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Autore Discussione: Massimo A. Alberizzi - La crisi in KENYA  (Letto 2895 volte)
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« inserito:: Gennaio 02, 2008, 11:51:47 am »

La crisi in KENYA

La democrazia «corrotta»

Dai mau mau ai nuovi leader


NAIROBI - Viene considerata la crisi più grave dall'indipendenza, cioè dal 1963. Il Kenya non ha mai conosciuto colpi di Stato (tranne uno abortito sul nascere nel 1982) ed è considerato il Paese più stabile di tutta l'Africa nera (dopo il Sudafrica), specie dopo che anche la Costa d'Avorio è collassata. Il rischio che precipiti nel caos è reale e la cause vengono da lontano. I kikuyu, l'etnia maggioritaria di origine bantu, cui appartiene il presidente Emilio Mwai Kibaki, non è un'etnia omogenea. Sin dai tempi del colonialismo inglese si sono divisi per gruppi di interessi.

I mau mau, i guerriglieri che hanno lottato per l'indipendenza, facevano riferimento a un piccolo ma potente gruppo di kikuyu. Ma altri hanno tenuto fino all'ultimo un atteggiamento collaborazionista nei confronti della corona britannica. Jomo Kenyatta, un fine intellettuale kikuyu considerato dagli inglesi ispiratore della rivolta mau mau, in quegli anni viene sbattuto in galera, ma quando Londra decide di procedere con la decolonizzazione viene riabilitato a tal punto che l'Economist lo presenta in copertina con il titolo: «Our man in Kenya», il nostro uomo in Kenya. Kenyatta diventa primo ministro e poi presidente del nuovo Paese, instaura ottimi rapporti con britannici e americani ma in politica interna non riesce a perdonare i kikuyu ex collaborazionisti che vengono tenuti lontani dal potere. Vicepresidente viene scelto Jaramogi Oginga Odinga (di etnia luo, di origine nilotica, padre di Raila Amolo Odinga) e segretario generale del Kanu, il partito al potere, il luo Tom M'boya.

I primi anni sembrano idilliaci e il Paese va a gonfie vele grazie all'aiuto dei Paesi occidentali che lo considerano strategicamente assai importante. Ma Kanyatta commette l'errore comune a tanti leader africani. Tratta con un occhio di riguardo i kikuyu del suo gruppo, cui, ad esempio, vengono assegnate le terre più fertili e produttive nel processo di africanizzazione delle grandi aziende agricole che appartenevano ai bianchi. Gli amici di Kenyatta diventano in pochi anni l'elite politica ed economica del Paese. I luo si sentono emarginati e cercano di reagire, nel 1966 Oginga Odinga si stacca dal Kanu e forma il Kpu, Kenya People Union, un piccolo gruppo radicale di opposizione. La rot tura definitiva tra kikuyu e luo avviene nel 1969 quando Tom M'boya viene assassinato da un attivista kikuyu, il Kpu messo fuori legge e i suoi leader, compreso Oginga Odinga, arrestati.

Quando a Kenyatta succede Daniel arap Moi le cose non vanno molto meglio. Moi è un kalenjin, uomo di compromesso tra i due gruppi kikuyu. Comincia la deriva del Kenya. La corruzione diventa rampante e fanno carriera affaristi senza scrupoli che sfruttano le loro posizioni politiche solo per fare soldi. È in questo contesto che emerge Mwai Kibaki, una volta primo ministro di Moi e poi finito il galera. Kibaki chiama a raccolta la parte di kikuyu rimasta emarginata dai «regni» di Kenyatta e di Moi e riesce a formare una coalizione arcobaleno. Un ruolo importante viene affidato a Raila Odinga. Nel 2002 l'aggregazione di gruppi politici e tribali variegati vince trionfalmente le elezioni in nome di una lotta alla corruzione dominante e lo porta alla presidenza. «Ma Kibaki non mantiene le sue promesse — spiega Anna Maria Gentili, ordinario di Storia Africana all'università di Bologna — perché riesce a creare una rete di corruzione ancora più attiva di quella di Moi. I suoi uomini più vicini fanno affari compromettenti e lucrosi. Mentre il Paese sprofonda nella povertà».

 Nel tentativo di salvarsi Kibaki riesce in un'impresa impossibile: nel nome degli affari e della corruzione riunifica i kikuyu. Si allea con il suo vecchio nemico Uhuru Kenyatta, figlio di Jomo, delfino di Moi e suo antagonista alle elezioni del 2002, e con lo stesso Moi. Alla sua corte arrivano gli affaristi più screditati, mentre i luo, gli akamba, i luia e tutte le altre etnie del Paese formano un'alleanza per sostenere Raila Odinga. Ma le elezioni sono una sonora batosta per gli uomini di Kibaki. I luo e i loro alleati gridano già di gioia quando lo scrutinio delle schede per l'elezione del presidente subisce un rallentamento, improvvisamente gli osservatori europei vengono seccamente allontanati dai seggi, il numero degli elettori cresce. Il verdetto della commissione elettorale è frettoloso per permettere un rapidissimo giuramento davanti ai giudici della corte suprema: Kibaki 4.584.721 voti, Odinga 4.352.993. Scoppia la rabbia dei luo che si sentono ancora una volta defraudati.

Massimo A. Alberizzi
02 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 02, 2008, 11:58:20 am »

Lontano da Roma

L'ex dirigente Ds vive sei mesi all'anno a Malindi, dove fa lo scultore

«Il mio capodanno nel Paese in fiamme»

Il racconto di Luigi Colajanni: per l'ultimo dell'anno cena in spiaggia a lume di candela


MILANO — Gli italiani in Kenya sono tutti per Raila Odinga «il comunista ». Quello che ha battezzato il suo primogenito Fidel Castro ed è l'idolo dei diseredati.

Dice Luigi Colajanni: «Al candidato dell'opposizione è stata fatta una porcheria. È lui il vincitore di queste elezioni presidenziali.
Ed è anche il preferito da quelli che, come me, in Kenya vivono da tempo. Perché? È più giovane e più energico di Mwai Kibaki».

Colajanni, 64 anni, ex responsabile Esteri dei Ds ed europarlamentare, sei mesi l'anno si rifugia nella sua casa sulla costa kenyota, a Malindi. Dove vivere nel lusso, raccontano, costa poco. «Ma io ho scelto questo paese soprattutto perché tutto, qui, è più semplice, senza lussi. O meglio, l'unico lusso è la libertà assoluta di cui si può godere». In questa sua seconda vita, Colajanni è diventato un noto creatore di sculture dalle forme e dai materiali astratti, ma segue sempre con attenzione le vicende politiche. Anche ieri, mentre nel primo giorno del 2008 i turisti, di cui 4000 italiani, affollavano le spiagge di Malindi godendosi paciosi i 30 gradi, lui ragionava su quello che sta accadendo a 600 chilometri dalla costa: «Premesso che qui è tranquillo né più né meno di Bergamo, è vero che adesso c'è una situazione molto confusa. Il sospetto di brogli elettorali è serio. L'unica soluzione potrebbe essere l'apertura di un dialogo tra i due contendenti».

Nonostante le sue preferenze vadano ad Odinga, «che ha una storia vera nella lotta per l'indipendenza», Colajanni riconosce al presidente uscente, Kibaki, almeno due cose: «Grazie alla sua riforma gratuita della scuola elementare i bambini che ci vanno sono passati da 3 a 8 milioni. E poi ha introdotto la cura gratuita della malaria negli ospedali. Per intenderci, la gente adesso non muore più perché non ha i 100 scellini per le medicine». Nel conflitto, poi, secondo lui, non è da trascurare l'elemento tribale: «Sia Moi sia Kibaki sono di etnia kikuju, e quindi l'establishment politico è tutto loro. Mentre Odinga è luo: c'è una certa resistenza a essere soppiantati». Parlando con Colajanni, però, si ha la sensazione che nonostante le agenzie diano notizie di massacri e disordini, lì, sulla costa — che ha votato compatta per Odinga —, di quello che sta accadendo al Nord si avverta poco o niente. Insomma, che la vita scorra come al solito nell'Africa accessibile a tutti, ricchi e non: 9 ore da Malpensa, con il charter che atterra a Mombasa, e da lì quattro ore in auto. «Mah, qui è successo poco, Malindi è tranquilla. Si ha una percezione un po' distorta degli scontri. Per ora l'unica conseguenza sulle nostre vite è che poiché la strada, che è unica, è interrotta, cominciano a scarseggiare benzina e verdure».

 Ma nonostante questo, la festa di fine anno di Colajanni e di altri italiani famosi «in trasferta» a Malindi è filata liscia. «Francamente....ce ne siamo fregati. Eravamo io con mia moglie, Chicco Testa e famiglia, Giovanni Minoli e la moglie Matilde Bernabei, Pietro Calabrese e pochi altri. Cena a casa mia sulla spiaggia a lume di candela». Solite aragoste a due euro l'una? «No, no, non impazzisco per il pesce. Abbiamo mangiato invece un'ottima pasta e poi l'insalata russa, che adoro. L'unica cosa, ogni tanto scherzando qualcuno brindava dicendo: Buon Capodanno... se non ci tagliano la gola. Gli altri italiani? Spensierati come sempre. Ristoranti, locali e casinò erano stracolmi. L'unica accortezza che stiamo applicando è quella di non affrontare lunghi viaggi notturni. Personalmente aspetto di vedere cosa succederà quando molti torneranno in aereo, tra il 4 e il 5. Lì si vedrà se la situazione è davvero pericolosa». Incoscienza o voglia di esorcizzare? «La verità è che quelli come me che sono a Malindi non si fanno impressionare tanto facilmente. Siamo gente fredda, che ne ha viste tante. Vivere qui è una scelta che non comporta invidia, perché tutti lo possono fare. Ma serve il coraggio. Il coraggio, quando si va in pensione, di scegliere Malindi invece di rifugiarsi, che so, ad Abbiategrasso».

Angela Frenda
02 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 03, 2008, 10:52:46 pm »

Il Kenia e il paradosso democratico

Luigi Bonanate


Che nella Chiesa di Eldoret (Kenya) siano morte bruciate 40 persone è un fatto doppiamente orribile: non perché si trattasse di un luogo di culto e neppure perché fosse cattolico, ma perché una volta di più la violenza sta brutalmente invadendo lo spazio della politica. Neppure la matrice etnica funge da chiave di lettura perché la compresenza e la tensione tra tribù in Kenya non è una novità e aveva trovato ormai una sua stabilità. Oggi in Kenya, ieri in Nigeria (nell’aprile 2007, 200 morti hanno insanguinato colà le elezioni), domani (come non temerlo) in Libano, intorno all’ancora incerta modalità di elezione del Presidente, o in Pakistan dove il prezzo di sangue pagato prima ancora delle elezioni non ci garantisce che la loro prossima celebrazione (rinviata al 18 febbraio) sarà pacifica e incruenta.

Potremmo aggiungere che in molti altri Paesi il fenomeno-elezioni è accompagnato (preceduto, per influenzarne l’esito; seguito, per invalidarlo) da violenze anche estreme. In Colombia nel novembre scorso in una sola circostanza elettorale (ancorché amministrativa) ci sono stati 30 morti. Nell’autunno scorso il Guatemala è arrivato alle urne con decine di morti alle spalle (e con la sconfitta di Rigoberta Menciù; non diciamo nulla delle elezioni cecene del 2004 e neppure nulla di quelle russe del dicembre scorso, non diremo nulla dell’Uzbekistan, dove l’effettuazione delle elezioni è poco più - o poco meno - che una farsa). Si direbbe che siamo di fronte a un vero e proprio paradosso politologico: quanto più si promuove la democrazia nei Paesi che ancora non l’hanno, tanto più la pratica democratica delle elezioni si rivela cruenta, violenta, e anti-democratica.

C’è stato un periodo in cui nella scienza politica mondiale andavano di gran moda le ricerche sulla modernizzazione dei Paesi in via di sviluppo o ancora arretrati, che si ispiravano agli studi di teoria dello sviluppo politico ed economico. Si riteneva, in breve, che i Paesi non ancora democratici potessero diventarlo se, e soltanto se, riuscivano a superare una serie di fasi, prima delle quali ogni innesto esterno (come una democrazia importata, per intenderci) sarebbe stato destinato al fallimento per la sua intempestività o prematurità. Che cosa deve e può fare il mondo occidentale, fortunato, ricco, avvantaggiato dalla sua precocità, e che tali tappe ha già superato (e da molto tempo, durante il quale si è lungamente dilettato nell'opprimere i popoli dei quali lamenta l'arretratezza), per aiutare e accompagnare i paesi che si stanno faticosamente e il più delle volte addirittura stentatamente accostando al modello di democrazia che noi prediligiamo?

Una prima e perentoria risposta è quella che ritiene che sarebbe meglio che l’Occidente, dopo tutti i guai che ha combinato nel suo passato coloniale, se ne stesse a casa sua, eventualmente evitasse anche di andare nelle ex-colonie a passar le vacanze, e comunque non cercasse di sfruttare ancora surrettiziamente le risorse naturali di certi Paesi. Per quanto comprensibile, questa sarebbe una risposta sterile e in fondo egoistica. In uno spirito che invece si proponesse (anche) di offrire una specie di indennizzo a chi in passato è stato meno fortunato di noi, si dovrebbe decidere il tipo di impegno: dare assistenza “condizionata”, come si dice, nel senso che a ogni progresso (ad esempio nell’applicazione delle regole democratiche) del Paese preso sotto tutela, il tutore risponde offrendo maggiori aiuti allo sviluppo economico? Oppure, più limitativamente, ci si accontenterà di offrire le tavole della legge ai popoli nuovi illustrando le meraviglie della democrazia dicendo loro che si arrangino, facciano un po’ come vogliono, intanto che noi ci occuperemo delle loro risorse (il caso nigeriano sembra proprio riprodurre questo modello)?

Nessuna di queste ipotesi sembra destare entusiasmo: Kant diceva che gli uomini si comportano sovente in modo diabolico, ma poi aggiungeva che poiché i diavoli sono intelligenti, anche noi (magari diabolici) possiamo comportarci in modo intelligente. Ciò significa che è improponibile la morale che discende dalle tradizionali impostazioni delle teorie dello sviluppo: non possiamo limitarci a guardare ai Paesi nuovi come se fossero lontani da noi e diversi da noi. Nell’era della globalizzazione non ha senso credere che le vie della democrazia siano lastricate in modo differente in Occidente e nel resto del mondo. Il Kenya è un grande Paese, ricco di risorse naturali, con un’economia che si sviluppa al ritmo del 6% annuo, con costumi e culture che mescolano la tradizione e la modernità, le evocazioni tribali e i gadget tecnologici più sofisticati. Insomma, di fronte alla politica siamo tutti uguali e pensare che l’Africa sia diversa da noi non è che un’ennesima manifestazione di colonialismo.

L’Africa ha saputo offrire al mondo pagine politiche di straordinaria civiltà proprio quando nessuno di noi credeva che ne sarebbe stata capace: la transizione sudafricana che portò Mandela dalla prigione alla presidenza fu ammirevole. E ora anche in quel Paese l’elezione (sempre queste elezioni...) del nuovo capo dell’African National Congress, Jacob Zuma, oggetto di contestazioni e di tensione politico-sociale, ci dimostra che tutto il mondo è Paese, cioé che la lotta politica non cambia molto da Stato a Stato, e che quindi le regole della democrazia non hanno bisogno di alcun aggiustamento né devono essere piegate a favore di questa o quella posizione. La lezione è una sola, ovvero che tutti insieme dobbiamo contribuire a che le procedure democratiche prevalgano su ogni altro principio politico. Politica in pubblico (senza segreti né complotti), nonviolenza, libertà di parola e di voto: basterebbe che esportassimo tutto ciò per sentire di aver compiuto il nostro dovere.

Pubblicato il: 03.01.08
Modificato il: 03.01.08 alle ore 8.13   
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