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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 119324 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Luglio 03, 2014, 07:05:06 pm »

IL PROFILO CULTURALE DI UNA STAGIONE

Ciò che Renzi ancora non ha

Di Ernesto Galli della Loggia

Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle - e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti - invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» - dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese - tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.

La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato. Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso - con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale - in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.

Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincere le elezioni. Si è visto il risultato.

Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo - sia detto incidentalmente - ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita. C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.

Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?

Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori - sì, i valori - cui legare direttamente il proprio impegno politico - oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza - e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.

L’esecutivo dispone - direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento - di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.

Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.

Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis, la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia - per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità - c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.

Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.

29 giugno 2014 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_29/cio-che-renzi-ancora-non-ha-ddf93550-ff54-11e3-ae4d-7c1f18234268.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Luglio 18, 2014, 08:53:42 am »

Egoismi, corporazioni, ambiguità
Dirsi in faccia un po’ di verità

Di Ernesto Galli Della Loggia

Sono molte, forse anche troppe, le cose che il governo attuale si è impegnato a fare. Ma mano a mano che qualcuna di queste viene sia pur faticosamente compiendosi, ci si accorge che esse non bastano a far ripartire il Paese.

La parola d’ordine della «rottamazione» con la quale Matteo Renzi ha costruito il suo successo quando era un outsider serve poco a Matteo Renzi presidente del Consiglio. Oggi, quel messaggio di rottura chiede non solo di essere riempito di contenuti specifici. Chiede soprattutto una visione più alta, una voce più matura e più convincente, capace di mobilitare le menti e i cuori: e in questo modo di spingerli al rinnovamento e all’azione. Voglio fare un esempio solo apparentemente minore: quello del rilancio del servizio civile messo in cantiere dal governo pochi giorni fa.

Ebbene, invece di farne un’occasione per una sorta di grande chiamata all’impegno civico per l’Italia, rivolta a una gioventù oggi sfiduciata e abbandonata a se stessa; invece di immaginare obiettivi concreti per un tale impegno (chessò, pulire le coste e le rive dei corsi d’acqua, tenere lezione d’italiano e di cultura elementare per gli immigrati, presidiare di notte le periferie urbane garantendone la sicurezza); invece di cercare di colpire l’immaginazione come avrebbe fatto un Roosevelt, evocando una Giovane Italia che riprende in mano le sorti del suo Paese, invece di qualcosa del genere ci si è limitati alle solite trattative con la solita burocrazia della solidarietà, con le decine e decine di associazioni, cooperative, Ong (in genere accuratamente lottizzate), che non si capisce bene che cosa faranno ma si capisce solo che avranno un po’ di soldi pubblici in più.

È in questo modo che il carisma che certamente Renzi possiede rischia - ripercorrendo le orme fatali di Craxi e di Berlusconi - di restare un carisma vuoto. Vuoto di quella capacità essenziale per un uomo di governo che è la capacità di leadership (cioè di guidare e di fare, convincendo e creando consenso). Non a caso, se non mi sbaglio, già comincia a serpeggiare tra molti uno scetticismo larvato, un senso di disillusione.

Non inganni il premier la pletora di quelli che mossi dalla speranza di conservare le proprie posizioni ora vogliono salire sul suo carro di vincitore. Sono proprio questi che ogni giorno di più appesantiscono e impacciano i suoi movimenti, alla lunga rendono imbolsita la sua immagine e, lungi dal costituire un seguito, semmai gli impediscono di consolidarne uno. Il vero seguito, infatti, quello che gli serve per riuscire, Renzi deve cercarlo nell’opinione pubblica, e a me pare che egli debba ancora costruirselo. La vittoria elettorale nelle elezioni europee (i cui risultati, lo ricordi, si sono spesso dimostrati quanto mai volatili) è soprattutto un preannuncio di consenso, ma guai a considerarlo equivalente a un consenso già acquisito e consolidato.

L’Italia, non bisogna stancarsi di dirlo, è sull’orlo di un vero e proprio declino storico. Arretriamo in tutto. In tutto stiamo uscendo dal gruppo di testa nelle classifiche mondiali; sempre più perdiamo la proprietà di pezzi importanti del nostro apparato produttivo; peggiorano le nostre condizioni materiali di vita; si accrescono le differenze sociali; aumenta la distanza tra le diverse parti della Penisola; i giovani, presenti in numero sempre minore, ci abbandonano in misura sempre maggiore. Dove sia il punto di non ritorno non lo sappiamo. Ma sentiamo che esso, ormai, non è forse troppo lontano. Che senza un mutamento rapido e radicale, qui ed ora, siamo destinati a vedere cominciare a sgretolarsi l’edificio di conquiste storiche costruito pur tra alti e bassi lungo un secolo e mezzo. Perché è questo e non altro ciò che oggi è in gioco.

Matteo Renzi se ne rende conto? A tanti è sembrato di sì. E che proprio perciò egli fosse la persona giusta per guidare il Paese. Molti hanno sperato che forte della sua giovane età e del suo temperamento egli potesse essere il protagonista del mutamento radicale che serve all’Italia. Renzi lo sa. Finora, però, non ha compiuto il passo davvero decisivo per avviare la svolta che il Paese attende: il passo senza il quale tutto il resto è impossibile. E cioè dire a questo stesso Paese la verità.

Per risalire la china abbiamo bisogno innanzi tutto di verità. Che si dica come stanno le cose, che si parli dei molti errori che abbiamo commesso e delle vie senza uscita in cui ci siamo cacciati. Che si smascherino le bugie di vario genere che le mille corporazioni italiane, dai magistrati ai giornalisti, ai tassisti, raccontano e si raccontano per mantenere i propri privilegi ai danni dell’interesse generale.

Dobbiamo sapere che da troppo tempo crediamo di poter vivere al di sopra dei nostri mezzi. Bisogna che l’Italia ascolti raccontare per filo e per segno degli sprechi pazzeschi e delle disfunzioni (dal numero degli addetti alle spese vere e proprie) che quasi sempre con la complicità dei sindacati sono divenute la regola nelle amministrazioni pubbliche. Che si dica a voce alta che fare le Regioni come le abbiamo fatte, con i poteri che abbiamo loro dato, è stato una scempiaggine assoluta. Che dalle elementari all’università abbiamo scaricato sul nostro sistema d’istruzione tutto lo sciocchezzaio ideologico e tutte le fumisterie parademocratiche che ci hanno attraversato la mente negli Anni 60-70, in tal modo mandandolo in pezzi. Che le privatizzazioni sono state un’autentica truffa ai danni della collettività. Che troppo spesso il livello professionale del management alla guida del nostro apparato produttivo e bancario è infimo mentre la sua sete di soldi è enorme. Che da noi il merito è messo al bando dovunque ma specie dalla classe dirigente, continuamente a caccia di posti tramite raccomandazione a pro di mogli, mariti, figli e amanti vari.

Che le cose stanno così (e quelle ora elencate costituiscono solo un modesto campionario) lo sanno, lo sappiamo tutti. Ma sarebbe una vera rivoluzione se a dirlo fosse il Potere, per bocca del presidente del Consiglio: perché solo a quel punto la verità da tutti conosciuta diverrebbe innegabile. Sarebbe un macigno ineludibile nel nostro discorso pubblico con cui tutti dovremmo fare i conti. Mettendo così a rischio i nostri vizi più inveterati: a cominciare per esempio dalle bugie pietose delle corporazioni di cui dicevo sopra, come quella dei magistrati, con i loro motivi di aria fritta accampati per conservare il privilegio di restare in servizio fino a 75 anni.

Certo, dire la verità è quasi sempre scomodo e difficile. Ma se vuol mantenere fede alle speranze da lui stesso suscitate, se vuole cambiare verso al Paese, Matteo Renzi è atteso a questa prova di lucidità e di coraggio. Per cui serve una cultura politica, una conoscenza della società italiana e della sua storia, un’ispirazione anche morale (sì, quando la politica va oltre la routine, essa s’incontra inevitabilmente con l’etica), che non so se egli abbia. Ma qui è Rodi, e qui egli deve saltare. Senza una grande operazione di verità, di tutta la verità, sul proprio passato e sul proprio presente, l’Italia non potrà mai cambiare strada. E quindi non potrà mai salvarsi.

14 luglio 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_14/dirsi-faccia-po-verita-ce395f0c-0b14-11e4-9c81-35b5f1c1d8ab.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Luglio 20, 2014, 06:09:48 pm »

L’assenza di verità nelle corporazioni
L’autocritica che non c’è


Di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

L’invito alla verità, a dire finalmente a se stessi e al Paese come stanno realmente le cose, rischia di trasformarsi fatalmente a causa dei troppi consensi nella retorica della verità. E dunque in niente. Quando tutti si dicono subito d’accordo - «verità! sì, come no, verità, verità!» - allora è certo che la menzogna ha ancora un lungo avvenire davanti a sé.

In realtà c’è un solo modo per essere davvero dalla parte della verità, specialmente in politica: essere disposti a praticare l’autocritica. Che invece in Italia, come si sa, è una pratica molto rara. Nella nostra vita sociale, e in particolare in quella politica, nessuno, anche a distanza di anni, riconosce mai pubblicamente di aver commesso un errore, di non aver capito, di aver omesso di far qualcosa, di aver pensato o detto delle sciocchezze. E, sia detto tra parentesi, sta proprio qui, nell’impermeabilità all’autocritica la ragione forse principale di una delle più tipiche caratteristiche delle carriere pubbliche italiane: la loro durata potenzialmente illimitata. Perché mai ritirarsi o essere messo da parte anche a 70 o 80 anni compiuti, infatti, se uno non ha mai sbagliato un colpo?

In tema di mancanza di autocritica c’è solo l’imbarazzo della scelta. Si può cominciare dalle grandi corporazioni come quella dei magistrati, i quali, poco curandosi delle necessità del Paese, non ammetteranno mai di esercitare da sempre un paralizzante potere d’interdizione e di ricatto nei confronti di qualunque tentativo di modifica dell’ordinamento della giustizia. Che essi vogliono solo conforme al mantenimento delle loro prerogative e dei loro privilegi, abusivamente spacciati come sinonimo dell’interesse generale.

Dopo i magistrati si può poi proseguire con le migliaia di rappresentanti della classe politica locale, per esempio di quella delle Regioni. Mai nessuno di questi che in mezzo secolo abbia detto una parola sola di rincrescimento e di autocritica per il malfunzionamento, gli sprechi e i costi smisurati di quei carrozzoni che appena istituite sono diventate le suddette Regioni. Quanto avrebbe fatto piacere agli Italiani ascoltare almeno una volta un consigliere regionale, dico per dire, della Calabria o della Sicilia, ammettere che le loro amministrazioni hanno rappresentato e rappresentano un’autentica vergogna nazionale, o che per esempio l’autonomia siciliana è diventata ormai un’autentica truffa, utile solo ad arricchire a spese di tutti poche migliaia di fortunati. E magari sentire dire anche a qualcuno di loro che l’interesse dei calabresi e dei siciliani onesti sarebbe molto meglio tutelato da qualunque prefetto nominato da Roma, anziché dai miserabili politicanti di Reggio, di Cosenza o di Palermo. E per dare la sua parte anche al Nord, ma sempre restando in tema, perché nessun consigliere della Provincia di Trento ha mai colto l’occasione per ammettere che il fiume di soldi che l’Italia regala a quel territorio non ha di fatto alcun motivo di essere se non un garbuglio da legulei messo in piedi per fingere che esista un solo ente regionale chiamato Trentino-Alto Adige? Il fatto è che in Italia la verità sembra che siano sempre e solo gli altri a doverla dire, e che anche gli errori e i privilegi siano sempre e solo quelli degli altri.

Così si spiega anche perché, ad esempio, dei tanti imprenditori succedutisi alla presidenza della Confindustria, con i loro mille stucchevoli discorsi invariabilmente volti nei decenni ad ammonire, a intimare, a dare voti (e spesso a chiedere soldi), neppure uno, terminato il proprio mandato, abbia avuto il coraggio di spendere una parola di critica verso i propri colleghi: di solito così restii a reinvestire e a mettere soldi nelle loro aziende, così pronti a fare cassa vendendo e rifugiandosi nelle rendite, nelle concessioni o nei monopoli, sempre così defilati da ogni impegno civico. E come mai in tutti questi anni dalla Confindustria non è mai venuta una parola chiara e forte sulla larghissima pratica della manipolazione degli appalti, dove se da un lato i politici chiedono, dall’altra però sono sempre gli imprenditori che danno e non è certo un comportamento irreprensibile?

La memorialistica politica (che in pratica è l’unica esistente: in Italia infatti non accade quasi mai che un industriale di successo, un artista celebre, un grande manager, scriva le proprie memorie) è forse lo specchio più significativo di questa incapacità generale a guardare dentro di sé con uno sguardo di verità, e dunque all’occasione anche inevitabilmente critico. Si tratta di una memorialistica soprattutto di sinistra (non so perché), ex comunista e in particolare di quei politici del vecchio Pci appartenenti all’ala migliorista. Ebbene, anche qui è quanto mai raro trovare la franca ammissione degli errori commessi. Primo e più macroscopico, ad esempio, quello di essere rimasti nel loro partito, prigionieri per anni del ricatto della «disciplina» e dell’appartenenza. Non sarà stato anche in parte significativa colpa loro, dei loro timori e delle loro cautele, se in Italia non è mai nato un grande partito socialdemocratico e per avere un’alternanza al governo abbiamo dovuto aspettare tanto tempo?

Se vuol essere una cosa seria, insomma, l’omaggio generale alla verità non può che accompagnarsi all’autocritica di alcuni. Magari, visti gli errori commessi e le responsabilità accumulate, accompagnata alla decisione di farsi da parte.

20 luglio 2014 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_20/autocritica-che-non-c-e-91cc5422-0fd6-11e4-85b4-48e325e86ce9.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Agosto 02, 2014, 11:07:33 pm »

L’indifferenza che uccide

Di Ernesto Galli della Loggia

Diciamo la verità: a quanti qui in Europa e in Occidente importerà davvero qualcosa dell’ennesima uccisione di cristiani, saltati in aria ieri, a Kano, in Nigeria, per lo scoppio di una bomba in una chiesa? E del resto a quanti glien’è importato davvero qualcosa dei cristiani obbligati la settimana scorsa ad abbandonare Mosul nel giro di 24 ore, pena la vita o la conversione forzata all’Islam? A nessuno. Così come nessuno ha mai alzato un dito per tutti i cristiani fuggiti a centinaia di migliaia in tutti questi anni dall’Iraq, dalla Siria, da tutto il mondo arabo. Quante risoluzioni i Paesi occidentali hanno presentato all’Onu riguardanti la loro sorte? Quanti milioni di dollari hanno chiesto alle agenzie delle Nazioni Unite di stanziare a loro favore? Sono ormai anni che la strage continua, quasi quotidiana: a decine e decine i cristiani vengono bruciati vivi o ammazzati nelle chiese dell’India, del Pakistan, dell’Egitto, della Nigeria. E sempre nel silenzio o comunque nell’inazione generali: che cosa, ad esempio, si è fatto realmente di concreto per le 276 ragazze cristiane rapite qualche settimana fa, sempre in Nigeria, dalla banda jihadista di Boko Haram perché colpevoli - niente di meno! - di voler andare a scuola, e quindi avviate a un destino che è facile immaginare?


I due principali motivi di questa vasta indifferenza sono ovvi. Il primo è che sempre di più stentiamo a sentirci, e ancor di più a dirci, cristiani. Non si tratta solo della semplice perdita della fede, che pure naturalmente conta. È questione di quanto ci sta dietro. Un paio di secoli di pensiero critico laico, soprattutto la sua gigantesca volgarizzazione/banalizzazione resa possibile dallo sviluppo dei mass media, hanno sottratto al Cristianesimo, agli occhi dei più, la dignità socio-culturale di una volta. Da tempo essere e dirsi cristiani non solo non è più intellettualmente apprezzato, ma in molti ambienti è quasi giudicato non più accettabile.
Il Cristianesimo non è per nulla «elegante», e spesso comporta a danno di chi lo pratica una sorta di tacita ma sostanziale messa al bando. L’atmosfera culturale dominante nelle società occidentali giudica come qualcosa di primitivo, al massimo un «placebo» per spiriti deboli, come qualcosa intimamente predisposto all’intolleranza e alla violenza, la religione in genere. In special modo le religioni monoteistiche. In teoria tutte, ma poi, in pratica, nel discorso pubblico diffuso, quasi soltanto il Cristianesimo e massimamente il Cattolicesimo, ad esclusione cioè del Giudaismo e dell’Islam: il primo per ovvie ragioni storico-morali legate (ma ancora per quanto tempo?) alla Shoah, il secondo semplicemente per paura.
Sì, bisogna dirlo: per paura.

L’Europa ha paura, ed è questo il secondo motivo dell’indifferenza di cui dicevo prima. Ha paura dell’Islam arabo, del suo potere di ricatto economico non più legato soltanto al petrolio ma ormai anche ad una straordinaria liquidità finanziaria. Al tempo stesso, e soprattutto, ha paura del terrorismo spietato, delle tante guerriglie che all’Islam dicono di ispirarsi, della loro feroce barbarie, così come dei movimenti di rivolta che periodicamente agitano nel profondo le masse di quel mondo, sempre pervase di una suscettibilità facilissima ad accendersi e a trascendere in un’accanita xenofobia. Ma non solo. L’Islam ci fa paura anche perché la sua sola presenza - come del resto quella di altre grandi entità non benevole che popolano oggi il pianeta, come la Cina - indirettamente ci obbliga a fare i conti con una grande mutazione in corso nella nostra cultura e dunque nella nostra civiltà: l’impossibilità psicologica di avere un «nemico», di sostenere una situazione di conflittualità non componibile. Un’impossibilità che unita al rifiuto/rimozione della morte - morte che il tramonto della religione rende ormai impossibile accettare e dunque in qualche modo esorcizzare - sta a sua volta producendo in Occidente una gigantesca svolta storica: la virtuale impossibilità per noi di pensare e di fare la guerra. Almeno quella guerra non combattuta da macchine impersonali e sofisticate, ma la guerra vera, quella in cui si muore.

Ma che ne sanno di tutto questo i cristiani delle antichissime comunità di Mosul o di Aleppo, tutti gli altri sparsi dall’Africa all’India? Che cosa possono saperne? A questo punto, immagino, essi hanno solo capito la verità che per loro conta: e cioè di avere ben poche speranze se sperano in un aiuto che venga da qui. Dei cristiani e della loro religione all’Europa attuale importa sempre di meno. Si può essere certi che ogni intervento a loro favore sarebbe subito giudicato inammissibile, indebitamente discriminatorio, colpevolmente lesivo di qualche diritto all’eguaglianza di tutti rispetto a tutto. E sia. Ma Dio non voglia che questo non sia che un inizio: l’inizio di qualcosa di cui proprio in questi giorni non mancano i segni premonitori. In un’Europa pervasa dalla secolarizzazione, in un’Europa le cui fonti spirituali si vanno rapidamente inaridendo per il disprezzo dovunque decretato a ogni umanesimo, non può che stabilirsi un rapporto fatalmente necessario, infatti, tra l’indifferenza verso il Cristianesimo e l’antisemitismo. È la medesima indifferenza per ciò che non può essere espresso dai numeri, per ciò che viene dalla profondità dei tempi e dei cuori e che si agita nel buio delle anime: osando guardare in alto, più in alto di dove arriva lo sguardo umano.


28 luglio 2014 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_28/indifferenza-che-uccide-75e4cd0a-1613-11e4-a64f-72b5237763b1.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:55:18 pm »

LA GRANDE GUERRA e l’Europa di oggi
La memoria cancellata
Cos’altro pensiamo tutti che sia stata la Prima guerra mondiale al dunque se non un’«inutile strage»?

Di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Alla fine ha avuto la meglio Benedetto XV. Come non accorgersi infatti che è stata la sua interpretazione di quanto cominciò ad accadere esattamente cento anni fa - il 4 agosto 1914, il giorno in cui la guerra europea divenne realmente mondiale per effetto della dichiarazione di guerra dell’Inghilterra alla Germania, seguita dopo pochi giorni dall’intervento del Giappone e dell’Impero turco - è stata proprio la sua interpretazione di quell’evento, dicevo, che oggi l’intera opinione pubblica europea sembra avere ormai definitivamente adottato? Cos’altro pensiamo tutti che sia stata la Prima guerra mondiale al dunque se non una «inutile strage», come per l’appunto la definì fin dall’inizio il Papa del tempo? Non a caso le altre due grandi interpretazioni di quell’evento che in contemporanea ad esso videro la luce - quella del presidente americano Wilson che considerava la guerra come l’ultimo scontro tra la libertà dei popoli da un lato e la tirannide della Realpolitik dall’altro, e quella di Lenin che vi vedeva invece una semplice lotta intestina al capitalismo imperialista, anticamera della rivoluzione mondiale - entrambe quelle due visioni sono ormai solo roba d’archivio. Sì, dappertutto ha vinto l’«inutile strage».

Per averne conferma basta pensare al tono e ai contenuti delle commemorazioni centenarie che ormai s’infittiscono anche in Italia. È tutto un ricordo delle cecità dei politici di quegli anni, delle bugie della propaganda, degli orrori delle trincee, della crudeltà degli ordini, dei disagi disumani della vita quotidiana, della carneficina degli assalti, delle mutilazioni. E insieme, naturalmente, è tutta un’analisi critica della retorica, dei miti, delle lugubri cerimonie del lutto che allora e dipoi fiorirono, dei cimiteri di guerra, dei monumenti ai militi ignoti e non, sparsi dappertutto. Tutto un ripescaggio di diari strazianti. Solo questo insomma sembrerebbe che fu quel conflitto per gli europei di oggi. Solo ciò appare meritevole di essere ricordato.

La Grande Guerra viene così spogliata di qualunque significato storico-politico suo proprio. Lo scontro terribile che l’animò per quattro anni viene di fatto interamente decontestualizzato, cancellato nelle sue specificità e nelle sue ragioni, ridotto a una sorta di impazzimento collettivo o di sinistro complotto di un manipolo di burattinai malvagi. Cancellate sono le diversità degli schieramenti, delle posizioni, delle ideologie in gioco. Che non contano più nulla. L’«inutile strage» è una gigantesca notte in cui tutte le vacche sono grigie: non erano forse eguali in tutto e per tutto su ogni fronte le trincee, le sofferenze, le morti? E dunque? Che differenza potrà mai esserci tra un mutilato turco e uno francese, tra una bugia propagandistica di un Paese e quella di un altro?

In questo modo siamo indotti a vedere nella guerra che oggi ricordiamo null’altro che un puro e semplice insieme di negatività che cancellano tutto il resto. Cancellano, tanto per dirne qualcuna, l’acquisita indipendenza di tre o quattro nazioni europee, il definitivo tramonto di ceti sociali, come l’aristocrazia, abituati a un secolare dominio, un senso nuovo di cittadinanza e di mobilitazione politica diffusa tra milioni di soldati provenienti dalle classi popolari, la nascita di nuovi formidabili fermenti di autonomia tra i popoli e le élite dall’Anatolia al Golfo Persico, al Nilo. Perché è vero, tutte le guerre sono un’«inutile strage»: ma si dà il caso che esse abbiano quasi sempre il notevole effetto di cambiare il mondo. Ed è per questo che meritano di essere ricordate e studiate da quella cosa che si chiama storia.

Ma studiate storicamente, appunto. Non già nel modo in cui noi stiamo ricordando la Grande Guerra, nel quale si riflette quasi esclusivamente la nostra temperie culturale di oggi. E oggi la dimensione della potenza come cuore e strumento della politica ci appare una bestemmia. Oggi non ci curiamo più di Stati, di popoli e di nazioni e dei loro eventuali diritti, dal momento che i soli diritti che c’interessano sono quelli dell’individuo: cosicché, imbevuti di essi, ogni costrizione e ogni disciplina ci appaiono insensate e disumane, comunque sempre inutili. Così come sempre inutile e disumana ci appare oggi in particolare la morte, a cominciare da quella «naturale», e dunque figuriamoci ogni altra. Sempre per effetto di tutto questo, la guerra è anche completamente uscita dal nostro orizzonte pratico ed emotivo se non come male assoluto. Siamo pronti a credere che perciò essa debba essere semplicemente messa al bando e giudicata un crimine; del pari accarezziamo l’idea - provi ognuno a decidere dentro di sé quanto realistica - che possa esistere un mondo senza conflitti, ovvero che tutti i conflitti potrebbero essere risolti pacificamente se solo ci fossero un po’ di buona volontà ed un adeguato arbitrato internazionale.

Questa è l’ideologia che attualmente ci domina: intrisa di individualismo e di umanitarismo, molto cosmopolita e razionalista, molto politicamente corretta. Ma se è vero che ad ogni fatto del passato non possiamo che guardare con i nostri valori, è pur vero che tale prospettiva dovrebbe però trovare il suo limite nella capacità di calarci nel passato stesso, di storicizzare, come si dice. Cioè di non giudicare meccanicamente le cose di ieri con il metro di oggi. Ai milioni di morti della Grande Guerra e al loro sacrificio almeno questo lo dovremmo.

4 agosto 2014 | 07:21
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_04/editoriale-grande-guerra-memoria-cancellata-galli-della-loggia-43b9af84-1b96-11e4-91c9-c777f3f2edee.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:38:29 pm »

NEMICI VERI E FALSI DEL PREMIER
Élite avvelenate, gufi e rosiconi


di Ernesto Galli della Loggia

Si può riformare l’Italia con il concorso delle élite? Si possono con il loro consenso cambiare le regole che ci stanno strangolando? È questo l’interrogativo che oggi il Paese si trova di fronte, e in particolare che si trova di fronte il presidente del Consiglio, stando anche a quello che si legge nel colloquio di ieri con La Stampa.

Le élite italiane non amano Matteo Renzi. Lo hanno guardato con crescente simpatia nella sua fase per così dire «retorica», quando combatteva per conquistare la leadership e si è subito segnalato per la novità del suo linguaggio, delle cose che diceva (alcune delle quali fino a poco tempo prima a sinistra inconcepibili) e per come le diceva. Ma quando dalle parole si è cominciato a passare ai fatti le cose sono mutate. Allora hanno preso a fioccare via via prima i distinguo («È giovane e simpatico ma ha troppa fretta e troppa ambizione»), poi le obiezioni («Non ha una squadra all’altezza», «Vuol mettere troppa carne al fuoco», «Conta eccessivamente sul potere delle parole»; tra parentesi: tutte cose in cui c’è del vero), infine le critiche vere e proprie.

Tra le quali bisogna distinguere. Da un lato ci sono le critiche di natura più spiccatamente politico-ideologica, il più delle volte assurdamente eccessive come quella di autoritarismo. Queste critiche come è ovvio vengono quasi esclusivamente dalle élite di sinistra, egemoni in settori importanti come la cultura, la comunicazione, lo spettacolo - che incarnano peraltro una peculiarità italiana: la forte simpatia-importanza-presenza che per ragioni storiche e/o di puro opportunismo opinioni e abiti mentali di sinistra, a volte anche radicaleggiante, hanno in tutti i piani alti della società -. Di Renzi tali élite di sinistra mettono ferocemente sotto accusa soprattutto un aspetto: la sua intesa con la Destra berlusconiana. Intesa certo anomala, ma che a pensarci bene può essere vista come la risposta a quella altrettanto anomala, tipica dell’Italia, tra la suddetta élite intellettuale di sinistra e il potere socio-economico tradizionale. In realtà soprattutto l’élite intellettuale si sente specialmente colpita, io credo, da altri aspetti del «renzismo»: per esempio dalla palese indifferenza del presidente del Consiglio per i «venerati maestri», dal suo mancato omaggio alla loro persona, nonché dalla sua evidente avversione per le pratiche di cogestione-lottizzazione-influenza tipiche di tale élite specie in istituzioni pubbliche come la Rai, l’Università e tante altre.

Ma accanto a queste ci sono le critiche provenienti dalle élite dell’economia, delle professioni, dell’amministrazione pubblica. Qui la forte ambizione riformatrice di Renzi e il suo piglio valgono a mettere il dito su una evidente contraddizione che da anni è al fondo del modo di pensare di questi gruppi sociali, ma che aveva potuto finora rimanere comodamente nascosta.

In gran parte essi nutrono propositi di cambiamento anche radicali, ripetono più o meno da sempre che «così non si può andare avanti», sono a ogni momento pronti a mettere sotto accusa la politica per i suoi ritardi e incapacità. Ma della politica essi hanno vitalmente bisogno. Storicamente, infatti, lo status e i relativi privilegi grandi e piccoli di medici, avvocati, magistrati, alti dirigenti pubblici, professori universitari, giornalisti si sono costruiti in buona parte grazie per l’appunto alla protezione loro offerta dalla politica. Non parliamo dell’industria, della banca, del commercio. Qui sostegno statale diretto, legislazioni favorevoli, limitazioni alla concorrenza, regimi di volta in volta ad hoc nelle concessioni, negli appalti e nelle licenze - tutto dipendente dalla politica - hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo decisivo.

Come meravigliarsi se questo poderoso complesso d’interessi - i cui vari settori per giunta sono generalmente dominati da gruppi di comando di età avanzata - sebbene possa talvolta esprimere opinioni e desideri di cambiamento, ne tema al tempo stesso moltissimo ogni reale ed effettiva avvisaglia? Come meravigliarsi se esso cerchi di esorcizzarla celando il proprio malumore dietro le critiche mascherate da una delusione di maniera?

In realtà la sessantennale vicenda della democrazia italiana ci ha lasciato un’eredità avvelenata: vale a dire una compagine sociale per la quale è oggi difficile immaginare una qualunque riforma, o quasi, che non colpisca in modo significativo interessi forti e ramificati. Capaci di agitare lo spauracchio, in termini di consenso, che è stato sempre fatto valere contro ogni governo riformatore: il prezzo delle riforme lo si paga subito, mentre i vantaggi si vedono solo dopo.

Manca in questa rassegna un ultimo protagonista: la stampa. I giornali amano Renzi? Ovviamente a seconda dei giornali, risponderei io. Per il presidente del Consiglio e i suoi seguaci - specie quelli della 24esima ora - ho l’impressione che invece la risposta sarebbe: no, per nulla; o comunque mai abbastanza. Ma il potere, qualunque potere, pensa sempre così a proposito dei giornali e di chi ci scrive. Questi però, sebbene facciano parte anch’essi di un élite privilegiata, cercano, per lo più, in realtà, di fare solo il loro mestiere, che per sua natura è - giustamente! - un mestiere daltonico: abituato cioè a vedere più il nero che il bianco, e a scorgere sempre anche nel bianco qualche traccia di grigio. Renzi perciò se ne convinca: «i gufi e i rosiconi» veri, quelli che contano, usano strumenti diversi dalla carta dei giornali.

11 agosto 2014 | 08:08
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_11/elite-avvelenate-gufi-rosiconi-82c2ead2-2119-11e4-b6e4-ef62a8b70320.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Agosto 23, 2014, 06:15:33 pm »

Domande cruciali su Guerra, religione e civiltà
Noi in fuga dalla realtà

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Domanda numero uno: come si può riuscire a fare la guerra a un aggressore che invoca continuamente Dio e l’appartenenza religiosa senza dare alla propria risposta militare alcun carattere anch’esso a propria volta inevitabilmente religioso? Detto altrimenti: è davvero necessario perché si possa parlare di guerra di religione che entrambi gli avversari la proclamino tale, o non basta invece che lo faccia uno solo? Se uno mi ammazza perché io sono sciita, cristiano, o ebreo, o «infedele», e io cerco di difendermi colpendo a mia volta, cos’è questo se non un conflitto religioso?

Domanda numero due: se una persona di diversa religione e origine culturale si trova fin dall’infanzia a vivere per anni ed anni con la propria famiglia in un Paese occidentale, ne apprende perfettamente la lingua, ne frequenta le scuole, vi si fa presumibilmente degli amici, ne assorbe le abitudini quotidiane, ma a un certo punto decide che tutto quanto è stato così intimamente e così a lungo intorno a lui gli è in realtà insopportabile e repellente fino al punto da meritare il più crudele annientamento, che cosa indica ciò? Che nome merita? E un fenomeno del genere ripetuto per centinaia di casi, è un fatto casuale, un puro accidente oppure no?

Sono queste le due domande cruciali che gli eventi drammatici che accadono in Medio Oriente pongono a questa parte del pianeta dove noi abitiamo. Domande alle quali, però, il nostro discorso ufficiale cerca di sfuggire. Spesso ne nega addirittura il senso o preferisce dare risposte di comodo che non sono una risposta: l’ennesimo esempio della vera e propria voragine che si sta spalancando tra la realtà e la politica, tra la massa e le élite.

Non riusciamo a trovare risposte perché le domande in questione evocano tre ambiti - la religione, la guerra e la civiltà - che da un certo momento in poi la nostra cultura e il suo mainstream intellettuale - quello europeo assai più di quello americano - hanno bandito, proclamandone la scostumatezza ideologica e di conseguenza espellendo per decreto tutte e tre dal discorso politicamente corretto.

Alle religioni monoteiste sono stati sottratti i loro propri specifici caratteri storici, quelli che le hanno fatte diverse e spesso rivali; cosicché esse sono divenute tutte assimilabili ne «la religione», cioè nella dimensione di un’astratta spiritualità di sapore teista (adoriamo tutti uno stesso Dio!: come se il califfo Al Baghdadi invece fosse ateo), ovviamente destinata a non poter avere alcuna relazione possibile con nessun aspetto concreto e vivo della società, e tanto meno con i conflitti umani (una guerra per motivi religiosi? Oibò! Quale selvaggia bizzarria! Com’è mai pensabile una simile cosa che nella storia sarà accaduta solo qualche migliaia di volte?).

Quanto alla guerra e alla violenza sono state entrambe oggetto di una tabuizzazione così radicale da sfiorare il pensiero magico: poiché le aborriamo e non vogliamo che esistano, non esistono. E comunque non possiamo neppure pensare di averci qualcosa a che fare. Perlomeno non possiamo usare le parole per dirlo. Noi cittadini dell’Unione europea dunque non facciamo la guerra, ce lo proibisce la nostra moralità superiore (noi italiani ci siamo addirittura inventati che ce lo proibisce la Costituzione). Noi facciamo solo operazioni di peace keeping , e per non assumerci alcuna responsabilità morale e politica, anche quelle solo dietro invito (Nato, Onu). Manteniamo la pace: sparando e uccidendo quando è inevitabile, ma non per vincere; sicché quando ci accorgiamo che così la pace in genere non arriva, allora ci ritiriamo in buon ordine e - vedi il caso dell’Iraq e tra poco dell’Afghanistan - chi s’è visto s’è visto.

Anche il termine e il concetto di civiltà sono ormai fuori dell’uso pubblico consentito. Al gusto democratico corrente sanno entrambi, non si capisce perché, di esclusione, di radici, di «fardello dell’uomo bianco», al limite di razzismo; ed evocano la categoria, mai abbastanza deprecata, di «guerra di civiltà». Parlare di civiltà si può al massimo sui manuali di storia antica (civiltà greca, egizia, ecc.) , ma non al tempo presente. Oggi, infatti, esistono solo le «culture»: tutte naturalmente sul medesimo piede di parità, e tutte naturalmente tra loro compatibili all’insegna dell’universalismo umano. Contrariamente a quel che pure si potrebbe sospettare, insomma, l’islamico di cittadinanza britannica che l’altro giorno ha decapitato un giornalista americano in nome e per conto dell’Isis, non ce l’aveva, no, con la civiltà occidentale: con ogni probabilità si era semplicemente trovato male con la cultura inglese. Avesse vissuto in Alto Adige o nel Lussemburgo sarebbe stata tutta un’altra cosa.

Una radicale riconciliazione con il principio di realtà: ecco che cosa ci manca nel nostro modo di guardare al mondo. Certo, le idee sono una guida necessaria a muoversi in esso. Ma che cosa il mondo sia e come funzioni, non l’hanno quasi mai stabilito le idee.

22 agosto 2014 | 07:31
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_22/noi-fuga-realta-70d16668-29bc-11e4-83e9-8707f264e6d8.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:05:24 pm »

I VALORI E IL SOGNO MULTICULTURALE
La debolezza delle regole

Di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Con la presenza nelle proprie file di un numero rilevante di persone provenienti da Europa e Usa la sfida che il cosiddetto Stato Islamico e il terrorismo jihadista lanciano all’Occidente non è più solo, e tanto, una sfida di carattere militare. È una sfida diretta a quello che forse è stato negli ultimi decenni il principale luogo comune culturale che ha dominato le élite e quindi le opinioni pubbliche di questa parte del mondo.

È una sfida al multiculturalismo. All’idea cioè che debbano (e quindi possano) esistere società con una molteplicità di culture anche diversissime: basta che vi siano regole capaci di assicurarne la pacifica convivenza. Dando così per scontati due assunti che invece non lo sono per nulla: a) che le regole (per esempio la parità dei sessi o l’habeas corpus ) siano in qualche modo neutrali, universalmente accettate e accettabili, e non siano invece, come sono, il prodotto di valori storici propri di certe culture ma non di altre; e b) che le società siano tenute insieme principalmente dalle regole, dai codici e dalle Costituzioni, piuttosto che da legami identitari profondi, dalla condivisone innanzi tutto psicologica ed emotiva dei valori storici di cui sopra. Per capirci: se ogni cittadino di questa parte del mondo ha un soprassalto di repulsa nel vedere un crocifisso fatto a pezzi o una sinagoga data alle fiamme, non è perché ci sia una legge che vieti queste cose, ma per ragioni che con ciò non hanno nulla a che fare, e che semmai sono la premessa necessaria di una tale legge. Le regole, le leggi, funzionano, per l’appunto, solamente se premesse del genere esistono.

Le società occidentali attuali, viceversa, sembrano essersi fatte un punto d’onore nel progressivo indebolimento dei loro valori identitari, del legame con la tradizione culturale, dunque con la storia, sostituiti da una vera e propria fissazione, all’opposto, sulle regole e su chi e come le amministra (dai giudici ai tribunali). Da tempo, in tal modo, esse appaiono sempre più avviate sulla strada dell’astrattezza e del formalismo, in una parola dell’irrealtà. Non a caso: per ambire a qualche consistenza, infatti, il sogno multiculturale ha bisogno di una società senza valori e senza storia, bensì costituita e retta solo da regole universali assurte esse, in quanto tali, al rango di valori supremi. Con le conseguenze sulla dimensione stessa del «politico», nonché sulla consistenza della cultura politica e la capacità di decidere delle loro leadership, che sono sotto gli occhi di tutti.

L’intera politica dell’immigrazione e dell’accoglienza praticate dai Paesi dell’Europa occidentale - un’immigrazione proveniente in prevalenza dalla grande area della cultura islamica - si è ispirata al sogno multiculturale di cui sto dicendo. Un sogno che comporta come primo risultato la convinzione che nulla bisogna fare affinché chi giunge nei nostri Paesi sia indotto a integrarsi assimilandone i tratti culturali, cioè gli unici che possono produrre anche il rispetto delle loro regole (sì da ottenere in tal modo - ma solo in tal modo - anche la piena cittadinanza in un tempo ragionevole). Il caso limite che indica dove possa portare una prassi del genere è quello della Gran Bretagna, dove alle comunità islamiche è stata riconosciuta senza troppi problemi la cittadinanza, ma insieme, paradossalmente, anche la facoltà di auto amministrarsi dando loro la possibilità di applicare al proprio interno addirittura le regole della sharia.
Con la conseguenza, per esempio, di cui si è saputo di recente, di autorità di polizia spinte a chiudere gli occhi su una catena di crimini gravissimi (pedofilia, stupri, avviamento alla prostituzione, traffico di esseri umani), verificatisi all’interno di una di queste comunità, per il timore che perseguirli avrebbe significato tirarsi addosso l’accusa di etnocentrismo, di pregiudizio culturale, magari di islamofobia o chissà cos’altro. Come meravigliarsi allora se proprio dalla Gran Bretagna proviene il maggior numero di persone con passaporto europeo - non necessariamente di origine islamica, ci sono anche dei convertiti - accorse ad arruolarsi nelle schiere del Califfato di Al Baghdadi? Ma la Gran Bretagna è solo la parte di un tutto.

La Gran Bretagna siamo noi con le nostre società. Società che ormai credono illegittimo in qualunque ambito non dico imporre, ma neppure suggerire, criteri di comportamento sulla base di ciò che è bene e ciò che è male, e al massimo affidano questo compito solo al codice penale (seppure...); che svalutano sistematicamente qualunque cosa sia considerata parte di una tradizione (dalla fede religiosa all’eredità culturale); che sembrano sempre più convinte che neppure più la natura costituisca un limite per checchessia. Ebbene, i combattenti europei sotto le bandiere dello Stato Islamico, in specie quelli che arrivano dalle nostre società, ci mandano a dire che, declinati a questo modo, i valori di libertà e di tolleranza che noi ci ostiniamo a credere così attraenti e desiderabili da tutti - anche da chi approda tra noi provenendo dai più lontani altrove - a una parte del mondo e alle sue culture, invece, non piacciono per nulla. Anzi, non pochi di coloro che ne fanno parte li considerano quanto di più ostile possa esistere al loro più intimo modo di essere, quanto di più contrario al modo in cui essi concepiscono una collettività umana: fino al punto di impugnare un coltello per sgozzare chi in qualche modo rappresenta quei valori che sono i nostri.

Non è allora venuto il momento di chiederci in quanti altri casi la nostra libertà produca in realtà solo odio e disprezzo? Di domandarci una buona volta perché ciò accade, se per avventura non ci sia qualcosa nel progetto multiculturale che non funziona? Non è per nulla detto, infatti, che le culture siano nate per intendersi. Forse, anzi, è tragicamente vero il contrario; così come sicuramente è vero che a cambiare le cose non bastano né i sogni né tanto meno i buoni sentimenti.

7 settembre 2014 | 09:21
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_07/debolezza-regole-9dafbc08-3659-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Settembre 16, 2014, 05:51:12 pm »

E ora Renzi faccia i nomi

Di Ernesto Galli Della Loggia

È giunta l’ora, mi sembra, che Matteo Renzi compia un gesto che in Italia è sempre rivoluzionario: e cioè faccia nomi e cognomi. Solo una tale novità, infatti, può rappresentare quel salto di qualità nella comunicazione del premier con il Paese che la gravità della crisi e l’urgenza dei suoi possibili rimedi richiedono.

Non è più possibile e non ha più senso continuare a indicare gli avversari del governo e delle sempre annunciate riforme evocando genericamente «gufi e rosiconi». «Gufi e rosiconi» - ce lo consenta il presidente del Consiglio - insieme ai «selfie», al «cinque», ai «Twitter», agli hashtag , hanno fatto parte di un ambito comunicativo ormai oggettivamente superato: quello in cui egli si è impegnato a «farsi un’immagine» e costruire consenso intorno alla sua persona. Sono serviti a sottolinearne l’informalità, la giovinezza, la simpatia, la carica di rottura rispetto al passato. E l’hanno fatto egregiamente: il risultato si è visto sul piano elettorale così come si continua a vedere nei sondaggi. Sta bene; ora però serve un consenso diverso.

Ora a Renzi serve un consenso non più sulla sua persona (che già ha), ma sulla sua politica. Politica che, lo sappiamo, può essere solo quella delle tanto attese e sempre rimandate riforme. Per citare alla rinfusa le principali: l’ammontare esorbitante della spesa pubblica, i costi e gli eccessivi poteri delle Regioni, l’eccessivo prelievo fiscale sul lavoro nelle sue varie forme e le norme sui contratti di lavoro, l’ordinamento giudiziario, la chiusura corporativa degli ordini professionali, lo strapotere paralizzante dell’alta burocrazia, la scarsa efficienza di tutte le pubbliche amministrazioni con la farraginosità spesso assurda delle procedure. È un elenco da far tremare le vene ai polsi: per la complessità di ognuna delle materie indicate, ma soprattutto per la forza e la determinazione delle categorie, degli interessi, dei gruppi di pressione, che - è fin troppo facile prevederlo - sentendosi ogni volta minacciati dal minimo cambiamento saranno pronti, come hanno già fatto mille volte, a scendere sul sentiero di guerra contro il governo servendosi di tutti i mezzi.

È nell’aspra lotta contro questi avversari che si deciderà il futuro dell’Italia e, insieme, il destino del presidente del Consiglio: ed è dunque in vista di questa lotta che egli deve trovare d’ora in avanti il consenso senza il quale sarà sicuramente sconfitto. Ma un tale consenso - non superficiale, strutturato - egli riuscirà a trovarlo solo se cambierà il suo modo di comunicare con il Paese, solo se il suo rapporto con esso farà uno scatto in avanti decisivo. Non più fondato sulla «simpatia», su un gesto più o meno accattivante, su un sorriso o una battuta indovinata, bensì sulla capacità di creare nell’opinione pubblica un diffuso e ben radicato convincimento della necessità di fare le cose che vanno fatte. Proprio in vista di ciò d’ora in poi il presidente del Consiglio deve smettere d’intrattenere il Paese, deve parlargli: che è cosa diversa.

L’Italia, se vuole cambiare, ha bisogno innanzi tutto di verità e di serietà. Di entrambe Renzi deve farsi carico: con interventi non estemporanei e con un discorso alto, e magari drammatico, come il momento richiede e come i leader democratici degni del nome hanno l’obbligo di saper fare. Egli deve spiegare bene ai cittadini le riforme che intende varare, illustrandone con accuratezza i modi e i vantaggi sperati, ma non nascondendone anche gli eventuali prezzi da pagare. Promettendo peraltro che tali prezzi saranno equamente ripartiti e facendo vedere che mantiene le promesse. Deve anche indicare con chiarezza, però, chi sono coloro che si oppongono a quei provvedimenti, e per quale motivo.

Ripeto, facendo con coraggio i nomi e i cognomi: non già per darsi un’inutile aria da Rodomonte, ma perché in un momento difficile e nella prospettiva di pesanti sacrifici, in un momento in cui sono necessarie riforme radicali e spesso dolorose, le maggioranze parlamentari non bastano. È necessario che la volontà riformatrice dall’alto sia sostenuta dall’appoggio massiccio e convinto dell’opinione pubblica, in una battaglia in cui però risulti chiaro chi è l’avversario e quali i suoi interessi. È perciò che la posta e i giocatori devono essere ben evidenti: dal momento che proprio la pubblicità è la nemica mortale di tutte le lobby e di tutti i gruppi d’interesse particolari, abituati per loro natura ad agire per linee interne contro l’interesse generale. L’obiettivo di Renzi, invece, deve essere per l’appunto quello di far capire dove sia l’interesse generale spiegando e convincendo giorno per giorno e mobilitando intorno all’interesse generale l’opinione pubblica.

A questo unico fine egli d’ora in poi dovrebbe ispirare il suo rapporto con il Paese e modellare la propria immagine. Altrimenti prima o poi gli si aprirà davanti la stessa via percorsa da Berlusconi: che era tanto simpatico, tanto accattivante, vinceva le elezioni, ma alla fine non ha combinato nulla che meriti di essere ricordato.

15 settembre 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_15/ora-renzi-faccia-nomi-5f3ae19c-3c98-11e4-95e1-a222c06f54b6.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:49:10 pm »

L’Europa e i nostri interessi
Alla Germania va detto questo

Di Ernesto Galli della Loggia

Da tempo tra i protagonisti a ogni effetto della politica interna italiana ce ne sono almeno due che italiani non sono: l’Unione Europea e, principalmente per suo tramite, la Germania. E la loro presenza dietro le quinte serve spesso ad alimentare qui da noi progetti di natura ambigua, voci incontrollate. Il fatto è che la crisi sta portando a termine il radicale mutamento del profilo dell’Ue, che si sostanzia in una cruciale novità: l’ormai evidente, definitiva egemonia al suo interno della Germania. Da questo punto di vista Renzi è stato certo ingenuo a pensare che bastasse il suo 40 per cento elettorale a cancellare un dato di fatto così decisivo.

La Germania possiede tre formidabili punti di forza: 1) è la potenza economica dominante del continente; 2) ha dalla sua l’appoggio in pratica permanente di una cintura di Stati suoi satelliti di fatto (Repubblica Ceca, Austria, Belgio, Lussemburgo, un po’ meno Finlandia e Olanda, ma insomma stiamo lì); 3) può infine contare sugli uffici di Bruxelles dell’Unione, i quali, seppure non composti in maggioranza di cittadini tedeschi, della Germania hanno però assorbito la mentalità e i punti di vista circa ciò che l’Unione deve essere e come essa deve funzionare. La Germania insomma dispone di ben tre registri per la sua politica: la voce di Berlino, il pacchetto di Stati che essa ispira, le decisioni e le raccomandazioni di Bruxelles. L’Italia - come altri membri dell’Unione - è da anni presa in questa tenaglia. E alla fine, se vuole mantenere in piedi l’Ue e l’euro, non può che chinare la testa.

A meno che... a meno che l’Italia stessa non decida di porre con forza il grave problema, non solo politico ma di formidabile rilievo storico, rappresentato da questa evoluzione della costruzione europea, rappresentato dalla virtuale egemonia della Germania. Un’evoluzione non voluta né prevista da nessuno dei padri fondatori e da nessuna delle forze ideali dell’europeismo. E che pone una domanda: è proprio sicuro che una simile Europa corrisponda ai nostri interessi nazionali? Comunque, accettare una situazione nuova come questa con regole vecchie non può portare a nulla di buono. E contribuisce ancora di più ad alienare il consenso dell’opinione pubblica.

L’Europa dunque ha assoluto bisogno di un nuovo inizio. Il presidente del Consiglio può fare una cosa assai utile per sé e per tutti se invece di cercare di strappare qualche concessione economica su questo o su quello, come hanno fatto fin qui i suoi predecessori, porrà con forza questa esigenza nelle sedi opportune. Parlando alto e forte, con il linguaggio della dignità e della verità. E magari, come è buona regola da che mondo è mondo, facendo accompagnare discretamente le sue parole, nel caso trovassero scarso ascolto, con qualche credibile minaccia di ritorsione.

29 settembre 2014 | 07:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_29/alla-germania-va-detto-questo-caf8de94-4796-11e4-85be-0ddddac1a56f.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Ottobre 21, 2014, 05:59:47 pm »

La Chiesa e il segno dei tempi
Le domande senza risposte

Di Ernesto Galli della Loggia

È lecito supporre che con il suo discorso a conclusione della prima fase del Sinodo papa Francesco abbia mirato a due obiettivi. Cercare innanzi tutto di dare un’immagine del suo magistero più mediatrice e per così dire «centrista» rispetto a quella che finora era apparsa a molti; e insieme abbia ritenuto urgente richiamare la Chiesa al superamento di quelle divisioni apparse così evidenti proprio durante i lavori del Sinodo. Ma più al fondo esso può e deve forse essere letto soprattutto come il tentativo assai forte da parte di un Pontefice «venuto dalla fine del mondo» di chiamarsi fuori da divisioni e dispute che hanno il loro teatro di elezione negli episcopati delle Chiese dell’ultrasecolarizzato Occidente euro-americano,ma che negli altri luoghi del pianeta dove vive e opera il cattolicesimo finiscono per significare poco o nulla.

Non si sbaglia, credo, dicendo che è a queste contrade che guarda per il presente e per il futuro della Chiesa Bergoglio. Egli guarda all’America latina, con la sua disperata religiosità descamisada e «sovversiva», con la sua liturgia disordinata, all’Africa tradizionalista con le sue mille ibridazioni culturali, immersa in una povertà apparentemente senza futuro. Qui sì, in queste parti del mondo, dominate in tanta misura da realtà semplici e spesso brutali, qui sì che il richiamo papale, costante, quasi ossessivo, all’«accoglienza», alla «misericordia», alla «carità» acquista per il cattolicesimo un valore strategico cruciale. Qui sì che quelle virtù hanno il valore di parole d’ordine e alludono a linee di azione capaci di allargare in modo decisivo i confini della fede cattolica.

Ma le stesse parole, si sa, possono voler dire cose diverse in contesti diversi. Accade così che di termini come «accoglienza», «carità», «misericordia» siano corsi a impadronirsi i «progressisti» che allignano negli esausti episcopati delle Chiese d’Occidente per usarli contro i «conservatori» presenti nelle medesime Chiese; i quali a propria volta si sono sentiti in obbligo di denunciare l’inevitabile ambiguità di quegli stessi termini. Sia i primi che i secondi incapaci di superare le ormai stantie dispute postconciliari che vedono da oltre mezzo secolo i «progressisti» impegnati a mettere sotto accusa la Chiesa «del potere», e i «conservatori» a vedere dappertutto pericoli di «protestantizzazione»; i «progressisti» pronti ogni volta a farsi eco puntuale del politicamente corretto secolarizzato, i «conservatori» pronti a sospettare la subdola intenzione degli altri di abbandonare il depositum fidei . Entrambi gli schieramenti episcopali, per finire, goffamente supportati dai rispettivi omologhi laici nella politica e nei giornali.

Durante il Sinodo sulla famiglia è andato in scena ancora una volta questo scontro in realtà tutto interno alle Chiese dell’Occidente. Nel quale il Papa e le sue posizioni si sono trovate come prese in mezzo rischiando, di fatto, una continua strumentalizzazione. Da qui probabilmente il deciso intervento finale di Bergoglio.


In realtà l’adozione pienamente accettata e a stento dissimulata di categorie proprie della politica nel dibattito del mondo ecclesiastico e in generale cattolico nei Paesi occidentali, dà l’impressione di essere null’altro che un surrogato delle molte domande di fondo che di quel dibattito dovrebbero essere la premessa obbligata, ma che invece in sostanza ci si è sempre guardati bene dal porsi.

Lo si è visto chiaramente a proposito di quei grandi temi come i comportamenti sessuali, la procreazione, il matrimonio, che hanno prodotto le maggiori divisioni all’interno del Sinodo. Si tratta con tutta evidenza di questioni riguardanti da un lato l’idea complessiva dell’essere umano e del suo destino entro il disegno della creazione, e dall’altro il rapporto che con tale prospettiva generale deve avere la sua quotidianità morale. Questioni, come si capisce, che possono difficilmente essere risolte all’insegna della «semplice» libertà di coscienza o della «misericordia», come ha invece cercato di fare nei giorni scorsi lo schieramento «progressista» nell’aula del Sinodo col mettersi sulla stessa lunghezza d’onda lessicale del Papa. È evidente, infatti, che così si rischia davvero di non cogliere per nulla la reale portata di quanto è autenticamente in gioco. Che in questo caso, se non sbaglio, è il cuore stesso di ciò che una religione monoteista è e che alla fine non può non essere.

Ma se è così, è allora difficile non stupirsi del fatto, come dicevo, che quando gli episcopati occidentali decidono oggi di discutere di tali argomenti, specie se è per cercare adeguamenti dottrinali a quelle che vengono chiamate le «mutate esigenze dei tempi», non avvertano, e quasi neppure percepiscano si direbbe - né i novatori né i loro avversari con la solitaria e luminosa eccezione di Ratzinger - che prima di un tale compito tutti loro avrebbero da gran tempo dovuto porsi forse una domanda: come è accaduto che negli ultimi decenni un ampio numero di fedeli, forse addirittura la maggioranza, non seguissero più gli indirizzi della Chiesa? Che nella propria vita quotidiana essi si discostassero non già da aspetti secondari bensì basilari del suo insegnamento? Che non accettassero più la sua concezione dell’essere umano, del rapporto tra i sessi, della trasmissione della vita? Come è accaduto che questa gigantesca impalcatura culturale che aveva tenuto il campo per secoli stia oggi di fatto sul punto di sbriciolarsi? Che proprio in questa parte del mondo storicamente cristiano, forze e tendenze estranee se non ostili al retaggio cristiano si mostrino capaci in tanti campi di prevalere, di dettare stili di vita e di pensiero? E per proseguire con le domande di fondo scritte nelle cose: è possibile che tutto quanto è accaduto e sta accadendo non implichi responsabilità di ordine, non già solo pastorale, ma principalmente intellettuale, da parte non solo della Chiesa d’Occidente e delle sue gerarchie ma del mondo cattolico nella più vasta accezione, a cominciare dai suoi esponenti intellettuali?

Per chi guarda a queste cose con uno sguardo dall’esterno, ma consapevole del tesoro di pensiero e di azione racchiuso nella tradizione «romana», è difficile convincersi che «carità» e «misericordia» possano colmare davvero questo vuoto di riflessione, rappresentando delle risposte adeguate ai drammatici interrogativi sopra detti. È difficile liberarsi dall’idea che forse quegli interrogativi alludono a un grandioso «segno dei tempi» che si annunciano all’Occidente. Un «segno dei tempi» che andrebbero adeguatamente decifrati. E magari fatti oggetto di un nuovo annuncio.

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20 ottobre 2014 | 07:43

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_20/domande-senza-risposte-1baf6ee2-5814-11e4-9d12-161d65536dad.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Ottobre 26, 2014, 07:57:41 am »

Partiti nature morte?
Il vuoto intorno al leader

Di Ernesto Galli della Loggia

Come unico erede nonché unico sopravvissuto sia pure di secondo grado tra tutti i fondatori della Repubblica, era giusto che solo dal Pd potesse venire la parola fine all’intero universo ideologico del Novecento italiano e delle sue culture politiche. Cosa che sta per l’appunto avvenendo con Matteo Renzi. Ma che certo non poteva avvenire, per esempio, ad opera di Silvio Berlusconi: la fine della Prima Repubblica, del suo intero sistema politico e culturale, non poteva certo venire da uno che non aveva mai sentito neppure nominare «papà Cervi» (il padre dei sette fratelli fucilati nel 1943 dai fascisti). Proprio perché non sapeva praticamente niente del vecchio, delle sue radici, della sua narrazione, delle sue mitologie, Berlusconi non è stato in grado di dare inizio a nulla di nuovo, neppure per davvero alla Seconda Repubblica. Eterno dilettante «impolitico» della scena pubblica italiana, in vent’anni non è riuscito ad essere altro che l’uomo del «prendi i voti e scappa».

La fine, invece, poteva venire solo da chi, seppure giovane d’età, sapeva bene (o abbastanza bene), però, che cosa sono stati Alcide Cervi, Gramsci, il Pci, la cultura cattolica, che cosa è stata la vicenda politica del Paese, la sua saga più o meno autentica, i suoi tabù e i suoi non detti. E naturalmente poteva venire solo da chi fosse in grado di abbattere la fortezza della Sinistra: perché era dietro queste mura che si era da tempo rifugiato tutto l’establishment repubblicano; perché, scomparsa la Democrazia cristiana e tutti gli altri, solo i lontani eredi dell’antico Partito comunista hanno custodito fino a oggi l’ultima fiammella dell’esarchia ciellenistica, origine del sistema. Infine perché se si vuole davvero cambiare l’Italia, la prima cosa è una rivoluzione culturale contro un insieme di stereotipi del passato che hanno il loro habitat elettivo proprio a sinistra.

Questa rivoluzione dall’alto (l’ennesima «rivoluzione passiva» della nostra storia) è quella a cui si è dedicato Matteo Renzi smantellando virtualmente il Pd (hanno ragione i suoi avversari interni): gettandone via pezzi della storia, distruggendone i luoghi comuni della tradizione, le idee ricevute del suo «popolo». Lo fa quasi sempre con poco garbo, è vero, spargendo sulle ferite aceto anziché miele, ma si spiega: se in tanto tempo i padri, i vari D’Alema e Bersani - che avevano tutto il garbo necessario - non sono stati capaci di cambiare nulla, cercando invece di far sopravvivere tutto con la speranza che funzionasse ancora, allora è inevitabile che i figli procedano senza guardare troppo in faccia a nessuno.

Ma proprio per le cose appena dette, smantellando il Pd, cioè smantellando la Sinistra esistente, Renzi manda all’aria tutto, perché era su quella Sinistra che storicamente ormai tutto si reggeva. Inevitabilmente, cioè, egli smantella anche la Destra. Mostrando l’obsolescenza dell’una mostra l’inconsistenza pure dell’altra, che in Italia è stata sempre priva di una vita propria.




Accade così che per circostanze riguardanti in buona misura la vicenda italiana, e dunque indipendenti dalla sua volontà, Renzi abbia ben poche speranze di essere un ricostruttore. Per cercare di rimettere in moto la storia del Paese egli ha dovuto per forza sbarazzarsi del Pd: ma facendolo vede farsi il vuoto intorno a sé.

Oggi infatti, vuoi nel sistema dei partiti, vuoi sul tavolo delle proposte politiche, vuoi in lizza per eventuali leadership alternative, oltre il Pd di Renzi - cioè oltre Renzi - non c’è più nulla: solo una tabula rasa. Non a caso al presidente del Consiglio arride un consenso plebiscitario che non conosce confini di Destra e Sinistra, avendoli egli cancellati virtualmente tutti ed essendo rimasto di fatto l’unico in campo. Il suo successo si accompagna dunque alla solitudine. È la solitudine di un giovane vincitore, certo. Ma proprio in quella solitudine, bisogna dirlo, c’è qualcosa che inquieta: l’ombra di un rischio, il sentore di un eccesso.

25 ottobre 2014 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_25/vuoto-intorno-leader-0e5d1c3c-5c09-11e4-a063-152f34c0ded7.shtml
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« Risposta #207 inserito:: Novembre 03, 2014, 06:13:16 pm »

La trappola del consenso
Obama, il destino amaro di un presidente

Di Ernesto Galli della Loggia

Quale deve essere in una democrazia il rapporto diciamo così di «dipendenza» tra un uomo politico e la maggioranza che lo ha eletto? Fino a che punto è giusto ed opportuno che questa lo condizioni e che egli se ne faccia condizionare? E ancora: l’obbligo per la politica della trasparenza e della legalità, può obbligatoriamente estendersi a tutti gli ambiti decisionali? Oggi, questi interrogativi, vecchi come la storia della democrazia, sono riproposti con forza dal destino politico sospeso sul capo del presidente degli Stati Uniti. Un destino non proprio smagliante visto che tutti gli osservatori sono d’accordo nel prevedere una forte avanzata dei repubblicani alle elezioni di mezzo termine che si terranno domani, e addirittura una probabile loro maggioranza al Congresso.

Contro un solo obiettivo importante centrato in politica interna (la riforma della Sanità) e un discreto successo nel rimettere in sesto l’economia del Paese, è soprattutto il bilancio della politica estera quello che appare più critico per Obama, quello sul quale gli elettori sembrano più intenzionati a sanzionare il presidente. E in effetti è difficile chiudere gli occhi di fronte a quanto è accaduto negli ultimi anni: il virtuale abbandono da parte degli Stati Uniti del loro ruolo di protagonisti assoluti della scena planetaria, la perdita di una parte notevole della loro capacità d’influenza e di leadership negli scenari regionali più critici, la difficoltà evidentissima da parte dell’amministrazione di costruire una qualunque visione complessiva, una strategia di medio-lungo termine, capace di rilanciare un rinnovato impegno globale di quella che ancora all’inizio del secolo sembrava l’unica, incontrastata, superpotenza.

Bene: è forse il caso di osservare, però, che questa ritirata, chiamiamola così, degli Usa dal mondo è stata compiuta da Obama in stretta obbedienza al mandato affidatogli dalla maggioranza dei suoi concittadini. Egli è stato eletto a suo tempo proprio con l’impegno di ridurre il coinvolgimento americano negli affari del pianeta (attribuito ad un errore di Bush): a cominciare dall’abbandono dell’Iraq, con tutte le conseguenze vicine e lontane (anche di immagine) che ha comportato. Era questo ciò che la maggioranza degli elettori voleva, ed è questo ciò che essa ha puntualmente avuto, anche se ora sembra essersi ricreduta. Il che dimostra, per tornare alla questione iniziale, che un uomo politico non deve essere agli ordini dei suoi elettori ed eseguirne pedissequamente i desiderata. Il mandato elettorale risulta efficace, davvero produttivo di scelte politiche sensate, solo se è un mandato libero, senza vincoli. Per almeno due ottime ragioni: innanzi tutto perché sui singoli problemi concreti la grande maggioranza degli elettori si orienta perlopiù in base a stati d’animo aleatori, frutto molto spesso di impressioni e di emozioni più che di convincimenti o di conoscenze accurate; e altrettanto spesso senza essere in grado di valutare realmente gli effetti derivanti dall’una o dall’altra scelta. La seconda ragione è che altrimenti non potrebbe esservi alcuno spazio vero per la politica e per chi l’esercita in modo proprio: cioè con la capacità di combinare creativamente (cioè autonomamente) i dati della realtà, di vedere ciò che gli altri non vedono, di assumersi il rischio anche di contrastare l’opinione della maggioranza prendendo decisioni impopolari. Cioè di fare tutte le cose che da sempre caratterizzano la personalità politica di valore.

Dunque Obama si è comportato da politico autentico quando, per esempio, smentendo la volontà di legalità e di trasparenza dei suoi elettori e le sue stesse promesse, non ha chiuso il carcere di Guantanámo. Ma ha sbagliato quando, invece, non se l’è sentita di smentire la spinta isolazionistica di quei medesimi elettori, rifiutandosi di capire che forse quella spinta non andava assecondata.

3 novembre 2014 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_03/obama-destino-amaro-un-presidente-d91e77cc-6320-11e4-bb4b-8f3ba36eaccf.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Novembre 12, 2014, 04:19:52 pm »

I segni di un degrado civile
Argini infranti di una comunità

Di Ernesto Galli della Loggia

L’Italia innanzitutto cade a pezzi. Il Paese fisico, il suo territorio, è perennemente sotto una spada di Damocle dall’Alpi alla Sicilia. In qualunque parte della Penisola bastano in pratica 24 ore di pioggia intensa per allagare interi quartieri di città, far chiudere le scuole, far franare tutto ciò che può franare, per interrompere ogni genere di comunicazioni. E regolarmente dopo che da anni ed anni tutti i rischi erano a tutti ben noti; e sempre, o quasi, dopo che i fondi per i lavori necessari erano stati stanziati, e sempre, o quasi, perfino dopo l’esecuzione dei lavori stessi. Ma non c’è niente da fare. Piove, e regolarmente i muraglioni costruiti si sbriciolano, gli argini alzati non tengono, i sistemi fognari saltano, i ponti crollano: il nostro destino è l’esondazione.

L’Italia poi è di chi se la vuol prendere. Chiunque, su un autobus o un treno di pendolari, solo che lo voglia (e lo vogliono in tanti) può non pagare il biglietto, può lordare, rompere, imbrattare con lo spray, intasare i gabinetti, minacciare i passeggeri, aggredire il personale. Per strada può fare dei cassonetti dell’immondizia e di qualunque altro arredo urbano ciò che più gli garba. In ogni caso l’impunità è garantita. E tanto più se si tratta dell’Italia dove vive la parte più debole della popolazione, quella che non prende l’Alta Velocità, che la notte non può permettersi un taxi: se si tratta cioè dell’Italia del Sud e delle periferie. Qui, poi, abitare una casa popolare - come questo giornale ha fatto sapere a tutti - può voler dire spesso essere costretti a stare perennemente barricati perché c’è sempre un prepotente pronto a impadronirsi con la violenza di ciò che non è suo, a intimidire, a minacciare. E quasi sempre senza che a contrastare la violenza ci sia l’intervento risoluto di chi pure avrebbe il dovere di farlo.

L’Italia infine non è più un solo Paese. Sgretolando lo Stato centrale e accaparrandosi le sue funzioni, un demenziale indirizzo politico federalista, al quale hanno aderito tutti i partiti, ha di fatto liquidato l’eguaglianza dei cittadini proclamata dalla Costituzione. Oggi ogni italiano paga tasse diverse, viene curato in modo diverso, gode di servizi pubblici, di mezzi di trasporto, di quantità e qualità diversa, studia in edifici scolastici degni o fatiscenti, a seconda che abiti a Sondrio o a Trapani, che sia un italiano del Sud o del Nord. I modi e i contenuti reali del suo rapporto concreto con la sfera pubblica dipendono in misura pressoché esclusiva solo da dove si è trovato a nascere e a vivere. Mentre di fatto le cricche politiche locali fanno ciò che vogliono, usando a loro piacere le enormi risorse a disposizione: salvo l’intervento necessariamente casuale di questa o quella Procura.

Questo (e molte altre cose, eguali o peggiori) è il Paese reale.

Ed è a partire da esso che va ripensata la crisi italiana. Il cui carattere più intimo e vero non sta nell’economia, che in certo senso ne è solo l’involucro. Sta nel fatto che una parte sempre maggiore di italiani - in modo specialissimo quelli che abitano il Paese reale, per l’appunto - non riesce più a credere di far parte di una comunità retta da regole certe fatte rispettare da un’autorità vera. Non riesce più a credere, cioè, che esista uno Stato.

Le condizioni dell’economia sono certo un fatto grave e importante. Ma molto più grave e importante è che troppi italiani si stanno convincendo dell’immodificabilità di tali condizioni perché le vedono saldarsi ai mille segni di un degrado, di uno sfilacciamento più generali al cui centro c’è un dato nuovo e inquietante: la latitanza dello Stato. Troppi italiani si stanno facendo l’idea che ormai quindi non possono più contare che su se stessi (che nessuno più cercherà il modo di far trovare loro un lavoro, penserà a dar loro una pensione, ad assicurargli con la sicurezza quotidiana, la certezza delle leggi e la sovranità politica). Che nessuno controlla e dirige realmente più niente, che nessuno è davvero al timone del Paese con in mente una rotta, e avendo non solo la visione e la determinazione, ma soprattutto gli strumenti e l’autorità necessari a farsi seguire.

È la sensazione di questo vuoto ciò che oggi nell’Italia delle periferie urbane e della piccola gente, del Mezzogiorno mortificato e incarognito, dei tanti microimprenditori che stentano la vita, nell’Italia del Paese reale, più contribuisce ad esasperare ogni egoismo ma anche a incrinare ogni fiducia. E quindi ad aggravare ulteriormente la stessa crisi economica.

È facile attribuire anche quanto ora ho detto all’universale «crisi della politica» di cui si parla tanto. In realtà c’è qualcosa di più, e di specificamente italiano. Se oggi il Paese reale sente come sente, se avverte sopra di sé una latitanza della sfera pubblica, un vuoto di leggi, di controllo, di Stato, non è perché abbia le traveggole. Ma forse perché esso percepisce che, a partire dagli anni Ottanta, vi è stata in effetti una progressiva secessione dall’Italia delle classi dirigenti un tempo italiane, e di conseguenza il relativo abbandono da parte loro del presidio della statualità. Un virtuale svuotamento di questa.

Vi è stata in quelle élites, una progressiva perdita di identificazione emotiva e culturale, rispetto a quella che fino ad allora era stata la loro patria. Con la conseguente, inevitabile rinuncia a guidarla e a portarne la responsabilità. È stato come un pervasivo moto di abdicazione dal proprio ruolo, le cui cause almeno a me appaiono oscure (percezione di una crescente insicurezza del contesto internazionale? Avidità di guadagni delocalizzando tutto all’estero?), ma del quale restano comunque ben impressi alcuni segnali altamente simbolici: l’europeismo elevato al rango di ideologia ufficiale obbligatoria, la fuga della Fiat dalla Penisola nell’indifferenza generale, l’abbandono a se stesso del sistema dell’istruzione e della comunicazione radio-televisiva.




È questo lo stato di cose di fronte a cui si trova oggi Matteo Renzi: dal quale anche chi non l’ha votato si aspetta comunque fatti e parole nuovi. Ma mi domando se il presidente del Consiglio sappia vedere quel Paese reale che si è detto sopra e se lo sappia vedere nei termini indicati. Se sappia vedere lo sfascio dei suoi territori e delle sue città, capire la sua sensazione di abbandono, la sua percezione di vuoto istituzionale, la sua richiesta di controlli, di autorità, di guida. Dubito che basti dare 80 euro ad una parte di quel Paese per ricostituire l’idea che esista un governo, che esista qualcosa che assomigli a una classe dirigente. Se vuole davvero essere l’uomo della rottura rispetto al passato che ha promesso di essere, Renzi deve andare in mezzo a quel Paese reale, casomai mettendosi le calosce o fermandosi ad aspettare alla fermata di un autobus. Deve parlare ai suoi abitanti faccia a faccia, non da qualche studio televisivo. Magari immaginando anche i gesti concreti con i quali accompagnare le parole.

Egli ha dimostrato finora di sapere interloquire molto bene con l’Italia dei piani alti, e di sapersene accattivare le simpatie. È un’ottima cosa. Non abbiamo certo bisogno di populismi d’accatto che magari si prefiggano di «far piangere i ricchi». Ma un’autentica comunità politico-statale si ricostruisce sempre dal basso, e nell’Italia attuale c’è bisogno precisamente di questo: di ricostruire una tale comunità. Di ridarle un senso di sé e uno scopo che vadano oltre l’oggi, di ridarle il coraggio che sta scemando, di garantirle che ancora esistono una legge e un’autorità. Di dire a noi tutti: «Siamo qui, e anche a costo di sacrifici vogliamo restarci, e restare in piedi!». Di dire le parole - e compiere i gesti - che nei grandi momenti di crisi decidono del futuro di una nazione.
11 novembre 2014 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_11/argini-infranti-una-comunita-553b5256-6968-11e4-96be-d4ee9121ff4d.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Novembre 22, 2014, 05:31:05 pm »

Una democrazia da rifondare
Tante speranze (quasi) tradite


Di Ernesto Galli della Loggia

Jobs act, legge di Stabilità, Italicum, illazioni sul Quirinale, e poi tutto il resto che ogni giorno ammannisce la politica italiana, fatta di progetti di legge discussi per anni, di sentenze del Tar, di pronunce del Csm, di dibattiti tra i partiti più o meno sempre eguali. Ma non è solo la politica italiana. È questa in genere la politica democratica: fatta di riti un po’ stucchevoli, di discussioni pompose che preludono di regola a compromessi al ribasso realizzati da figure perlopiù mediocri. E infatti finora è stata più o meno quasi sempre questa la politica anche negli altri Paesi d’Europa: in quell’Europa dove, non a caso, siede oggi alla testa dell’Unione un grigio politicante lussemburghese come Jean-Claude Juncker, abile a restare per decenni al potere tra servizi segreti ed evasori fiscali.

Ma almeno nel nostro continente, e qui da noi in modo particolare, tutto l’universo storico in cui questa politica delle democrazie - grigia e costosa, ma per molto tempo efficace - è stata iscritta, scricchiola. Il mito della continua crescita economica non è più che un mito; il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali: aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha, così come la differenza tra i destini dei singoli o tra ciò che significa vivere in un luogo o in un altro, mentre la secolarizzazione aggredisce alla radice l’intero mondo valoriale e simbolico dei tradizionali rapporti tra gli individui (dalla parentela alla genitorialità). In tutta Europa, insomma, si profila una crisi profonda dai contorni ancora imprecisi ma di sicuro inquietanti. Improvvisamente la democrazia si è trovata davanti un ospite inatteso: la povertà in crescita. Mentre masse sempre più ampie appaiono ideologicamente allo sbando, mentre si afferma dovunque e ad ogni occasione un rabbioso sentimento di rivolta contro le élites .

L’Italia vede tutti questi fenomeni aggravati dalla congenita inconsistenza, non solo organizzativa, del nostro Stato - mangiato dal partitismo, dalle corporazioni, dall’ordinamento regionale e dalla malavita, spesso uniti in un unico intreccio - corroso dalla sostanziale latitanza della legge. La disintegrazione ormai fisica della Penisola a cui assistiamo in queste ore appare quasi il segno di una metafora e insieme di un presagio. Naturalmente di fronte a tutto ciò c’è chi pensa che ogni cosa finirà comunque per aggiustarsi (anche se non si sa come). Ma forse è più ragionevole chiedersi se l’Europa che abbiamo conosciuto non sia ormai entrata nella prospettiva di una vera e propria nuova fase storica, segnata tra l’altro dai terremoti che dal Medio Oriente all’Europa sud orientale, all’Africa subsahariana, stanno sconvolgendo tutti gli scenari nelle nostre vicinanze. Una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida.







Se non vorrà essere travolta, infatti, essa dovrà trovare la forza e la capacità di rinnovarsi profondamente. Di uscire dalla normale amministrazione, dalle pratiche e dalle procedure collaudate, da molte delle sue idee consuete; dovrà probabilmente mettere in discussione i preconcetti dei quali si è fin qui nutrita e sottrarsi alla deriva esasperatamente «discutidora» che l’insidia in permanenza; dovrà andare oltre l’orizzonte cautamente «mediano» che finora è stato perlopiù il suo. Sarà obbligata, in altre parole, a fare la cosa forse per lei più difficile: e cioè passare dalla «politica» al «politico». Vale a dire mettere da parte una prassi orientata alla «via di mezzo», al «c’è sempre qualcosa per tutti», e viceversa provare a pensare la realtà in modo inedito e radicale (che vada alla radice delle cose), organizzando in tal senso anche il meccanismo delle decisioni: senza vietarsi ad esempio di immaginare pure regole e istituti nuovi.

Alla fine, riscoprire il «politico» dovrebbe voler dire per la democrazia innanzi tutto questo: riscoprire e riformulare il concetto di sovranità, e con esso la necessità creativa imposta periodicamente dalla vicenda storica. La sfida che essa dovrà affrontare in futuro consisterà probabilmente nel restare se stessa, con i suoi principi costitutivi - il consenso, le libertà individuali e il «governo per il popolo» - ma avere il coraggio di osare, di uscire dalle forme del suo stesso passato, di trovarsi vesti nuove, un nuovo soffio ispiratore.

I leader democratici, quando sono veri leader, servono per l’appunto a una tale opera di rifondazione. E io credo che proprio in quest’ottica molti italiani, con maggiore o minore consapevolezza, hanno guardato a Matteo Renzi. L’impressione, però, è che il presidente del Consiglio non sia riuscito finora a compiere lo scatto necessario per andare nella direzione auspicata. Che egli, ad esempio, fatichi molto a mettersi al di sopra della baruffa quotidiana dei tweet, delle dichiarazioni, delle schermaglie; che neppure per un giorno riesca a sottrarsi all’attrazione fatale del triangolo romano delle Bermuda (Parlamento - Palazzo Chigi - largo del Nazareno) e al gorgo del chiacchiericcio politicistico che vi staziona. La sua eloquenza - scoppiettante quando si trattava di mettere nell’angolo gli avversari da «rottamare» - non si è mostrata finora capace di trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese; e quindi di trasmettergli quella scossa anche emotiva senza la quale esso non potrà mai rimettersi in piedi. L’ispirazione che anima Renzi è volata finora troppo bassa, ha avuto una voce troppo tenue, per dare vita ad una visione del destino della nazione e della società italiana che preluda davvero alla loro rinascita entro una rinnovata forma democratica. Almeno finora è andata così. Intanto però il tempo passa. Pian piano le grandi speranze si consumano. E tra poco, inevitabilmente, esse si sentiranno tradite: per un uomo politico non c’è quasi nulla di peggio.

20 novembre 2014 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_20/tante-speranze-quasi-tradite-67d98026-707b-11e4-8a20-485d75d3144d.shtml
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