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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 126694 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Luglio 06, 2012, 11:03:27 am »

I TECNICI, LA DESTRA E LA SINISTRA

La percezione del premier

Nessuna persona ragionevole può pensare che Mario Monti sia «di sinistra». Così come nessuna persona ragionevole può pensare che la politica del suo governo sia una politica «di sinistra», qualunque cosa oggi questa espressione in un caso e nell'altro possa ancora significare. Quella di Monti è più semplicemente una politica che si sforza di fare del principio di realtà (qui ed ora: dunque con i relativi vincoli anche di natura sociale che nessun mandato popolare lo ha autorizzato a mutare) il suo asse; e degli strumenti tecnici la sua principale risorsa. Può definirla «di destra» solo chi dei vincoli della realtà ha deciso programmaticamente di infischiarsene (almeno a chiacchiere), o è convinto che è meglio farsi governare dall'utopia e dall'immaginazione anziché dalla competenza.

«Di destra» - arieggiante qualcosa che può essere definito «di destra», o forse bisognerebbe dire assai meglio «borghese» - è semmai un tratto intimamente personale della figura del presidente del Consiglio e di alcuni suoi ministri. Un certo tono sommesso ma insieme perentorio, una confidenza anche lessicale e sintattica con le buone maniere, una certa esibita sprezzatura verso tutto ciò che sa troppo di «popolare» e dunque, inevitabilmente, di demagogia. Sa tutto ciò di «destra»? Equivale tutto ciò ad essere «di destra»? Sia pure. Ma, per parlare il linguaggio della nostra storia, sa soprattutto di quella destra che fu la «destra storica». Cioè di qualcosa che la sinistra ragionevole italiana, da Turati in poi, consapevole di vivere in un Paese troppo facile preda di pulsioni plebee e di distruttivi radicalismi, si è sempre guardata dal disprezzare.

E infatti, non a caso, questa tradizione si sta ripetendo oggi. Da settimane assistiamo infatti ai più vari tentativi - ultimo quello di D'Alema, anche se lui naturalmente smentisce - di coinvolgere Monti in una prospettiva di centrosinistra che guardi alle prossime scadenze elettorali e postelettorali. Non si tratta di tatticismi o di strumentalizzazioni. Ci sarà anche questo, certo. Ma c'è soprattutto la riprova dell'antica capacità/propensione della sinistra italiana a colloquiare, a stringere rapporti, a stabilire intese più o meno esplicite, anche con uomini e forze da essa lontane, anche con quelle che possono essere definite «di destra».

Ciò che è strabiliante e tipico dell'Italia è il fatto che invece proprio la destra politica vera, il Pdl, in Monti e nella sua politica non sappia riconoscere nulla che la riguardi, che parli alla sua cultura o al suo cuore. Nulla. E che anzi lo consideri grottescamente come una specie di suo nemico naturale, di subdolo e pericoloso avversario di cui sbarazzarsi al più presto. È qui che si manifesta in pieno la profonda anomalia della destra italiana e dell'itinerario che l'ha portata al punto in cui si trova. Forse per Berlusconi no; forse per qualche cameriere o qualche oca giuliva che gli stanno intorno, lo stesso; ma per tutti gli altri, per la gran massa dei deputati e dei senatori del Pdl, è verosimile che il cosiddetto populismo, lungi dall'essere una vocazione, sia semplicemente una deriva inconsapevole. Non essendogli riuscito di essere i protagonisti di alcuna «rivoluzione liberale», non immaginando neppure cosa sia la durezza austera dei conservatori, non gli è rimasto che essere dei populisti, o per meglio dire un'imitazione del populismo. E così, capeggiati da una delle massime concentrazioni di ricchezza del Paese, tutti o quasi con un reddito abbondantemente sopra quello medio degli italiani, la loro parola d'ordine preferita è diventata «dagli ai poteri forti»!

Ernesto Galli della Loggia

4 luglio 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_04/editoriale-percezione-premiere-galli-della-loggia_81a0eb16-c597-11e1-9f5e-4e0a5c042ce0.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Luglio 13, 2012, 06:28:46 pm »

L'ITALIA DEL «TUTTI INNOCENTI»

Una perfetta impudenza


Sosteneva Schopenhauer - un bilioso connazionale della signora Merkel vissuto circa un paio di secoli fa, al quale evidentemente non eravamo troppo simpatici - che tra tutti i popoli d'Europa gli Italiani rappresentavano l'esempio di «una perfetta impudenza». Esagerava, certamente.
Ma resta il fatto che da un po' di tempo chi vive in questo Paese non può fare a meno di chiedersi dove mai erano negli ultimi trent'anni gli attuali protagonisti della scena pubblica italiana, che cosa allora essi dicevano e facevano, addirittura se abbiano mai detto o fatto qualcosa. O forse, invece, erano ancora in troppo tenera età? O magari tutti all'estero e si occupavano d'altro?

Oggi, infatti, nessuno sembra essere stato responsabile di nulla. Una «perfetta impudenza», appunto. Debito pubblico cresciuto a livelli vertiginosi? Spesa pubblica oggetto di sprechi di ogni tipo e misura? Un'amministrazione di inefficienza conclamata? Le professioni preda del più turgido spirito corporativo? La lottizzazione partitica dominante dappertutto? Un welfare costruito a tutela dei più forti? Reti e servizi organizzati in forma oligo-monopolistica e sempre in danno del consumatore? Banche inefficienti e abituate ad angariare la clientela? Un'industria privata spesso variamente foraggiata a fondo perduto dallo Stato? Una giustizia di cui i cittadini diffidano? Carceri in condizioni orripilanti?

Sì, questo è il panorama vero e angoscioso dell'Italia di oggi. Ma è un panorama orfano di padri: per la parte che ciascuno vi ha avuto nel generarlo nessuno se ne vuole fare carico. Tutti innocenti. A cominciare dai partiti che fino a novembre dell'anno scorso hanno governato in ambito locale e nazionale. Quei partiti, quegli uomini e quelle donne, che per decenni hanno preso tutte le decisioni che oggi sappiamo sbagliate, quasi sempre senza preoccuparsi del domani ma solo del consenso dell'oggi; che hanno deliberato spese sconsiderate e hanno approvato leggi sempre più rivelatesi mal pensate e peggio ancora applicate. Per non dire dei sindacati, propugnatori abituali di vincoli rivelatisi soffocanti e, specialmente nel pubblico impiego, sostenitori di ope legis rovinosi, di mansionari e organici fuori dalla realtà, portatori di abiti ideologici implacabilmente ostili al merito, alla gerarchia, all'efficienza. Quei sindacati che per bocca di Susanna Camusso ancora oggi rivendicano come un merito indiscusso la prassi della concertazione «tra le parti», senza neppure un dubbio sulle evidenti conseguenze che una tale prassi ha avuto per decenni ai danni dell'interesse, non «delle parti», ma di quello generale, di cui deve pur essere garante il governo.

Mettiamoci pure, come è giusto, il sistema dell'informazione. Sì, troppo a lungo l'informazione indipendente si è mostrata eccessivamente indulgente verso il potere politico ed economico e i suoi rappresentanti. Non solo: troppo rispetto a priori anche verso i tabù culturalmente consacrati, verso l'autorità delle grandi corporazioni, verso tante discutibili pretese dei corpi dello Stato. Esattamente come la medesima indulgenza, il medesimo conformismo, però, ha avuto l'informazione ideologicamente orientata, ogni qual volta si è trattato di coprire le contraddizioni, le inadeguatezze o le vere e proprie magagne della propria parte.

C'eravamo, ci siamo stati tutti, insomma, nell'Italia degli ultimi trent'anni, se non sbaglio. E ognuno con la sua piccola o meno piccola parte di colpa; anche se oggi in molti fingono di esserselo dimenticato. Soprattutto c'erano, ci sono stati, gli Italiani (ha fatto bene Giuseppe Bedeschi ieri a ricordarlo). Gli Italiani: nella loro maggioranza implicati in mille modi - contro una minoranza di veri poveri e di senza diritti - nei meccanismi perversi che ci hanno portato alla drammatica condizione attuale: come elettori, come evasori fiscali, come finti invalidi o finti intestatari di quote latte, come viaggiatori a sbafo, come fruitori della spesa pubblica, di condoni edilizi, di pensioni d'anzianità, come membri di qualche piccola o grande corporazione di privilegiati. Più o meno i medesimi, c'è da giurarci, intenti a recitare oggi la parte dei superindignati contro la «casta».

È questo il massimo ostacolo che paralizza il Paese e gli impedisce di riprendere qualsiasi cammino, è la sua cattiva coscienza: l'oblio generalizzato e autoassolutorio della società nazionale in genere, e la mancanza della benché minima autocritica dei partiti maggiori, che di conseguenza li rende tutti non credibili nei loro propositi per il futuro, destinati quindi a suonare fastidiosamente patetici. L'Italia non potrà avere alcun futuro finché non riuscirà a disporre di una narrazione del passato che la renda consapevole degli sbagli trascorsi, delle loro cause e dei loro responsabili. Così come dopo la catastrofe della guerra potemmo risollevarci solo dopo esserci sforzati di capire gli aspetti oscuri della nostra storia che si riassumevano nell'errore del fascismo, allo stesso modo oggi andremo avanti solo se faremo i conti con la vicenda grigia e piena di difetti della nostra democrazia.

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

13 luglio 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_13/perfetta-impudenza-galli-della-loggia_c7a2572c-cca8-11e1-a3bf-e53ef061f69e.shtml
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« Risposta #137 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:05:32 pm »

EUROPA TEDESCA E MEDITERRANEA

Un’antica diversità

Almeno un merito alla crisi economica che oggi squassa l’Unione Europea va riconosciuto: quello di obbligare a ripensare dalle fondamenta il modo in cui essa è nata e cresciuta. Solo così sarà possibile trovare una via d’uscita. Ma è un compito che tocca alle opinioni pubbliche, agli studiosi e agli osservatori indipendenti, dal momento che le leadership politiche europee lo evitano accuratamente, impegnate come sono ad impiegare il proprio tempo unicamente nel rimbalzare da un vertice all’altro, indicato ogni volta come risolutivo e ogni volta, però, destinato a non risolvere nulla.

Ripensare la costruzione europea, dunque. Oggi è chiaro, ad esempio, che alla sua origine vi fu un atto di temeraria cecità geopolitica. La conclusione della II Guerra mondiale e il sequestro da parte dell’Unione Sovietica dell’intera parte orientale del continente furono l’elemento decisivo che portò a considerare Italia, Francia, Germania e Benelux come realtà omogeneamente «europee ». In verità esse lo erano solo per un motivo: perché tutte erano allora gravitanti nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, non per altro. Solo la riconosciuta egemonia americana da parte delle loro classi dirigenti dell’epoca conferiva insomma a quell’organismo un carattere «occidentale ».

La concezione dell’Europa alla base dei Trattati di Roma cancellava di fatto almeno due aspetti decisivi: l’esistenza da un lato di un’«Europa mediterranea » (allora soltanto l’Italia, ma che con Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro sarebbe poi divenuta una realtà di rilievo), e dall’altro di un’«Europa tedesca » incentrata sulla Germania ma in realtà estesa dalla Scandinavia all’Olanda, all’Austria, alla Slovenia. Quella concezione cancellava l’esistenza di due Europe con storie, società, tradizioni assai diverse. Due Europe da secoli unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti: con la differenza, però, che i primi erano patrimonio quasi esclusivo di ristrette élite, mentre i secondi, invece, avevano radici vastissime e profonde. Due Europe, la cui esistenza effettiva la Comunità prima (la Cee) e la Unione dopo (la Ue) sono riuscite ad occultare, per anni e anni, servendosi sia di un fragile mantello ideologico — l’«Occidente» — sia di una apparentemente più solida prospettiva generale, l’economia: tutta l’area comunitaria s’identificava infatti con il capitalismo, era interessata al suo sviluppo, si riconosceva nelle sue regole.

Ma sia il mantello ideologico che la prospettiva generale appaiono oggi in frantumi: finito lo scontro Usa-Urss, l’«Occidente» è divenuto una categoria sempre più evanescente; mentre l’economia, sottoposta alle tensioni della globalizzazione, si sta rivelando un fattore assai più di scollamento che di unificazione. E così oggi riprendono il sopravvento la geografia, la politica e con esse la storia. Sulla finta capitale Bruxelles riprendono il sopravvento le capitali vere del continente: Berlino, Parigi, Madrid, Roma. E torna a prevalere una diversità antica. Oggi, infatti, riappare in tutta la sua drammatica evidenza la diversità tra l’«Europa tedesca » e l’«Europa mediterranea » (con la Francia a metà tra le due); a complicare ulteriormente le cose ci si aggiunge pure, grazie al dissennato allargamento a Est, la radicale diversità dell’«Europa balcanica».

Qui da noi, nell’«Europa mediterranea », la modernità democratica è nata assai di recente dovendo fare i conti non solo con passati fascistico-autoritari — dalla Grecia alla Spagna, all’Italia appunto—ma con società dai caratteri per più versi ostili ovvero estranei ai suoi valori, nelle quali dominavano antiche e diffuse povertà, una debole cultura civica, legami personali soverchianti e insieme l’individualismo più restio, particolarismi tenaci, una tradizione di governo lontana dallo Stato di diritto. Tutti questi elementi hanno consentito, sì, che i meccanismi consensualistico- democratici si affermassero, ma al prezzo di un ruolo crescente e pervadente dell’intermediazione politica. A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare fin dall’inizio, e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando uno spirito pubblico conseguente.

Così come le sue classi politiche sono state progressivamente spinte a occupare spazi collettivi di ogni tipo (spesso addirittura a crearli) facendosi forti per l’appunto delle risorse di cui avevano la disponibilità. La bancarotta della Grecia, la drammatica crisi finanziaria esplosa contemporaneamente in molte, importanti autonomie locali di Italia e Spagna, unitamente all’immane debito pubblico e privato di entrambi i Paesi, sono di certo un fatto di malcostume e di leggerezza dei loro governanti. Ma non solo. Rappresentano anche la realtà di una condizione storica: della condizione storica in cui si è affermata la democrazia in questa parte del continente.

È ovvio che i «mercati» non se ne curino più di tanto. È invece sbagliato che noi, cittadini dell’Europa mediterranea, a cominciare da noi italiani, non facciamo nulla per spiegare queste cose ai nostri amici europei, ai nostri amici tedeschi: che per esempio non impegniamo in questo senso la nostra diplomazia con un’appropriata azione culturale. Sia chiaro: non per invocare impossibili indulgenze (con la mafia e la corruzione, per esempio, dobbiamo solo impegnarci più che mai a farla finita), ma per ricordare che in Europa la democrazia non è una pianta autoctona. Per radicarla c’è stato bisogno qualche volta di un deficit di duemila miliardi, altrove il prezzo è stato Auschwitz, quasi dappertutto è stato necessario il vento d’oltreoceano. I conti dell’Europa con la democrazia non cominciano con la Cee o con la Ue. Vanno fatti su archi cronologici un po’ più ampi, perché vanno fatti con la storia. E allora forse si vedrebbe che ad averli davvero in ordine quei conti siamo in pochissimi.

Ernesto Galli della Loggia

25 luglio 2012 | 7:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_25/galli-della-loggia-un-antica-diversita_7d5634fe-d617-11e1-bdd2-f78a37bd7a67.shtml
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« Risposta #138 inserito:: Agosto 05, 2012, 07:42:06 pm »

EURO, SOVRANITÀ E COSTITUZIONE

La moneta dei più forti

L'Italia è di fronte a una scelta decisiva: continuare a sopportare lo spread assai alto che sappiamo (e che domani potrebbe essere ancora più alto), ovvero chiedere l'intervento del fondo salva Stati. La conseguenza nel primo caso sarebbe un declino economico certo. Ma ancora più grave sarebbe la conseguenza nel secondo caso, e cioè - in forza delle condizioni che accompagneranno l'aiuto della Bce, volute dalla Germania e da altri Paesi forti dell'eurozona - un vero e proprio commissariamento del governo italiano attuale e di quelli successivi. Che dunque sarebbero obbligati per anni ad attenersi a una serie di direttive dettate dall'esterno. Insomma, una radicale perdita di sovranità da parte della Repubblica.

È la conferma di un dato drammatico che la crisi dell'euro sta sempre più mettendo in luce: vale a dire che a distanza di circa sessant'anni dalla sua origine, e al di là di ogni apparenza formale, nell'ambito dell'Unione Europea non esiste alcun organo realmente sopranazionale, neppure la Banca centrale europea. Non esiste cioè alcun organo che in materie rilevanti possa - ispirandosi a un interesse collettivo o comunque a suo insindacabile giudizio ritenuto tale - decidere indipendentemente dalla volontà dei governi dei singoli Stati. Per esempio, stabilendo di distribuire con una certa equanimità fra tutti i membri i costi e i benefici delle sue decisioni. In queste condizioni l'euro è solo formalmente una moneta «europea», adottata su base paritaria e concordata: come i suoi padri s'illudevano che fosse. In realtà, essendo una moneta «unica» che alle spalle non ha però alcuna unità (nessuna unità vera, cioè politico-statale: la sola che conta per le classi politiche chiamate a rispondere a degli elettorati nazionali), esso è destinato inevitabilmente, alle prime difficoltà, a divenire qualcos'altro. E cioè il semplice paravento dietro il quale si manifestano, insopprimibili, i tradizionali contrasti e rivalità tra gli Stati.

Peggio: l'euro diviene un arma insidiosissima nelle mani dei Paesi economicamente più forti contro quelli più deboli. Infatti, nei tempi di tempesta la coesistenza da un lato di autonome individualità statali, e dall'altro della moneta unica, rischia di sortire il virtuale effetto, prendendo a motivo i vincoli «unitari» che questa comporta, di spezzare il nerbo degli Stati di serie B. Trasformandoli di fatto in autentici Stati vassalli. L'autonomia del «politico» si prende in tal modo la più beffarda vendetta a spese dell'immaginario primato dell'economia sul quale tutta la costruzione europea è stata edificata.
Ma ciò detto, va aggiunto subito dopo che quanto sta accadendo pone all'Italia, mi pare, tra le tante, anche una delicatissima questione di costituzionalità (e a mio giudizio sarebbe stato bene che non si fosse posta oggi per la prima volta: sennonché la nostra Corte Costituzionale, per ragioni che ignoro, non ha mai ritenuto di dovere imboccare quella via di rigida salvaguardia della sovranità nazionale nei confronti della costruzione europea che invece ha imboccato a suo tempo la Corte Costituzionale tedesca; dalle cui decisioni, così, anche noi finiamo oggi grottescamente per dipendere).

Nella nostra Carta, infatti, esiste un articolo 11 secondo il quale l'Italia può consentire alle limitazioni di sovranità ma «in condizioni di parità con gli altri Stati», ed evidentemente solo a queste condizioni. Non sembra allora inappropriata la domanda: quali mai «condizioni di parità» sarebbero garantite nell'eventuale cessione di sovranità alla quale ci vedessimo costretti in base alla richiesta di aiuto alla Banca centrale europea? Qui si tratta evidentemente di condizioni decise di volta in volta per diretto impulso dei governi, con contenuti ogni volta mutevoli. E dunque mi chiedo: che certezza può mai esservi che il trattamento oggi riservato all'Italia lo sarebbe domani, mettiamo, anche alla Germania? Cioè che siano effettivamente rispettate le «condizioni di parità» volute dalla Costituzione? Senza contare - altra considerazione all'apparenza non irrilevante - che sempre la nostra Costituzione stabilisce nel medesimo articolo che le limitazioni di sovranità di cui si sta dicendo possono essere fatte solo se «necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni». E allora ecco una nuova domanda: di quale «giustizia» è questione negli obblighi che dovremmo eventualmente prendere per salvarci dallo spread ? La giustizia del «guai ai vinti» o quale?

Ernesto Galli Della Loggia

5 agosto 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_05/la-moneta-dei-piu-forti-ernesto-galli-della-loggia_f86747ce-dec2-11e1-9e96-0d6483763225.shtml
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« Risposta #139 inserito:: Agosto 07, 2012, 04:45:42 pm »

Monti e le polemiche tedesche

Non è solo una questione di soldi

Ormai dovremmo saperlo, ma giova ripeterlo. Abbiamo vissuto per anni indebitandoci allegramente. Per anni l'Italia ha rappresentato un esempio da manuale di colpevole democrazia della spesa non coperta da entrate adeguate; cioè di una classe politica irresponsabile (la stessa, peraltro, che tra poco più di sei mesi ci chiederà il voto), la quale pensava sempre solo al suo consenso e mai al futuro del Paese.

E anche un esempio, per favore non dimentichiamolo, di cittadini sempre avidi, ogni volta che ne avevano la forza, di chiedere soldi pubblici e privilegi a carico dell'erario.


Di questi fondatissimi dati di fatto si fa forte Stefano Micossi sul Corriere di ieri, e con lui altri cortesi critici del mio editoriale di domenica scorsa, per sottolineare che è vano «stupirsi - come io avrei fatto - se il condominio dell'euro non si fida di noi e ci mette sotto tutela», imponendoci condizioni lesive della nostra sovranità. Insomma, «chi è causa del suo mal» con quel che segue.


Sennonché le cose - a me sembra - sono un po' più complicate. Cerco di spiegarmi aiutandomi con un paragone. Quello con il Fondo monetario internazionale, il quale, come si sa, presta aiuto finanziario ai Paesi in difficoltà a patto che questi seguano le indicazioni di politica economica che esso di volta in volta suggerisce loro. Anche qui, dunque, è implicata una cessione di sovranità, ma di essa nessuno si è mai meravigliato. Da che mondo è mondo, infatti, la dura condizione d'inferiorità del debitore obbliga questi a stare ai desiderata del creditore. O fa come vuole lui, o niente.


È a tutti evidente, però, la differenza tra questo caso e il nostro attuale. Per due ragioni. La prima - fondamentalissima - è che il fondo monetario non è uno Stato. La seconda sta nel fatto che dal canto suo la Germania (parlo solo della Germania non per spirito antitedesco, ma per comodità discorsiva, in quanto rappresentativa dell'intera area economicamente forte e virtuosa dell'eurozona) non ha né può avere con l'Italia, che le piaccia o meno, un rapporto come quello, a suo modo assai semplice nella sua limpida brutalità, tra chi ha bisogno di soldi e chi ne dispone.

La Germania non è il rappresentante autorizzato né dei sottoscrittori stranieri del nostro debito pubblico né del fondo salva Stati (e tra l'altro in questa fase si sta avvantaggiando rispetto agli altri Paesi finanziandosi a tassi negativi). È un Paese che ha con il nostro (e non solo, naturalmente) un assai antico e complesso rapporto di solidarietà politica a tutto campo qual è da decenni quello definito dalla costruzione europea e da una connessa, amplissima, condivisione istituzionale.

Entrambe queste ragioni hanno una conseguenza decisiva. Squarciano l'involucro economico del discorso e ne fanno emergere con forza il contenuto politico che alla fine è l'unico che conta, dal momento che - qualunque cosa dicano i vari trattati, anche quelli di natura più tecnica - il senso e la ragione ultima dell'Unione Europea sono per l'appunto un senso e una ragione di natura intrinsecamente politica (anche se questa non è mai riuscita a concretizzarsi in istituzioni adeguate).

Ma proprio da un tale punto di vista, proprio se tutto ciò è vero, come si fa allora a non vedere l'immane incidenza politica che nell'ambito di un insieme unitario e paritario di Stati, come finora ha detto di essere la Ue, avrebbe la perdita di sovranità da parte di uno (o più) di essi? Come si fa a non mettere al centro del problema il fatto che alla perdita di sovranità, e dunque di ruolo e di peso politico da parte di uno Stato, corrisponderebbe necessariamente e immediatamente l'accrescimento di ruolo e di peso di un altro (quello della Germania)? E come si fa, infine, a considerare trascurabile l'effetto profondo ma inevitabile che questo spostamento di pesi politici avrebbe sulla natura politica, ma prima di tutto storica, della costruzione europea? Trasformandola definitivamente in un'Unione euro-carolingia a dominazione tedesca, mille miglia lontana da qualunque cosa l'europeismo di qualunque colore abbia mai pensato. È davvero questo che si vuole all'Aia, a Helsinki, e pure a Berlino? Altro che debitori e creditori, «è colpa vostra», «è merito nostro», e chiacchiere simili.

Tutte cose vere, per carità, verissime. Ma che non colgono il punto. Il punto vero è che oggi sullo spread e sull'impiego del Fondo salva Stati a favore dei Paesi dell'Europa mediterranea non si gioca un braccio di ferro finanziario: si decide in realtà la questione, integralmente politica, di che cosa sarà in futuro l'Unione Europea e di che cosa saranno i regimi politici di una parte di essa.

P.S.: Cedendo all'antica tentazione nazionale di apparire sempre, di qualunque cosa si tratti, come i primi della classe, molti politici e commentatori tedeschi si sono trasformati nelle ultime ore in accigliati maestrini di democrazia ai danni del nostro presidente del Consiglio. Accusato - nientedimeno! - di aver manifestato in una intervista a Der Spiegel disprezzo verso il controllo parlamentare sui governi, fondamento di ogni regime rappresentativo. Ma è un gioco che mostra la corda. Estrapolando cinque parole si può far dire qualunque cosa a chiunque.

Altro discorso però è darlo a credere davvero a chi conosce bene la personalità di Mario Monti. Come la conosce, per l'appunto, la stragrande maggioranza degli italiani: salvo ahimè i pochi politicanti da quattro soldi prestatisi anche questa volta, come spesso capita, a fare da cassa di risonanza alle maldicenze d'Oltralpe.

Ernesto Galli della Loggia

7 agosto 2012 | 10:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_07/non-questione-di-soldi_b669d286-e04f-11e1-8d28-fa97424fa7f2.shtml
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« Risposta #140 inserito:: Agosto 27, 2012, 05:18:52 pm »

IMMAGINI E COSTI DELL'INCURIA

Il paesaggio preso a schiaffi

Trascorrere qualche giorno in Calabria - dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola - significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.

Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.

Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro - questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana - per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e - perché no? - una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?

Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.

Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque).

D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace - fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti - se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.

Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.

Ernesto Galli della Loggia

27 agosto 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_27/il-paesaggio-preso-a-schiaffi_d6ab4d26-f004-11e1-924c-1cb4b85f5a80.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Settembre 03, 2012, 11:52:20 am »

LE CORRENTI DELLA CHIESA

Una federazione di popoli diversi

Luigi Giussani, Carlo Maria Martini: nel giro di pochi anni il Duomo di Milano assiste ai funerali di due figure tra le più importanti del cattolicesimo italiano della seconda metà del Novecento. Due personalità assai differenti, ma ognuna rappresentativa di due diverse anime di quel Cattolicesimo.

Tutto fuoco Giussani, agitato da un entusiasmo a suo modo ascetico e insieme informale; invece controllato e «loico» Martini, uomo di parola scritta assai più che parlata. Fautore Giussani di un cattolicesimo pugnace, innamorato della realtà creaturale di Cristo ma appagato nel suo pieno autoriconoscimento con la Chiesa; invece Martini impegnato a cercare di piantare la croce sulla tormentata frontiera della modernità, alla ricerca di una perigliosa transazione con essa, con le eresie e gli eretici che la abitano. E poi un semplice prete da un lato, un principe della Chiesa dall’altro: anche nel loro rango — così contraddittorio rispetto alle loro personali ispirazioni—si è rispecchiata la straordinaria molteplicità d’idee, di moti dell’animo e di capacità creative che da sempre caratterizza l’Istituzione romana facendone la sua altrettanto straordinaria vitalità.

Da molto tempo, tuttavia, per questo Cattolicesimo è sempre più difficile tenere insieme le proprie varie anime: come emerge da mille particolari anche nella circostanza di questa morte di Martini che—salvo un messaggio insolitamente lungo del Papa—Roma e le sue gerarchie sembrano registrare con ostentata freddezza. È il dramma di una Chiesa che grazie al Concilio ha creduto di potersi riappacificare con la modernità, di risanare le contraddizioni e le divisioni che questa le aveva procurato. Ma che, proprio intorno al Concilio e al suo significato, ha visto riaccendersi come non mai le dispute, e prodursi nuove lacerazioni. Sicché, ormai, il popolo di Dio appare sempre di più come una federazione di popoli diversi: quelli arciconvinti che la Chiesa abbia tradito il Concilio; quelli, all’opposto, che sia stato il Concilio a tradire, esso, il «depositum fidei» ricevuto, gettandolo alle ortiche; e quelli, infine, che, rinserrati tra le mura di qualche movimento, sono persuasi dell’autosufficienza del patchwork religioso a cui si sono affiliati. Il resto dei credenti, che pure è la maggioranza, è come se invece non esistesse, e comunque non riesce a trovare il modo di avere voce.

Martini abbandona la scena nel momento in cui a questa divisione alla base—che egli stesso ha rappresentato con fiero animo di parte — si sta aggiungendo però anche una clamorosa divisione al vertice, testimoniata dagli indizi sempre più numerosi di aspre lotte che agitano la stessa Santa Sede e che appaiono tutt’altro che un episodio passeggero. La Chiesa che egli lascia, insomma, è una Chiesa che, sottoposta a troppe scosse nelle sue fondamenta, comincia a veder scricchiolare anche la compattezza della propria struttura istituzionale, minata da regole che non rispondono più al loro scopo e anzi si stanno rivelando distruttive. Una conseguenza da lui certo non prevista: e per la quale nei suoi tanti scritti si cercherebbe invano un possibile rimedio.

Ernesto Galli Della Loggia

2 settembre 2012 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_02/federazione-popoli-diversi-galli-della-loggia_119305b8-f4c5-11e1-9f30-3ee01883d8dd.shtml
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« Risposta #142 inserito:: Settembre 12, 2012, 03:49:04 pm »

LA CRISI D'IDENTITÀ DEL PDL

Un partito allo specchio

Il Pdl rischia di diventare un caso unico nella storia. Ancora oggi è il partito che alle Camere ha più seggi, avendo conseguito quattro anni fa (sia pure insieme a Gianfranco Fini e ai suoi fidi) una clamorosa vittoria elettorale. Ha espresso per vent'anni decine di ministri e sottosegretari. Governa varie Regioni e migliaia di Comuni, nonché una miriade di enti pubblici, e infine il suo capo è da sempre quasi il simbolo della svolta politica rappresentata dalla cosiddetta seconda Repubblica.

Ma proprio questo partito - e proprio in un momento critico per il Paese - è di fatto sparito dalla scena. Essendosi il suo capo ritiratosi da mesi sotto la tenda, anche il Pdl si è dileguato. Sicché sulla nostra scena politica non c'è più la destra, quasi a conferma di una patologica anomalia della vicenda politica italiana nell'età della Repubblica. Del Pdl si stanno perdendo le tracce. Sia sul passato che sul futuro ogni dibattito al suo interno è inesistente. A quale motivo, per esempio, esso attribuisce la fine così ingloriosa della sua esperienza di governo? E che cosa pensa e propone circa il cruciale rapporto dell'Italia con l'Europa? Quale giudizio dà a proposito di un'eventuale prosecuzione post elettorale della linea di rigore incarnata dal governo Monti? E considera più probabile e/o più auspicabile un'intesa (di governo ma non solo) con Casini o con la Lega? Nessuno lo sa.

Intendiamoci. Su questi temi anche il Pd evita di pronunciarsi in via definitiva, stretto com'è tra due opposte necessità: da un lato quella di non sconfessare il rigore del governo che appoggia, e dall'altro il timore che candidarsi a proseguirne l'azione gli faccia perdere voti. Ma almeno a sinistra si discute, ci si divide, si agitano le questioni vitali del futuro, sicché alla fine gli elettori sono più o meno in grado di farsi un'idea, di capire chi, in quel campo, vuole che cosa. Nel Pdl invece niente. Qui tutti appaiono come dei burattini inanimati in attesa che arrivi il Grande Burattinaio a muovere i fili.

Eppure nel Pdl non mancano politici di lungo corso i quali di sicuro hanno opinioni, idee, e magari anche la voglia di provare a metterle in pratica. Politici che verosimilmente pensano che con Berlusconi non si va più da nessuna parte perché con lui non solo vincere le elezioni è ormai impossibile, ma è anche quasi impossibile stabilire un'intesa con chiunque altro. Cioè che con lui è ormai impossibile fare politica, e che dunque per il Pdl è giunto il momento di battere altre strade. Forse simili pensieri li agita dentro di sé anche il mite Alfano, chissà! Ma nessuno parla.

Questa incredibile paralisi che ha colto gli uomini e le donne del Pdl si spiega solo con la paura. Oggi per il Pdl, e nel Pdl, infatti, fare politica davvero non può che significare innanzi tutto prescindere da Berlusconi, andare oltre Berlusconi. Ma proprio qui sta il problema: dal momento che con lui alla testa il Pdl può sempre sperare domani in un 18-20 per cento di voti, il che vuol dire la certezza per tutto il suo stato maggiore allargato di essere rieletto. Invece senza Berlusconi (e le sue risorse di ogni tipo) perfino il 10 per cento è problematico: e dunque per tanti la non rielezione è assicurata. E poi è facile a dirsi «andare oltre Berlusconi»: ma se poi quello decide di ricominciare come se nulla fosse, quale fine possono immaginare di fare i «superatori»? Nei partiti di plastica, si sa, la prudenza non è mai troppa: tra un seggio parlamentare e il cestino della carta straccia non c'è che un passo (falso).

Ernesto Galli della Loggia

12 settembre 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_12/un-partito-allo-specchio-galli-della-loggia_8c411cc4-fc9e-11e1-8750-e7d636bddd26.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:38:12 pm »

 
Il partito galleggiante

Ci si poteva aspettare che la paralisi che da mesi ha colpito il Pdl— una paralisi che in periferia sembra preludere ad autentiche catastrofi elettorali: vedi a Roma e nel Lazio (grazie al malgoverno di Alemanno e all’evanescenza della Polverini) o in Lombardia (per effetto dei traffici dei faccendieri vicini a Formigoni e a Comunione e Liberazione)—ci si poteva aspettare, dicevo, che la crisi della destra berlusconiana aprisse la strada a una ripresa in grande stile di quell’area cattolica e liberale di spirito moderato ma riformatore, che finora aveva avuto come suo sia pur parziale punto di riferimento l’Udc di Pier Ferdinando Casini. E invece no. Sia nei sondaggi che nell’aria che si respira in giro la crisi del Pdl (e della Lega, bisogna aggiungere) non sembra premiare affatto l’Udc. Io credo principalmente per due ragioni. La prima è l’inconsistenza della sua offerta politica. Nel mezzo della più grave crisi conosciuta dal Paese in questo dopoguerra — una crisi in cui vengono al pettine nodi di mezzo secolo di storia repubblicana; una crisi che obbliga a ripensare tutta questa storia — non si possono offrire ricette per il futuro a base di formule vuote tipo «Monti dopo Monti» o simili. Lo so che per le abitudini dei politici nostrani si tratta di qualcosa d’inconcepibile, ma in circostanze del genere è assolutamente necessario impegnare il proprio nome e la propria faccia su non più di quattro, cinque proposte concrete, sufficientemente dettagliate, e su quelle chiedere il consenso degli elettori. Così fanno dappertutto i partiti che vogliono essere presi sul serio. Non già stare lì a perdersi in spossanti surplace sul proprio posizionamento, sulle alleanze, sulle leggi elettorali, sulle preferenze e altri arabeschi del genere, in un interminabile chiacchiericcio tra addetti ai lavori. Se Casini vuole capeggiare qualcosa che non sia solo l’Udc, dovrebbe riuscire a parlare finalmente il linguaggio delle cose da fare. Si tratta di cose, tra l’altro, che a parere di chi scrive richiedono oggi una peculiare commistione di elementi conservatori e riformatori, e dunque si presterebbero bene a divenire oggetto di proposte da parte di una formazione come la sua. Penso per esempio al rapporto con l’Europa e alla profonda riflessione che esso richiede sulla nostra sovranità e sui nostri autentici interessi nazionali; al Paese Italia che rischia nella sua stessa fisicità di sparire distrutto dal cemento, dalla rinuncia all’agricoltura, da inesistenti politiche del turismo; penso a chi lo amministra, con un federalismo antistatale maneggiato da classi politiche locali perlopiù o inette o rapaci, spesso entrambe le cose insieme; ancora: penso all’ambito cruciale dell’istruzione e della ricerca, il quale è da decenni nel più totale marasma, preda di demagogie e di egualitarismi insulsi (l’autonomia dei singoli istituti e però tutti gli insegnanti pagati nella stessa misura), di programmi sbagliati e di pannicelli caldi tecnologici (ci mancava il tablet!). Ebbene, che cosa pensa concretamente di fare in ognuno di questi punti critici e in tanti altri immaginabili Pier Ferdinando Casini? Nessuno lo sa.

Il sospetto che viene è che l’oscurità su questo punto chiave, oltre a indicare limiti intrinseci, serva però a uno scopo preciso: a lasciare nell’ombra il problema irrisolto della collocazione centrista finora tenuta dall’Udc. Con chi fare, insomma, le cose che si pensa eventualmente di fare (e di cui peraltro ma forse non a caso nulla è dato di sapere)? Con la destra? Con la sinistra? La risposta tipica del centrismo è: «Con chi ci sta». Cioè è una non risposta. Che tuttavia appare l’unica possibile se, come l’Udc oggi sembra intenzionata a fare, si vuole mantenere il gioco nell’arena della schermaglia politicista della proporzionale e dei governicchi di coalizione; e se non si ha l’animo, viceversa, di rivolgersi al Paese, di chiamare a scelte importanti le grandi masse elettorali, magari sfidando l’egemonia di Berlusconi sulla destra (quella di Bersani sulla sinistra sembra più difficile...). Ancora una volta, insomma, il silenzio è il paravento per l’irrisolutezza e la mancanza di visione. Il problema di Casini naturalmente sta anche nel suo partito. Sembra di capire che per accrescere l’attrazione elettorale dell’Udc, egli la vorrebbe trasformare in una formazione di rassemblement, in un partito di raccolta per un’intera area. Ma è dubbio che per questo obiettivo basti l’immissione di logori e scoloriti professionisti della politica come Fini o Bonanni, ovvero di personaggi come Passera e Marcegaglia, privi di qualunque vera immagine pubblica che non sia quella di sedicenti «tecnici», mentre in realtà si tratta di titolari di cospicui redditi d’impresa che li destina più che altro ad essere soggetti di un rilevante conflitto d’interessi. Anche qui, insomma, il problema dell’Udc e del suo segretario appare la sproporzione tra le ambizioni nutrite e la effettiva capacità di rischiare in proprio per realizzarle. Affermare di voler costruire qualcosa che vada oltre, molto oltre, il piccolo partito attuale, ma poi non saper rinunciare al comodo riparo del cespuglietto cattolico-minidiccì con annesse «personalità » da due di briscola. Sognare di diventare domani se non proprio una portaerei almeno un incrociatore pesante, continuando però ad essere oggi la zattera galleggiante che si accontenta di galleggiare.

Ernesto Galli della Loggia

16 settembre 2012 | 10:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_16/il-partito-galleggiante_23d63d52-ffc5-11e1-8b0a-fcb4af5c52c7.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Ottobre 01, 2012, 09:36:18 am »

LA SFIDA DI RENZI ALLE PRIMARIE

Chi ha paura di Gianburrasca

Non è necessario avere una simpatia per Renzi, per stupirsi della piega che stanno prendendo le «primarie» nel Pd


Non è necessario avere una particolare simpatia per Matteo Renzi, condividerne la sommarietà del programma o il piglio da Gianburrasca, per stupirsi della piega che stanno prendendo le «primarie» dentro il Partito democratico. Una piega che si riassume non solo nel tentativo di boicottare in tutti i modi la candidatura del sindaco di Firenze, ma nel tipo di reazioni che questa sta scatenando in una parte del gruppo dirigente della sinistra.

In qualsiasi elezione, e dunque anche nelle «primarie», opporsi politicamente a un candidato è più che legittimo. Boicottarne la candidatura invece no. Equivale precisamente a un boicottaggio, per esempio, il predisporre un sistema di regole fatte apposta per ostacolare la vittoria di un determinato candidato. È quanto, per l’appunto, ciò che starebbe avvenendo in queste ore nelle segrete stanze del Pd.

Si comincia con la decisione bizzarra di ammettere al voto per le «primarie» sedicenni e immigrati. Ma che senso ha, visto che le «primarie » stesse servono a scegliere chi dovrà capeggiare la coalizione alle elezioni politiche, che costui sia scelto anche da chi a quelle elezioni non potrà poi partecipare? È inevitabile il sospetto che ci sia dietro qualche intenzione poco chiara. Si prosegue poi con la regola del doppio turno: una regola, mai prima adottata, che evidentemente è fatta su misura per consentire al candidato sulla carta favorito, cioè Bersani, di poter avere maggiori speranze di vittoria grazie al restringersi finale del confronto a un virtuale ballottaggio (una regola che diventerebbe ancora più capestro, poi, se al secondo turno, come pare che si proponga, fossero ammessi solo i votanti al primo). Ancora: si parla di un albo pubblico nel quale i votanti dovrebbero vedere iscritto il proprio nome. Una regola nuova pure questa, destinata sempre a cercare di restringere in tutti i modi l’area degli elettori di Renzi.

Ma ad aggravare l’impressione del boicottaggio c’è qualcosa di più. Ci sono le dichiarazioni dell’establishment della coalizione di sinistra (ma non del segretario Bersani: e di ciò gli va dato onestamente atto). Mentre Renzi ha più volte assicurato che se sconfitto egli è pronto ad accettare il verdetto e ad appoggiare il vincitore, chiunque esso sia, invece i vari D’Alema, Bindi, Vendola, non hanno perso occasione per dipingere l’eventuale vittoria di Renzi come la calata dei barbari, una catastrofe politica, la fine del centrosinistra, e chi più ne ha più ne metta. Hanno cioè usato contro il candidato a loro sgradito l’arma che la sinistra italiana è da sempre irresistibilmente tentata di usare contro l’avversario: la delegittimazione. Ci manca poco che uno di questi giorni Renzi si veda affibbiato l’epiteto di «fascista». Un tipo di reazione tanto più singolare (e inaccettabile) in quanto in molte passate occasioni— da Genova, a Napoli, a Palermo, a Milano nelle quali personalità o partiti a sinistra del Pd, infischiandosene di qualunque risultato delle «primarie», ne rovesciavano disinvoltamente il verdetto per presentare/imporre un proprio candidato —, sia D’Alema che la Bindi si sono ben guardati dall’adoperare espressioni paragonabili a quelle adoperate oggi contro Renzi. Il quale forse, peraltro, dalla rabbia partigiana dei «vecchi leoni» dell’oligarchia ha assai più da guadagnare che da perdere.

Ernesto Galli della Loggia

30 settembre 2012 | 10:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_30/chi-ha-paura-di-gianburrasca-ernesto-galli-della-loggia_8bffb09a-0ac7-11e2-a8fc-5291cd90e2f2.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:17:47 pm »

LA VISTA CORTA DELLA POLITICA




Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla

Una gabbia d'acciaio intorno a un corpo piagato, che con la scusa di sorreggerlo in realtà lo tiene prigioniero aggravandone le piaghe: questo oggi è il rapporto in Italia tra la politica e i partiti da un lato, e la compagine sociale dall'altra. Non ci sono cattivi da una parte e buoni dall'altra, no: semplicemente un morto che tiene un vivo che vuole vivere. Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, destinato dalla loro immobilità ad un «presentismo», come lo ha chiamato Roberto Esposito, nel quale ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale. Consumata nel 1991-93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), da allora la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita. Da vent'anni non è più in grado di immaginare alcun futuro per il Paese, di offrirgli una visione.

Il motivo più vero e profondo è principalmente uno: perché la politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti - come del resto in tanta parte del Paese - si è spenta ogni idea d'Italia e della sua storia; di che cosa sia l'Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell'industriosità italiana siano acquisiti dall'estero; consentire che il sistema d'istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d'accatto.

Dobbiamo ricominciare dall'Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l'Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L'unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il Pil o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un'idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa.

Se vuole avere un futuro, l'Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L'alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino.

Ernesto Galli Della Loggia

16 ottobre 2012 | 8:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_16/una-spenta-idea-del-nostro-paese-ernesto-galli-della-loggia_9c95300a-174d-11e2-834a-587475fb3e23.shtml
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« Risposta #146 inserito:: Novembre 03, 2012, 12:04:28 pm »

IL CENTRO, I TECNICI, LA POLITICA

IL NOTABILE A DISPOSIZIONE

Ogni giorno di più il centro della scena italiana si affolla di un nuovo personaggio: il «notabile a disposizione». Per centro intendo proprio il Centro dello schieramento politico, quello gravitante dalle parti dell'Udc. È qui soprattutto, infatti, che il «notabile a disposizione» sembra trovare il suo habitat più confacente, la sua destinazione naturale.

Non è inutile fare nomi: Corrado Passera, Andrea Riccardi, Luca di Montezemolo, Lorenzo Ornaghi, Ernesto Auci, Raffaele Bonanni.
Come si vede c'è di tutto: ex banchieri, sindacalisti, professori universitari, ex manager. E c'è di tutto dal momento che ciò che realmente conta non è ciò che si è fatto o che si potrebbe saper fare; ciò che conta è altro: è per l'appunto essere un «notabile». Essere cioè una persona «in vista», circondata di «rispetto», intervistato quanto si conviene dai giornali, moralmente con le carte più o meno in regola, insomma «autorevole». Meglio se con qualche carica significativa già alle spalle.

Naturalmente il «notabile a disposizione» è a disposizione della politica. Pronto a rispondere a una sua eventuale chiamata. Il che significa che fino a quel momento il suo rapporto con la politica c'è e non c'è, è fatto essenzialmente di contiguità . Da questo punto di vista è facile capire come l'attuale dimensione del governo tecnico si stia rivelando la dimensione ideale per evocare il ruolo di tale figura. Che cos'altro è perlopiù un tale governo, infatti, se non per l'appunto un governo di notabili? Contiguità significa soprattutto due cose: non aver mai avuto a che fare con la vita interna di un partito, non averne di recente occupato cariche o ruoli, ma al tempo stesso - ciò è fondamentale - essere in grado di garantire al mondo dei partiti tradizionali di non rappresentare per essi alcun pericolo sostanziale, grazie a un vincolo di fondo derivante dalla comune condivisione di interessi, di codici espressivi, di complicità sostanziali e meno sostanziali. Un amalgama di modi di pensare, di coinvolgimenti e di comportamenti - quello richiesto al «notabile a disposizione» - che ha il suo massimo modello, direi il suo archetipo, in una figura come quella di Giuliano Amato.

Tipico dei «notabili a disposizione» presenti sulla scena italiana è il loro silenzio. Silenzio, beninteso, sulla sostanza delle cose: ché anzi tutti i sopra nominati sono invece sempre pronti a prodursi dovunque in alati discorsi sui massimi sistemi, sull'Europa, sui compiti del futuro, sulle necessità dell'ora, sull'impegno del Paese. Ma non ce n'è uno, mi sembra, che si sia fin qui avventurato, invece, a dirci come secondo lui dovrebbe essere affrontato e risolto un problema specifico, uno soltanto dei tanti problemi con cui ci troviamo alle prese. Non uno di questi illustri personaggi che abbia avuto l'ardire di scoprirsi con una proposta, di compromettersi con una cifra, di informarci come lui vede, chessò, la questione della divisione delle carriere dei magistrati o delle unioni omosessuali. Nulla: anche se ormai si annuncia imminente, imminentissima, la loro conclamata discesa nell'arena. Ma a pensarci bene non c'è da stupirsi. La mentalità del notabile - odierna caricatura italiana della società civile - è precisamente questa, infatti: «Voi mi dovete eleggere non per ciò che io penso o propongo (quasi sempre nulla), ma per ciò che io sono. Per il mio "rango". Che non deve essere certo riconosciuto da voialtri, insignificante plebe elettorale. Basta che lo facciano i miei pari: a voi, al massimo, non resta che sottoscrivere».

Ernesto Galli Della Loggia

3 novembre 2012 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_03/il-notabile-a-disposizione-ernesto-galli-della-loggia_1e96ed22-257d-11e2-a01c-141eb51207fd.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Novembre 20, 2012, 05:00:27 pm »

I PARTITI E GLI ERRORI DEL PASSATO

Un silenzio assai rumoroso

Adesso che in pratica sta iniziando la campagna elettorale è il momento di fare un bilancio di come i partiti hanno impiegato l'anno di tregua offerto loro dalla presenza del governo Monti. Anche perché è stata una presenza che da sola ha significato un continuo memento ai partiti stessi sia della loro inadeguatezza in un momento decisivo (vedi fuga generale nel novembre scorso di fronte al baratro in cui stava per precipitare il Paese), sia della loro condotta dissennata degli ultimi trent'anni. Insomma: gli argomenti su cui riflettere e discutere, e magari fare qualche autocritica per presentarsi agli elettori con un volto nuovo, non sono mancati di certo.

Invece niente. Dilettantismo e incapacità della leadership berlusconiana e dei suoi «colonnelli»; un Partito democratico e una sinistra da anni alle prese con il problema irrisolto di che cosa essere e con chi; concezioni errate della democrazia, del merito e dei diritti, immesse a piene mani per decenni nella società e nell'amministrazione pubblica con il consenso generale; un federalismo demenziale avallato da tutti; un welfare costruito in modi e misure incompatibili con le risorse: su tutte queste cose non si è sentito nulla se non un grande silenzio. Di bilanci del passato neppure l'ombra. Così come neppure la minima spiegazione del perché si è arrivati al baratro di cui sopra: gli elettori di destra, immagino, convinti che sia stata tutta colpa di Fini e della Merkel, quelli di sinistra invece, che la colpa sia stata naturalmente tutta di Berlusconi.

Ma l'esempio più clamoroso dell'afasia intellettuale e politica che attanaglia i partiti italiani mi sembra il fatto che pur arrivati al punto dove siamo arrivati a nessuno di essi (come del resto, intendiamoci, a nessuno dei nuovi «poli» e «poletti» del notabilato centrista) venga in mente di mettere all'ordine del giorno il problema della Costituzione. Ma come? In pratica negli ultimi anni intere parti di essa sono state virtualmente disattese o clamorosamente distorte, alcune sue nuove parti sono considerate da tutti un'autentica sciagura (vedi il famigerato Titolo V), il sistema del bicameralismo perfetto da essa istituito è con tutta evidenza una cosa che non regge, alcuni organi da essa previsti come il Cnel non servono assolutamente a nulla, ma pur con tutto ciò nessuno ha qualcosa da dire, da suggerire, da proporre. Quasi che ormai sia prevalsa l'idea che tanto le regole non servono a nulla; e che dunque la Costituzione italiana non sia altro che un puro totem ideologico. Il totem per l'appunto che tra qualche settimana Roberto Benigni - a dispetto che egli della Costituzione e di tutto ciò che le sta dietro non sa giustamente niente di niente - tuttavia chiamerà le folle televisive ad adorare, avendo deciso lui, dall'alto della sua sapienza, che la nostra è la Costituzione «più bella» (questo precisamente il titolo annunciato della trasmissione-rito).
E così è semplicemente ovvio che alla fine, non avendo ripensato nulla del passato, non avendo meditato affatto sugli errori gravissimi commessi da loro e dal Paese, oggi i partiti della Seconda repubblica non riescano a dire nulla neppure del futuro dell'Italia.

Dalla bocca dei loro leader escono solo propositi vaghi, insignificanti: mai l'impegno di fare una cosa precisa, con l'indicazione dei tempi e dei mezzi necessari. Mentre la formula «Monti dopo Monti o Monti bis», ripetuta all'infinito come una giaculatoria perché evidentemente ritenuta carica di significati forti, suona in realtà sempre di più come la formula della massima deresponsabilizzazione («È lui, mica noi, che dovrà decidere come togliere le castagne dal fuoco»). Tanto, quello che importa - sembra essere la lezione dell'ultimo anno - non è governare: è prendere i voti per sedere in Parlamento.

Ernesto galli della Loggia

19 novembre 2012 | 7:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_19/un-silenzio-assai-rumoroso-galli-della-loggia_eef16d9c-320e-11e2-942f-a1cc3910a89d.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Novembre 27, 2012, 10:22:12 pm »

L'EDITORIAle

Il complesso della destra

Ciò che resta del Pdl


In Italia Destra e Sinistra sono entrambe in una condizione di incompletezza anche se in modo opposto. Mentre la Sinistra, infatti, gode di un forte e stabile insediamento socio-culturale, che però riesce molto difficilmente ad allargare fino a conseguire una propria maggioranza elettorale, la Destra, invece (considero Destra tutto ciò che non è Sinistra, e parzialmente dunque anche la vecchia Democrazia cristiana, pur con le specificità di cui appresso) la Destra, dicevo, può invece contare fisiologicamente su una maggioranza di voti, che però non riesce a trasformare in un autentico insediamento nel tessuto socio-culturale del Paese. L'Italia, insomma, è un Paese che per sua natura è intimamente conservatore e vota perlopiù a destra o per il centrodestra, ma ha una prevalente cultura politica organizzata e diffusa che è di sinistra. Nelle urne vince per solito la Destra (o il Centro che raccoglie gran parte di voti di destra, com'era la Dc, che aveva di certo anche un suo radicamento - cattolico per un verso e di sottogoverno per l'altro - ma non seppe aggiungerne alcuno specificamente suo e diverso), ma nella società civile quella che di gran lunga si fa più sentire è la voce della Sinistra.

Proprio quanto ho appena detto spiega due tratti specifici della vita politica repubblicana. Da un lato, il fatto che a cominciare da Togliatti la Sinistra, consapevole del carattere organicamente minoritario del proprio consenso elettorale, ha quasi sempre perseguito un accordo con una parte della non-Sinistra (in questo, a conti fatti, sono consistiti il «dialogo con i cattolici» e l'invenzione della «sinistra indipendente»); e dall'altro, invece, che la Destra, anche se elettoralmente fortissima, sembra esistere in un certo senso solo nelle urne, essendo in tal modo esposta al rischio di collassi politici e d'immagine improvvisi, capaci di portare in pratica alla sua dissoluzione. È precisamente ciò che in qualche modo assai complesso accadde alla Dc nel 1993-94, e che ora sta capitando in modo diretto e catastrofico al Pdl.

Il quale paga il prezzo del fatto che, nato come un partito di plastica, in tutto e per tutto artificiale, e poi inebriato dal successo elettorale, non si è mai curato di diventare qualcosa d'altro: qualcosa per l'appunto che avesse un retroterra effettivo di idee e di valori nella società italiana. Non se ne è mai curato, vuoi a causa dello strabordante, narcisistico senso di onnipotenza del suo capo, personalità certo fuori dal comune, ma in sostanza di scarsissima intelligenza delle cose politiche e di ancor più scarsa capacità di leadership (consistente ai suoi occhi in nulla più che nel principio: comando perché pago, o perché ho il potere di farlo). E vuoi per la prona accondiscendenza di tutti coloro che egli ha chiamato intorno a sé: chiamati, e rimastigli intorno, proprio perché capaci di accondiscendere sempre, e in forza di ciò, solo di ciò, di avere un ruolo importante.

Così il Pdl è stato in grado, sì, tesaurizzando il sentimento antisinistra del Paese, di vincere due o tre elezioni. Ma nel momento in cui limiti e pochezze di Berlusconi sono emersi in pieno (già tre anni fa), e lo stesso Berlusconi si è trovato rapidamente messo all'angolo, allora sotto i piedi del vertice, ostinatosi fino all'ultimo a non vedere o a far finta di nulla, alla fine si è aperto il baratro. E tutti i nodi sono venuti al pettine tutti insieme. Il vertice del Pdl oggi paga per le mille cose promesse, annunciate e non fatte, per il malgoverno e per il sottogoverno; paga per una politica estera priva di qualunque autorevolezza, biliosa e inconcludente; paga per lo straordinario numero di gaglioffi di ogni calibro che in questi anni hanno scelto il Pdl come proprio rifugio e che non poche volte lo stesso vertice ha accolto al suo interno senza che nessuno protestasse; paga per gruppi parlamentari scialbissimi, gonfi di signore, di avvocati di varia risma e di manager pescati dagli addetti di Publitalia non si sa come; e non si finirebbe più.

Ma paga soprattutto perché si è mostrato incapace (proprio il partito del Grande Comunicatore!) di parlare al Paese. Infatti, presentatosi originariamente come espressione massima della società civile, il Pdl è diventato in breve quanto di più «politicistico» e autoreferenziale potesse immaginarsi, presente e attivo quasi esclusivamente negli spazi istituzionali. Ma altrove del tutto assente, a dispetto di tanti suoi elettori in buona fede che oggi non meritano certo lo spettacolo a cui sono costretti ad assistere. In tal modo il Pdl non ha fatto altro che confermare l'antica difficoltà della Destra italiana postfascista ad agitare nel Paese temi e valori propri, a rappresentarli e a diffonderli con la propria azione politica, sì da costruirsi grazie ad essi - in positivo, non più solo per semplice contrapposizione alla Sinistra - un proprio effettivo retroterra socio-culturale. Quei valori che per l'appunto avrebbero dovuto essere i suoi - il merito, la competizione, la rottura delle barriere corporative, il senso e l'autorità dello Stato, la sana amministrazione delle finanze e dei conti pubblici, la difesa della legalità, la cura per l'identità e per il passato nazionali, per la serietà degli studi - ma che invece essa ha finito per disperdere al vento o per regalare quasi tutti alla sinistra. Così da trovarsi oggi, tra una rissa interna e l'altra, ormai avviata verso una meritata irrilevanza nel più scettico disinteresse degli italiani.

Ps: per anni, ogni qualvolta mi è capitato di muovere una qualunque critica al Pdl mi è arrivata puntuale una sesquipedale e sdegnata messa a punto-smentita da parte dei coordinatori del partito, Bondi, La Russa e Verdini. Immagino che questa volta, però, decidano di risparmiarcela: a me e ai lettori del Corriere .

Ernesto Galli della Loggia

25 novembre 2012 | 9:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_25/il-complesso-della-destra-ernesto-galli-della-loggia_55ec763c-36cd-11e2-8dd3-0837590598e8.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:54:29 pm »

L CAVALIERE E I SUOI CRITICI

Il riflesso condizionato

La rimonta elettorale a cui si appresta Silvio Berlusconi è un'impresa forse disperata che egli affronterà adoperando tutti gli strumenti, si può essere sicuri. Ma forse dentro di sé l'ex premier conta soprattutto su qualcosa che non dipende da lui.
Conta sull'aiuto dei suoi avversari: aiuto che ogni volta gli è puntualmente arrivato e che anche stavolta sembra sul punto di non mancare.


L'aiuto che consiste nel fare di Berlusconi stesso, della sua persona, il centro ossessivo della campagna elettorale, nel prendere ogni pretesto per metterlo sotto accusa, nel trasformare le elezioni in un giudizio di Dio sul Cavaliere. Magari con l'involontario fiancheggiamento di qualche Procura della Repubblica. Già in passato questo si è rivelato il modo migliore per galvanizzare l'uomo e quell'Italia che ne apprezza la ruvida personalità; fatta perlopiù di gente non sofisticata che di Ruby e delle «olgettine» se ne infischia pensando che l'Imu è ben più importante.

Quell'Italia digiuna di Montesquieu che per esperienza secolare è portata ad avere della giustizia un'idea alquanto diversa da quella del professor Zagrebelsky, e alla quale non sembra poi tanto assurdo e riprovevole associare alle aule dei tribunali un sentimento come minimo di diffidenza.

Si tratta di un'Italia per nulla stupida che è giusto presumere abbia capito benissimo la misura del fallimento del governo Berlusconi di fronte alla crisi economica. Ma spesso è pure quella che sta pagando il prezzo più alto alle dure difficoltà in cui ci troviamo: e perciò è tentata di dare ascolto anche alle più sballate promesse che da qui a febbraio il Cavaliere saprà escogitare. Bene: il miglior favore che gli avversari possono fare a quest'ultimo è di opporre alle sue promesse, invece di un proprio autonomo e ragionato «no», la litania dell'Europa e del suo «non si può», il cipiglio di Barroso, i «mercati», lo «spread», quello che dice Bruxelles, quello che pensa Berlino.

Sarebbe un errore marchiano (lo stesso in cui è caduto ripetutamente il governo Monti): il no alle promesse strampalate non deve apparire dettato dall'obbedienza a cose o persone fuori dai nostri confini. Dev'essere un no tutto pensato e ragionato in casa nostra. Guai, insomma, se si lasciasse a Berlusconi la possibilità di sfruttare il sentimento nazionale, che non solo è ancora forte nelle grandi masse (è permesso rallegrarsene?), ma è in grado come nient'altro di mettere pericolosamente insieme motivi di destra e di sinistra. Al qual proposito, perché mai la Sinistra, così ricca di ottime amicizie fuori d'Italia, non trova modo di avvertire il Financial Times , l 'Economist , le Monde , il presidente Schultz, e quant'altri, che a questo punto ogni loro ulteriore bordata contro Berlusconi, lungi dal danneggiarlo ulteriormente, rischia invece di servire solo a farlo apparire come il coraggioso paladino in guerra contro l'arroganza straniera?

C'è un ultimo enorme favore elettorale che si può fare a Berlusconi: quello di concedergli l'esclusiva della contrapposizione alla Sinistra (che per lui vuol dire giocare la carta dell'anticomunismo). Una contrapposizione, come si sa, che ha tuttora buoni motivi, ma che in Italia ha soprattutto una grande storia alle spalle e anche perciò un grande richiamo. Non fare questo favore a Berlusconi è affare del Centro, evidentemente. E dovrebbe essere un affare ovvio, mi pare: se il Centro non è contro la Sinistra oltre che contro la Destra, infatti, che razza di Centro è mai?

Ernesto Galli Della Loggia

12 dicembre 2012 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_12/riflesso-condizionato_4b4b2eb6-4425-11e2-a26e-c89e7517e938.shtml
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