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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 127649 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:46:46 pm »

LIMITI E CRISI DEL MOVIMENTO 5 STELLE

Se il carisma non basta

Ci sono alcune cose interessanti in comune tra la nascita del Movimento 5 Stelle e la nascita della Lega Nord (a parte l’assai maggiore velocità con cui si sta consumando la parabola del primo). Così come è interessante un aspetto della situazione italiana che le loro comuni difficoltà ci dicono.

M5S e Lega nascono entrambi per impulso di due figure carismatiche, Beppe Grillo e Umberto Bossi, prive di qualunque background o curriculum di tipo politico. Sono loro due che s’inventano tutto, si creano un seguito personale e trascinano al successo la loro creatura. E lo fanno tutti e due attraverso una campagna di agitazione nelle piazze in cui mettono in campo un fortissimo e accattivante (a suo modo) elemento di fisicità personale: troppo forte per essere contenuto in qualsiasi schermo televisivo o per sopportare un qualunque «dibattito» (e infatti entrambi sostanzialmente disertano l’uno e l’altro). L’assenza nella loro immagine e nel loro discorso di qualunque tratto politico tradizionale li avvantaggia enormemente (così come all’inizio avvantaggia Renzi che però, obbligato a interloquire sempre di più con un organismo super politico come il Pd, riuscirà con sempre maggiore fatica a mantenere questo tratto e a non perdersi nella chiacchiera e nelle ritualità «politichesi »). È così infatti che essi riescono a intercettare la sacrosanta protesta dal basso—confusa, umorale, spesso violenta e volgare— di un’opinione pubblica stanca principalmente proprio delle forze politiche tradizionali e della loro enorme inadeguatezza. Nell’interpretare questa protesta li unisce ancora un elemento comune. Entrambi le danno uno sfondo utopico: Bossi il separatismo del Nord-nazione, Grillo il miraggio della Rete e della democrazia diretta all’insegna della trasparenza universale. Qui però iniziano per tutti e due i problemi: l’utopia, infatti, va bene per mobilitare, per spingere ad andare oltre l’oggi; ma se poi hai successo, è all’oggi, alla politica attuale, che in qualche modo devi inevitabilmente tornare.

Un ritorno per il quale la Lega è comunque in un certo senso attrezzata. L’elemento territoriale della sua utopia di partenza le ha consentito in modo abbastanza naturale, infatti, di trasformarsi in un partito degli interessi locali, in un partito di sindaci e assessori, accettando a livello nazionale un ruolo puramente gregario: importante ma pur sempre gregario. È sul Movimento 5 Stelle, invece, che le contraddizioni mordono con maggiore furia.

Quella certamente più evidente è la contraddizione tra carisma e leadership. Agitare una folla ed emozionare nei comizi è una cosa, guidare un gruppo di eletti al Parlamento in base a qualche strategia un’altra. Grillo ha mostrato di avere il carisma, ma sta mostrando di non sapere come trasformarlo in una leadership. Cioè in qualcosa che ha bisogno di almeno tre elementi: un’idea di fondo sufficientemente realistica delle cose da fare, riuscire a inventarsi una struttura organizzativa, e infine la capacità non già di farsi obbedire ma di convincere. Il passo dal carisma alla leadership non gli riesce probabilmente per un’insicurezza personale di fondo. Infatti, mentre egli ha assoluta padronanza del primo, per quanto riguarda la seconda, invece, è consapevole di non sapere neppure da dove si comincia.

Nella difficoltà - oggi per il Movimento 5 Stelle e il suo capo, ieri per la Lega di Bossi - di trasformare un successo elettorale in una leadership in grado di animare una vera presenza politica capace di ulteriori sviluppi si scorge in realtà un dato rilevante della situazione italiana. E cioè che da decenni ciò che nasce dal basso come genuino movimento di protesta e di rinnovamento della politica non riesce in alcun modo a liberarsi del connotato intellettualmente elementare e ingenuamente protestatario, antropologicamente plebeo-piccolo borghese, con cui vede ogni volta la luce. Non a caso elegge rappresentanti (vedi i parlamentari grillini attuali o tanti della Lega) i quali brillano quasi tutti per pochezza concettuale mista a insulsa prosopopea, sicché alla fine ciò che nasce dal basso come qualcosa di «nuovo» e «contro», e magari ha un iniziale successo, è però fatalmente condannato a un tramonto più o meno rapido nelle mani di un padre-padrone carismatico desideroso di restare tale per sempre, anche se ormai inutile.

Si sconta così il fatto che da questo «nuovo» le élites socio-culturali della Penisola sono ogni volta assenti. Ma non già solo perché tenute lontano dalla volontà del padre-padrone di cui sopra o dai meccanismi di consenso che egli produce. Sono assenti anche perché le élites italiane, pur se critiche, criticissime, delle condizioni del Paese e della qualità della sua classe politica accreditata - come da esse si ascolta sempre quando si sentono libere di esprimersi - tuttavia preferiscono l'immobilità. Hanno ereditato una sorta di timore atavico a schierarsi davvero all'opposizione del «sistema» nel suo complesso, a diventare fautrici di un vero rinnovamento. Hanno sempre timore di «esporsi», di mettersi in gioco senza paracadute, senza avere qualche forma di garanzia, come minimo un posto assicurato in Parlamento. Anche per questo in Italia è sempre così difficile mettere termine a ciò che non ha più ragione d'essere, spalancare le finestre, tentare strade diverse, inventare procedure inedite, chiamare gente nuova. Perché le élites del Paese, pure se a parole lo negano, in realtà sono come ostriche attaccate al passato, e le uniche novità che gradiscono sono quelle che vengono dall'alto: che però, come si sa, almeno qui da noi troppo spesso sono quelle famose novità che non cambiano nulla. Mentre ciò che ha in sé qualcosa davvero di nuovo finisce per avvizzire nella sua solitaria autoreferenzialità.

Ernesto Galli della Loggia

10 giugno 2013 | 11:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_10/se-il-carisma-non-basta-editoriale-galli-della-loggia_29eae01a-d18b-11e2-810b-ca5258e522ba.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Giugno 26, 2013, 05:12:02 pm »

GLI EFFETTI DELLA SENTENZA DI MILANO

Una malsana immobilità


La sentenza di condanna nei confronti di Berlusconi, emessa dal tribunale di Milano, consegna ancora per chissà quanti anni i due maggiori protagonisti della politica italiana - e quindi, necessariamente, l'intera politica italiana in quanto tale - a una virtuale condizione di ostaggio. Oggi più che mai, infatti, sia il Pdl che il Pd sono soggetti su cui «si possono esercitare ritorsioni - così recita la definizione di «ostaggio» sullo Zingarelli - nell'eventualità che certe richieste non siano accolte».

Oggi come non mai il Pdl è ostaggio - verrebbe da dire di più: prigioniero politico - di Silvio Berlusconi. Che questi decida di liberarlo dalla sua presenza, di favorirne in qualche modo l'emancipazione, è, dopo Milano, assolutamente impensabile. Il Cavaliere ha bisogno del «suo» partito per restare un soggetto politico (e di quale stazza!, egli è tuttora il vincitore in pectore di ogni eventuale competizione elettorale), e in tal modo, grazie al proprio ruolo pubblico, oscurare e annullare le condotte della sua figura privata. Naturalmente, insieme al Pdl è tutta la Destra italiana ad essere ostaggio del Cavaliere, anche se si tratta di un ostaggio preda da un ventennio dalla «sindrome di Stoccolma». E cioè grata al suo padrone per i benefici insperati di cui egli l'ha gratificata evocandola dal nulla in cui era stata relegata dalla Prima Repubblica. Lo stesso nulla di personalità e di idee in cui a questo punto, però, la Destra appare destinata a tornare nel momento in cui Berlusconi cessasse (e prima o poi cesserà!) di essere il suo padrone. Riconsegnando così il Paese a quell'identico squilibrio organico tra Destra e Sinistra che lo ha afflitto fino al 1994.

Il Pd, dal canto suo, solo a prima vista sta meglio. Che se ne renda conto o meno, la sentenza milanese, infatti, lo consegna ancora più che per il passato in mano al sistema giudiziario e al suo establishment castale. A sinistra non sono molti, temo, coloro abituati a leggere sul Fatto Quotidiano le puntuali, documentate analisi critiche di un valente giurista e magistrato come Bruno Tinti circa la deriva politico-correntizia in cui è da tempo immerso il Consiglio Superiore della Magistratura e il tono malsano che esso così finisce per dare a tutto l'ordine giudiziario. Sono molti di più, invece, coloro che da anni vedono nella magistratura una preziosa alleata di fatto, capace tra l'altro di risultati politici molto più risolutivi di quelli ottenuti da un'azione e da una leadership di partito sempre, viceversa, ondivaghe e incerte. La clamorosa condanna di Berlusconi non può che suonare come una conferma di tutto ciò. E quindi dare ancora più spazio, se mai ce ne fosse bisogno, a quell'area giustizial-movimentista alla sinistra del Partito democratico che da sempre, con varie denominazioni, gli sta piantata come una freccia nel fianco. Proprio quell'area politico-culturale, va aggiunto, che finora ha impedito al Pd di essere davvero un partito «a vocazione maggioritaria», padrone del proprio operato, in grado di dare al Paese un governo di sinistra riformatrice sottratto ai ricatti di coloro che a sinistra detestano ogni riformismo.

Sia chiaro: nessuno pensa che la magistratura debba farsi condizionare dalle eventuali conseguenze politiche del suo operato. Ma da quando è accaduto che vent'anni fa tale operato è valso a disintegrare una maggioranza parlamentare, nonché il sistema dei partiti del Paese, sarà pur consentito, spero, di valutare quell'operato anche per i suoi effetti politici. Che nel caso di questa sentenza sono pessimi: suonando come una ratifica della paralizzante immobilità della scena italiana.

Ernesto Galli Della Loggia

26 giugno 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_26/malsana-immobilita_496243d0-de1e-11e2-9903-199918134868.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Luglio 02, 2013, 12:01:35 am »

LE MOSSE SBAGLIATE DI RENZI

La bulimia del candidato

Sei mesi fa l'Italia era completamente innamorata di Matteo Renzi: con lui il Pd avrebbe di sicuro vinto le elezioni alla grande. Ma pure oggi, e anche domani, egli rappresenterebbe un candidato di certo fortissimo in qualunque nuova elezione.

Le cause della popolarità del sindaco di Firenze sono notissime. All'Italia vecchia e immobile del sempre eguale, all'Italia dell'insipida chiacchiera politica per addetti ai lavori, dell'arabesco concettuale avvitato su se stesso, egli contrappone con la sua figura un Paese giovane, voglioso di muoversi e di mettere nuovamente alla prova le proprie energie, di tentare vie nuove. Che parla senza usare mezze parole.

Certo: egli è anche uno portato ad andare a volte oltre il segno, a mostrare un po' troppa disinvoltura e ambizione, a strafare e magari anche un po' a straparlare. Ma al quale tutto si può perdonare grazie a quanto di positivo e di nuovo rappresenta. Perché alla fine, per la maggioranza degli italiani Renzi è questo: la promessa di un cambio di passo, di una rottura, di una reale diversità; una ventata di aria fresca. Per un Paese in crisi non è davvero poco.

Proprio da questo punto di vista appare sostanzialmente incomprensibile quanto egli sta facendo da tre mesi, accettando - e anzi, si direbbe, addirittura sollecitando - di essere coinvolto nelle manovre di un partito, il Pd, che è sì il suo partito, ma che per tantissimi versi è il suo contrario. Un partito vecchio, conteso da anziani oligarchi e quarantenni ribelli ma dell'ultima ora, laddove Renzi è, come che sia, simbolo di una gioventù vera che non ha avuto paura di uscire allo scoperto; un partito campione di conformismo e di omologazione culturale laddove Renzi si fa forte (pure troppo!) della propria spregiudicatezza; il partito di quelli per antonomasia «politicamente corretti» mentre Renzi proprio da costoro è detestato.

È singolare che oggi egli si faccia tentare dall'idea di diventare il segretario di un partito del genere. E dunque s'infili in una trafila quotidiana di trattative e di manovre, di interviste e di dichiarazioni, che hanno il solo effetto di consumarne terribilmente l'immagine. Pur nell'ipotesi che riuscisse a fare il segretario e si andasse entro breve tempo - diciamo un anno - alle elezioni, Renzi, tra l'altro, si troverebbe davanti a un'alternativa comunque scomodissima: o fare la campagna elettorale alla testa di un partito ancora pieno di Rosy Bindi, di Finocchiaro, di Cuperlo e compagnia bella, e magari con un D'Alema passato inopinatamente dal ruolo di Grande Rottamato a quello di Lord Protettore, dunque un partito che sarebbe la smentita vivente di ciò che invece è il suo segretario; ovvero alla testa di un partito da lui appena epurato e rovesciato come un calzino, ma proprio per questo in una difficile fase di riassestamento, ancora né carne né pesce e presumibilmente pieno di rancori più o meno sotterranei. Certo uno strumento inadatto a uno scontro elettorale.

Ma se le cose stanno così non sarebbe assai più conveniente per il sindaco di Firenze stare ad aspettare sotto la tenda? Dopotutto il Pd sa bene che se vuole davvero vincere un'elezione politica altri candidati oltre lui non ci sono (essendo francamente incredibile che a Largo del Nazareno ci sia qualcuno che pensa di convincere gli italiani a farsi governare da Fassina o da Civati). È solo a Renzi che il Pd può ricorrere. E a quel punto egli sarebbe in grado di imporre agevolmente le sue condizioni: sia per il programma che per la composizione delle liste. Quelle condizioni di rottura e di novità che di fronte al deserto e al vecchiume della Destra egli ha saputo rappresentare e in cui il Paese non vuole cessare di sperare.

Ernesto Galli Della Loggia

1 luglio 2013 | 9:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_01/la-bulimia-del-candidato_50201fba-e20d-11e2-b962-140e725dd45c.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Luglio 09, 2013, 04:48:26 pm »

QUANDO PREVALE IL POTERE DI VETO

La paralisi del formalismo

I giudici della Consulta i quali l'altro giorno hanno decretato che in pratica le Province possono essere abolite solo previa modifica della Costituzione, e non con un decreto legge del governo, quei giudici forse non lo sanno: ma essi hanno dato un contributo decisivo perché gli italiani si confermino ulteriormente in un giudizio ormai divenuto senso comune: «In Italia non è possibile cambiare nulla, non si può fare nulla. Siamo condannati alla paralisi».

Un giudizio che si ascolta sempre più spesso anche da chi fino a ieri non si stancava di sperare nella buona volontà e capacità dei ministri, del Parlamento, di qualcuno insomma, di riformare, di semplificare, abolire, qualcosa; di avviare il Paese su strade nuove. E invece no, in Italia non si può. Perché di fatto in Italia un vero potere di decisione non esiste. O meglio: sulla carta si può decidere qualunque cosa, dare vita a qualunque novità. Ma sulla carta: perché poi ogni decisione immancabilmente si arena, ogni novità si blocca, in attesa di un regolamento, di un parere, di una tabella tecnica, della riunione di un comitato, ma sopra ogni cosa in attesa del fatidico « esito del ricorso », suprema spada di Damocle perennemente agitata e perennemente sospesa su ogni atto della Repubblica.

In Italia il potere di chi governa sembra così risolversi, alla fine, quasi soltanto in un semplice potere di proposta. La quale diventa un comando effettivo ma solo se ottiene il placet successivo da parte del combinato disposto di alta burocrazia, codici, Costituzione e magistrature varie. Un insieme di forche caudine disposte ovviamente con le migliori intenzioni che però sortiscono pressoché regolarmente un solo risultato: in un modo o nell'altro quello di svuotare, attenuare, cancellare, il provvedimento di cui si tratta.

Conosco l'obiezione: «C'è poco da fare, è lo Stato di diritto. Nulla si può contro la legge. E se la legge prevede procedure, eccezioni, ricorsi, bisogna rassegnarsi». Certo. Ma è legittimo porsi almeno due domande: perché nessuno pensa - o, se ci pensa, riesce mai - a cambiare davvero le leggi e ancora oggi sembra che cambiare alcune parti della Costituzione equivalga alla fine del mondo? E ancora: perché nell'interpretazione di quelle esistenti sembra prevalere in così tanti casi il cavillo, la capziosità da leguleio, e quasi mai invece la sostanza delle cose e l'interesse collettivo? Il sospetto è facile ma inevitabile: perché è precisamente in questo modo che non solo possono sperare di avere la meglio tutti gli interessi particolari (lobby, corporazioni, potentati economici) abitualmente difesi da agguerritissimi studi legali o da influenti reti di relazioni, ma perché così difendono il loro ruolo e il loro decisivo potere d'interdizione coloro che occupano i gangli dell'alta burocrazia nonché della struttura giudiziaria (troppo spesso collegati anche per via di parentela o di assunzioni di familiari con gli interessi particolari di cui sopra).

La nostra democrazia è in una crisi profonda anche per questo: perché da troppo tempo al potere legittimo espresso dal Parlamento e dal governo - cui solo spetta di decidere in quanto espressione della volontà dei cittadini - si è sovrapposto di fatto un potere di veto, oligarchico e autoreferenziale, di natura castale. L'immobilismo di cui sta morendo l'Italia è il frutto avvelenato della scarsa funzionalità del potere democratico di decidere , cioè del potere della politica, e, viceversa, dell'eccessivo potere di veto delle oligarchie giuridico-amministrative.

Ernesto Galli della Loggia

7 luglio 2013 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_07/la-paralisi-del-formalismo-ernesto-galli-della-loggia_a6dd9188-e6be-11e2-a870-69831ea32195.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Agosto 04, 2013, 11:41:32 am »

LA SCENA CHE NON RIESCE A CAMBIARE

Venti anni di dissipazione

Già a distanza di tre giorni è chiaro che porre termine all'era Berlusconi non è per nulla facile, a dispetto di chi ci aveva assicurato del contrario appena conosciuta la decisione della Cassazione che ha condannato in via definiva il Cavaliere. Non è facile, non solo perché il diretto interessato non sembra troppo disposto a farsi da parte; non solo perché né il Pd né il Pdl sembrano effettivamente intenzionati a muovere il primo passo verso la caduta del governo Letta e lo scioglimento delle Camere (così sfidando, tra l'altro, l'orientamento del presidente della Repubblica, presumibilmente per nulla entusiasta di una simile prospettiva), ma non è facile per un'altra e forse più sostanziale ragione. E cioè che politicamente dopo la fine dell'era Berlusconi non è dato vedere ancora nulla. Politicamente c'è il vuoto.
Sono anni, ormai, che il Paese aspetta un nuovo che non c'è. Da anni siamo un Paese che nell'ambito delle idee sulla società e sull'economia, così come sul piano delle proposte politiche e delle relative leadership, nella lotta contro i suoi mali storici, non riesce più a pensare e a produrre nulla di nuovo. Scelta civica e il Movimento 5 Stelle sono stati gli ultimi tentativi abortiti di una ormai lunga serie: così Monti ha cessato da tempo di essere una riserva della Repubblica, Beppe Grillo è rimasto un attempato comico televisivo, mentre Matteo Renzi, dal canto suo, è già sul punto di apparire l'uomo di una stagione ormai trascorsa.

Ci mancano energie, idee, donne e uomini nuovi. Non per nulla, nell'assenza di qualunque soluzione audacemente imprevedibile, di una qualsivoglia inedita, valida, vocazione collettiva e personale, e stante l'incapacità sempre più clamorosa dei partiti di essere qualcosa di diverso dal passato, non ci è restato altro, per far comunque qualcosa di fronte all'emergenza, che ricorrere all' union sacrée di tutto il vecchio. A una versione aggiornata delle «convergenze parallele».

La verità è che siamo un Paese politicamente stanco, sfibrato, il quale troppo a lungo invece di guardare avanti si è perso nei reciproci risentimenti e nella recriminazione universale. I venti anni alle nostre spalle - i venti anni dell'era dominata sì da Berlusconi, ma in cui sulla scena c'erano pure tutti gli altri, pure tutti i suoi avversari - sono stati gli anni perduti della nostra storia repubblicana, i più inconcludenti e i più grigi. Gli anni della nostra dissipazione. Più che quelli dell'era Berlusconi essi, a considerarli retrospettivamente oggi, appaiono soprattutto come l'ultimo ventennio del Dopoguerra italiano. Quello in cui abbiamo creduto che fosse ancora possibile continuare a mantenere in vita il vecchio modello precedente, al massimo con qualche aggiustamento ma conservando la sostanza di molte, di troppe cose.

Quello in cui abbiamo creduto che anche nel sistema politico bastasse rimaneggiare le identità dei partiti, cambiare qualche persona, una regola elettorale; che bastasse ciò e non già che, invece, fosse necessario ben altro: ad esempio prendere di petto il potere delle corporazioni, tagliare le unghie all'alta burocrazia, disboscare selvaggiamente i codici, riportare la scuola a una regola antica di severità e di merito personale, impedire la finanza allegra di mille enti vampiri del denaro pubblico. Soprattutto esercitarci tutti in una spietata autocritica dei nostri peccati, delle azioni e delle omissioni di cui eravamo stati responsabili. Questo e molto altro sarebbe stato necessario: e ancora lo è. Urgentemente, drammaticamente.

Ma invece della verità, la politica sembra apprestarsi oggi a dare all'Italia al massimo le elezioni. Siamo davvero ansiosi di sapere che cosa mai ci prometteranno nell'occasione i duellanti di sempre. Sì, vogliamo proprio sentirlo il Pdl promettere per la decima volta la riforma di questo e di quello, dopo che non è stato capace per anni di farne nessuna. Sì, siamo davvero ansiosi di ascoltare finalmente dal Pd - visto che a smacchiare il giaguaro ci ha pensato qualcun altro - quali mirabolanti progetti ha per il Paese, soprattutto dove troverà i soldi per finanziarli e magari anche se intende chiamare a parteciparvi, chessò, il senatore Crimi (M5S) o l'onorevole Migliore (Sel). Ascolteremo, dunque. Comunque parteciperemo. Ancora una volta voteremo. Ma possiamo dirlo? Di questo vuoto, di questo nulla riempito solo di parole, non ne possiamo davvero più.

4 agosto 2013 | 8:31
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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_04/venti-anni-di-dissipazione_e82cd552-fccd-11e2-ac1e-dbc1aeb5a273.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Agosto 11, 2013, 04:48:20 pm »

UN LEADER PER IL CENTRODESTRA

L'inevitabile successione


È molto difficile chiudere l'era Berlusconi, ma è certo che in una prospettiva non troppo lontana la sentenza della Cassazione ha posto fine alla sua leadership politica. In un Paese civile le sentenze delle Corti, infatti, fossero anche le più infondate e discutibili, vanno eseguite.
Su questo non possono e non devono esserci dubbi.

Fine della leadership di Berlusconi, dunque. Certo, il Cavaliere potrebbe sempre in qualche modo dirigere il Pdl da casa sua, mandare cassette registrate da trasmettere alla televisione, rilasciare un'intervista al giorno, collegarsi dovunque in teleconferenza. Ma il fatto di non poter essere eletto e far ascoltare mai la sua voce in Parlamento, di non poter farsi vedere in un comizio, di non potersi recare in alcuna riunione all'estero, tutto ciò rende di fatto impossibile qualunque suo reale ruolo di comando. È vero che egli non è uomo da rassegnarsi facilmente, e che l'Italia ha ormai abituato il mondo alle proprie numerose anomalie, ma si può immaginare un Paese o un partito guidati a questo modo? Cioè nel modo in cui si troverà Berlusconi tra poche settimane? Dunque prima o poi egli dovrà passare la mano in qualche modo. L'ora della sua successione è arrivata.

Anche se come si sa, egli non si è mai curato di prepararla. Non è un caso che finora, a quel che sembra, l'unica forma di successione che gli è venuta in mente non è all'interno del suo partito di plastica, bensì è quella personal-familiare nella persona della figlia Marina (che peraltro ha detto proprio ieri di non pensarci nemmeno): un'incredibile e, più che incredibile contraddittoria, trasposizione nella dimensione dinastica della vicenda più orgogliosamente self made man e più sfrenatamente egotista che abbia mai visto la politica italiana.

La verità è che finché si rimane nell'ambito del partito berlusconiano il problema di trovare una futura leadership è per la Destra un problema insolubile. All'interno del Pdl non esiste alcuna personalità in grado di essere realmente accettata da tutti gli altri come capo, e al tempo stesso di risultare credibile agli occhi dell'elettorato.

Per rappresentare nelle urne gli elettori italiani di destra è necessario perciò che oggi si avvii la nascita di qualcosa di nuovo e di diverso, che può essere il frutto solo di un grande rimaneggiamento di sigle, di famiglie, di gruppi e di storie politiche. Al quale - questo sembra essere il punto decisivo - deve partecipare attivamente anche quell'area moderata, non di sinistra, che finora si è detta di centro: si è detta tale, a me pare, per un solo motivo, in sostanza: per la comprensibile paura di essere confusa con la Destra esistente, vale a dire con Berlusconi, con il suo stile e le sue pratiche. Ormai, però, si è aperta una prospettiva in cui tale paura non ha più motivo di essere.

Le donne e gli uomini del Centro, gli ambienti che li esprimono, devono solo convincersi che in un Paese normalmente bipolare - e l'Italia ormai lo è definitivamente - essere di destra vuol dire semplicemente avere opinioni, valori e adottare politiche diverse da quelle della Sinistra. E che dunque se, come è il loro caso, non si hanno le opinioni e i valori della Sinistra, ciò significa inevitabilmente che si è di Destra, e che in ciò non c'è nulla di male. In una democrazia Destra e Sinistra, infatti, non sono l'una il male e l'altra il bene, o viceversa. Sono semplicemente due diversi luoghi dello schieramento politico, e in parte (ma solo in parte) anche due modi di pensare il mondo: entrambi legittimi perché a sostegno di entrambi possono essere addotte ottime ragioni. Se migliori in un caso o nell'altro, dipende solo dalle circostanze.

Se non si è di sinistra, dunque, è all'elettorato di destra che bisogna rivolgersi. Ma senza retropensieri e infingimenti. Senza fare, ad esempio, ciò che invece ha fatto rovinosamente il Centro nell'ultima campagna elettorale: e cioè di dare chiaramente a intendere che, se del caso, esso non escludeva dopo le elezioni di potersi alleare con la Sinistra. Oggi come oggi, infine, una ricostruzione politica della Destra a partire dal Centro dovrebbe anche avere chiaro che per interloquire con l'elettorato che per anni si è riconosciuto nel Pdl non si devono, no, tacere le ombre pesanti che via via si sono venute addensando su Berlusconi, ma al tempo stesso si deve non solo riconoscergli la parte imprescindibile e positiva che egli ha avuto a suo tempo nella trasformazione del sistema politico italiano, ma anche fare proprie alcune battaglie (perdute) che hanno caratterizzato la sua vicenda. A cominciare da quella altamente simbolica, ma assolutamente sacrosanta, per una riforma del sistema giudiziario.

È vero che in Italia per adottare la linea che ho sommariamente indicato bisogna superare un potentissimo interdetto socio-culturale: quello costruito per anni e anni dalla Sinistra, la quale ha sempre cercato di far credere che essere di destra voglia dire essere contro la democrazia (dimenticando, tra l'altro, che su questo piano essa stessa non aveva certo tutte le carte in regola...).
Ed è pure altrettanto vero che nel nostro Paese, a partire almeno dagli anni 70 del secolo scorso, la borghesia corporativa e della rendita e il capitalismo senza capitali - pieni com'erano e come sono di scheletri negli armadi, e perciò oltremodo bisognosi di un protettore politico - hanno sempre trovato comodo cercarlo a sinistra: cioè nella parte che gli appariva di volta in volta più forte, più cattiva, o più alla moda. Ma tutto questo, se non m'inganno, il vorticoso incalzare dei tempi e l'urgenza dell'agenda politica se lo stanno ormai portando via. La crisi del Paese vuol dire la fine, tra tante altre cose, pure di questi antichi riflessi condizionati. Anche a destra è venuto il momento di voltare pagina.

11 agosto 2013 | 8:32
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Ernesto Galli della Loggia

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_11/inevitabile-successione_811468d4-024b-11e3-8e0b-f7765a3f55a3.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Agosto 16, 2013, 09:29:56 am »

LE RIFORME DEL PAPA, L'INFLUSSO ITALIANO

Lo stato di salute della nuova Chiesa

Ernesto Galli Della Loggia

Le riforme della Curia e dello Ior in cui il Papa appare impegnato fino in fondo ripropongono la peculiarità di quel complesso organismo che vede intrecciate, ancorché si tratti di due entità in linea di principio distintissime, Santa Sede e Stato della Città del Vaticano. Un organismo il quale, come si sa, nacque nel 1929 in seguito al Trattato del Laterano che pose termine alla «questione romana» apertasi nel 1870 con la conquista di Roma da parte del neonato Stato italiano che portò alla fine del potere temporale dei papi.

A proposito di questi avvenimenti ancora recentemente, in occasione del 150° anniversario dell'Unità, a testimoniare come spesso la storia produca sentimenti e risentimenti assai duri a morire, alcuni storici cattolici d'ispirazione diciamo così tradizionalistica hanno descritto il Risorgimento come un disegno volto soprattutto alla decattolicizzazione/ scristianizzazione dell'Italia, da conseguire attraverso una sistematica persecuzione della Chiesa di Roma.
Che le cose però non siano andate proprio in tal senso basterebbe a indicarlo il fatto che qualche decennio dopo la presunta devastazione anticattolica operata dal Risorgimento arrivò al potere (chissà come), e destinato a restarvi a lungo, proprio un partito di cattolici.

Ma c'è di più. E cioè che sia per il Papa che per la Santa Sede, l'esistenza dello Stato italiano nato 150 anni fa si è rivelato alla fine assai più di vantaggio che di danno. Lo si vede particolarmente oggi. Il processo di pulizia e di rinnovamento della Curia intrapreso da papa Francesco, infatti, è nato certamente da indiscrezioni e rapporti riservati in circolazione da tempo all'interno delle mura leonine. Ma altrettanto certamente quel processo è stato reso improrogabile dall'emergere di illeciti certi e acclarati. Ebbene, mi chiedo, a chi o a che cosa si deve tale inoppugnabile consapevolezza?

Di sicuro, se per scoprire tanti retroscena oscuri si fossero dovute aspettare le indagini dei giudici vaticani sulle malefatte del cameriere di Benedetto XVI, o le risultanze del processo all'acqua di rose intentatogli, staremmo ancora ad aspettare, credo. A contare è stato altro: l'iniziativa della Banca d'Italia e quella della Procura della Repubblica di Roma. Esse sono valse dapprima a suscitare la reazione scandalizzata dell'opinione pubblica e di una parte maggioritaria della stessa gerarchia spingendo quest'ultima a eleggere Papa una personalità come quella di Bergoglio; e poi a convincere il nuovo Papa a nominare in tempi rapidissimi le varie commissioni di studio e d'indagine oggi all'opera. Non è forse stata decisiva l'azione della Banca d'Italia, insomma, per accendere un faro sulle attività illecite dello Ior? E non è stata forse altrettanto decisiva l'azione della Procura di Roma per cominciare a smascherare la rete di mariuoleria responsabile di questi e di altri illeciti? Che ne sarebbe stata, mi chiedo, dell'immagine di quel galantuomo di Ettore Gotti Tedeschi, il presidente dello Ior licenziato a bella posta dalle gerarchie infedeli per farne un comodo capro espiatorio, se non avesse provveduto la suddetta Procura a chiarirne la totale innocenza e a restituirgli l'onore?

La conclusione non è certamente quella di dire che allora è bene che la Chiesa sia sottomessa a una sorta di controllo dello Stato italiano. Ma solo quanto sia importante per la stessa Chiesa che gli organi di questo Stato facciano con diligenza e senza guardare in faccia a nessuno il proprio dovere.

22 luglio 2013 | 7:37
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_22/stato-di-salute-nuova-chiesa_f9c0cd96-f287-11e2-8506-64ec07f27631.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Agosto 27, 2013, 11:32:58 pm »

IL FUTURO DEL CENTRODESTRA

La solitudine dei moderati

Se le cose continueranno a essere come sono oggi (ed è molto probabile), Berlusconi ha verosimilmente una sola via possibile per restare davvero al centro della vita politica italiana.
Ma è una via che ha le tinte cupe dell'Apocalisse: andare ai «domiciliari», far saltare il governo, puntare al più presto alle elezioni anticipate con l'attuale legge elettorale, vincerle. Una via non solo carica d'incognite per lui temibilissime (a cominciare dalle reazioni del presidente della Repubblica per finire con le ripercussioni sull'immagine e sulla tenuta economica del Paese), ma interamente all'insegna del «tutto o niente». E il «tutto o niente», se può sedurre la psicologia del giocatore, può anche condurre lo stesso alla rovina totale.

Esclusa l'Apocalisse non resta che il Tramonto: a oltre 75 anni di età (ma anche a 45 forse non farebbe differenza) non si può fare il leader effettivo di un partito e di un Paese nelle condizioni in cui si troverebbe Berlusconi stando ai «domiciliari». Dunque il Tramonto. E con esso la domanda inevitabile: che effetto avrebbe la scomparsa del Sole sulle sorti del Pdl? È ragionevole pensare che l'effetto sarebbe la sua virtuale dissoluzione. Un partito personale ben difficilmente riesce a fare a meno del fondatore-padrone, e Berlusconi lascia dietro di sé il vuoto, a cominciare dall'assenza di qualunque meccanismo collaudato in grado di prendere decisioni minimamente vincolanti per tutti. Esito più probabile, pertanto, una rissa inconcludente e feroce di cacicchi e cacicche minacciati di disoccupazione, di tutti contro tutti, con implosione finale del Pdl.

Ma che ne sarà a questo punto della vasta area elettorale che per un ventennio si è riconosciuta nel Pdl? Oggi come oggi è difficile immaginare che essa possa essere riorganizzata e integrata da un'iniziativa che parta dal Centro. Che sia questa la sola ipotesi ragionevole non vuol dire che sia anche quella che si realizzerà. In realtà, infatti, se Berlusconi è al tramonto, sul Centro si direbbe che la luce del giorno non sia mai neppure spuntata. Dalla batosta elettorale in poi da lì non è venuto assolutamente niente; da quel giorno Casini, Monti e i loro parlamentari avvizziscono, tristemente appollaiati su un inutile dieci per cento, peraltro ormai ridottosi nei sondaggi a poco più della metà.

Il tramonto berlusconiano, insomma, rischia di corrispondere per milioni di elettori, per l'area dello schieramento politico non di sinistra che vede insieme la Destra e il Centro, e che si è soliti chiamare «moderata», a una profonda crisi di rappresentanza politica. È una crisi che viene da lontano, che caratterizza in un certo senso l'intera storia della Repubblica, anche se per mezzo secolo essa è stata tenuta celata dalla presenza surrogatoria del partito cattolico, della Democrazia cristiana. Ma se ci si pensa con attenzione - Dc a parte, che aveva natura e origine diverse, e a parte le formazioni monarco-fasciste ereditate dal passato precedente - una tale area in settant'anni non ha espresso che due formazioni significative: l'Uomo Qualunque (che visse una brevissima stagione dal 1944 al 1947) e Forza Italia. Diverse per consistenza e durata ma entrambe con un fondo comune: fatto di un'insuperabile gracilità organizzativa, della inconsistenza e della contraddittorietà della piattaforma politica, del loro carattere personalistico, di una più o meno strisciante tentazione populista. E al dunque sempre dando l'impressione di un che d'improvvisato e di provvisorio, di una certa labilità, di mancanza di radici; e sempre con una classe politica raccogliticcia e mediocre. Politicamente è questo tutto ciò che sono stati capaci di esprimere i moderati italiani.

Verrebbe quasi da concludere che dietro tali forze politiche non sia mai esistito e non esista ancora oggi alcun retroterra sociale. Ciò che però non è vero, naturalmente. Una società italiana moderata, un'Italia di centrodestra, esiste eccome. Ma il fatto si è che sia per abitudine che per vizio essa si tiene lontana dalla politica: non da ultimo per lo sciocco pregiudizio che se ne possa fare a meno, che la politica debba, e possa, ridursi alla buona amministrazione. La cultura e lo stile di vita di questa Italia moderata la spingono sì, poi, al coinvolgimento sociale, ma solo nella dimensione dell'associazionismo specifico (professionale e di scopo): assai meno la spingono a spendersi in quell'impegno generale nella società - tipicamente preliminare alla politica - per il quale essa non ha vocazione e non prova in genere alcun gusto. Infine, non prefiggendosi poi di cambiare il mondo, non credendolo né utile né possibile, e ricavando per giunta una certa soddisfazione dalla propria attività quotidiana, essa è perlopiù scettica verso tutte le «grandi cause» e le relative mobilitazioni. Salvo casi eccezionali non si sente a proprio agio con assemblee, comizi, ordini del giorno: tutte cose, invece, che fanno la delizia dell'Italia progressista.

Per una tale metà del Paese, così pervasivamente, antropologicamente, antipolitica, il rischio è quello di identificarsi solo nella contrapposizione alla sinistra, di essere sensibile solo a questa parola d'ordine: e di trovare leader esclusivamente capaci di vellicare questa contrapposizione. Laddove, viceversa, alla debole strutturazione politica attuale dell'Italia moderata si dovrebbe, e forse si potrebbe rimediare (cominciare a rimediare), cercando di darle un fondamento in strati culturali i quali, sia pure nascosti, probabilmente esistono al fondo di gran parte di essa. Se non altro come fantasmi di un passato lontano. Un certo senso dello Stato e dell'interesse pubblico, l'idea della Nazione come vincolo di solidarietà e scudo necessario nell'arena internazionale, e poi l'orizzonte della compostezza, del saper leggere e scrivere, del giocare pulito, e sopra e prima di tutto la necessità di essere liberi in modo non distruttivo. Illusioni? Anticaglie? E perché, le idee dei modernissimi intelligentoni di Scelta civica erano per caso più interessanti o più convincenti (alzi la mano chi ne ricorda qualcuna)? E forse sono oggi più profonde e lasciano meglio sperare quelle dell'onorevole Gennaro Migliore o dell'onorevole Pippo Civati?

26 agosto 2013 | 7:26
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Ernesto Galli della Loggia

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_26/la-solitudine-dei-moderati-ernesto-galli-della-loggia_4789f710-0e0c-11e3-94c3-5ad04b7d12ed.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Settembre 11, 2013, 05:15:24 pm »

LA GUERRA NELLA STORIA DELL'OCCIDENTE

L'improbabile espulsione


Quale persona ragionevole può preferire la guerra alla pace? Non stupiscono dunque i vasti consensi che alla luce di un possibile intervento militare americano in Siria ha ricevuto l'appello del Papa contro la guerra. Appello che, si badi, non evoca affatto l'argomento che in questo specifico caso la guerra sarebbe ingiustificata (cioè «non giusta»), ma esprime semplicemente un reciso e totale no alla guerra. Proprio questo carattere generale e programmatico dell'appello papale alla pace - oggi in palese sintonia con un orientamento profondo proprio dello spirito pubblico dell'intera Europa continentale - solleva però almeno tre grandi ordini di problemi, che sarebbe ipocrita tacere.

l) L'ostilità di principio alla guerra (fatto salvo, immagino, il caso di una guerra di pura difesa, tuttavia non facilmente definibile: la guerra dichiarata dalla Gran Bretagna e dalla Francia alla Germania nel 1939, per esempio, era di difesa o no?) cancella virtualmente dalla storia la categoria stessa di «nemico» (e quella connessa di «pericolo»). Cioè di un qualche potere che è ragionevole credere intento a volere in vari modi il nostro male; e contro il quale quindi è altrettanto ragionevole cercare di premunirsi (per esempio mantenendo un esercito). Chi oggi dice no alla guerra è davvero convinto che l'Europa e in genere l'Occidente non abbiano più nemici? E se pensa che invece per entrambi di nemici ve ne siano, che cosa suggerisce di fare oltre a essere «contro la guerra»?

2) In genere, poi, chi si pronuncia in tal senso è tuttavia favorevole all'esistenza di un'Europa unita quale vero soggetto politico. Un'Europa perciò che abbia una politica estera. La questione che si pone allora è come sia possibile avere una tale politica rinunciando ad avere insieme una politica militare, un esercito e degli armamenti (e quindi anche delle fabbriche d'armi). È immaginabile un qualunque ruolo internazionale di un minimo rilievo non avendo alcuna capacità di sanzione? Altri Stati senza dubbio tale capacità l'avranno: si deve allora lasciare campo libero ad essi? Ma con quale guadagno per la pace?

3) C'è infine un argomento molto usato per dirsi in generale contro la guerra: «La guerra non ha mai risolto alcun problema». Nella sua perentorietà l'argomento è però palesemente falso. Dipende infatti dalla natura dei problemi: non pochi problemi la guerra li ha risolti eccome (penso a tante guerre per l'indipendenza nazionale, ad esempio); per gli altri bisogna intendersi su che cosa significa «risolvere» (tenendo presente che nella storia è rarissimo che per qualunque genere di questioni vi sia una soluzione definitiva, «per sempre»). Se si parla di un pericolo politico, una «soluzione» può benissimo essere rappresentata dal suo semplice ridimensionamento, dall'allontanamento nel tempo, dalla sostituzione di un nemico più forte con uno meno forte. Tutti obiettivi che un'azione militare è di certo in grado di conseguire.
Insomma: essere in generale a favore della pace è sacrosanto; proporsi invece di espellere la guerra dalla storia è, come si capisce, tutt'un altro discorso.

8 settembre 2013 | 8:16
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Ernesto Galli Della Loggia

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_08/l-improbabile-espulsione-ernesto-galli-della-loggia_ade57986-184c-11e3-9feb-01ac3cd71006.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Settembre 22, 2013, 04:40:00 pm »

I DEMOCRATICI, LE ALLEANZE E IL VOTO

Il labirinto prossimo venturo


La gravità della crisi italiana non sta nell'inadeguatezza sia pur grave di questo o quel partito. Sta nella condizione di evidente provvisorietà che caratterizza l'intero sistema politico a causa della natura aleatoria e instabile di tutti i principali partiti. I cui retroterra culturali, alleanze, leadership e programmi, appaiono, potenzialmente in continua quasi incontrollabile evoluzione. Lo si vede bene oggi quando con ogni probabilità ci stiamo avvicinando a una svolta della legislatura, dovuta al fatto che l'attuale «strana maggioranza» - sottoposta com'è alle tensioni prodotte da un lato dalla procedura di espulsione di Berlusconi dal Senato, e dall'altro dall'aggravamento dei conti pubblici, che rende sempre più insostenibile la contemporanea cancellazione dell'Imu e il mantenimento al 21 per cento dell'Iva - non sembra in grado di resistere ancora a lungo.


Ma se la crisi del governo Letta getterà il Pdl/Forza Italia nella più totale incertezza, in balia dell'altalena di ire e di resipiscenze di Berlusconi, dei suoi cambiamenti di umori e di progetti, anche il destino del Pd non lascia presagire prospettive molto rassicuranti. Se Letta venisse costretto alle dimissioni in seguito al ritiro dei ministri della Destra, il cammino che si aprirà davanti ai Democratici sarà infatti tutto in salita. Esclusa l'ipotesi di elezioni anticipate, che Napolitano non vuole, o si aprirà la crisi ovvero il presidente del Consiglio tornerà alle Camere per cercare una nuova maggioranza. In entrambi i casi - essendo fuori gioco una riedizione delle «larghe intese», così come, auspicabilmente, di qualche pasticcio a base di «volenterosi» e transfughi di varia provenienza - il Pd dovrà rivolgersi a Sel e ai 5 Stelle. Come sei mesi fa: solo che questa volta è probabile che ci sia una spinta a concludere positivamente che allora invece fu assai minore o mancò del tutto, perché forse (sia pure molto forse) stavolta i grillini almeno un appoggio esterno finiranno per darlo.


Si aprirà però a questo punto, per il Pd, uno scenario tra i più scomodi: essere il cuore di una coalizione di governo tutta orientata a sinistra, prevedibilmente alle prese con continui fremiti movimentistici, esposta a sollecitazioni di tono e segno estremistico. Che non sarà davvero facile governare senza consumarsi in polemiche, ultimatum, scontri e armistizi, che verosimilmente renderanno la vita della coalizione stessa quanto mai precaria, povera di risultati apprezzabili (se non peggio: è facile immaginare quello che ne penseranno a Bruxelles o a Berlino), e destinata concludersi con nuove elezioni anticipate (diciamo entro la primavera del 2015).


Una competizione elettorale con la Destra e con il Centro che vedrebbe comunque i Democratici in una situazione scomodissima. E oltremodo contraddittoria. Nessuno, è vero, è oggi in grado di leggere nella sfera di cristallo delle vicende congressuali e delle relative lotte interne del Pd, ma che ne resterebbe del «partito a vocazione maggioritaria» dopo dieci mesi - un anno di governo Pd-Sel-5 Stelle? E che ne sarebbe a quel punto dell'immagine politica di Matteo Renzi, della sua credibilità e del suo appeal su settori elettorali non di sinistra, alla guida di un partito siffatto? In conclusione un semplice dubbio: già alla fine del 2011 il Partito democratico sbagliò clamorosamente a non chiedere le elezioni anticipate dopo la fine ingloriosa del governo Berlusconi; non capiterà che tra poche settimane sia destinato a ripetere il medesimo errore?

21 settembre 2013 | 7:37
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Ernesto Galli Della Loggia

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_21/20130921NAZ01_44_ba906052-227d-11e3-b502-24e91794bc4d.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Ottobre 06, 2013, 07:38:51 pm »

L’EDITORIALE

La costruzione di un’identità
Moderati alternativi alla sinistra

È impossibile dire in queste ore che cosa nascerà dalla vasta dissidenza che si è manifestata nel Pdl contro la direzione berlusconiana. In particolare è difficile dire se da tale dissidenza nascerà quella Destra «europea», «costituzionale», «moderata», «liberale» - in grado di rappresentare una reale alternativa alla Sinistra - che da molte parti si auspica. Vedremo. Ciò che per il momento possiamo fare è chiederci per quale ragione, però, essa finora non è mai nata, e perché invece la sola Destra competitiva che in Italia ha visto la luce è stata quella di Berlusconi.
Al cuore del problema c’è una questione di credibilità rispetto al proprio elettorato di riferimento, la cui principale caratteristica è rappresentata ovviamente dall’ostilità verso la Sinistra (ho scritto ovviamente perché la stessa cosa vale per l’altra parte. Anche l’elettorato di sinistra, infatti, è mosso principalmente dall’ostilità verso la Destra: lo si è visto bene nella rivolta dentro il Pd contro Renzi, giudicato da molti dei suoi troppo incerto su questo fronte). Come si capisce, tale credibilità non può che essere data dalla leadership . Affinché esista una Destra alternativa e competitiva, cioè, è necessario che vi siano dei capi i quali non lascino dubbi sulla propria volontà di contrapporsi alla Sinistra, di essere una cosa assolutamente diversa. Che lo sappiano fare con le parole, con i gesti e con i fatti, con la propria vicenda individuale, vorrei dire perfino con la propria persona. Precisamente e innanzi tutto da questo punto di vista Berlusconi - chi ne può dubitare? - è stato assolutamente imbattibile. Ogni cosa in lui ha testimoniato di una radicale estraneità all’universo antropologico della Sinistra: dalla sua attività ai suoi interessi economico-aziendali, ai suoi modi, al suo linguaggio. Senza contare un ulteriore elemento di portata decisiva: la sua estraneità - biografica e ideologica - alla politica in quanto tale (al «teatrino della politica», nel linguaggio berlusconiano).
Un’estraneità fatta apposta per solleticare il sentimento di diffidenza verso la dimensione della politica e il suo carattere invasivo che in ogni Paese del mondo, ma soprattutto in Italia, è un marchio caratterizzante di qualunque elettorato di destra.
Da ciò che ora ho detto ci si può fare un’idea di quanto sia complicato in Italia rappresentare l’elettorato di destra in modo che allo stesso risulti davvero credibile e che susciti un reale sentimento di identificazione: bisogna sì fare politica, ma dando a vedere che i propri valori e il senso della propria vita stanno altrove (fu questo, a suo tempo, un indubbio elemento distintivo e di forza dei politici cattolici nei confronti del «moderatismo» nazionale).
Questa «antipoliticità» di fondo richiesta a ogni leadership di destra che voglia risultare credibile di fronte al proprio elettorato copre però ben altri ambiti, e implica da parte di quella leadership , in Italia, una cosa ancora più difficile. Vale a dire la capacità di sottrarsi all’egemonia che sul senso comune accreditato e sul discorso pubblico ufficiale esercita (arrivo a pensare quasi senza neppure accorgersene) la Sinistra: una capacità, anche questa, che Berlusconi ha avuto come pochi ma che non è per nulla facile avere.

In Italia infatti - per ragioni storiche che risalgono al fascismo e al fatto che la sua catastrofe ha voluto dire la delegittimazione di tutto quanto recasse un’impronta «di destra» - in Italia, dicevo, da decenni le istituzioni, i grandi corpi dello Stato, gli alti funzionari, le «autorità», i grandi giornali, la cultura riconosciuta, tutto quanto, lasciato libero di esprimersi, parla in maniera naturale un linguaggio «di sinistra». Con gli stilemi, i luoghi comuni, i principi che in un modo o in un altro rimandano, oggi almeno, all’universo politico di questa: l’«Europa», la «Costituzione», il «sindacato», i «diritti», la «pace», la «laicità», il «multiculturalismo», la «legalità», e via di seguito. Non da ultimo in ragione della straordinaria capacità della Sinistra stessa di fare propri e di inglobare anche valori che in realtà hanno origine e storia lontane dalle sue.
Quale sia il monopolio di fatto di cui gode tale universo politico-culturale e quindi la sua naturale forza di attrazione si è visto con Gianfranco Fini. Il quale, provenendo dal mondo neofascista (dico neofascista!) e volendo dar vita pure lui a una Destra «moderna» ed «europea», si è però ridotto in breve a scimmiottare in tutto e per tutto il discorso della Sinistra. Per effetto, tra l’altro, di un ulteriore condizionamento che una leadership di destra desiderosa di qualificarsi come «diversa» deve mettere in conto. Il fatto cioè che questa sua diversità - qualora sia schierata polemicamente contro altri settori della Destra (come è stato per l’appunto nel caso di Fini) - diviene tuttavia subito oggetto delle più diverse e continue forme di approvazione, adulazione e compiacimento, da parte della Sinistra, la quale ha l’ovvio interesse di strumentalizzarla. In tal modo però snaturandola e privandola di ogni vigore politico.
Mantenere dunque un tratto non immediatamente politico; essere capaci di rappresentare sempre una posizione realmente anche se non pregiudizialmente alternativa; avere il coraggio, l’intelligenza e la capacità di costruire e opporre un proprio discorso pubblico a quello della Sinistra, di resistere alla sua captatio benevolentiae non trasformandosi però in una Destra «trogloditica» e/o sovversiveggiante: per la leadership di una Destra «moderna» ed «europea» la navigazione è costellata di questi scogli: se Alfano e i suoi avranno il coraggio di mettersi in mare, sanno quello che li aspetta.

06 ottobre 2013
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Ernesto Galli Della Loggia
http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_06/della-loggia-editoriale-costruzione-un-identita-f4768682-2e73-11e3-9d21-b46496cc2a61.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Ottobre 20, 2013, 11:12:03 pm »

L’EDITORIALE

Il potere vuoto di un Paese fermo

Il fallimento di una classe dirigente

L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?

Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo. Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale.

Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese.

Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioniimmensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre. Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive?
Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale, nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo Stato, perlopiù a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo del proprio. Né meglio si può dire delle banche: organismi che invece di essere un volano per l’economia nazionale si rivelano ogni giorno di più una palla al piede: troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici .

Questa è l’Italia di oggi. Un Paese la cui cosiddetta società civile è immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti, ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno), e detiene il record europeo delle ore passate ogni giorno davanti alla televisione (poco meno di 4 a testa, assicurano le statistiche). Di tutte queste cose insieme è fatta la nostra crisi. E di tutte queste cose si nutre lo scoraggiamento generale che guadagna sempre più terreno, il sentimento di sfiducia che oggi risuona in innumerevoli conversazioni di ogni tipo, nei più minuti commenti quotidiani e tra gli interlocutori più diversi. Mentre comincia a serpeggiare sempre più insistente l’idea che per l’Italia non ci sia più speranza. Mentre sempre più si diffonde una singolare sensazione: che ormai siamo arrivati al termine di una corsa cominciata tanto tempo fa tra mille speranze, ma che adesso sta finendo nel nulla: quasi la conferma - per i più pessimisti (o i più consapevoli) - di una nostra segreta incapacità di reggere sulla distanza alle prove della storia. E in un certo senso è proprio così.

L’Italia è davvero a una prova storica. Lo è dal 1991-1994, quando cominciò la paralisi che doveva preludere al nostro declino. Essa è ancora bloccata a quel triennio fatale: allorché finì non già la Prima Repubblica ma la nazione del Novecento: con i suoi partiti, le sue culture politiche originali e la Costituzione che ne era il riassunto, allorché finì la nazione della modernizzazione/industrializzazione da ultimi arrivati, la nazione del pervadente statalismo. Ma da allora nessuno è riuscito a immaginare quale altra potesse prenderne il posto.
Ecco a che cosa dovrebbe servire quella classe dirigente che tanto drammaticamente ci manca: a immaginare una simile realtà. A ripensare l’Italia, dal momento che la nostra crisi è nella sua essenza una crisi d’identità. Da vent’anni non riusciamo a trovare una formula politica, non siamo capaci d’azione e di decisione, perché in un senso profondo non sappiamo più chi siamo, che cosa sia l’Italia. Non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro.

Non sappiamo se l’Italia serva ancora a qualcosa, oltre a dare il nome a una nazionale di calcio e a pagare gli interessi del debito pubblico. Abbiamo dunque bisogno di una classe dirigente che - messa da parte la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni è perlopiù servito solo a riempire il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti - si compenetri della necessità di un nuovo inizio. Ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato. Mai come oggi, infatti, abbiamo bisogno di segni coraggiosi di discontinuità, di scommesse audaci sul cambiamento, di gesti di mutamento radicale.

Mai come oggi, cioè, abbiamo bisogno proprio di quei segni e di quelle scommesse che però, - al di là della personale intelligenza o inclinazione stilistica di questo o quel suo esponente - dai governi delle «larghe intese» non siamo riusciti ad avere. Governi simili funzionano solo in due casi, infatti: o quando c’è un obiettivo supremo su cui non si discute, in attesa di raggiungere il quale lo scontro politico è sospeso: come quando si tratta di combattere e vincere una guerra; ovvero quando tutte le parti, nessuna delle quali ha prevalso alle elezioni, giudicano più conveniente, anziché andare nuovamente alle urne, accordarsi sulla base di un accurato elenco di reciproche concessioni per sospendere le ostilità e governare insieme. Ma nessuno di questi due casi è quello dell’Italia: dove sia il conflitto interno al Pd e al Pdl che quello tra entrambi è ancora e sempre indomabile, e costituisce il tratto politico assolutamente dominante. La ragione delle «larghe intese» ha così finito per divenire, qui da noi, unicamente quella puramente estrinseca che si governa insieme perché nessuno ha vinto le elezioni, e per varie ragioni non se ne vogliono fare di nuove a breve scadenza.
Certo, due anni fa, quando tutto ebbe inizio con il governo Monti, le intenzioni del presidente della Repubblica miravano, e tuttora mirano, a ben altro. Ma dopo due anni di esperimento è giocoforza ammettere che quelle intenzioni, sebbene abbiano conseguito risultati importanti sul piano del contenimento dei danni, appaiono ben lontane dal divenire quella realtà di cui l’Italia ha bisogno.

Con le «larghe intese», sfortunatamente, non si diminuisce il debito, non si raddoppia la Salerno-Reggio Calabria, non si diminuiscono né le tasse né la spesa pubblica, non si elimina la camorra dal traffico dei rifiuti, non si fanno pagare le tasse universitarie ai figli dei ricchi, non si fa ripartire l’economia, non si separano le carriere dei magistrati, non si costruiscono le carceri, non si aboliscono le Province, non si introduce la meritocrazia nei mille luoghi dove è necessario, non si disbosca la foresta delle leggi, non si cancellano le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; e, come è sotto gli occhi di tutti, anche con le «larghe intese» chissà quando si riuscirà a varare una nuova legge elettorale, seppure ci si riuscirà mai. Si tira a campare, con le «larghe intese», questo sì: ma a forza di tirare a campare alla fine si può anche morire .

20 ottobre 2013
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Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_20/potere-vuoto-un-paese-fermo-1e477e6a-394d-11e3-893b-774bbdeb5039.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Ottobre 28, 2013, 09:59:09 am »

L’EDITORIALE

Il potere vuoto di un Paese fermo

L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?

Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo. Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale.

Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese.

Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioni immensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre. Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive?
Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale, nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo Stato, perlopiù a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo del proprio. Né meglio si può dire delle banche: organismi che invece di essere un volano per l’economia nazionale si rivelano ogni giorno di più una palla al piede: troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici .

Questa è l’Italia di oggi. Un Paese la cui cosiddetta società civile è immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti, ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno), e detiene il record europeo delle ore passate ogni giorno davanti alla televisione (poco meno di 4 a testa, assicurano le statistiche). Di tutte queste cose insieme è fatta la nostra crisi. E di tutte queste cose si nutre lo scoraggiamento generale che guadagna sempre più terreno, il sentimento di sfiducia che oggi risuona in innumerevoli conversazioni di ogni tipo, nei più minuti commenti quotidiani e tra gli interlocutori più diversi. Mentre comincia a serpeggiare sempre più insistente l’idea che per l’Italia non ci sia più speranza. Mentre sempre più si diffonde una singolare sensazione: che ormai siamo arrivati al termine di una corsa cominciata tanto tempo fa tra mille speranze, ma che adesso sta finendo nel nulla: quasi la conferma - per i più pessimisti (o i più consapevoli) - di una nostra segreta incapacità di reggere sulla distanza alle prove della storia. E in un certo senso è proprio così.

L’Italia è davvero a una prova storica. Lo è dal 1991-1994, quando cominciò la paralisi che doveva preludere al nostro declino. Essa è ancora bloccata a quel triennio fatale: allorché finì non già la Prima Repubblica ma la nazione del Novecento: con i suoi partiti, le sue culture politiche originali e la Costituzione che ne era il riassunto, allorché finì la nazione della modernizzazione/industrializzazione da ultimi arrivati, la nazione del pervadente statalismo. Ma da allora nessuno è riuscito a immaginare quale altra potesse prenderne il posto.
Ecco a che cosa dovrebbe servire quella classe dirigente che tanto drammaticamente ci manca: a immaginare una simile realtà. A ripensare l’Italia, dal momento che la nostra crisi è nella sua essenza una crisi d’identità. Da vent’anni non riusciamo a trovare una formula politica, non siamo capaci d’azione e di decisione, perché in un senso profondo non sappiamo più chi siamo, che cosa sia l’Italia. Non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro.

Non sappiamo se l’Italia serva ancora a qualcosa, oltre a dare il nome a una nazionale di calcio e a pagare gli interessi del debito pubblico. Abbiamo dunque bisogno di una classe dirigente che - messa da parte la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni è perlopiù servito solo a riempire il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti - si compenetri della necessità di un nuovo inizio. Ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato. Mai come oggi, infatti, abbiamo bisogno di segni coraggiosi di discontinuità, di scommesse audaci sul cambiamento, di gesti di mutamento radicale.

Mai come oggi, cioè, abbiamo bisogno proprio di quei segni e di quelle scommesse che però, - al di là della personale intelligenza o inclinazione stilistica di questo o quel suo esponente - dai governi delle «larghe intese» non siamo riusciti ad avere. Governi simili funzionano solo in due casi, infatti: o quando c’è un obiettivo supremo su cui non si discute, in attesa di raggiungere il quale lo scontro politico è sospeso: come quando si tratta di combattere e vincere una guerra; ovvero quando tutte le parti, nessuna delle quali ha prevalso alle elezioni, giudicano più conveniente, anziché andare nuovamente alle urne, accordarsi sulla base di un accurato elenco di reciproche concessioni per sospendere le ostilità e governare insieme. Ma nessuno di questi due casi è quello dell’Italia: dove sia il conflitto interno al Pd e al Pdl che quello tra entrambi è ancora e sempre indomabile, e costituisce il tratto politico assolutamente dominante. La ragione delle «larghe intese» ha così finito per divenire, qui da noi, unicamente quella puramente estrinseca che si governa insieme perché nessuno ha vinto le elezioni, e per varie ragioni non se ne vogliono fare di nuove a breve scadenza.
Certo, due anni fa, quando tutto ebbe inizio con il governo Monti, le intenzioni del presidente della Repubblica miravano, e tuttora mirano, a ben altro. Ma dopo due anni di esperimento è giocoforza ammettere che quelle intenzioni, sebbene abbiano conseguito risultati importanti sul piano del contenimento dei danni, appaiono ben lontane dal divenire quella realtà di cui l’Italia ha bisogno.

Con le «larghe intese», sfortunatamente, non si diminuisce il debito, non si raddoppia la Salerno-Reggio Calabria, non si diminuiscono né le tasse né la spesa pubblica, non si elimina la camorra dal traffico dei rifiuti, non si fanno pagare le tasse universitarie ai figli dei ricchi, non si fa ripartire l’economia, non si separano le carriere dei magistrati, non si costruiscono le carceri, non si aboliscono le Province, non si introduce la meritocrazia nei mille luoghi dove è necessario, non si disbosca la foresta delle leggi, non si cancellano le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; e, come è sotto gli occhi di tutti, anche con le «larghe intese» chissà quando si riuscirà a varare una nuova legge elettorale, seppure ci si riuscirà mai. Si tira a campare, con le «larghe intese», questo sì: ma a forza di tirare a campare alla fine si può anche morire.

23 ottobre 2013 (modifica il 23 ottobre 2013)
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Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_20/potere-vuoto-un-paese-fermo-1e477e6a-394d-11e3-893b-774bbdeb5039.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Dicembre 01, 2013, 05:16:54 pm »

La metamorfosi (e i rischi) del Pd
Democristiani loro malgrado

La decisione del presidente Napolitano circa la necessità di una verifica parlamentare per il governo Letta è difficilmente confutabile. Infatti con lo sfaldamento del Pdl, e l’uscita di Forza Italia dalla coalizione, l’esecutivo conserva la maggioranza, ma la sua natura politica è radicalmente mutata. Da un governo Destra-Sinistra - cioè Pd-Pdl (numericamente autosufficienti) più altri - si è trasformato in un governo di Sinistra-Centro. Nel quale è il Partito democratico, per l’appunto, a rappresentare in entrambe le Camere il nucleo forte, mentre il Centro, costituito da Scelta Civica-Udc più il Nuovo centrodestra (Ncd) di Alfano, svolge la parte di comprimario.

Coincide con questo spostamento dell’asse politico del governo - e in certo senso lo ha reso possibile e insieme ne è un frutto - un secondo e più importante mutamento: la democristianizzazione del Pd. Vale a dire il progressivo ma ormai compiuto assorbimento-imitazione da parte del Partito democratico non solo della funzione sistemica, ma pure dei caratteri interni propri di quella che fu la Democrazia cristiana. Una tale democristianizzazione del Pd si è prodotta non casualmente via via che il sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica andava perdendo il suo parziale carattere bipolare per indirizzarsi verso una riedizione della frantumazione parlamentarista della Prima Repubblica, frutto a suo tempo della proporzionale. Alla quale - di nuovo non a caso - anche la Seconda sembra ora ineluttabilmente condannata a tornare. Un parlamentarismo proporzionalistico che, se non vuole naufragare nel nulla, deve però necessariamente organizzarsi intorno a un partito cardine. Che ieri era la Dc, e oggi è per l’appunto il Pd.

Il Partito democratico si candida a essere un tale partito innanzitutto a causa della neoacquisita posizione di centralità nella topografia parlamentare: dal momento che oggi esso si trova di fatto ad essere la componente principale di un governo che alla Camera deve fronteggiare allo stesso tempo una consistente opposizione di sinistra (all’incirca 130 deputati) e una poco minore opposizione di destra. Ricorda questo qualcosa a qualcuno? Non fu forse precisamente questa, per 40 anni, la situazione della Dc?

La centralità «democristiana» del Pd gli viene anche dal fatto di essere oggi il solo e vero «partito delle istituzioni». In realtà esso lo è fin dagli Anni 90, a causa del fallimento che la Destra ha fatto registrare pure su questo terreno. Non riuscendo a distinguersi neppure in minima parte dalla figura di Berlusconi, dalla sua immagine «corsara», erratica e improvvisatrice, la Destra politica, infatti, non è mai riuscita a liberarsi di qualcosa di casuale e provvisorio, di incompatibile con la stabilità nel tempo, con il senso del passato storico, con l’affidabilità e con gli aspetti legalistico-formali che sono propri della dimensione istituzionale. Verso la quale, invece, la sinistra di origine comunista ha sempre mostrato tradizionalmente una grande attenzione. Il risultato è che da molto tempo la gran parte dell’establishment italiano, nello Stato e nella società, si riconosce nel Pd.

Ma naturalmente essere «come la Dc», cominciare ad occupare una posizione centrale analoga alla sua nella costellazione del potere, ha un prezzo: quello di finire per occuparsi, appunto, solo del potere. E dunque trasformarsi in un ceto burocratico-politico senza idee e senza progetti, diviso in correnti ferocemente in lotta, la cui principale attività, al centro come in periferia, diviene di fatto la spartizione dei posti e delle risorse: proprio quello che oggi il Pd rischia sempre più di diventare.

30 novembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_30/democristiani-loro-malgrado-b1c46e30-5989-11e3-9117-a8a2b0420a9e.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Dicembre 17, 2013, 12:04:25 pm »

IL RAPPORTO FRA IL PAESE E LA POLITICA

Puntare tutto su una persona

La crisi economica sta spingendo la politica italiana in una direzione molto precisa: verso un’oggettiva accelerazione del processo di personalizzazione. Soprattutto per due ragioni: perché fino ad ora tale processo - checché se ne sia detto a proposito del berlusconismo - non era ancora andato molto innanzi, ma soprattutto perché da noi più che altrove (eccezion fatta per la Grecia) la crisi economica sta prendendo il carattere di un’aspra crisi sociale. Cioè di una radicale messa in discussione dello status di milioni di persone: percepita in modo tanto più doloroso quanto più elevato era il livello precedente di garanzie e di benefici.

In una situazione del genere è naturale che si diffondano sentimenti individuali e collettivi di incertezza e di timore. Non si è più sicuri di ciò che si è e di ciò che si ha, di ciò che può riservare il futuro. Appaiono in pericolo i progetti di vita e i mezzi necessari a realizzarli (la piccola rendita finanziaria, il mutuo per la casa, l’avere un figlio, la pensione). Domina una sensazione angosciosa d’instabilità.

Sono queste le condizioni psicologiche ideali perché cresca la domanda di una guida, di un orientamento autorevole, di qualcuno che indichi la via per uscire dal tunnel. Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l’opposto: nei momenti di crisi come quello che attraversiamo cresce sì, e diviene fortissima, la critica alla politica, ma a quella passata (che le oligarchie intellettuali vicine al potere scambiano appunto per antipolitica tout court ), mentre invece diviene ancora più forte la richiesta di una politica nuova e diversa. Sotto la forma, per l’appunto, di una leadership all’altezza della situazione. Di qualcuno che sappia indicare soluzioni concrete ma soprattutto sia capace di suscitare un’ispirazione nuova, di infondere speranza e coraggio, di alimentare - non spaventiamoci della parola - anche una tensione morale più alta: quella che serve a restituirci l’immagine positiva di noi stessi che la crisi spesso distrugge.

La leadership in questione però - ecco il punto - può essere incarnata solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un’anonima organizzazione di partito: due dimensioni che in Italia si segnalano da decenni solo per la loro irrisolutezza e la loro sconfortante modestia. La personalità, invece, è sempre stata, e sempre sarà, pur nella sua inevitabile ambiguità, la risorsa ultima e maggiore della politica: proprio perché nei momenti critici, delle decisioni ultimative, è unicamente una persona, sono le sue parole e i suoi gesti, il suo volto, che hanno il potere di dare sicurezza, slancio e speranza. Nei momenti in cui molto o tutto dipende da una scelta allora solo la persona conta.

L’opinione pubblica italiana si trova oggi precisamente in questa situazione psicologica: è alla ricerca di qualcuno a cui affidare la guida del Paese, di qualcuno che mostri la volontà di assumersi questo compito, di avere la capacità e il senso del comando, l’autorevolezza necessaria. È una ricerca, un’attesa, così acute, nate da un sentimento di frustrazione e di esasperazione ormai così vasto e profondo, da rendere quasi secondarie le tradizionali differenze tra destra e sinistra, essendo chiaro che a questo punto ne va della salvezza del Paese, cioè di tutti. Dietro l’ascesa di Matteo Renzi, e a spiegare l’atmosfera elettrica che sembra accompagnarlo ovunque, c’è un tale sentimento. Così forte tuttavia - e questo è il massimo pericolo che egli corre - che alla più piccola smentita da parte dei fatti esso rischia tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto.

17 dicembre 2013
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Ernesto Galli Della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_17/puntare-tutto-una-persona-5e2f22dc-66e1-11e3-b0a6-61a50f6cb301.shtml
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