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« Risposta #45 inserito:: Agosto 30, 2009, 10:30:20 pm » |
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STRAPPI VISIBILI E MUTAMENTI DI FONDO
Quelle distanze con la chiesa
È certamente un fatto nuovo nel dopoguerra lo scontro al calor bianco che si registra in queste ore tra una parte delle alte gerarchie cattoliche e il centrodestra. Non è certo un dato da sottovalutare, anche se è probabile che nel giro di qualche tempo esso sarà in un certo modo riassorbito, non convenendo una rottura a nessuna delle due parti in causa. E allora emergerà in tutta evidenza un dato sostanziale: il mutamento dell’opinione pubblica circa i rapporti tra Chiesa e Stato e tutto ciò che essi significano e comprendono. Si tratta di un mutamento di fondo. Questa svolta dell’opinione pubblica comincerà a far sentire sempre di più il suo peso.
Il mutamento di cui sto parlando ha un effetto soprattutto: quello di rendere progressivamente inattuale la vecchia distinzione antagonistica laici-cattolici. Una lunga fase della storia italiana è stata percorsa da questo antagonismo. Esso aveva il proprio epicentro nella periodica disputa circa la legislazione dello Stato in alcune materie «sensibili» (istruzione, matrimonio, ecc.), ma era per così dire tenuto sotto controllo dall’esistenza nel Paese di un’opinione assolutamente maggioritaria circa un punto decisivo: il riconoscimento dell’imprescindibile carattere istituzionale della Chiesa cattolica. Cioè che questa, per svolgere la sua missione, ha bisogno di una totale e piena autonomia che in pratica solo la riconosciuta sovranità nei propri ambiti può assicurarle, nonché di adeguati strumenti (anche finanziari) di presenza e d’intervento nella società. È da tale opinione diffusa che è discesa per tutti i decenni della prima Repubblica la pressoché unanime accettazione del Concordato come strumento regolativo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Alla cui base, difatti, non c’è una questione di oggettiva «libertà» della Chiesa (a tal fine basterebbe qualunque Costituzione democratica), ma la questione della sua «sovranità»: per cui essa si «sente» libera solo se in qualche modo è anche «sovrana».
Ciò che sta mutando (e venendo meno) è proprio la pressoché unanime accettazione di cui ora ho detto. Sia tra i credenti che tra i non credenti va facendosi strada, infatti, l’idea che la Chiesa non debba possedere un carattere istituzionale di segno forte. I primi lo pensano per il rinnovato sogno di una fede capace di vivere e di affermarsi nel mondo per la sola forza dello Spirito e della Parola; nonché per la sempre rinnovata paura di contaminare l’altezza dei «principi» con la miseria della «realtà». Tra i secondi, invece, va diffondendosi la convinzione — fatta propria in precedenza da pochi laici doc — che una Chiesa istituzionalizzata e «sovrana», e dunque il Concordato che ne è il riconoscimento, non solo rappresentino un attentato all’eguaglianza dei cittadini e all’esercizio di una sfera dei diritti sempre più ampia e orientata soggettivisticamente, ma configurino altresì un’indebita presenza della religione nello spazio pubblico. La distinzione si sta appunto spostando su questo piano: non più tra «laici» e «cattolici» ma tra chi è favorevole e chi è contrario al riconoscimento del carattere istituzionale della Chiesa e di un suo spazio sociale. Il che comporta una completa dislocazione dei vecchi schieramenti: sicché così come credenti e non credenti possono tranquillamente trovarsi da una medesima parte contro la Chiesa ufficiale considerata « autoritario- temporalistica », egualmente sul versante opposto può avvenire lo stesso, considerando comunque la religione, anche i non credenti, un contributo prezioso all’identità collettiva e alla definizione dei valori di fondo della società.
Ernesto Galli della Loggia 30 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Settembre 07, 2009, 10:35:23 am » |
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DOPO GLI ATTACCHI ALL’INFORMAZIONE
Due o tre cose su premier e stampa
di Ernesto Galli della Loggia
Se c’era bisogno di una prova dell’incapacità del presidente del Consiglio di gestire i conflitti, anche di natura personale, in cui si trova coinvolto egli l’ha data con la querela ai giornali nei giorni scorsi. Gestire i conflitti, intendo, nell’unico modo in cui un uomo politico può e deve farlo: vale a dire politicamente. L'espressione «gestire politicamente» può significare tante cose: dal cercare di venire in qualche modo a patti con l’avversario, al pagare il prezzo che c’è da pagare, al rilanciare su altri piani con una forte iniziativa che imponga all’agenda politica di girare decisamente pagina, fino al fare finta di nulla. E invece, di fronte agli attacchi personali che gli stanno piovendo addosso da mesi, Berlusconi non ha fatto niente di tutto ciò. Anzi, con la querela alla Repubblica e all ’Unità ha aggiunto benzina al fuoco della polemica.
Perché? Perché egli non capisce l’importanza della suddetta gestione politica e/o non sa metterla in opera, si può rispondere. Ma forse c’è una ragione più semplice (e in certo senso più sostanziale): perché non è nel suo carattere, e Berlusconi sa bene che è proprio nel suo carattere, nel suo spontaneo modo di muoversi, di parlare, di reagire, che sta la ragione principale del suo successo come politico outsider. Un temperamento leggero e insieme pugnacissimo; e poi ottimista, sicuro e innamorato di sé come pochi e naturalmente disposto all’improntitudine guascona, all’iniziativa audace e fuori del consueto: questo è l’uomo Berlusconi, e questa ne è l’immagine che ha conquistato lo straordinario consenso elettorale che sappiamo. Perché mai un uomo così dovrebbe preoccuparsi di trovare una soluzione politica ai conflitti che riguardano la sua persona? Che poi della sua aggressiva indifferenza possano scapitarci le istituzioni non è cosa che possa fargli cambiare idea. Se una cosa è certa, infatti, è che il presidente del Consiglio non è quello che si dice «un uomo delle istituzioni ». È l’opposto, semmai: un uomo pubblico a suo modo «totus politicus», l’uomo della politica democratica ridotta al suo dato più elementare, quello del risultato delle urne.
Ma c’è un altro aspetto della questione da considerare. Ed è che per gestire, e possibilmente chiudere, politicamente i conflitti è essenziale una condizione: bisogna che il conflitto possa concludersi alla fine con un compromesso. Non pare proprio però che sia tale, che sia un conflitto «compromissibile», quello in cui è coinvolto da settimane Silvio Berlusconi. Un conflitto che è partito dall’accertamento di alcuni aspetti indubbiamente libertini della sua vita privata - a proposito dei quali vogliamo ricordare che il Corriere è stato il primo a dare notizia dell’inchiesta di Bari nonché delle gesta dell’ormai purtroppo famosa Patrizia D’Addario - ma che tuttavia è subito diventato motivo per decretare l’incompatibilità dello stesso Berlusconi rispetto al suo ruolo di presidente del Consiglio. dubiti che di questo si tratti, ricordi come suonano testualmente alcune delle famose domande che hanno condotto alla querela contro il giornale che le ha pubblicate: «Lei ritiene di poter adempiere alle funzioni di presidente del Consiglio?», e ancora: «Quali sono le sue condizioni di salute?».
Mi chiedo quale risposta sensata, anche volendo, si possa dare a domande del genere, le quali, come ognuno capisce, già in sé contengono l’unica possibile da parte dell’interessato («lo ritengo eccome», «sono sano come un pesce»). E le quali domande, dunque, non hanno valore se non come puro strumento retorico: per affermare in modo indiretto, ma precisissimo, che Berlusconi, a motivo del suo stile di vita, non sarebbe adatto a fare il capo del governo. Il che ci porta al punto più delicato: il rapporto tra la stampa e il potere, sul quale a proposito del caso Avvenire hanno già scritto ottimamente su queste colonne sia Massimo Franco che Sergio Romano. Personalmente sono convinto che la legge debba essere di manica larghissima nel consentire alla stampa un’amplissima libertà di critica nei confronti degli uomini politici, anche ai limiti della calunnia, come accade per esempio negli Stati Uniti dove, per non incorrere nei rigori della legge, basta che anche chi scrive il falso non ne sia però espressamente consapevole.
Da questo punto di vista, dunque, l’iniziativa del presidente del Consiglio, accompagnata per giunta dalla richiesta di un risarcimento astronomico, è sbagliata e riprovevole: essa ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria verso i giornali presi di mira. Con la stessa sicurezza, però, si può dubitare fortemente che rientri tra i compiti della libera stampa l’organizzazione di interminabili, feroci campagne giornalistiche, non già per invocare - come sarebbe sacrosanto - che i reati eventualmente commessi dal presidente del Consiglio siano perseguiti (dal momento che nel suo libertinismo di reati non sembra esservi almeno finora traccia), ma per chiedere di fatto le sue dimissioni, adducendo che egli sarebbe comunque, per il suo stile di vita, «inadatto» a ricoprire la carica che ricopre. In una democrazia, fino a prova contraria, decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, non è compito dei giornali: è compito degli elettori e soltanto degli elettori. Anche se la loro decisione può non piacere.
07 settembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #47 inserito:: Settembre 08, 2009, 07:10:11 pm » |
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DOPO GLI ATTACCHI ALL’INFORMAZIONE
Due o tre cose su premier e stampa
di Ernesto Galli della Loggia
Se c’era bisogno di una prova dell’incapacità del presidente del Consiglio di gestire i conflitti, anche di natura personale, in cui si trova coinvolto egli l’ha data con la querela ai giornali nei giorni scorsi. Gestire i conflitti, intendo, nell’unico modo in cui un uomo politico può e deve farlo: vale a dire politicamente. L'espressione «gestire politicamente» può significare tante cose: dal cercare di venire in qualche modo a patti con l’avversario, al pagare il prezzo che c’è da pagare, al rilanciare su altri piani con una forte iniziativa che imponga all’agenda politica di girare decisamente pagina, fino al fare finta di nulla. E invece, di fronte agli attacchi personali che gli stanno piovendo addosso da mesi, Berlusconi non ha fatto niente di tutto ciò. Anzi, con la querela alla Repubblica e all ’Unità ha aggiunto benzina al fuoco della polemica.
Perché? Perché egli non capisce l’importanza della suddetta gestione politica e/o non sa metterla in opera, si può rispondere. Ma forse c’è una ragione più semplice (e in certo senso più sostanziale): perché non è nel suo carattere, e Berlusconi sa bene che è proprio nel suo carattere, nel suo spontaneo modo di muoversi, di parlare, di reagire, che sta la ragione principale del suo successo come politico outsider. Un temperamento leggero e insieme pugnacissimo; e poi ottimista, sicuro e innamorato di sé come pochi e naturalmente disposto all’improntitudine guascona, all’iniziativa audace e fuori del consueto: questo è l’uomo Berlusconi, e questa ne è l’immagine che ha conquistato lo straordinario consenso elettorale che sappiamo. Perché mai un uomo così dovrebbe preoccuparsi di trovare una soluzione politica ai conflitti che riguardano la sua persona? Che poi della sua aggressiva indifferenza possano scapitarci le istituzioni non è cosa che possa fargli cambiare idea. Se una cosa è certa, infatti, è che il presidente del Consiglio non è quello che si dice «un uomo delle istituzioni ». È l’opposto, semmai: un uomo pubblico a suo modo «totus politicus», l’uomo della politica democratica ridotta al suo dato più elementare, quello del risultato delle urne.
Ma c’è un altro aspetto della questione da considerare. Ed è che per gestire, e possibilmente chiudere, politicamente i conflitti è essenziale una condizione: bisogna che il conflitto possa concludersi alla fine con un compromesso. Non pare proprio però che sia tale, che sia un conflitto «compromissibile», quello in cui è coinvolto da settimane Silvio Berlusconi. Un conflitto che è partito dall’accertamento di alcuni aspetti indubbiamente libertini della sua vita privata - a proposito dei quali vogliamo ricordare che il Corriere è stato il primo a dare notizia dell’inchiesta di Bari nonché delle gesta dell’ormai purtroppo famosa Patrizia D’Addario - ma che tuttavia è subito diventato motivo per decretare l’incompatibilità dello stesso Berlusconi rispetto al suo ruolo di presidente del Consiglio. dubiti che di questo si tratti, ricordi come suonano testualmente alcune delle famose domande che hanno condotto alla querela contro il giornale che le ha pubblicate: «Lei ritiene di poter adempiere alle funzioni di presidente del Consiglio?», e ancora: «Quali sono le sue condizioni di salute?».
Mi chiedo quale risposta sensata, anche volendo, si possa dare a domande del genere, le quali, come ognuno capisce, già in sé contengono l’unica possibile da parte dell’interessato («lo ritengo eccome», «sono sano come un pesce»). E le quali domande, dunque, non hanno valore se non come puro strumento retorico: per affermare in modo indiretto, ma precisissimo, che Berlusconi, a motivo del suo stile di vita, non sarebbe adatto a fare il capo del governo. Il che ci porta al punto più delicato: il rapporto tra la stampa e il potere, sul quale a proposito del caso Avvenire hanno già scritto ottimamente su queste colonne sia Massimo Franco che Sergio Romano. Personalmente sono convinto che la legge debba essere di manica larghissima nel consentire alla stampa un’amplissima libertà di critica nei confronti degli uomini politici, anche ai limiti della calunnia, come accade per esempio negli Stati Uniti dove, per non incorrere nei rigori della legge, basta che anche chi scrive il falso non ne sia però espressamente consapevole.
Da questo punto di vista, dunque, l’iniziativa del presidente del Consiglio, accompagnata per giunta dalla richiesta di un risarcimento astronomico, è sbagliata e riprovevole: essa ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria verso i giornali presi di mira. Con la stessa sicurezza, però, si può dubitare fortemente che rientri tra i compiti della libera stampa l’organizzazione di interminabili, feroci campagne giornalistiche, non già per invocare - come sarebbe sacrosanto - che i reati eventualmente commessi dal presidente del Consiglio siano perseguiti (dal momento che nel suo libertinismo di reati non sembra esservi almeno finora traccia), ma per chiedere di fatto le sue dimissioni, adducendo che egli sarebbe comunque, per il suo stile di vita, «inadatto» a ricoprire la carica che ricopre. In una democrazia, fino a prova contraria, decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, non è compito dei giornali: è compito degli elettori e soltanto degli elettori. Anche se la loro decisione può non piacere.
07 settembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #48 inserito:: Settembre 14, 2009, 05:35:41 pm » |
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SCUOLA, LA VERA EMERGENZA
Su quei banchi ci siamo tutti
Da anni l’istruzione è il cuore malato dell’Italia inferma. È lo specchio del nostro declino. Siamo agli ultimi posti nella classifica dei rendimenti scolastici, il che vuol dire che i giovani italiani sanno far di conto, scrivere e capire un testo peggio di quasi tutti i loro colleghi non italiani, mentre i due grandi punti di forza della nostra tradizione scolastica, la scuola elementare e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono. Sul versante finale, le nostre migliori università, gestite troppo a lungo dal potere arbitrario di chi vi insegna, e soffocate da problemi di ogni tipo, fanno una ben misera figura rispetto alle migliori straniere.
È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma attenzione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria essa non è poi così catastroficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei loro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzione appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambito della scuola e dell’università è quello dove da circa mezzo secolo si manifestano con particolare virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sindacale, il timore sempre in agguato per l’ordine pubblico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nella scuola e fuori, di un senso comune culturalmente ostile alla dimensione del merito, del dovere, della disciplina, della selezione. I lettori sanno di cosa parlo. La scuola è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative hanno in buona parte ancora oggi un virtuale diritto di veto su qualunque decisione non solo di tipo organizzativo (circa le carriere e le assunzioni del personale), ma anche sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza studentesca che organizzi un corteo o un sit-in perché il mondo politico sia attraversato da un brivido di speranza o di paura credendo di scorgere all’orizzonte una riedizione del mitico Sessantotto. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permissivismo va messo al bando, che ogni apprendimento esige anche sacrificio, che non tutti alla fine possono risultare capaci e meritevoli.
In queste condizioni fare il ministro dell’Istruzione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Sebastiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vilipeso e mostrificato alla prima occasione, destinato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlinguer, è stato in pratica un vero e proprio martirologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni minaccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istruzione è facile, molto facile: e infatti nel corso degli ultimi decenni nessuna forza politica si è sottratta alla tentazione di farlo ricavandone il misero utile del caso.
Ernesto Galli Della Loggia 13 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:04:48 pm » |
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IL PATTO DA ONORARE CON GLI ELETTORI
La svolta necessaria
Innovando la sua stessa giurisprudenza— e pertanto smentendo la presidenza della Repubblica, la quale al momento della promulgazione del Lodo Alfano si era attenuta per l’appunto alla precedente sentenza della Corte, e non aveva ravvisato nell’uso della legge ordinaria alcuna incostituzionalità— questa volta la Consulta ha invece stabilito che no, che una legge ordinaria in tale materia non basta, che ci vuole una legge costituzionale, e ha dunque decretato, soprattutto per questa ragione sembra di capire, l’illegittimità del Lodo Alfano medesimo. Non resta che prenderne atto, e sarebbe bene che lo facesse anche il presidente del Consiglio senza abbandonarsi a considerazioni temerarie e giudizi offensivi verso altri organi dello Stato. Da lui non ci aspettiamo certo che si trasformi in un istituzionale monsignor Della Casa, ma che ci risparmi lo spettacolo di certe uscite sì. La sentenza di mercoledì è la riprova che in Italia si è instaurato un perverso cortocircuito tra giustizia e politica. Tale cortocircuito, oltre a rappresentare un perenne potenziale d’instabilità, è destinato periodicamente a lacerare il Paese: tra chi pensa che esso sia provocato solo dalla presenza sulla scena politica di Silvio Berlusconi, e chi invece, come il sottoscritto, pensa che questa sia una faccia solamente della verità. Che l’altra faccia è costituita sia dai non infrequenti comportamenti abnormi di alcuni magistrati sia da un certo numero di regole sbagliate del nostro ordinamento giudiziario. Alla fine, però, una sentenza è solo una sentenza. Proprio la tormentata esperienza dell’ultimo quindicennio della nostra storia dovrebbe farci convinti di una cosa (e mi pare che di ciò anche l’opposizione oggi sembri convinta, con la solita esclusione della frangia folle dei dipietristi): e cioè che in una democrazia la legittimazione politica non si conquista e non si perde nelle aule di giustizia. Se si è adatti o inadatti a governare non si decide né nelle redazioni dei giornali né nei tribunali. Berlusconi governa perché ha vinto le elezioni, non per altro: perché la maggioranza legale dei votanti ha approvato il patto politico programmatico da lui proposto. Ma non è che allora il presidente del Consiglio possa dormire sonni tranquilli. Nel suo stesso elettorato sta crescendo l’impressione, infatti, che quel patto debba ancora essere davvero onorato. Partita con slancio, l’azione del governo è andata poi infiacchendosi. Molte, troppe riforme, attendono ancora di essere messe in cantiere. L’abolizione dell’Ici, il provvedimento sul reato di immigrazione clandestina, gli indirizzi in tema di politica dell’istruzione e della pubblica amministrazione, ma soprattutto la politica anticrisi di Tremonti, hanno rappresentato senz’altro dei punti di forza, così come è stata apprezzata la capacità del premier di fronte alle emergenze dell’immondizia a Napoli e del terremoto in Abruzzo. Ma gli elettori si aspettano di più, si aspettano un colpo d’ala, il grande rinnovamento che li aveva convinti diciotto mesi fa a votare per la destra. Questa dovrebbe essere la vera preoccupazione di Berlusconi: è al tribunale della politica, non a quello dei giudici, che alla fine egli dovrà rispondere.
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #50 inserito:: Novembre 15, 2009, 10:34:25 am » |
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IL CORTO CIRCUITO POLITICA-GIUSTIZIA
Se il paese finisce in un vicolo cieco
Tutto lascia credere — e aggiungo: sperare — che il provvedimento circa il cosiddetto «processo breve » non andrà in porto. Appare assai improbabile, infatti, che esso possa superare nell'ordine: le divisioni all'interno della stessa maggioranza, le presumibili e motivate obiezioni d'incostituzionalità da parte del presidente Napolitano o, alla fine, il giudizio davanti alla Consulta stessa. Mancherà dunque il suo obiettivo l'ennesimo tentativo di escogitare qualcosa per consentire a Berlusconi di sfilarsi dal processo davanti al tribunale di Milano per corruzione in atti giudiziari. In questo caso immaginando, però, un legge troppo smaccatamente ad personam , troppo contraddittoria, e troppo lesiva dell'attesa di giustizia da parte di tante parti lese, per sperare di avere l'approvazione anche di quella parte dell'opinione pubblica non ostile per principio al presidente del Consiglio. Sul contenuto del lodo Alfano si poteva ragionare, sulla proposta attualmente in discussione è impossibile.
Così tutto è destinato a restare come prima. Tutta la vita pubblica italiana è destinata a restare paralizzata chissà ancora per quanto tempo dal corto circuito politica-giustizia. Certo, almeno in teoria si può immaginare, e magari anche sperare, che prima o poi Bersani e il suo Pd si muovano per cercare di disinnescarlo, contribuendo a una seria riforma della giustizia. Senza dubbio si guadagnerebbero entrambi un grande merito nei confronti del Paese, ma ci si può aspettare un simile coraggio, al limite della temerarietà, dal segretario appena eletto di un partito che attraversa una situazione così malcerta e difficile com'è quella che attraversa il Partito democratico odierno? Si può chiedere a Bersani — al Bersani neoeletto di oggi ma presumibilmente anche a quello di domani — di affrontare da un lato la canea che di sicuro gli lancerebbe contro all'istante il radicalismo giustizialista di Di Pietro, e insieme, dall'altro, le rampogne, i sussiegosi richiami all'ordine, che immediatamente, c'è da giurarci, gli giungerebbero dal Csm, dall'Anm, insomma dalla magistratura? Le battaglie su due fronti erano cose che si poteva permettere la macchina da guerra del vecchio Pci, non la rete alquanto smagliata dei club «democratici».
Ho detto della magistratura. Essa costituisce obiettivamente il quarto lato del quadrilatero politico (gli altri tre sono il premier e il suo schieramento, il Pd, il variegato fronte giustizialista) entro il quale si deve trovare la soluzione per disinnescare il corto circuito che paralizza l'Italia da quindici anni. Da quando cioè la peculiare vulnerabilità giudiziaria, chiamiamola così, di Silvio Berlusconi, ha reso la magistratura stessa, per l'appunto, un attore politico decisivo. Attenzione: non sto accusando la magistratura di essere «politicizzata ». Sto dicendo un' altra cosa: poiché il semplice fatto che il presidente del Consiglio sia raggiunto da un avviso di garanzia, inquisito o addirittura portato in giudizio, poiché questo semplice fatto possiede un'indubbia e drammatica valenza politica, e poiché negli ultimi quindici anni è capitato che chi ha il potere di porre in essere un tale fatto, cioè la magistratura, lo ha posto in essere in un modo o in un altro oltre un centinaio di volte, è difficile negare, di conseguenza, che nell'Italia di oggi essa abbia pieno titolo ad essere considerata alla stregua di un attore politico vero e proprio.
Un attore politico di natura molto particolare, però: e qui sta il problema. Si tratta infatti di un attore politico con il quale non è possibile fare ciò che invece solitamente si fa in un regime democratico tra gli attori politici normali, «fisiologicamente » radicati nella sfera politica: e cioè accordi e compromessi. Si dà una cosa in cambio di un’altra. Ma riguardo l'ammasso di questioni che vanno sotto la rubrica «corto circuito politica-giustizia » che cosa può dare o ricevere la magistratura? E che cosa può mai chiedere? E' difficile perfino immaginarlo, così come per un altro verso è difficile immaginare chi mai potrebbe trattare a suo nome, in quale sede e come.
Siamo qui al fondo del vicolo cieco in cui si trova il Paese. Un’impasse politica paralizzante che nessun protagonista è in grado di sbloccare senza l'accordo (peraltro impossibile) con tutti gli altri. E tanto meno è in grado di farlo quello che è in un certo senso l'attore principale, la magistratura. La quale sconta in tale impossibilità la natura del ruolo assolutamente ambigua che essa si trova da anni a svolgere: quello di un attore di fatto politico (e come!), che però non può esserlo davvero e fino in fondo.
All'amara conclusione che sembra imporsi, di una paralisi che non si sbloccherà, già mi pare di sentire l'obiezione di rito: «Tutto si sistemerebbe se Silvio Berlusconi accettasse di mettersi da parte facendosi processare, e accettasse tranquillamente (questo lo aggiungo io) la condanna che prima o poi sicuramente lo colpirebbe». Obiezione che ai miei occhi tradisce solo una straordinaria ingenuità circa il modo in cui funzionano le cose nelle società reali: pensare infatti che un capo politico di straordinario successo possa farsi mettere fuori gioco da un tribunale, senza combinare sfracelli pur sapendo di poter contare sul più che prevedibile consenso della maggioranza dell'elettorato, pensare una cosa simile equivale a null'altro che a raccontarsi una favola. Ma siccome le favole qui non servono, né servono i sermoni e le maledizioni, prepariamoci ad aggirarci ancora a lungo nel vicolo cieco in cui siamo finiti.
Ernesto Galli della Loggia
15 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #51 inserito:: Novembre 29, 2009, 02:54:05 pm » |
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DIETRO LE TENSIONI E LE RONDE (FALLITE)
Le sorprese del paese reale
La vicenda delle «ronde» rappresenta uno di quei segni dei tempi che dicono la verità sull’Italia di oggi più di mille analisi sofisticate. La verità di Paese politicamente nevrotizzato, dove la politica è sempre più spesso impegnata a discutere con ferocia sul nulla, un Paese che il discorso pubblico dipinge troppo spesso quale esso in realtà è ben lungi dall’essere.
Le «ronde», ricordate? Per settimane e settimane la Destra, la Lega in modo particolare, ne hanno reclamato l’istituzione descrivendo una popolazione ansiosa di provvedere da sola alla propria sicurezza perché in preda alla paura, insidiata giorno e notte da delinquenti e immigrati malvagi, ma abbandonata a se stessa da polizia e carabinieri sopraffatti da una malavita soverchiante. Da qui, appunto, la necessità delle «ronde». Ma armate o disarmate? Con lo sfollagente o con lo spray al peperoncino? Con i cani o senza? Con divisa e stemmi o senza? Da qui, ancora, discussioni a non finire, vertici di governo, compromessi faticosi subito mandati all’aria, mentre dall’altra parte la Sinistra lanciava grida di allarme sullo squadrismo alle porte, la fine della legalità, la «manipolazione securitaria ».
Alla fine, come Dio vuole, si arriva alla legge che istituisce le benedette «ronde», sia pure abbastanza depotenziate rispetto ai propositi iniziali, e che accade a questo punto? Nulla, semplicemente nulla. Ci si accorge cioè che agli italiani, anche a quelli di Destra, di fare i «rondisti» non gliene importa nulla. Che anziché passare le serate a perlustrare il centro di Paderno Dugnano o le vie di Valdagno preferiscono guardare le televisioni o farsi la solita pizza. Al massimo — ma solo in quelle periferie dove serve, come a Milano — sono pronti a impegnarsi in un civilissimo «controllo del vicinato», come si chiama, senza tanti proclami e norme inutili. Insomma, trascorsi ormai alcuni mesi, il numero delle richieste di «ronde» pervenute al ministero degli Interni pare che non superi più o meno il numero delle dita di due mani. Si dice addirittura che in tutto siano tre.
La conclusione appare inevitabile: evidentemente il Paese reale non era affatto quella pentola in ebollizione, quel ricettacolo di rabbia e di passioni che a qualcuno piaceva immaginare. Non lo era e non lo è, se è vero che con la crisi e la disoccupazione che imperversano la manifestazione più eclatante di disagio sociale sono stati alcuni operai saliti in cima ad una gru. L’Italia di oggi, insomma, è una società che per la sua grandissima maggioranza ragiona e sa mantenere la testa a posto. È un Paese capace di giudicare, che preferisce qualche proposta concreta ai torrenti di parole. E che dunque non sa che farsene delle cose che invece quotidianamente gli propone un mondo politico, il quale si sta sempre più abituando a cercare nella rissa e nell’insulto il compenso alla sua mancanza di idee e di programmi. Da tempo, in Italia, lo scontro politico serve puramente o a colpire l’avversario o ad almanaccare nuovi fantastici progetti di schieramento; e nel frattempo a coprire il nulla. Ed è sempre per questo, se è permesso dirlo, che quello che gli «arrabbiati» di tutte le parti chiamano con disdegno il «terzismo», in Italia non è altro che autentica intelligenza delle cose. E quasi sempre, aggiungiamo pure, carità di patria.
Ernesto Galli Della Loggia
27 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #52 inserito:: Dicembre 07, 2009, 11:23:07 am » |
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LE GIUSTE RAGIONI DEL NO ALLA PIAZZA
Il rinnegato Bersani
Ha fatto benissimo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani a tenere il suo partito, almeno ufficialmente, lontano dalla manifestazione del «No B-day». Quella che si è conclusa sabato a San Giovanni, infatti, non è stata «la rivoluzione viola », «l'ingresso ufficiale della politica nell'era di internet », «un miracolo italiano », «un giorno che ha cambiato la storia», «la fine decretata della seconda repubblica» come si è subito proclamato con l'abituale sobrietà dalle colonne di Repubblica . In una democrazia che sia minimamente tale cortei e comizi oceanici non cambiano mai realmente il quadro politico. Un anno fa, per esempio, Veltroni radunò al Circo Massimo almeno il doppio dei manifestanti di domenica: e cosa è cambiato? Nulla. Sei mesi dopo, anzi, dovette dimettersi. Comizi e raduni sono al più un segnale. Ma nel nostro caso il «No B-day» non indica uno di quei sommovimenti epocali che a partire dal '68 ci vengono regolarmente annunciati ogni sei mesi, tutte le volte che qualche folla, specie se giovanile, si fa una passeggiata per le vie di Roma e che poi altrettanto regolarmente non avvengono mai. Segnala solo il principale problema politico del Partito democratico: quello di riuscire a difendere e affermare una propria autonoma identità e dunque una propria linea. Un problema che il Pd si tira dietro da quando è nato, ma per risolvere il quale — si deve essere giustamente detto Bersani — la via migliore non può essere certo quella di aderire a una manifestazione che, seppure spontanea, ha però assunto da subito le forme e i contenuti del radicalismo giustizialista dell’Italia dei Valori. Vale a dire di un altro partito, diverso dal Pd e in un senso profondo suo concorrente.
I termini della questione sono semplicissimi: se vuole vincere le elezioni il Pd deve conquistare almeno una parte dell'elettorato di centro; ma poiché è ovvio che questo elettorato rifiuta in genere ogni massimalismo, ne consegue che anche il Pd deve fare altrettanto. Può farlo, però, solo se marca la propria distanza da Di Pietro, se sottolinea la propria decisa avversione verso l'antiberlusconismo parossistico dell'ex pm, verso la sua idea che il codice penale e i tribunali siano l'alfa e l'omega di ogni opposizione. In tutti gli altri Paesi avviene così senza problemi: in Germania, per esempio, l'Spd è aperto avversario della Linke (ci fa talvolta degli accordi di governo locale, ma è tutt’altra questione), in Francia i socialisti non aderiscono certo alle manifestazioni dei vari partiti della sinistra trotzkista. Perché solo in Italia, invece, sembra che non possa accadere lo stesso?
La risposta è che nell'infinita transizione apertasi a sinistra con il crollo del comunismo, con la fine del Pci e con le sue successive trasformazioni in Pds, Ds e ora Pd, l'elettorato di quella parte ha visto progressivamente disgregarsi qualunque profilo identitario realmente strutturato nel quale riconoscersi.Oltre la naturale vischiosità del passato e la nostalgia autobiografica gli è rimasto solo un insieme di principi — costretti peraltro a mantenersi sul vago, troppo sul vago, per la loro difficile traducibilità nell’Italia del grande ceto medio, per giunta paralizzata da un debito pubblico e da una pressione fiscale smisurati, nonché alle prese con la globalizzazione —; oltre a questi vaghi principi è rimasto soprattutto quello che può definirsi «l’opposizionismo». Cioè la volontà di essere comunque contro, l’idea che ogni compromesso è un «inciucio», ogni minimo accordo uno sporcarsi le mani, che i «nostri» interessi sono sempre legittimi mentre i «loro» mai perché in sostanza «noi» siamo il bene e «loro» il male. Dall’«opposizionismo» al radicalismo massimalistico il passo è brevissimo, come si vede.
Il punto cruciale è che quando c’era il Partito comunista almeno due fattori impedivano che tale passo fosse compiuto. Il primo consisteva nel fatto che «loro», gli avversari, erano essenzialmente i cattolici, la Democrazia cristiana, e non era proprio tanto facile dipingere gli uni e l’altra come rappresentanti di un male assoluto: non da ultimo perché in tal modo il «dialogo» con loro sarebbe tra l’altro diventato impossibile. Il secondo fattore era la tradizione comunista plasmata dal leninismo. Una tradizione fatta di diffidenza profonda verso ogni massimalismo che si presentasse come più «radicale», più «coerente»: una tradizione capace di avvalersi dell’estremismo, anche di coltivarlo magari, ma ancora più capace di combatterlo ricorrendo anche ai mezzi più spietati per togliergli qualunque spazio di agibilità politica. Venute meno la tradizione comunista e la sua prassi, è sopravvissuto solo l’«opposizionismo» che ha finito in modo naturale per prendere sempre più spesso, e alla fine in modo abituale, le vesti del massimalismo, minacciando di diventare il vero e unico carattere identitario del popolo di sinistra, a cominciare da quello «democratico».
Che l’avversario ora non fosse più la Dc bensì un personaggio come Berlusconi con tutto il carico delle sue gravi, oggettive, «anomalie» è stato certo importante, ma assai di più secondo me ha pesato altro. Da un lato ha contato l’incapacità del Pd di dare una spiegazione vera e plausibile della fine ambigua della Prima Repubblica, nonché delle ragioni, legate intimamente a quella fine, che sole spiegano la comparsa e il successo dello stesso Berlusconi. Dall’altro il vuoto di programmi veri e di proposte politiche precise, di alleanze strategiche convincenti, di lotte sociali vaste, che il nuovo partito non è riuscito a colmare, finendo così per lasciar sussistere solo «l’opposizionismo» massimalista che lo trascina fatalmente nell’abbraccio stritolante di Di Pietro. A mantenere in vita tale «opposizionismo» contribuisce, per finire, lo spregiudicato uso di sponda che ne fa ai vertici del Pd chiunque intenda far capire di non condividere interamente la leadership ufficiale o voglia comunque mostrare di essere qualcosa di diverso, voglia conservare una propria immagine distinta. Il segretario cerca di opporsi al massimalismo? Di costruire un’opposizione più ragionata?
Bersani non va al «No B-day»? Ed ecco allora che Bindi, Franceschini e gli altri oligarchi, perfino Veltroni, si precipitano immediatamente per far vedere che no, perbacco!, loro invece ci vanno, loro sì che sono contro: loro per fortuna esistono e lottano per la nostra democrazia insieme a Marco Travaglio e Antonio Di Pietro.
Ernesto Galli della Loggia
07 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 18, 2009, 04:41:36 pm » |
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Due o tre cose di buon senso
Prima di stabilire per il futuro nuove regole del gioco, di varare riforme costituzionali, di inaugurare un clima di generale concordia, si può sperare che — non domani o dopodomani ma oggi, subito— gli attori della scena politica italiana convengano almeno su un paio di cose da evitare con la massima cura? Possiamo sperare in un paio di misure d’emergenza da adottare immediatamente nella discussione pubblica? Le più urgenti ci sembrano le seguenti.
Primo: evitare che lo scontro si polarizzi ossessivamente intorno alle persone, ai nomi e ai cognomi, alle facce. Non ci si venga a dire che la democrazia ormai è questa, dunque non c’è nulla da fare, e che comunque sono «gli altri» che hanno cominciato. Certo: è consegnato alle cronache che sulla figura del presidente del Consiglio è stata montata nei mesi scorsi una campagna di ostilità politica e di disprezzo antropologico dai toni violentissimi, così come è sotto gli occhi di tutti la penosa incapacità della Rai, a dispetto del suo statuto pubblico, di assicurare un’informazione sobria ed equilibrata, degna di un Paese civile. Ma un discorso come quello dell’onorevole Cicchitto, avventuratosi sulla sempre insidiosissima strada dei «mandanti morali», dei «complici oggettivi» e della lista nominativa dei cattivi da additare alla pubblica riprovazione è forse fatto per spezzare la spirale dell’aggressività, dei pericoli di violenza, o viceversa per alimentarla? Che si possa pensare che «senza Marco Travaglio ci sarebbe molto buio sulla storia italiana che si sta facendo in questi anni» — come è arrivata a scrivere Barbara Spinelli sulle colonne del Fatto — ci sembra solo ridicolo. Ma egualmente ridicolo — oltre che lesivo della libertà di stampa, nel momento in cui lo si attacca dalla tribuna parlamentare — considerare il suddetto Travaglio una sorta di Lucifero della carta stampata capace di chissà quali devastazioni.
La seconda misura d’emergenza: evitare la pigrizia intellettuale. La storia non si ripete mai due volte: sarebbe bene che anche i giornali evitassero di scrivere il medesimo articolo scritto qualche anno o qualche decennio fa. E invece proprio alla tentazione di questa facile pigrizia hanno ceduto molti quotidiani commentando ieri l’attentato alla Bocconi. La «bomba» ha subito scatenato l’attualizzazione degli anni Settanta, la voluttà del già noto e del già detto. Ecco così riaffacciarsi puntualmente da un lato la minaccia del terrorismo rosso, del risveglio sovversivo, il fantasma dell’attacco alle istituzioni, e dall’altro le insinuazioni sulle «strane coincidenze», la «sigla misteriosa», la «rivendicazione ambigua» e chi più ne ha più ne metta. Il tutto naturalmente, in questo caso, per richiamare in vita l’evergreen assoluto del retroscenismo nazionale: l’immortale «strategia della tensione».
Ma prima di fare appello alla «maggioranza silenziosa» o di chiamare alla mobilitazione antifascista, non sarebbe consigliabile fermarsi un attimo e cercare di farsi contagiare da un minimo di ragionevolezza?
Ernesto Galli della Loggia
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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 24, 2009, 09:55:49 am » |
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FILM, TRENI, RIFLESSI DI UN PAESE
Parole vuote e un po' ipocrite
E’ uno strano Paese l’Italia: sarà banale dirlo ma è quasi impossibile non farlo. Un Paese per vocazione schizofrenico: dove è la regola fare d’ogni erba un fascio e dove però l’arte cavillosa del distinguo raggiunge vette sublimi; la patria del qui lo dico e qui lo nego (o perlomeno lo smentisco), delle apparenze che ingannano. Un Paese schizofrenico, appunto. E di conseguenza votato all’ipocrisia. Ipocrisia che si manifesta tra tanti altri ambiti anche nell’atteggiamento rispetto alla lingua, all’uso delle parole. E al tempo stesso nel modo di reagire alle parole altrui, al linguaggio che ci tocca ascoltare. Ovvero, di non reagire. Come ad esempio nessuno ha fin qui reagito pubblicamente, salvo un paio di critici cinematografici — all’ondata di doppi sensi osceni e di turpiloquio che in questi giorni si rovescia ad ogni scena sugli spettatori di «Natale a Beverly Hills». Mi domando se esistano altri Paesi in cui, non un filmetto qualsiasi, ma la pellicola che si prevede come la più vista dell’anno, consista in pratica in una serie ininterrotta di volgarità condite di parolacce: una specie di lunga scritta oscena sulla parete del cesso d’una stazione. Ma l’Italia è evidentemente fatta così. Anche questo è il Paese reale, la sua cultura, le sue pulsioni profonde. Ancor più la dice lunga il fatto che un simile film abbia incredibilmente ottenuto dalle competenti autorità ministeriali (come ha raccontato Paolo Mereghetti sul Corriere) la qualifica di film «d’interesse culturale e nazionale», e dunque il diritto ai relativi benefici economici. Alla suddetta cultura nazionale, bisogna credere, il linguaggio crudo non dispiace.
Il parlare diretto, anche a costo di cadere nello scurrile, lo sente congeniale. Non sempre, però. Infatti, se a parlare fuori dai denti è per caso qualcuno che lo fa contro l’opinione in quel momento prevalente, osando rompere la glassa capziosa dell’eloquio ufficiale, allora apriti cielo. Allora, invece, tutti a dire «ma questo come si permette? », «ma che linguaggio è questo?». Come sta per l’appunto capitando in queste ore all’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, l’ingegnere Mauro Moretti. Una persona che s’indovina competente. Che al pari di tanti uomini e donne dell’industria, dell’intraprendere, del fare, conosce ciò di cui parla e non è abituato a indorare la pillola. E quindi, per esempio, non esita a dire al governatore del Piemonte che se vuole fare viaggiare meglio i pendolari farebbe meglio a investire in nuovi vagoni anziché spendere soldi per una nuova sede della Regione; che una bella nevicata non costituisce proprio il clima più adatto per inaugurare una linea ad alta velocità, o che nelle condizioni di forte maltempo le ferrovie italiane dopotutto non se la sono cavata peggio delle altre. Che addirittura si permette di osservare che, se viene meno l’elettricità, i treni inevitabilmente si fermano e restano al gelo, sicché conviene portarsi dietro un bel maglione e qualcosa da mangiare. Lo farà anche per difendersi, forse un po’ aggiustando le cose, non discuto, perché disagi ci sono stati e non indifferenti, ma tra le parolacce da un lato, e dall’altro le parole vuote di tanti personaggi passati e presenti della scena pubblica italiana, il parlare chiaro dell’ingegner Moretti, lasciatemelo dire, mi suona come una melodia.
Ernesto Galli Della Loggia
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« Risposta #55 inserito:: Gennaio 10, 2010, 03:58:32 pm » |
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Il candidato forestiero
Al di là di tutte le ovvie differenze sta affiorando in questi giorni un’evidente analogia tra il Partito democratico e il Popolo della libertà. Si tratta della scarsissima sovranità che sia l’uno che l’altro riescono ad esercitare nei confronti delle proprie componenti interne e dei rispettivi alleati (non importa se di lunga data o potenziali), come per l’appunto dimostrano le candidature appena decise o che proprio ora si vanno decidendo per le prossime elezioni regionali.
Cominciamo dal Pdl. Come è noto, la sua roccaforte elettorale è l’Italia settentrionale. Ebbene chi sono qui i suoi candidati? In Piemonte il leghista Cota; in Veneto un altro leghista, Zaia; in Lombardia, infine, Roberto Formigoni, apparentemente pdl ma nella sostanza emanazione diretta di Comunione e Liberazione e da anni, per così dire, solo «in prestito» al Pdl. Discorso in buona parte analogo vale per il Lazio dove la destra ha dovuto candidare Renata Polverini, ottima persona che però più che un’iscritta del Pdl è, di fatto, una seguace personale di Gianfranco Fini il quale, a propria volta, può essere ormai considerato anche lui un alleato esterno di quel partito. In sostanza al Pdl in quanto tale sembrano restate solo le candidature, oltre che dell’ «incerta» Liguria e delle «impossibili» regioni del Centro quelle, di certo non tradizionalmente sue, del Mezzogiorno continentale.
Ancora peggio sembra messo il Partito democratico. Se la farsa pugliese, infatti, ha mostrato la paralisi di guida politica che lo caratterizza, la vicenda della candidatura Bonino nel Lazio ha indicato qualcosa di ancora più grave. E cioè che proprio in un’elezione cruciale il Pd rischia di essere costretto ad accettare come candidato una persona, anch’essa degnissima per carità, ma che gli è stata virtualmente imposta dall’esterno senza neppure uno straccio di accordo preventivo.
Tutte queste anomalie indicano almeno tre cose importanti: 1) Che oggi più che mai i due partiti maggiori esercitano in realtà una ben scarsa egemonia sui rispettivi poli; che la marcia dal bipolarismo al bipartitismo è interrotta da tempo, e che, aggiungo, l’idea che si possano realizzare in queste condizioni delle riforme costituzionali si rivela estremamente ottimistica.
2) Che tutto ciò accade perché tanto a destra che a sinistra i rispettivi, chiamiamoli così, condòmini di polo sono riusciti a costruirsi un’identità assai più forte dei partiti maggiori, venendo a esercitare in tal modo una forte attrazione sull’elettorato comune. Questo processo, che finora riguardava solo la sinistra, comincia adesso a interessare anche la destra, dove la Lega sembra progressivamente acquistare credibilità a scapito del Pdl.
3) Che infine, come causa ed effetto delle cose anzidette, sia Pdl che Pd continuano a soffrire di una forte mancanza di un proprio specifico personale politico. Vale a dire: in un caso, di un personale indipendente dall’esclusivo benvolere di Berlusconi, nell’altro di dirigenti slegati dalle provenienze correntizie attuali o pregresse. Con la conseguenza che, quando ci sono le elezioni, il personale politico del primo caso non ha in genere alle proprie spalle alcun combattivo seguito elettorale; quelli del secondo, invece, ce ne hanno sì uno combattivo, ma pure troppo e che somiglia più che altro ad una fazione schierata contro i propri compagni di partito.
Ernesto Galli della Loggia
10 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #56 inserito:: Gennaio 19, 2010, 08:32:31 pm » |
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I CONSIGLI REGIONALI SVUOTATI
Presidenzialismo all’italiana
Il 28 e 29 marzo gli italiani andranno a votare per eleggere, insieme ai «governatori» delle 15 regioni interessate, altrettante assemblee la cui utilità è da considerare in pratica eguale a zero: i consigli regionali. I quali, peraltro, come si sa, consistono di parecchie centinaia di persone, tutte lautamente (talvolta favolosamente) retribuite, tutte dotate dei benefici del caso (portaborse, studio, facilitazioni postali e telefoniche, ecc. ecc.), e tutte naturalmente ansiose di accaparrarsi incarichi e prebende, di accrescere la propria influenza politica in vista di futuri traguardi. Le eccezioni non mancano, certo, ma in generale il quadro è questo.
Perché i consigli regionali sono assolutamente inutili? Per la stessa ragione per cui sono inutili i consigli comunali e provinciali. Perché l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (governatore, sindaco o presidente che sia)— la quale, si noti, avviene in perfetta coincidenza cronologica con l’elezione del consiglio (regionale, comunale o provinciale che sia)—grazie al meccanismo del cosiddetto «listino » o altro analogo (per esempio un premio di maggioranza) di fatto produce la costante coincidenza di colore politico tra esecutivo stesso e maggioranza dell’assemblea. È come se negli Stati Uniti il presidente e il Congresso fossero eletti contemporaneamente e il presidente e la maggioranza del Congresso fossero sempre dello stesso orientamento politico.
La conseguenza è, naturalmente, che i Consigli, eletti per una parte significativa al traino del rispettivo esecutivo, non hanno alcuna autonomia rispetto ad esso, non contano nulla, approvano ad occhi chiusi qualunque deliberazione esso gli sottoponga, e quindi possono ambire a farne parte solo sfaccendati o personale politico di terz’ordine in attesa di migliore sistemazione.
Ma in questo modo, contribuendo a dare vita a un sistema del genere e riconoscendovisi, quel mondo politico italiano che pure in maggioranza si dice ostile al presidenzialismo perché afferma di temerne i possibili risvolti autoritari, e l’opinione pubblica che è d’accordo con lui sono riusciti nell’impresa di realizzare in quindici regioni d’Italia il presidenzialismo più autoritario che ci sia perché sottratto a qualsiasi controllo, a qualsiasi sistema di «freni e contrappesi ». Infatti, nel modello presidenzialistico che oggi caratterizza il governo di tutti nostri enti locali, la principale vittima è la divisione dei poteri: proprio quella divisione dei poteri che invece nel presidenzialismo vero (come quello americano, appunto) trova la sua più coerente applicazione.
Grazie invece alla sovrapposizione dei due momenti elettorali e al geniale espediente della «clausola di governabilità », che si esprime per l’appunto nel «listino » o nel premio di maggioranza, noi abbiamo inventato un vero e proprio presidenzialismo blindato. Nel quale è solo l’esecutivo che conta, è solo l’esecutivo che assomma in sé tutti i poteri, mentre il potere legislativo dei Consigli, virtualmente eletti come sue semplici appendici, resta un finto potere privo di qualunque efficacia. E infatti in quindici anni non si ricorda neppure un caso in cui un consiglio regionale, comunale o provinciale, abbia dato il minimo fastidio di qualunque tipo al suo presidente-padrone. Senza che la cosa, peraltro, abbia richiamato l’attenzione e la denuncia di nessuno dei tanti guardiani della «democrazia » e delle «regole» che sono in circolazione.
Ernesto Galli Della Loggia
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« Risposta #57 inserito:: Gennaio 26, 2010, 09:46:31 am » |
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Oligarchi di periferia
Dopo Marrazzo, Delbono: nel giro di pochi mesi è il secondo importante amministratore locale eletto sotto le bandiere del Pd costretto a lasciare il proprio incarico per questioni in cui sesso e soldi si mischiano confusamente.
E a questo punto è fin troppo ovvio osservare come per la sinistra diventi sempre più difficile sostenere la pretesa di incarnare una sorta di superiorità morale rispetto alla destra, un Paese diverso e migliore, l’«altra» Italia come si diceva qualche tempo fa. Piaccia o meno, infatti, d'Italia ce n'è una sola.
Ed è bene partire dall'assunto che in essa luci ed ombre sono più o meno equamente distribuite tra tutte le varie parti politiche, anche se ciò non c'impedisce di riconoscere che la sinistra, insistendo pure questa volta per le dimissioni immediate del suo esponente, ha mostrato una sensibilità istituzionale e un'attenzione al giudizio dell'opinione pubblica che la destra, invece, quasi mai mostra. Ma Delbono non viene solo dopo Marrazzo. Viene anche immediatamente dopo Vendola, e ci parla dunque pure di altre cose. Per esempio della forte disarticolazione che nella periferia sta colpendo la sinistra, la quale, nelle varie città e regioni della penisola, va progressivamente autonomizzandosi dal centro, in un insieme di processi che stanno conducendo virtualmente alla scomparsa di un vero organismo politico nazionale.
Diluita ogni possibile identità nel confluire di tre o quattro culture politiche diverse, il Partito democratico vede sempre di più il fiorire dappertutto di candidati «improvvisati», accettati obtorto collo, estranei alla sua linea e alla sua più antica storia, ovvero inamovibili per decisione propria, i quali ora diventano molto spesso, nelle periferie cittadine e regionali, i padroni di fatto del partito e del suo elettorato. Nichi Vendola rappresenta la versione pugliese, carismatica, di questo fenomeno. L'altra versione è quella oligarchica bolognese (a metà strada tra le due si collocano le esperienze di Bonino nel Lazio e Bassolino in Campania). Qui, a Bologna, il potere politico-culturale cittadino, fino al '94 articolato in un polo cattolico- liberale e in un altro comunista, in feconda dialettica tra loro, si è riunificato sotto l'insegna del «prodismo», dando luogo ad una vischiosa «palude» notabilare che tutto ingloba e domina, e che può permettersi di designare come sindaco uno scialbo professorino come Delbono.
La cui piccola corruzione, se esiste, è stata per l'appunto, come del resto quella di Marrazzo, la corruzione di un dipendente, beneficato politicamente, colpevole di non aver capito che tra i privilegi che l'oligarchia gli concedeva senza alcun suo merito non c'era quello di usare i soldi pubblici per portarsi la fidanzata in Messico. La fine della Democrazia cristiana e del Partito comunista, e con loro dei partiti politici che dal 1945 hanno tenuto insieme il Paese, sembra così ormai vicina al suo esito ultimo: alla disarticolazione del sistema politico nazionale in tanti sottosistemi periferici.
Disarticolazione che colpisce molto di più la sinistra perché a destra, la leadership di Berlusconi, forte delle sue incomparabili risorse mediatiche e finanziarie, mostra una tenuta centripeta che almeno per ora regge.
Ernesto Galli Della Loggia
26 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #58 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:00:49 am » |
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IL RISORGIMENTO SOTTO PROCESSO
L'unità d'Italia e i suoi nemici
Proprio alla vigilia del 150esimo anniversario dell'Unità, il Risorgimento è sotto processo. Non è solo La Padania. Sono decine e decine di pubblicazioni, articoli, libri e libercoli, che ormai da anni (ma con ritmo accelerato negli ultimi tempi) stanno cambiando l'immagine di quel nodo di eventi. «Quella tangente di Mazzini inaugura il malcostume di un'Italia disonesta », «Carlo Alberto sciupafemmine, traditore e indeciso a tutto», «Perché la Liguria non appartiene all'Italia », «L'invenzione delle camicie rosse», «Da capitale estense a provincia sarda», «Complotto massonico- protestante contro la Chiesa», «I Savoia e il massacro del Sud», «Un popolo alla deriva»: è solo un piccolo campionario di titoli (di capitoli, di volumi, di articoli) che però serve a dare un'idea di che cosa stiamo parlando.
Intendiamoci: la critica al Risorgimento ha una lunga tradizione. Cominciò nel momento stesso in cui fu proclamato il Regno d'Italia, nel 1861, per voce di coloro che si erano battuti per un altro esito, diverso da quello rappresentato dalla monarchia cavouriana. Da allora in poi quella critica ha occupato un posto centrale nel discorso pubblico del Paese. Non a caso tutte le culture politiche dell'Italia del Novecento, dal socialismo al nazionalfascismo, al cattolicesimo politico, all'azionismo, al comunismo gramsciano, si sono fondate per l'appunto su una visione a dir poco problematica del modo in cui era nata l'Italia. Basta ricordare i nomi di alcuni loro fondatori: Oriani, Sturzo, Gobetti, Gramsci. Ma attenzione: questa critica, sebbene spesso assai aspra, ha sempre osservato un limite. E cioè si è sempre ben guardata dal divenire una critica all'unità in quanto tale, non ha mai ceduto alla tentazione di mettere in dubbio il carattere positivo dell'esistenza dello Stato nazionale.
E' su questo punto che invece si sta consumando una rottura decisiva. Va costituendosi negli ultimi anni, infatti, un vero e proprio fronte antirisorgimentale e insieme antiunitario che nasce dalla saldatura di tre segmenti: un segmento settentrionale d'ispirazione leghista, un secondo segmento, rappresentato da nazionalisti meridionali innestati su un variegatissimo arco ideologico che va dai tradizionalisti neoborbonici agli ultrà paleomarxisti, e infine un segmento di cattolici che potremmo definire guelfo- temporalisti. Tutti si fanno forti di una ricostruzione del passato che dire approssimativa è dire poco: di volta in volta tagliata con la motosega o persa nei pettegolezzi minuti «dal buco della serratura». Nella quale, comunque, dominano i modelli interpretativi presi a prestito dall'Italia di oggi: quello del giustizialismo più grossolano («Chi c'ha guadagnato», «chi ha rubato », «chi ha pagato») e il complottismo maniacale che vede massoni e «misteri » dappertutto.
L'Unità d'Italia diviene così un racconto a metà tra Mani pulite, la P2, e la strage di Ustica «come non ve l'hanno mai raccontata prima ». Ridicolo, ma per molti convincente, dal momento che quel racconto riempie il vuoto che si è determinato da decenni nel nostro discorso pubblico dopo che esso ha espulso da sé, e ormai perfino dal circuito scolastico, ogni autentica e viva narrazione del Risorgimento.
A riprendere la quale non basterà certo il patetico brancolare nel buio del governo attuale, che sembra considerare l'anniversario dell'Unità più che altro come la classica tegola cadutagli sulla testa.
Ernesto Galli della Loggia
07 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #59 inserito:: Febbraio 17, 2010, 09:14:56 am » |
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La corruzione e le sue radici
Si accontenti chi vuole di credere che «il problema è politico» e riguardi quindi la destra e la sinistra. Sì, questa volta a essere presi con le mani nel sacco sono stati esponenti del Pdl, ma in passato la stessa cosa è accaduta con esponenti del Pd: ma anche dando per scontato che le imputazioni a loro carico siano domani convalidate da una sentenza, davvero la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? Davvero in questo Paese la sfera della politica è malata e il resto della società è sano? Non è così, con ogni evidenza. Ognuno di noi sa bene che non è così, e non bisogna smettere di dirlo, anche se i soliti moralisti di professione grideranno scandalizzati che in questo modo si finirebbe per occultare «le precise responsabilità politiche». Ma figuriamoci: cosa volete mai che si occulti, con tutta la stampa ormai scatenata dietro Monica e Francesca, dietro Bertolaso, Balducci, e compagnia bella?
Proprio perché non ha alcuna natura propriamente politica ma affonda radici profondissime nel corpo sociale - cosicché nella politica essa si riversa soltanto, essendo uno degli ambiti dove più facile è la sua opera - la corruzione italiana sfugge a ogni facile terapia. Come si è visto quando, convinti per l’appunto del suo carattere politico, abbiamo creduto che almeno per ridurne la portata bastasse mutare il sistema elettorale, o fare le privatizzazioni, o cambiare la legge sugli appalti, o finanziare i partiti in altro modo dal finanziamento diretto; o che l’esempio di «Mani pulite», di cui proprio oggi è paradossalmente il 18mo anniversario, potesse segnare una svolta. Invece è stato tutto inutile. La corruzione italiana appare invincibile. Rinasce di continuo perché in realtà non muore mai, dal momento che a mantenerla viva ci pensa l’enorme serbatoio del Paese. La verità, infatti, è che è l’Italia la causa della corruzione italiana: lo si può dire senza rischiare l’accusa di lesa maestà? Chi si ostina a credere che «il problema è politico», che tutto si riduca a destra e sinistra, lo sa che le tangenti continuano a girare vorticosamente anche nel privato: che dappertutto qui da noi, quando ci sono soldi in ballo, non si dà e non si fa niente per niente?
Lo sa che i concorsi più vari (non solo le gare d’appalto!) sono sempre, in misura maggiore o minore, manipolati? Riservati agli amici e ai protetti quando non direttamente truccati in un modo o nell’altro dai concorrenti con la complicità delle commissioni, e il tutto naturalmente in barba a ogni credo politico? E che colore politico pensa che abbia l’evasione fiscale dilagante? O i tentativi a cui si dedicano incessantemente milioni di italiani di violare i regolamenti urbanistici ed edilizi in tutti i modi possibili e immaginabili (spessissimo riuscendoci grazie all’esborso di mazzette)? E a quale schieramento politico addebitare, mi chiedo, il sistematico taglieggio che da noi viene praticato da quasi tutti coloro che offrono una merce o un servizio al pubblico, come le società autostradali, quelle di assicurazione, le compagnie telefoniche, le compagnie petrolifere, quelle aeree, le banche, le quali tutte possono a loro piacere fissare tariffe esagerate, imporre contratti truffaldini, balzelli supplementari, clausole capestro, sicure dell’impunità? Sì lo so, tecnicamente forse non è corruzione. Ma so pure che in molti altri Paesi comportamenti del genere sono severamente sanzionati anche sul piano penale. Da noi no, sono considerati normali. Perché?
La risposta è nella nostra storia profonda, nei suoi tratti negativi che i grandi ingegni italiani hanno sempre denunciato: poca legalità, assenza di Stato, molto individualismo anarchico, troppa famiglia, e via enumerando. Perciò l'Italia è apparsa tante volte un Paese bellissimo ma a suo modo terribile. E lo appare ancor di più oggi, dopo aver perso anche gli ultimi pezzi delle sue fedi e dei suoi usi antichi. Più terribile e incarognito che mai. Più corrotto. Spesso queste cose le capisce per prima l'arte, e in particolare il cinema, il nostro cinema, a cui tanto deve la conoscenza di ciò che è stata ed è l'Italia vera. Quell'Italia vera che riempie, ad esempio, le immagini dell'ultimo film di Pupi Avati, Il fratello più piccolo, in arrivo proprio in questi giorni nelle sale cinematografiche. Un ritratto spietato di che cosa è diventato questo Paese: una società dove gli unici «buoni» sembra non possano che essere dei disadattati senz’arte né parte; dove, nell'ultima scena, dal volto pur devastato e ormai annichilito di un grandissimo De Sica, ladro e canaglia ridotto all'ozio forzato su un terrazzino di periferia, non cessa tuttavia di balenare il guizzo di un’inestinguibile mascalzonaggine. È di una lucida resa dei conti del genere che abbiamo bisogno; di guardare a fondo dentro di noi e dentro la nostra storia. Non di credere, o di fingere di credere, che cambiare governo serva a cambiare tutto e a diventare onesti.
Ernesto Galli della Loggia
17 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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