autore” ai malesseri sociali: arrivando, persino, ad includervi i disagi della famiglia o delle microconvivenze, se è vero che, persino in occasione di efferati delitti maturati in ambito domestico, abbiamo letto che la stessa violenza in famiglia o verso amici o conviventi costituisce la “nuova emergenza” criminosa.

Ogni “falsa” emergenza, si nutre poi, naturalmente, dei rituali per esorcizzare l’insicurezza che la genera: questi ultimi, a loro volta, divengono - per un’eterogenesi di fini di immediata leggibilità - occasione di ulteriore, falsa emergenza. Rispetto ad un’irrazionale paura collettiva, nulla ha maggiore capacità di aggregazione (a buon mercato; e con il rischio di un populismo a sua volta aggregante) della minaccia di repressione penale: una risposta esemplare (“tolleranza zero” e “risposte forti”); simbolica (le “leggi manifesto”, anche prescindendo dalla verifica dell’esistente normativo, magari mai attuato); emotiva (le categorie del Tatertip, appunto, oppure la repressione proclamata al di là ed indipendentemente da ogni effettività di tutela). (...)

L’emergenza che mette alla prova i diritti fondamentali della persona non è la “falsa” emergenza dei fenomeni microsociali e della paura sociale che essi generano.
Essa, purtroppo, assume contorni ben diversi - emblematici e reali, al tempo stesso - a seconda delle situazioni da cui origina; ed è un concetto che ovviamente si relativizza nello spazio e nel tempo, assumendo connotazioni di gravità assai variegate che, a loro volta, generano differenti livelli di compressione dei diritti fondamentali. È possibile, infatti, che un contesto di eccezionalità si realizzi in un dato momento storico per eventi o fenomeni della più varia natura: può trattarsi di catastrofi naturali; di guerre; di scontri sociali e simili. Ed è ovvio che a ciascun fenomeno corrispondano esigenze di tutela altrettanto differenziate. È la nostra Costituzione, ad esempio, a prevedere che in presenza di motivi di sanità possa essere limitata dalla legge la libertà di circolazione e di soggiorno sul territorio nazionale e possa essere compressa la inviolabilità del domicilio attraverso la esecuzione di ispezioni secondo le leggi speciali. (...)

Di fronte a questa pluralità di accezioni, mi sembra opportuno fermarsi a riflettere sul fenomeno che presenta in atto i connotati di più alto allarme collettivo: il terrorismo internazionale. Sono, infatti, proprio le gravissime forme in cui quel fenomeno tragicamente si esprime a rappresentare di per sé (aggredendo i singoli Stati, attraverso la emblematicità ed estensione dei fatti di sangue) l’emergenza collettiva di più estesa e percepibile pregnanza. Da tutto ciò scaturisce, dunque, il rischio che a tale acme di terrore, finiscano per corrispondere - sull’onda di logiche eccessivamente “semplificatorie” - deprecabili rimedi, per così dire, uguali e contrari, che finirebbero per travolgere i valori su cui si fonda il concetto stesso dello Stato di diritto. Qualsiasi struttura costituzionale, infatti, non può rinunciare - pena la sua evidente incongruenza giuridica - alla individuazione di una soglia minima di garanzie che devono proteggere l’individuo in quanto tale, a prescindere dalle esigenze di salvaguardia dello Stato collettività o, financo, dello stesso Stato persona.

Spesso ci si interroga su quale sia il crinale che distingue il diritto di difesa dalla “ingiusta” compressione del diritto altrui; ed è altrettanto frequente il richiamo ad un machiavellico principio di “fine che giustifica i mezzi”. Ma, per non superare quell’invalicabile crinale che è patrimonio coessenziale dello stesso Stato di diritto, occorre che i valori dell’individuo - che corrispondono “naturalmente” ai valori della collettività in cui esso si esprime - non vengano compressi al di là della soglia (variabile ma sempre identificabile in concreto) che ne determinerebbe la sostanziale vanificazione. In tale prospettiva deve quindi essere vista con estremo favore la recente iniziativa delle Nazioni Unite sulla moratoria della pena di morte, giacché è proprio questa la base etico-giuridica su cui edificare uno “statuto” dei diritti dell’individuo che viva nella concretezza delle dinamiche istituzionali, al di sopra e se si vuole anche a prescindere da qualsiasi “Carta” meramente declamatoria. (...)

Che certi gradi di divaricazione tra sicurezza e legalità (e dunque anche rispetto alla dignità) possano sussistere, è inevitabile, entro certi limiti, anche in situazioni ordinarie. Ciò che invece rappresenta un rischio (e, dunque, la prova per i diritti fondamentali) è una sorta di “cronicizzazione” e di “normalizzazione” dell’emergenza, idonee a trasformare il ricorso a misure eccezionali - quali ad esempio, la limitazione o la sospensione di diritti fondamentali - in una sorta di prevenzione senza fine, giustificata dal pericolo del terrorismo. In breve, il pericolo è quello di enfatizzare e di strumentalizzare paure ed insicurezze sociali per veicolare limiti alle libertà, secondo il criterio dell’innesto all’apparenza innocuo e senza effetti collaterali: come un veleno che - assunto in dosi insignificanti, ma continue - determina l’assuefazione e, quindi, la tolleranza dell’organismo.

Ora, questo effetto di “mitridatismo sociale” verso l’indebolimento dei diritti - vale a dire: questa condizione di immunità a più veleni per la democrazia, raggiunta tramite l’assuefazione, a causa dell’assunzione costante di dosi non letali di compressione dei diritti - è, probabilmente, il rischio più serio per questi ultimi, proprio in quanto idoneo ad alterarne la prospettiva. È un rischio causato non tanto e non solo dall’assuefazione a tale indebolimento, quanto e soprattutto dalla confusione tra due piani temporali completamente diversi. Si rischia, cioè, di confondere l’orizzonte storico dei diritti fondamentali con il transeunte dell’emergenza, annullando, in quest’ultimo, lo stabile assetto dei primi. Per semplificare, il rischio è quello di invertire le proporzioni temporali dei due termini: considerare l’emergenza quale condizione duratura dell’odierna civiltà, quasi un portato inevitabile ed ineliminabile delle contraddizioni di un mondo assai poco omogeneo; e considerare, per contro, i diritti quale variabile dipendente, elastica, come qualcosa che può e deve plasmarsi secondo la contingenza storica, comprimibile e riespandibile e, dunque, adattabile alle circostanze.

In breve, una concezione mobile della dignità umana e dei diritti che la presidiano: perché col terrorismo dobbiamo convivere; mentre i diritti li possiamo comprimere. Correlato a ciò, è il rischio di trasformare il diritto penale - opportunamente derogato nei suoi principi fondamentali: legalità, materialità, offensività, personalità della responsabilità, colpevolezza, proporzionalità, rieducazione, giusto processo - in un ordinario diritto penale “del nemico”; magari esteso - una volta che l'innesto nel corpo sociale abbia avuto i primi effetti di assuefazione - anche a campi diversi, a manifestazioni criminali comuni. Persino ad una microcriminalità colorita con le tinte fosche della xenofobia. Sono solo scenari apocalittici ? Non credo. Sono scenari possibili, soprattutto se, culturalmente, passa l’idea di una inconciliabilità della tenuta dei diritti di fronte all’emergenza; se, cioè, si pensa (e quindi si agisce) come se (ancora una volta) uno dei due termini della relazione dovesse comunque annullarsi. E, poiché non è in nostro potere il porre fine all’emergenza, è intuitivo capire quale sarebbe il termine sacrificato.

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Il testo è tratto dall’intervento di Giovanni Maria Flick al convegno organizzato dall’Associazione Silvia Sandano in onore di Aharon Barak e che si è svolto all’Università La Sapienza di Roma lo scorso 6 dicembre


Pubblicato il: 02.01.08
Modificato il: 02.01.08 alle ore 8.42   
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