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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 119399 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Gennaio 26, 2014, 02:41:02 pm »

Il blocco burocratico-corporativo
Qual è il vero potere forte

L’elevato astensionismo, la crescita del voto di protesta, la più banale osservazione quotidiana mostrano quanto ormai sia diffusa tra gli elettori la convinzione che in sostanza Destra e Sinistra si equivalgano, siano «la stessa cosa». Naturalmente si possono fare molte obiezioni a questa idea. Ma essa coglie un dato reale. E cioè che nel Paese esistono ruoli, gruppi sociali e interessi assolutamente decisivi, i quali però da tempo, pur di conservare un accesso privilegiato alla decisione politica, e così mantenere e accrescere il proprio rango e il proprio potere, si muovono usando indifferentemente la Destra e la Sinistra, al di là di qualunque loro ipotetica contrapposizione. Ruoli, gruppi sociali e interessi che nessun attore politico, né di destra né di sinistra, ha il coraggio di colpire, e che con il tempo hanno costituito quello che nella vicenda della Repubblica si presenta ormai come un vero e proprio blocco storico. Vale a dire un insieme coeso di elementi con forti legami interni anche di natura personale, in grado di svolgere un ruolo di governo di fatto di aspetti decisivi della vita nazionale.

È il blocco burocratico-corporativo, a sua volta collegato stabilmente a quei settori, economici e non, strettamente dipendenti da una qualche rendita di posizione (dai taxi alle autostrade, agli ordini professionali, alle grandi imprese appaltatrici, alle telecomunicazioni, all’energia). Consiglio di Stato, Tar, Corte dei conti, Authority, alta burocrazia (direttori generali, capigabinetto, capi degli uffici legislativi), altissimi funzionari delle segreterie degli organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, della Camera e del Senato), vertici di gran parte delle fondazioni bancarie, i membri dei Cda delle oltre ventimila Spa a partecipazione pubblica al centro e alla periferia: sono questi il nucleo del blocco burocratico-corporativo. Il quale, come ho già detto, si trova a muoversi assai spesso in collegamento con l’attività dei grandi interessi protetti.

È un blocco formidabile, accentrato nel cuore dello Stato e della macchina pubblica, il cui potere consiste principalmente nella possibilità di condizionare, ostacolare o manipolare il processo legislativo e in genere il comando politico. Non poche volte anche usandolo o piegandolo a fini impropri o personali.
Bisogna pensare, infatti, che specialmente di fronte alla componente giudiziario-burocratica del blocco in questione il ceto politico-parlamentare, quello che apparentemente ha il potere di decidere e di fare le leggi, si trova, invece, virtualmente in una situazione di sostanziale subordinazione, dal momento che nel novanta per cento dei casi fare una legge conta poco o nulla se essa non è corredata da un apposito regolamento attuativo che la renda effettivamente operante. Ebbene, la redazione di tali regolamenti è sempre tutta nelle mani dell’alta burocrazia ministeriale, nonché - senza che vi sia alcuna legge che lo preveda, ma solo per un’antica consuetudine - essa è sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Un processo al cui interno è facile immaginare quali e quante possibilità si creino di far valere interessi e punti di vista che forzano, o addirittura contraddicono, la decisione - la sola realmente legittima - della rappresentanza politica. Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano In linea generale e da un punto di vista, diciamo così, sistemico il principale obiettivo del blocco burocratico-corporativo - a parte la protezione degli specifici interessi dei propri membri - è quello di autoalimentarsi, e quindi di frenare ogni cambiamento che alteri il quadro normativo, le prassi di gestione e le strutture relazionali all’interno del blocco stesso: insomma tutto ciò che gli assicura la condizione di potere di cui oggi gode. Potere che riveste due aspetti essenziali: quello dell’indirizzo, del suggerimento, del condizionamento, perlopiù sotto la veste del consiglio tecnico-legale; e quello - ancora più importante - d’interdizione. Il potere cioè di non fare, di ritardare, di mettere da parte o addirittura di cancellare anche per via giudiziaria qualunque provvedimento non gradito.

Sul piano generale il risultato inevitabile di una simile azione finisce così per essere nella maggior parte dei casi quello di impedire tutte le misure volte a introdurre meccanismi e norme di tipo meritocratico, intese a liberalizzare, a semplificare, a rompere le barriere di accesso, le protezioni giuridiche e sindacali indebite. Spesso per il proprio interesse, ma il più delle volte per la sua stessa natura inerziale, il blocco burocratico-corporativo, infatti, tende a lasciare sempre tutto com’è: sotto il controllo di chi è dentro, dei poteri esistenti e dei loro vertici di comando. Non importa se per far ciò bisogna arrivare a vanificare pure il ruolo di imparzialità e di terzietà che dovrebbe essere proprio dello Stato: se per esempio le Authority di garanzia e di controllo piuttosto che esercitare con incisività il proprio mandato e rivendicare con altrettanta incisività un potere di sanzione, preferiscono - come accade di regola - voltare la testa dall’altra parte e lasciar fare i grandi interessi su cui in teoria dovrebbero vegliare.

Intendiamoci, fenomeni più o meno analoghi a quelli fin qui accennati caratterizzano tutti i regimi democratici. Ma tra i grandi Paesi dell’Europa un processo così forte ed esteso di autonomizzazione degli apparati burocratico-giudiziari e di crescita dei loro collegamenti con gli interessi economici mi pare si sia avuto solo in Italia. Solo in Italia quegli apparati e gli interessi, economici e non, ad essi collegati, si sono appropriati di spazi di potere così vasti. E di conseguenza - complice il discredito generale della politica - solo in Italia il comando politico e i suoi rappresentanti sono stati così intimiditi, messi così nell’angolo, sono stati resi così subalterni alla sfera amministrativa. E non a caso, forse, ciò ha corrisposto a una crisi generale del Paese, a una sua stasi progressiva in tutti i campi, alla sua crescente incapacità di cercare e di trovare strade e strumenti nuovi per il proprio sviluppo. La gabbia di ferro del blocco burocratico-corporativo e degli interessi protetti ha soffocato la politica. C’è solo da sperare che questa, nella nuova stagione che sembra annunciarsi, torni a respirare liberamente per assolvere i compiti cruciali che sono esclusivamente i suoi.

24 gennaio 2014
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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_24/qual-vero-potere-forte-0da05182-84c4-11e3-a075-38de66619eb5.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Febbraio 03, 2014, 04:45:28 pm »

DISPREZZO DELLE FORME NEL PAESE IN DECLINO
Il linguaggio dell’inciviltà

Abito a Roma nei pressi di una scuola (medie e liceo), e all’inizio e alla fine delle lezioni la mia via si riempie di ragazzi. Mi capita così di ascoltare assai spesso le loro chiacchiere, gli scambi di battute. Ebbene, quello che mi arriva alle orecchie è una continua raffica di parolacce e di bestemmie, un oceano di turpiloquio. Praticamente, qualunque sia l’argomento, in una sorta di coazione irrefrenabile dalle loro bocche viene fuori ogni tre parole un’oscenità o una parola blasfema. Le ragazze - parlo anche di quattordicenni, di quindicenni - appaiono le più corrive e quasi le più compiaciute nel praticare un linguaggio scurrile e violento che un tempo sarebbe stato di casa solo nelle caserme o nelle bettole più malfamate.

A dispetto dunque di quanto vorrebbero far credere molti dei suoi scandalizzati censori, il lessico indecente e la volgarità aggressiva mostrati da Grillo e dai suoi parlamentari nei giorni scorsi non sono affatto un’eccezione nell’Italia di oggi. Sono più o meno la regola. Sostanzialmente, in tutti gli ambienti il linguaggio colloquiale è ormai infarcito di parolacce e di volgarità, come testimoniano quei brandelli di parlato spontaneo che si ascoltano ogni tanto in qualche fuori onda televisivo o tra i concorrenti del Grande Fratello. Siamo, a mia conoscenza, l’unico Paese in cui i quotidiani non esitano, all’occasione, a usare termini osceni nei propri titoli.

Non dico tutto questo come un’attenuante, tanto meno come una giustificazione. Lo dico solo come richiamo a un dato di fatto. È l’ennesimo sintomo dell’abbandono delle forme, della trasandatezza espressiva, della durezza nelle relazioni personali e tra i sessi, di un certo clima spicciativo fino alla brutalità che sempre più caratterizzano il nostro tessuto sociale. In una parola di un sottile ma progressivo imbarbarimento.

Il declino italiano è anche questo. Il degrado dei comportamenti, dei modi e del linguaggio ha molte origini, ma un suo fulcro è di certo il grave indebolimento che da noi hanno conosciuto tutte quelle istituzioni come la famiglia, la scuola, la Chiesa, i partiti, i sindacati, a cui fino a due-tre decenni fa erano affidati la strutturazione culturale e al tempo stesso il disciplinamento sociale degli individui. Era in quegli ambiti, infatti, che non solo si sviluppava e insieme si misurava con la realtà esterna e le sue asperità il carattere, ma veniva altresì modellata la disposizione a stare nella sfera pubblica e il come starci. Tutto ciò che per l’appunto è stato battuto in breccia in nome di ciò che è «spontaneo», «autentico», «disinibito», secondo una concezione della modernità declinata troppo spesso nelle forme del più sgangherato individualismo.

La modernità italiana ha voluto dire anche questo generale e cieco rifiuto del passato. Rifiuto di consolidate regole pubbliche e private, di un sentire civico antico, di giusti riguardi e cautele espressive, di paesaggi culturali e naturali tramandati. Di molte cose che da un certo punto in poi la Repubblica ha rinunciato ad alimentare e a trasmettere. Un filo rosso lega la rovina del sistema scolastico da un lato e dall’altro il turpiloquio sessista dei parlamentari grillini di oggi e dei guitti di sinistra di ieri contro le rispettive avversarie politiche, la dissennata edificazione del territorio da un lato e i tricolori sugli edifici pubblici ridotti a luridi stracci dall’altro, le condizioni della Reggia di Caserta e il nostro primato nelle frodi comunitarie. Ma quel filo rosso non ci piace vederlo: ed è così che la società civile italiana (a cominciare dai suoi deputati) è diventata per tanta parte un coacervo d’inciviltà.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
03 febbraio 2014
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Ernesto Galli Della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_03/linguaggio-dell-incivilta-0ec4559c-8c9c-11e3-b3eb-24c163fe5e21.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Febbraio 14, 2014, 06:26:31 pm »

Giochi pericolosi

Nell’Europa «normale» si diventa capi del governo dopo aver vinto le elezioni, in Italia no. Da noi basta vincere (sia pure alla grande) le primarie del Pd. Infatti, salvo colpi di scena dell’ultima ora sempre possibili, Matteo Renzi sarà chiamato tra pochissimo alla carica di presidente del Consiglio: non solo senza aver mai partecipato a una competizione politica nazionale, e tanto meno aver in essa vinto alla testa di un partito, ma senza neppure sedere in una delle due Camere elettive, dal momento che, come si sa, egli non è né deputato né senatore. Una delle tante anomalie della vita pubblica nella patria della Costituzione «più bella del mondo».

Le anomalie però talvolta costano care. E ad accorgersene potrebbe essere proprio Renzi. Sostanzialmente inviso a una parte notevole del suo partito, la vera forza del sindaco di Firenze è stata fino a oggi nella simpatia e nel consenso che egli sapeva ottenere presso l’opinione pubblica. Ma quando siederà a Palazzo Chigi - non portatovi però dal successo elettorale che quel consenso prometteva, bensì da una decisione tutta interna al Pd - sarà principalmente se non solo con il suo partito che egli dovrà vedersela. Da presidente del Consiglio - arrivatovi tuttavia nel modo che proprio lui aveva tante volte condannato: per designazione di una nomenclatura di partito - non potrà fare appello ad alcuna volontà popolare, ad alcun patto politico con gli elettori. Sarà solo. Solo, alle prese con quegli intrighi, quelle giravolte, quelle vendette, abituali nel campo dei Democratici, che oggi amareggiano il triste commiato di Enrico Letta, e che domani - come dubitarne? - cominceranno subito, implacabilmente, a lavorare ai fianchi anche lui.

Renzi dunque dovrà governare senza l’appoggio manifesto di alcun «Paese reale». Per giunta dovrà farlo dovendo vedersela con due potenziali contraddizioni destinate con molta probabilità ad agitare in permanenza la sua maggioranza. La prima è l’eterogeneità di questa stessa maggioranza. Il suo, infatti, per il programma e per l’ambizione rinnovatrice, non potrà che presentarsi come un governo di centro-sinistra organico, come si dice: perché solo così egli potrà dare un segnale di svolta rispetto alle «larghe intese». E però sarà l’unico governo di centrosinistra al mondo in cui siederanno ministri di un partito che si chiama Nuovo centrodestra. Un Ncd, tra l’altro, che difficilmente, c’è da immaginare, potrà sottoscrivere alcuni punti caratterizzanti del programma «rinnovatore» del presidente del Consiglio (unioni civili et similia). Che cosa farà allora Matteo Renzi?

E come farà, per dire della seconda delle due contraddizioni di cui sopra, a condurre in porto le riforme istituzionali, sulle quali pure egli si gioca tanta parte della propria fortuna politica? Come farà cioè - poiché i numeri sono quelli e non c’è nulla da fare, dei voti di Berlusconi egli ha bisogno - a convincere Forza Italia, principale forza d’opposizione, a votare però insieme a lui le suddette riforme? Sarà mai possibile far procedere il programma di governo con una maggioranza e quello delle riforme istituzionali con un’altra, nonostante che ci sia la stessa persona a rappresentare entrambi? Come si vede la decisione che Renzi deve prendere in queste ore è quanto mai difficile. In sostanza è una scommessa sulle proprie capacità poliedriche, di essere in grado di giocare sulla scena della politica e della vita parti diverse tenendole insieme, o passando da una all’altra senza rompersi l’osso del collo. Fino a oggi la parte di Giamburrasca del Pd, domani quella di Mandrake di Palazzo Chigi.

13 febbraio 2014
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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_13/giochi-pericolosi-editoriale-409db7a6-9477-11e3-af50-9dc536a34228.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Febbraio 22, 2014, 08:07:14 am »

LA NUOVA STRANA MAGGIORANZA
Gli alleati riluttanti

Potranno mai Matteo Renzi e Angelino Alfano essere buoni alleati di governo collaborando lealmente per realizzarne il programma? La cruda realtà della politica, per sua natura così legata alla logica degli interessi e ai rapporti di forza, induce a rispondere con un caritatevole forse che tende ad avere però il suono di un no reciso. Oggi i due non possono che procedere insieme, ma da domani tutto o quasi comincerà molto probabilmente a spingerli su strade opposte.

Un Renzi al governo da solo, infatti - ipotetico vincitore di elezioni che gli avessero dato la maggioranza assoluta, grazie anche a voti non provenienti dal suo schieramento - un tale Renzi avrebbe sì potuto dimenticarsi del Partito democratico e fare, dove necessario, una politica anche niente affatto di sinistra. Privo invece di una vittoria elettorale alle spalle, egli è condannato ad essere, bene o male, solo il capo del Pd. Paradossalmente ma non troppo, proprio l’alleanza con il centrodestra gli toglie spazio su questo versante, e lo obbliga a stare a sinistra, a occupare uno spazio che tenga conto di quella che attualmente è la sua sola base di consenso. Una base peraltro - intendo il Pd - che ha mostrato di non amarlo troppo, e che di certo è pronta a prenderne le distanze non appena la sua azione non dovesse essere pari alle attese. Come credere infatti che il trattamento subito da Letta non abbia ormai il valore di un precedente?

Inversamente analoga appare la situazione di Alfano. Con l’aggravante che mentre bene o male il Pd esiste, e Renzi ci deve sì fare i conti, ma ci può anche in qualche modo contare, Alfano, invece, ha dietro di sé solo il vuoto. Nessun consenso elettorale, nessuna apprezzabile filiera di poteri forti, nessun partito: il suo è l’arduo tentativo da parte di un segmento moderato-cattolico di trovare spazio fuori dalla Destra, in un Centro che da vent’anni però non esiste più. Proprio a causa di questa scarsa consistenza politica Alfano, dunque, ha innanzi tutto una necessità: non apparire un inutile satellite del Pd. Per riuscirci, più che l’essere tentato dal fare, è probabile che egli s’impegni nell’impedire che si faccia. E cioè che Renzi vada a sinistra più di tanto, che s’intesti troppe iniziative con una leadership troppo personale, che si atteggi troppo a eroe dei tempi nuovi. Anche questo, come si vede, non è un buon viatico per il governo nascituro.

Il fatto è che la virtuale scomparsa/destrutturazione del Centro verificatasi nel 1994 nel sistema politico italiano ha reso in realtà impossibile qualunque effettiva alleanza governativa di centrodestra come di centrosinistra. Le «larghe intese» varate alla fine del 2011 ne sono state solo un surrogato emergenziale. Il quale poteva funzionare ma esclusivamente a patto di prendere pochi provvedimenti economici in quel momento urgentissimi e di varare un paio di riforme decisive: e infatti per altre cose quella maggioranza ha fatto poco con Monti, e altrettanto poco con Letta, mancando di fare, tra l’altro, proprio la più importante delle riforme di cui sopra, vale a dire una nuova legge elettorale.

Da domani una base parlamentare similmente eterogenea, ma in certo senso più debole perché più debole e insicura di sé sarà la componente di destra alfaniana, sosterrà il nuovo governo. La domanda cruciale è se basterà la personalità di Matteo Renzi, l’unica cosa che essa ha in più rispetto al passato (con la speranza che basti), a fare la differenza.

20 febbraio 2014
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Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_febbraio_20/gli-alleati-riluttanti-5c936a36-99f5-11e3-b054-e71649f9da68.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Febbraio 26, 2014, 06:04:48 pm »

ÉLITE, BUROCRAZIA E MERITO PERDUTO
I propri interessi come ideologia

Un Paese ha bisogno di élite e al tempo stesso di una burocrazia. E come esistono élite ed élite , così esistono burocrazie innovative e burocrazie arteriosclerotizzate: ha fatto bene Giuliano Amato a sottolinearlo nella sua intervista di lunedì al Corriere . Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).

Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento.

Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi. L’esempio classico continua a essere (pur con qualche smagliatura) la burocrazia francese con le diverse Alte Scuole alle sue spalle. La prima defaillance del nostro sistema sta proprio qui. Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni. Ancora resiste bravamente, ad esempio, la Banca d’Italia, ma già gli Affari esteri e la Magistratura - dove una volta entrare costituiva una prova non indifferente, e dove la carriera e la progressione retributiva non conoscevano l’anzianità - si sono arrese ai tempi nuovi.

In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi meno abbienti e comunque meno favorite, realizzando una selezione di tipo classista non in base alle capacità, che è l’opposto di quanto dovrebbe avvenire in una democrazia (e di quanto, tra l’altro, avveniva e in non piccola misura nel Regno d’Italia. Alberto Beneduce, grand commis degli anni Trenta, ad esempio, che ebbe nelle sue mani metà dell’economia italiana e la cui grande opera Amato giustamente ricorda, era figlio di un tipografo napoletano).

La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici nonché - nel caso dei luoghi di comando ministeriale, dei gabinetti, degli uffici legali, ecc. - per il restarvi un numero illimitato di anni, con un simile stato di cose va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale - come invece sarebbe necessario. Ne diventerà invece serva, anche se naturalmente una serva padrona. Cioè l’alta burocrazia si abituerà - dietro l’ossequio formale ai politici - a fare in realtà soprattutto il proprio comodo e il proprio interesse, a tessere le proprie relazioni, favorire i propri amici, in ultimo accrescere il potere dei suoi membri. Dando vita per l’appunto a quella oligarchia di cui oggi soffre l’Italia.

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26 febbraio 2014
Ernesto Galli Della Loggia

DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_26/i-propri-interessi-come-ideologia-c20fd460-9eb1-11e3-a5c9-783ac0edee3c.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Marzo 21, 2014, 11:52:25 pm »

L’EDITORIALE / a chi non piace la svolta renziana
Il conflitto sotterraneo

Di Ernesto Galli della Loggia

Non è affatto vero che Matteo Renzi riscuota il consenso vasto e generale che spesso gli si accredita. È piuttosto vero il contrario, e cioè che la sua figura divide il Paese in due parti contrapposte, anche se lo fa in modo nuovo rispetto a divisioni analoghe avutesi in passato. Quella indotta da Renzi, infatti, a differenza per esempio di quella prodotta da Berlusconi, è una divisione non gridata né per il momento troppo esibita, dai toni anzi volutamente sommessi; inoltre, lungi dal passare lungo linee politiche tradizionali (Destra e Sinistra per intenderci) essa tende con tutta evidenza ad attraversarle e confonderle.

L’Italia renziana è l’Italia indifferenziata dell’opinione pubblica largamente intesa. Che legge poco i giornali ma assai di più vede la televisione; che non ha troppa dimestichezza con la politica e ne ragiona in termini semplici; che è incline a credere più nelle persone che nelle idee. È, per dirla in breve, l’Italia che «non ne può più» e in generale desidera comunque un cambiamento. Un Paese in molti sensi «medio», nel quale però è dato di trovare anche parti consistenti di un Paese socialmente e culturalmente ben più sofisticato.

Ma accanto a questa c’è una non trascurabile Italia antirenziana. Un’Italia nella quale spiccano soprattutto vasti settori dell’establishment, che pure, come si sa, è ormai da molto tempo orientato verso il centrosinistra. Dunque pezzi significativi, forse maggioritari, della Confindustria, dell’alta burocrazia e dell’economia pubblica, del sottomondo politico in particolare romano, della Rai, molti importanti commentatori e giornalisti; ma insieme anche quella parte del «popolo di sinistra» più antica o più ideologicamente coinvolta, numerosi quadri medio-alti dello stesso partito di Renzi e della Cgil. È, quella antirenziana, un’Italia la quale si guarda bene dall’esprimere un’avversione esplicita. Più che dire, lascia capire. Con i toni sommessi, le mezze parole, spesso i silenzi, lascia capire che il presidente del Consiglio non le piace per nulla: a causa del suo modo di essere e di fare, della scorciatoia alquanto brutale presa per defenestrare il suo predecessore, a causa di quello che viene giudicato l’avventurismo del suo programma e delle sue promesse.

Questo almeno è quanto essa dice. Ma in realtà l’Italia antirenziana è sconcertata e inquieta specialmente perché non capisce dove andrà a infrangersi, e soprattutto chi e che cosa sommergerà, quali equilibri, l’ondata di novità che il presidente del Consiglio ha annunciato. Proprio ciò che conquista una parte del Paese ne preoccupa l’altra, insomma.

Il fatto è che la comparsa sulla scena di Renzi minaccia di squarciare il velo di menzogna che negli ultimi trent’anni la politica ha provveduto a stendere sulla nostra realtà sociale. Per tutto questo tempo la politica ci ha detto che c’erano una Destra e una Sinistra, divise da fondamentali differenze di valori e di programmi. Forse ciò era vero per i valori; certamente assai meno per i programmi e in specie per la volontà di realizzarli. Dietro la divisione proclamata e rappresentata dalla politica, infatti, è andata crescendo e solidificandosi una realtà ben altrimenti compatta del potere sociale italiano. All’insegna della protezione degli interessi costituiti; della moltiplicazione dei «contributi» finanziari al pubblico come al privato; della creazione continua di privilegi piccoli e grandi; della disseminazione di leggine e commi ad hoc ; della nascita di enti, agenzie, authority, società di ogni tipo; all’insegna comunque e per mille canali dell’uso disinvolto e massiccio della spesa pubblica. In tal modo favorendo non solo lo sviluppo di uno strato di decine di migliaia di occupanti - quasi sempre gli stessi, a rotazione - di tutti i gabinetti, gli uffici legislativi, gli uffici studi, di tutte le presidenze e di tutti i consigli d’amministrazione possibili e immaginabili, ma altresì il sorgere di un soffocante intreccio di relazioni, di amicizie, di legami personali. Un potere sociale solidificato, includente a pieno titolo anche il sistema bancario e l’impresa privata, che ha usato e usa disinvoltamente la politica - di cui aveva e ha un assoluto bisogno - schierandosi indifferentemente a seconda delle circostanze con la Sinistra, cercando però di non dispiacere alla Destra, e viceversa. E che sia la Destra che la Sinistra si sono sempre ben guardate dallo scalfire.

Finora tuttavia la radicale divergenza d’interessi tra questa Italia «protetta» e l’Italia «non protetta», questo reale, autentico conflitto di fondo, non è mai riuscito ad avere alcuna vera rappresentazione politica, a dar vita a un reale e vasto conflitto tra le parti politiche ufficiali. Renzi invece minaccia esattamente di rovesciare questa tendenza: di restituire realtà sociale vera alla politica, aprendo importanti terreni di scontro tra le due Italia.

Per il momento, è vero, lo ha fatto solo simbolicamente, allusivamente. Con la sua figura, grazie al suo stile personale e al suo linguaggio, identificandosi in particolare in un solo messaggio: la necessità di rompere confini e contenuti dell’universo politico finora vigente. Ma tanto è bastato perché se da un lato ricevesse immediatamente un consenso assai vasto e trasversale da parte del Paese che socialmente conta di meno, dall’altro lato, però, vedesse nascere contro di sé la diffidenza ironica, lo scetticismo, un’ostilità venata di paternalistico compatimento, da parte del Paese che conta di più e ne teme il dinamismo e i propositi, avendo capito che sarebbe esso il primo a farne le spese. «Non sarai tu, povero untorello, che spianterai le mura di Milano» sembra dirgli l’Italia antirenziana, forte della sua collaudata capacità di sopravvivenza.

21 marzo 2014 | 08:01
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_21/conflitto-sotterraneo-f5515f36-b0bf-11e3-b958-9d24e5cd588c.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Aprile 02, 2014, 10:14:34 pm »

Il pd e gli intellettuali contro
I sacerdoti del non si può


di Ernesto Galli della Loggia

Ancora una volta il Partito democratico è chiamato a scegliere. D’altra parte, se ci si pensa, è proprio questo il significato più generale dell’arrivo sulla scena di una figura come quella di Matteo Renzi: mettere il Pd con le spalle al muro, obbligare la cultura postcomunista a fare apertamente e fino in fondo una scelta a favore di una politica realmente riformatrice. Politica riformatrice progressista, naturalmente, considerando la natura e la storia dei democratici. Ma che in Italia - a causa della latitanza storica di una vera destra liberale: vedasi il fallimento di Berlusconi e di tutti quelli per vent’anni intorno a lui - non può non avere, necessariamente, anche caratteri e contenuti diciamo così non specificamente progressisti, non specificamente di sinistra, bensì dettati dalla necessità di dare spazio a efficienza, merito, razionalità, economicità: dunque, in un senso molto lato, anche caratteri e contenuti liberali. Insomma, così come nella prima Repubblica la Democrazia cristiana svolse un ruolo di supplenza verso la destra, accogliendone molte istanze e punti di vista, e così costruì la propria egemonia, la stessa occasione e lo stesso compito sembrerebbero oggi toccare al Pd.

Ma per ragioni ben note la storia ha dato al Pd un interlocutore particolare che la Dc non aveva: il ceto degli intellettuali. I quali, inclini in genere a un certo radicalismo, non impazziscono certo per la categoria delle riforme in quanto tale, specie poi quando queste non sono in armonia con il loro punto di vista o ancor di più quando contrastano con i loro feticci ideologici. Ed ecco infatti un nutrito e autorevolissimo gruppo di essi (da Gustavo Zagrebelsky a Stefano Rodotà, da Roberta De Monticelli a Salvatore Settis) scendere in campo venerdì scorso con un vibrante appello pubblicato sul Fatto Quotidiano contro le riforme costituzionali proposte dal Pd di Renzi. Altro che riforme: si tratterebbe nei fatti, scrivono i nostri, di «un progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato (...) per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali». Con il monocameralismo, ma in realtà «grazie all’attuazione del piano che era di Berlusconi», nascerebbe «l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi», «una democrazia plebiscitaria (...) che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare». Questo il tono e questi gli argomenti.

Che per la loro qualità non meritano commenti ma solo un’osservazione: che razza di Paese è quello in cui le migliori energie intellettuali non esitano a tradurre la loro legittima passione politica in pura faziosità, ignorando decenni (decenni!) di studi, di discussioni, di lavori di commissioni parlamentari, che hanno messo a fuoco in maniera approfonditissima i limiti del nostro impianto costituzionale di governo? E dunque la necessità di modificarlo spesso proprio nel senso che oggi si discute? È ammissibile che tuttora si possa sostenere che avere anche in Italia un capo dell’esecutivo dotato dei poteri che hanno tanti suoi omologhi in Europa, o una sola Camera rappresenti l’anticamera del fascismo? In verità la scelta a cui l’appello degli intellettuali radicali chiama il Partito democratico è una scelta cruciale per la sua identità di partito riformista, ma fin qui sempre rimandata: e cioè tracciare sulla propria sinistra una netta linea di confine e di deciso contrasto ideologico-culturale. Per decenni il Partito comunista unì a una pratica in larga misura socialdemocratica una benevola tolleranza nei confronti del più multiforme estremismo teorico, verso rivoluzionarismi di varia foggia e conio, verso le critiche radicaleggianti di ogni tipo all’ordine borghese. Si poteva essere iscritti al Pci e insieme essere luxemburghiani, filomaoisti, marcusiani, stalinisti. Fino a un certo punto si poté perfino guardare con qualche simpatia alla lotta armata: fino a quando cioè il Partito comunista stesso - resosi conto del pericolo mortale che ne veniva a lui e alla Repubblica - decise di reagire con brutale fermezza. Ma fu l’unica volta. Per il resto questa benevola tolleranza non solo appariva politicamente innocua (tanto a governare erano sempre gli altri) dando per giunta l’idea di un partito aperto che sapeva rendersi amici gli strati intellettuali ma, cosa più importante, consentiva pure di fare regolarmente il pieno dei voti a sinistra.

Il Partito democratico dovrebbe capire che per lui però le cose stanno in modo affatto diverso. Oggi specialmente, quando è al governo in una situazione di crisi grave del Paese e con una responsabilità mai così preponderante e diretta. È questa una responsabilità che dovrebbe implicare alcune ovvie incompatibilità. Tra le quali, per l’appunto, l’incompatibilità tra una linea riformatrice di governo e il sinistrismo radicaleggiante caro a non pochi intellettuali, sempre pronto, peraltro, all’agitazione piazzaiola o a divenire carburante per qualche formazione goscista. Un sinistrismo che dovrebbe obbligare il Pd, se non vuole alla fine restarne vittima, come altre volte gli è capitato, a fare muro esplicitamente, a uscire allo scoperto senza mezzi termini, e magari a contrattaccare; non già a tacere. Come invece tace singolarmente, ad esempio, l’Unità di ieri, la quale, invece che spendersi in qualche difesa delle riforme costituzionali del governo preferisce occuparsi di riservare una gelida accoglienza alle ragionevolissime critiche mosse dal governatore Visco ai vari corporativismi italiani (inclusi quelli dei sindacati), lasciandone il commento ai sarcasmi caricaturali di Staino.

Ma non è così, non è con questa mancanza di chiarezza, mi pare, che ci si può inoltrare in quel cammino sul quale tanta parte dell’opinione pubblica oggi aspetta di vedere avanzare il partito di maggioranza.

30 marzo 2014 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_30/i-sacerdoti-non-si-puo-465f63b6-b7d0-11e3-9fea-b6850cd5b15f.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:30:00 pm »

Disagio sociale e consenso della sinistra
La sindrome della nostalgia

Di Ernesto Galli Della Loggia
Cultura

Una contraddizione percorre l’Europa: la crisi economica ha diffuso dappertutto, specie nell’Europa mediterranea, un fortissimo disagio sociale, eppure la Sinistra non sembra saperne approfittare sul piano elettorale. Lungi dall’essere all’attacco essa appare piuttosto sulla difensiva se non addirittura, come si è visto in Francia, alle prese con una grave crisi di consensi.

I dati sul disagio sociale nell’Unione parlano da soli: almeno 25 milioni di senza lavoro su una forza lavoro potenziale di circa 245 milioni; inoltre, secondo le statistiche ufficiali, metà dei nuovi posti di lavoro sono precari, mentre non si contano, specie in Italia e Spagna, i lavoratori che pur conservando il loro posto tuttavia non vengono pagati da un mese o più. Eppure, ripeto, la Sinistra non riesce a trarre da tutto ciò alcun particolare vantaggio sul piano dei consensi elettorali (se l’Italia fa eccezione è solo per una ragione assolutamente fuori dal comune: e cioè che da noi il lungo dominio di Berlusconi da un lato e l’inconsistenza politica del senatore Monti dall’altro hanno letteralmente disintegrato sia la Destra che il Centro; in queste circostanze non si vede proprio come potrebbe riuscire il Pd a non vincere!).

Sono soprattutto tre le ragioni che aiutano a spiegare le difficoltà della Sinistra a tradurre la crisi economica in consenso.

Innanzitutto, la Sinistra è tuttora vittima della sindrome della nostalgia. Nostalgia di quella vera e propria età dell’oro che fu il lungo dopoguerra del «consenso socialdemocratico» (1945-1990), caratterizzato dalla crescita economica e dalle politiche keynesiane: pieno impiego, welfare, sindacalizzazione diffusa. Sono stati quelli i suoi «giorni alcionii», ed essa non se ne sa distaccare: si veda per un esempio italiano l’autentico struggimento con cui il suo popolo ha accolto il film di Veltroni su Enrico Berlinguer. Prigioniera del passato, la Sinistra non è riuscita a mantenersi in sintonia con i tempi nuovi, a comprenderli e a trovare rispetto ad essi un ruolo insieme compatibile ma diverso da quello dei suoi rivali.

In secondo luogo, questo attaccamento al passato impedisce ovviamente alla Sinistra stessa di accorgersi che parti centrali della sua tradizionale narrazione del mondo non corrispondono più alla realtà. Una in particolare: cioè l’idea che il suo avversario, la Destra, rappresenterebbe sempre e comunque gli interessi delle classi dominanti mentre solo lei, invece, rappresenterebbe realmente i bisogni ideali e pratici delle classi popolari. È proprio ciò, tuttavia, che è sempre meno vero, nel momento in cui in molte situazioni sociali europee (vedi la Francia, ma non solo) è piuttosto la Destra, al contrario, che si mostra capace, con le sue tematiche nazional-populiste, di «insinuarsi nell’esperienza della gente e di contribuire a darle un senso nuovo», di «captare l’immaginario collettivo» specie delle classi popolari. Non sta scritto da nessuna parte, insomma, che i «poveri» debbano per forza pensare e fare cose «di sinistra».

Il terzo e ultimo elemento che danneggia elettoralmente la Sinistra è il fatto che oggi i suoi esponenti vengono percepiti - giustamente - come una parte significativa dell’élite delle società europee, in molti casi ai vertici del potere. Si pensi ad esempio a come la Sinistra domini il sistema dei media e come sia lei in generale a plasmare l’opinione «rispettabile», i valori accreditati proposti obbligatoriamente al resto della società. Nell’ambito dell’Ue e delle sue politiche, poi, la Sinistra appare poco o nulla distinguibile dai suoi avversari, prona da tempo alla medesima vuota ideologia dell’«europeismo» a prescindere. Si aggiunga infine l’ormai sopravvenuta mancanza in Italia come altrove di qualunque tratto «popolare» nell’antropologia dei suoi dirigenti, nel loro abbigliamento, nei modi, negli svaghi, nel linguaggio, nel loro laicismo di maniera; insomma, la loro omologazione - sia degli uomini che delle donne - al modello di agio borghese simboleggiato dal tailleurino Armani e dalla casa in campagna con relativa vigna. È precisamente rispetto a questo panorama che acquista rilievo - forse non solo italiano - la novità che per la Sinistra rappresenta la leadership di Matteo Renzi. Una novità riassumibile in tre punti che sembrano quasi altrettante risposte alle difficoltà illustrate sopra.

Innanzitutto nella prospettiva dell’attuale presidente del Consiglio non esiste più alcuna centralità - e quindi tanto meno nostalgia - né per la classe operaia né per il sindacato, pilastri dell’ormai tramontato «consenso socialdemocratico». Il loro posto appare preso piuttosto (cristianamente? Forse. Del resto non si è stati boyscout per nulla...) dai «poveri», da coloro che non sanno come tirare avanti, da coloro che in genere «non hanno avuto».

In secondo luogo è abbastanza chiaro che, avendo ben poco in comune con il tradizionale sfondo ideologico della Sinistra (e delle sue molte presunzioni), da Renzi è difficile aspettarsi scomuniche altezzose nei confronti di temi, punti di vista, anche insofferenze, di segno «populista» o fatte comunque proprie dagli strati popolari. Al contrario, ad ogni eventuale furore «populista» di destra egli appare perfettamente pronto ad opporre, per la sua formazione e il suo temperamento, un ben più convincente buon senso «populista» di sinistra.

Da ultimo, vuoi per la giovane età, vuoi per il percorso tipicamente da outsider, il nuovo segretario del Pd è ben poco identificabile con la Sinistra dell’élite stancamente imborghesita, da tempo allocatasi nel potere sociale diffuso, da tempo padrona dei canali di formazione e diffusione dell’ideologia dominante. Verso la quale élite anzi, come si sa, egli non ha mai nascosto i suoi propositi di «rottamazione».

Ma se sono visibilmente queste le novità che Matteo Renzi rappresenta, e che spiegano il suo successo, rimane ancora impregiudicato il punto decisivo: se esse, dando luogo a un’efficace azione di governo, riusciranno a oltrepassare la dimensione della leadership personale e a coagularsi in forme collettive. Per esempio nella formazione di nuovi gruppi dirigenti o nella costituzione di una prospettiva egemonica, nelle sole cose cioè che permetteranno di parlare di una vera svolta nella cultura generale della Sinistra: al di là dell’ondata di conversioni opportunistiche - «tutti renziani!» - che già si sta sollevando e che al primo successo, c’è da giurarci, sommergerà l’Italia.

13 aprile 2014 | 08:57
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_13/sindrome-nostalgia-daa5acb2-c2d2-11e3-a3de-4531ca6bc782.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Aprile 25, 2014, 06:21:45 pm »

Perché gli elettori di destra voteranno Renzi
La diaspora della destra

Di Ernesto Galli della Loggia

Penso che a cominciare da Silvio Berlusconi molti, a destra, si vadano chiedendo in queste settimane: «Ma perché non le abbiamo fatte noi le cose che sta facendo il governo Renzi?».

Una domanda quanto mai a proposito, anche se i dubbi sull’efficacia degli annunci di Renzi sono legittimi. Non si è mai vista, infatti, una maggioranza così ampia come quella che ha avuto la Destra, e tuttavia con risultati così miseri. L’eterogeneità di quella Destra, i problemi giudiziari e i conflitti d’interesse dello stesso Berlusconi, o il sordo contrasto dei «poteri forti» hanno certamente contato, ma non sono stati decisivi. Possono costituire un alibi, non una spiegazione.

Questa dunque va cercata altrove. Innanzitutto, io credo, in un ambito per così dire socio-antropologico: il fallimento della Destra al governo ha rispecchiato nella sostanza un limite della società italiana di destra. Un limite dei ceti che ad essa fanno tradizionalmente riferimento, vale a dire una certa borghesia piccola e media culturalmente antiprogressista, una certa classe tecnica e imprenditoriale, le quali non producono autentica vocazione alla politica, non producono personalità politiche. Troppo legata alle proprie occupazioni e professioni, troppo immersa nelle sue attività economiche e commerciali, troppo presa dal proprio privato, la società di destra non dà al Paese uomini o donne che uniscano in sé le due qualità necessarie al politico di rango: da un lato l’ambizione unita a un ideale pubblico e dall’altro, al fine di soddisfare tale ambizione, la capacità/volontà di affrontare i rischi e i fastidi innumerevoli della lotta politica.

Pesa non poco in tutto questo la minorità politica a cui la Destra è stata condannata nella storia repubblicana. Ma insieme pesa anche un forte limite culturale di questo insieme di gruppi sociali. I quali ancora oggi si tengono lontano dalla politica perché troppo spesso non riescono a comprenderne né il senso né il valore. Né quindi sono disposti a pagarne il prezzo per accedervi, a cominciare da quello di sottoporsi al giudizio degli elettori. Il solo vero modo che nel suo intimo il popolo di destra concepisce per impegnarsi con la politica è, nel caso migliore, la cooptazione: essere invitati da chi può, a sedere in Parlamento o ad assumere questo o quell’incarico. Insomma, la politica come riconoscimento di tipo sostanzialmente notabilare, come onorificenza sociale. Con l’ovvio risultato, naturalmente, che così poi non si conta nulla, e anche per ciò non si riesce a combinare nulla. Questo nel caso migliore, come dicevo. In quello peggiore invece la politica è vista solo alla stregua di un’utilità come tante altre: da usare e di cui approfittare per fini personali.

Tutto ciò si è visto bene prima con Forza Italia, poi con le sue reincarnazioni; e si vede tuttora anche con le formazioni di centro. Quasi sempre si direbbe che proprio il personale successo nel loro campo dei vari Monti, Brunetta, Montezemolo, Bombassei, Terzi, Dini, Tremonti, Martino, Urbani e tanti altri professori, manager o imprenditori tratti dalla società civile di destra, li abbia condannati sostanzialmente, sia pure dopo qualche sprazzo di luce, a un ruolo di comprimari o di volenterosi esecutori di disegni altrui. Restano così al centro della scena gli individui spinti da nessuna motivazione che non sia quella del puro interesse personale e, insieme a questi, i mediocri privi di vero coraggio e di iniziativa politica, senz’alcuna esperienza di leadership, senza idee e senza autentica visione (la falange delle varie Santelli, Comi, Biancofiore, e quindi i La Russa, i Capezzone, gli Schifani, i Toti, e via seguitando).

E poi naturalmente al centro della scena Berlusconi. Berlusconi ha rappresentato fino al parossismo il limite personal-professionale che caratterizza il popolo di destra nel suo rapporto con la politica e nel pensare la politica. Convinto che la cosa essenziale fosse solo agitare il pericolo di un nemico, e grazie a ciò vendere comunque un programma elettorale, Berlusconi non si è curato d’altro. Per lui il governare si è esaurito nel vincere. Ha mostrato di non aver alcun obiettivo vero e concreto per il Paese nel suo complesso, tanto meno la capacità di conseguirlo, considerando tra l’altro irrilevante, nella scelta dei propri collaboratori, la competenza, la capacità realizzatrice, l’onesta: insomma, qualunque cosa non fosse la fedeltà canina alla sua persona. Come capo del governo gli è mancata, negli affari del Paese, la tenacia, la passione del fare, che invece era stato capace di mettere negli affari propri.

È così che oggi capita che molti elettori di destra si accingano a votare per Renzi. E si chiedano un po’ sorpresi come mai.

24 aprile 2014 | 06:45
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_24/diaspora-destra-f75b104a-cb6a-11e3-b768-8b37958dddda.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Maggio 06, 2014, 12:03:27 am »

Piccole patrie Europa fiacca
Non cambia l’atteggiamento dell’Italia nei confronti delle elezioni europee, tra indifferenza e talk show

Di Ernesto Galli Della Loggia

Si poteva sperare che dopo tutto quello che è accaduto le cose cambiassero. Invece no: ancora una volta qui in Italia la campagna per le elezioni europee si sta svolgendo in una generale indifferenza per la vera sostanza dei problemi in gioco. Su che cosa fare in Europa, infatti, tutti i partiti sono in sostanza d’accordo: alzare la voce, battere i pugni sul tavolo, accapigliarsi con la cancelliera Merkel. È circa il che cosa fare dell ‘Europa, invece, che il silenzio è assoluto. Dei molti candidati a un seggio nel Parlamento europeo quest’ultima cosa non sembra in verità interessare a nessuno.

Nei talk show televisivi tutti parlano a ruota libera di un’Europa «dei cittadini», di un’Europa «più democratica» e così via. Così com’è tutto un coro stucchevole di berci contro l’euro (perlopiù da gente che, si capisce a prima vista, non sa neppure di cosa parla). Ma tutto comincia e finisce qui. Non c’è mai nessuno, infatti, che ponga (e risponda) alla questione politica decisiva, che - proprio perché sempre elusa dalle inette élite fin qui padrone dei vertici di Bruxelles - ha portato alla crisi attuale. E cioè: se è vero che è necessario rafforzare la base schiettamente politica dell’architettura dell’Unione, finora troppo sbilanciata in senso economico, quale carattere deve avere tale base? Verso quale Europa politica, insomma? Una federazione? Una confederazione? Un’Unione come quella odierna ma con poteri più forti? E in questo caso quali? E come?
Nessuno lo sa. A queste domande nessun partito sembra interessato a rispondere. E naturalmente viene da pensare che è perché nessuno ne ha la minima idea o forse neppure ci ha mai pensato. Eppure questa, non altra, è ormai la massima questione all’ordine del giorno, non più rinviabile.

Anche perché nel frattempo le cose, nel nostro Continente, stanno sempre più prendendo una piega inquietante, destinata, se dovesse proseguire, a mandare tutta la costruzione europea a carte quarantotto. Una piega, peraltro, a me pare, della quale è in larga parte responsabile, paradossalmente, proprio quella che è la principale premessa e l’argomento principe della propaganda ideologica europeista: e cioè l’ostilità di principio, la continua delegittimazione di fatto, dello Stato nazionale. Con il bel risultato che proprio l’europeismo, nato per unire degli Stati, sembra per ora dare una mano alla loro disintegrazione dall’interno. Valga il vero: dalla Catalogna alla Scozia, dalla Bretagna alla Galizia, dal Veneto alle Fiandre, è ormai tutta un’esplosione di movimenti i quali, partiti con richieste autonomistiche, stanno approdando - o sono già da tempo approdati - al separatismo puro e semplice.

Pura coincidenza la contemporaneità di questa crescita del separatismo con la diffusione della vulgata europeista? Difficile crederlo. In realtà, a forza di apprendere fin dai banchi di scuola che la nazione è una pericolosa invenzione intellettuale pregna di umori sessisti e potenzialmente razzisti, di atavismi irrazionali, a forza di ascoltare da tutti i pulpiti ufficiali come lo Stato nazionale sia stato la fonte di tutti i mali anziché forse di qualche bene, quanto esso sia ormai «superato», inservibile, molti ne sono restati convinti. Ma - straordinaria eterogenesi dei fini - invece di trasformarsi, allora, tutti quanti in ferventi europeisti, come supponevano gli apprendisti stregoni dell’ideologicamente corretto (o presunto tale), quei molti hanno preferito ridiventare catalani, sardi, bretoni, gallesi, veneti o che altro. Di fronte a un europeismo impotente a dar vita a una imprecisata Europa sovranazionale, a immaginare per essa strutture politiche vere e fondate sul consenso, ma esclusivamente capace di trincerarsi nell’algida costruzione oligarchico-burocratico di Bruxelles e dietro i suoi precetti snazionalizzatori, di fronte a tutto ciò, insomma, parti crescenti di opinione pubblica sono state spinte a identificarsi sempre più nella propria piccola patria, in quel «noi» dove ci si conosce tutti e si conta pur sempre qualcosa, nella rassicurante protezione del linguaggio, dei volti e degli usi di casa. È così potuto accadere che, tenuto a suo tempo a battesimo dall’alta ispirazione politica dei vari De Gasperi e Schumann, lo spirito sovranazionale dell’Europa si stia rovesciando in un’acrimonia anti statual-nazionale separatista, abilmente sfruttata dalle ambizioni di cacicchi locali, o peggio, pretesto per i propositi violenti di gruppetti di scervellati sul modello dei «Serenissimi» nostrani.

4 maggio 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_04/piccole-patrie-europa-fiacca-1c6c65e8-d352-11e3-a38d-e8752493b296.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Maggio 15, 2014, 10:34:16 am »

La sordità interessata sugli immigrati
L’aiuto europeo: «Arrangiatevi»

Di Ernesto Galli Della Loggia

Ci sono solide ragioni (si badi: solide ragioni non vuol dire affatto buone ragioni) per cui l’Unione Europea, nonostante tutte le promesse, continui a fare orecchie da mercante alle ripetute, sempre più pressanti, richieste avanzate da vari Paesi mediterranei suoi membri, e innanzi tutto dall’Italia, perché di fronte all’imponenza del fenomeno dell’immigrazione sia finalmente adottata una politica comune. Una politica comune fatta ad esempio di un aiuto in mare ad opera di navi di tutte le marine europee, di distribuzione concertata degli immigrati nell’intero territorio dell’Unione, e soprattutto di effettiva condivisione delle spese sempre più ingenti richieste dal meccanismo dell’accoglienza. Niente da fare. La sollecitudine per i diritti dell’uomo, che risuona con toni così alti quando viene proclamata a Bruxelles o a Strasburgo, sulle spiagge e tra i flutti del Mediterraneo diventa un sussurro impercettibile. Italia, Grecia, Spagna si arrangino: se decine di migliaia di immigrati si accalcano sulle coste africane e asiatiche per entrare in quei Paesi, non sono cose che riguardano l’Ue.

Ci sono solide ragioni, ripeto, per questo comportamento dell’Europa. Le quali, tra l’altro, ci fanno capire che cos’è che nell’Unione non funziona. La verità è che mai come in queste settimane, nell’imminenza delle consultazione elettorali, le classi politiche di governo del continente - specie della sua parte centro-settentrionale - stanno toccando con mano quanto siano diffusi nei loro elettorati i timori legati alla sempre più ampia presenza di immigrati. Dalla Danimarca alla Francia, ai Paesi Bassi, la propaganda spregiudicata di vecchie e nuove formazioni politiche - di destra ma non solo: più spesso capaci di mettere insieme temi di destra e di sinistra - sta conquistando ascolto e consensi soprattutto negli elettorati popolari e operai dei centri urbani. Sono specialmente questi, infatti, che oltre a soffrire il disagio economico e i tagli del Welfare causati dalla crisi, oggi, di fronte al mutamento etno-demografico sembrano avvertire sempre di più la questione lacerante della propria moderna identità socioculturale. Che per essi è generalmente legata in misura decisiva alla dimensione locale-nazionale, a differenza delle élite borghesi, della cultura e del denaro, ormai progressivamente avviate a un superficiale cosmopolitismo anglofono.

In queste condizioni potete immaginare che voglia abbiano i governi europei di preoccuparsi di aiutare l’Italia e gli altri Paesi mediterranei facendosi carico di un problema che già li mette così in difficoltà a casa loro. E che voglia abbiano quelle opinioni pubbliche - realmente, non a chiacchiere - di occuparsi dei barconi che colano a picco tra la Libia e Lampedusa. Tutto ciò accade, come dicevo, a causa di un limite paralizzante di cui soffre la costruzione europea. E cioè che in sessant’anni non è nato nulla che assomigli in qualche modo a uno spazio politico europeo comune.

14 maggio 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_14/aiuto-europeo-arrangiatevi-c9f08746-db25-11e3-998e-bb303caaf6c1.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Maggio 28, 2014, 11:58:49 am »

La corsa parallela di Renzi e Grillo
Le origini di una svolta

Di Ernesto Galli della Loggia

Se oggi l’Italia è l’unico fra i maggiori Paesi europei che vede contemporaneamente un forte successo della sinistra e insieme del governo di cui essa è parte preponderante, ciò si deve a una successione di fatti assolutamente peculiari nel panorama continentale avvenuti negli ultimi 36 mesi, i quali hanno determinato una svolta del nostro sistema politico.

Il motore di questa svolta non è stato Renzi, bensì il combinato disposto Renzi-Grillo, il combinato disposto - benché del tutto involontario - del loro operato. È più che giusto oggi irridere all’errore clamoroso commesso nella campagna elettorale dal comico genovese, ebbro di un narcisismo parossistico e aggressivo; ma resta il fatto che senza Grillo molto probabilmente non ci sarebbe stato neppure Renzi.

Tutto comincia nel 2012. Mario Monti, dopo le prime settimane di governo in cui vara alcuni provvedimenti necessari per salvare il Paese dalla bancarotta, comincia a mostrare tutta la sua inconsistenza politica. L’uomo si segnala poi per una sua albagia che ne fa in breve una sorta di caricatura di quelle élite che ormai si avviano a divenire il bersaglio di una protesta che dilaga in tutta Europa. E che in Italia si incarna nel movimento di Grillo. Ma a differenza di ciò che accade dovunque in Europa, la protesta anti-sistema grillina - per una serie di ragioni riguardanti la storia d’Italia, troppo lunghe a spiegarsi in questa sede - non si àncora a destra, bensì a sinistra. Potrà dispiacere a chi ama vedere il fascismo dappertutto, potrà disturbare chi è convinto che a sinistra possano albergare solo l’urbanità dei modi, la profondità dei ragionamenti e l’eleganza dell’eloquio, ma è così. Ed è qualcosa di molto peculiare: per i suoi contenuti e i suoi accenti la retorica dei 5 Stelle ha un marchio inconfondibilmente di sinistra. Tanto è vero che sarà destinata a far presa moltissimo proprio su quell’elettorato oltre che su quello di diversa natura.

Intanto però è avvenuto un secondo fatto decisivo, anch’esso senza riscontro in Europa. Molto coraggiosamente un giovane esponente periferico del Pd, del tutto isolato, ha lanciato la sfida all’establishment del suo partito, che non ha saputo fare niente di meglio che adagiarsi nel tran tran ectoplasmatico del governo Monti. Ma, giunti alle primarie, la macchina del partito in mano al segretario Bersani lo schiaccia: così, nell’ottobre del 2012, per Matteo Renzi tutti i giochi sembrano rimandati a chissà quando. E invece essi si riaprono del tutto inaspettatamente dopo solo pochissimi mesi. Accade infatti che il Pd bersaniano «non vince», cioè perde clamorosamente, le elezioni politiche. E le perde - terzo fatto importantissimo - proprio perché una parte dei suoi elettori reali o potenziali, in fuga da altre formazioni, si fa attrarre dal Movimento 5 Stelle. Perlopiù questi elettori non hanno nulla di eversivo e di fascista, sono semplicemente degli «arrabbiati», dalle idee molto confuse e approssimative, ma orientati a sinistra: non a caso l’ormai azzoppato Bersani cercherà, anche se inutilmente, di convincerli ad appoggiare il suo tentativo di governo.

È proprio il successo di Grillo nei confronti del Pd, comunque, il fatto cruciale che rimette in gioco Renzi. Il quale solo a quel successo, non ad altro, deve se nel giro di pochissimo diventa l’unica speranza della stragrande maggioranza del popolo progressista (e non solo) che servirà a condurlo dapprima al successo nelle seconde primarie del dicembre 2013, contro l’apparato compassatamente incartapecorito del Pd, e poi alla vittoria odierna. Quella che si è avuta in Italia nel 2012-2013, insomma, è stata una specie di manovra a tenaglia condotta separatamente da Renzi e Grillo - dal primo sul versante della più spregiudicata cultura riformista, e dunque diciamo così da destra; dal secondo sul versante del populismo radicale e moraleggiante, e dunque diciamo così da sinistra - che insieme hanno avuto l’effetto di far saltare, disarticolare e ricomporre secondo linee nuove, l’ambigua e pietrificata compattezza ideologica calata da un ventennio e più sull’elettorato pds, ds e infine pd. Accrescendone altresì, in tal modo, le possibilità espansive.

Da tutto ciò è possibile trarre almeno una considerazione, mi pare. E cioè che l’Italia di sinistra ha nel suo complesso, rispetto all’Italia di destra, un’assai maggiore capacità di reazione, di intelligenza delle cose, di invenzione, e di automobilitazione politica. Impulsi di rottura dal basso (sottolineo: dal basso), sfide coraggiose, la comparsa di volti e di proposte nuove, è più facile che si verifichino nella prima che nella seconda. Basta per l’appunto vedere quanto è accaduto negli ultimi tre anni sui due versanti opposti dello schieramento politico. Come questi hanno reagito alle altrettanto gravi crisi di leadership e di orientamento che li hanno colpiti al momento della crisi storica del berlusconismo.

Sul versante della destra-centro si è reagito con inutili scomposizioni e ricomposizioni di vertice (dal Pdl a Forza Italia e poi Ncd, Fratelli d’Italia, Scelta Civica, e compagnia bella), all’insegna della più rigorosa continuità oligarchica e dei soliti noti. Assenti comunque qualunque idea o proposta politica percepibile come nuova o dotata di una minima capacità dirompente, così come un volto nuovo che fosse uno (l’ottimo Toti, infatti, non è un volto, è una decalcomania). A sinistra, invece, è innegabile che si sia avuto l’emergere di figure e idee nuove (qui non interessa se più o meno discutibili), e perciò di discorsi e accenti almeno in parte in forte sintonia con il mutare dei tempi. Il risultato elettorale di domenica rappresenta in buona parte la pura e semplice presa d’atto di questa fondamentale diversità tra le due Italie politiche.

28 maggio 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_28/origini-una-svolta-31aa5302-e626-11e3-b776-3f9b9706b923.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Giugno 04, 2014, 12:28:17 pm »

IL PREMIER E L’EREDITÀ DEMOCRISTIANA
Il cattolicesimo di un boy scout

di Ernesto Galli della Loggia

Certamente Matteo Renzi non è un democristiano; altrettanto certamente però è cattolico. Lo è in modo pubblico e noto (nei pochissimi mesi da che è presidente del Consiglio non si contano le foto che lo ritraggono all’uscita dalla messa domenicale, da solo o con la famiglia), lo è presumibilmente gran parte del suo retroterra ideale, così come sono cattolici molti dei suoi più importanti giovani collaboratori.
La cosa, tuttavia, non sembra aver suscitato fin qui l’interesse di nessuno. Il che è davvero strano, se si considera la sua condizione di leader di un partito di sinistra come il Partito democratico. Cioè di un partito che nella sua storia ha vinto solo questa volta correndo da solo (vale a dire non coalizzato con altri e sotto la guida di un suo iscritto), così come solo questa volta ha ottenuto una così alta percentuale di voti: e guarda caso entrambe le circostanze si sono realizzate quando alla sua testa c’era un cattolico come Renzi.

In realtà è abbastanza ovvio pensare che nel successo ora detto l’appartenenza cattolica di Renzi abbia contato non poco. Specie nel farlo percepire da quella parte dell’opinione pubblica tradizionalmente lontana dalla sinistra in una luce rassicurante, come una personalità capace di apertura alle ragioni altrui, poco propensa al pregiudizio ideologico, incline alla moderazione. Caratteristiche che naturalmente anche chi non è cattolico può benissimo possedere (e possiede), ma che nella storia del cattolicesimo politico sembrano trovare un fondamento e una compiutezza in certo senso più naturali e più convincenti.

Ma dietro quelle caratteristiche c’è poi una cosa come la fede. C’è il cattolicesimo. Nel nostro caso un particolare tipo di cattolicesimo. Non quello che improntava di sé tanta parte della vecchia Democrazia cristiana con le sue radici nel primo Novecento. Vale a dire quell’impasto peculiare fatto di religiosità sociale lombardo-veneta da un lato - risonante ancora di echi controriformistici e di ideali organicistici, proprio di molte élites urbane anche nobiliari dell’Italia padana - e dall’altro dell’autonomismo sturziano intriso di fermenti liberali. Bensì un cattolicesimo diverso di un’Italia diversa: di quell’Italia media che dal Po arriva agli Appennini, che dalle aule dell’Università Cattolica giunge, passando per i portici di Bologna, fino alla pieve di Barbiana. È il cattolicesimo dei Dossetti, dei La Pira, dei don Milani. Intriso d’inquietudini riformatrici, sospeso tra un ribellismo austero e spregiudicato che ricorda Savonarola e la consapevolezza tormentata della sfida portata alla fede dai tempi nuovi. Percorso da una moderna vena intellettualistica e insieme da una devozione antica, popolaresco quanto l’altro era popolare, assuefatto al confronto con chi non ha i suoi ideali e a misurarsi con esso.

È questo, nel fondo, io credo, il cattolicesimo di Renzi e dei suoi amici, quello che essi hanno respirato. Ma che oggi essi stessi declinano in una versione particolare, la quale ne addolcisce i tratti e ne stempera assai le ambizioni e l’asprezza originaria dei contenuti. È fuori luogo - ricordando la formazione dell’attuale presidente del Consiglio e di altri che stanno intorno a lui - definirla senz’alcun intento spregiativo una versione da boy scout? Cioè una versione di cattolicesimo certamente debole rispetto all’originale; una versione che più che ad una qualche teologia radicale sembra rimandare all’immediatezza di un sentimento: quello che molto semplicemente vede il mondo diviso tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra deboli e forti, tra ricchi e poveri. E che di fronte a ciò non sa che farsene di qualunque intellettualismo più o meno palingenetico, di qualunque sogno di «società cristiana», per prendere piuttosto la strada della concretezza, del cambiare ciò che è possibile ma provandoci davvero. Una versione dominata dalla dimensione del giovanilismo, abituata più che al partito al piccolo gruppo, mossa da un agonismo irrequieto mirato alla vittoria, fiducioso nelle proprie forze e pronto a misurarsi con l’azione; pienamente a suo agio con gli strumenti e i ritmi della modernità.

Una versione da boy scout, quella del cattolicesimo di Renzi, che trova una spia quanto mai significativa non solo nell’uso continuo che il presidente del Consiglio fa del «tu» e del termine «ragazzi» - che si tratti dei giornalisti o dei suoi collaboratori - ma soprattutto nell’assai percepibile dimensione del capobranco, dell’Akela, che egli incarna rispetto a coloro che gli sono più vicini, ai fedelissimi dell’inner circle. Ma altresì, viene da pensare, una versione di cattolicesimo efficiente e compassionevole, «simpatico» e «semplice», che oggi, nell’epoca di papa Francesco, è forse il solo cattolicesimo politicamente declinabile e spendibile.

Il Pd deve la propria inaspettata affermazione a un leader singolare come Renzi - singolare rispetto a tutto il passato di tale partito -. Un leader che qualunque sia la sua parabola futura ha però già ottenuto un risultato con ogni probabilità non passeggero per quel che riguarda il nostro sistema politico. Finora, infatti, una decisiva debolezza del bipolarismo italiano stava nella circostanza che esso aveva visto una volta almeno un grande successo della Destra, ma mai però qualcosa di analogo da parte della Sinistra storicamente tale. Da qui, su questo versante dello schieramento politico, dubbi e riserve più o meno taciti a proposito del bipolarismo medesimo. Dubbi e riserve che da oggi in poi però, dopo la vittoria del 25 maggio, difficilmente avranno più ragione di essere. Renzi, infatti, ha dimostrato che anche il Pd, il partito della Sinistra, può avere la meglio da solo in una competizione elettorale. Che proprio il bipolarismo, cioè, può come nessun altro sistema aprirgli la strada del potere. Già questo non è un risultato da poco.

3 giugno 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_03/cattolicesimo-un-boy-scout-b2a211a6-eadc-11e3-9008-a2f40d753542.shtml
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« Risposta #193 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:03:13 pm »

Proposta al premier su partiti e corruzione
L’efficacia delle sanzioni

di Ernesto Galli Della Loggia

Con la sua solita prontezza Matteo Renzi non ha faticato molto a convincersi, dopo un’iniziale incertezza, che in tema di corruzione le regole servono eccome. Ma quale tipo di regole? A quel che oggi è dato di capire, si tratterà dei provvedimenti solitamente adottati in Italia in casi del genere: cioè più controlli (magari meglio strutturati), più fattispecie di reati, e almeno sulla carta pene più dure (laddove sarebbe assai più importante che fossero invece più certe). Dunque inevitabilmente, almeno in parte, maggiori vincoli e forse tempi più lunghi. Probabilmente anche più burocrazia e più spese, dal momento che se, come si dice, il tutto sarà affidato al giudice Cantone e al suo ufficio, allora bisognerà pur dargli più locali, più personale, più soldi.

Perché invece non provare a battere un’altra via, diversa - benché di certo non sostitutiva - da quella del controllo istituzionale e delle sanzioni? Ad esempio quella - che definirei la via dei pesi e contrappesi propria del costituzionalismo liberale - consistente nel cercare di creare tra il potenziale corrotto/corruttore e l’ambiente in cui egli si muove un contrasto permanente d’interessi, il quale rappresenti un ostacolo importante allo svolgimento delle sue attività illegali. Mi spiego, tenendo presente che naturalmente il discorso deve essere diverso per il momento della corruzione che vede protagonisti la pubblica amministrazione e gli organi giurisdizionali (uffici ministeriali e assimilati, gabinetti, Corte dei conti, ecc.), e per il momento della corruzione che invece è collegato alla decisione di organi politici elettivi (sindaci, assessori, ministri, ecc.). Anche se poi, inevitabilmente, i due momenti confluiscono sempre in un’unica impresa illegale.

Orbene, per ciò che riguarda le pubbliche amministrazioni sarebbe io credo utilissimo introdurre la norma, in vigore negli Usa, secondo la quale qualunque addetto a un pubblico ufficio denuncia un caso di corruzione di cui viene a conoscenza o di cui sospetta, nell’ambito del suo lavoro, riceve per ciò stesso, se la denuncia si dimostra fondata, uno scatto di stipendio o una promozione (e viceversa una diminuzione e un arretramento nel caso si accerti l’infondatezza del fatto e/o l’intento calunnioso del denunciante). È facile immaginare che con una simile norma il funzionario o il giudice corrotto vedrebbero accresciute enormemente le difficoltà di operare, si muoverebbero in un clima di continua insicurezza, e ciò avrebbe di sicuro un effetto dissuasivo di vasta portata.

Altro è il caso del politico corrotto. Chi è qui che sia vicino a lui e possa avere interesse a impedire che egli esca dai binari della legalità? L’eventuale sanzione politica da parte dell’elettorato costituisce infatti una remora troppo lontana e aleatoria per poter ottenere un reale effetto di prevenzione. Se invece, però, la legge prevedesse, in seguito alla condanna penale del politico corrotto, anche, automaticamente, una forte sanzione pecuniaria (penso a qualcosa tra i centomila euro e il milione) per la lista in cui egli è stato candidato (a meno che tale lista medesima non abbia provveduto a denunciare lei l’operato del suo eletto), allora molto probabilmente le cose cambierebbero. Sarebbe il suo stesso partito a esercitare uno stretto controllo sull’operato di colui che ha mandato al potere.
Il punto è sempre lo stesso: per prevenire non c’è nulla di meglio che dar vita o spazio a chi abbia un interesse concreto a far sì che non accada ciò che si teme. Ci pensi il presidente del Consiglio.

11 giugno 2014 | 08:39
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_11/efficacia-sanzioni-2a201d24-f12a-11e3-affc-25db802dc057.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Giugno 19, 2014, 12:25:34 am »

I limiti dell’operazione «Mare nostrum»
Accogliere sì ma ragionare


Di Ernesto Galli Della Loggia

Salvare dalla morte in mare è un conto, accogliere stabilmente nel proprio Paese un altro. Il primo è un obbligo assoluto per ogni collettività civile, la seconda è una scelta politica. L’operazione «Mare nostrum» implica invece la contraddittoria sovrapposizione/identità delle due cose. In tal modo infatti viene percepita dall’opinione pubblica, e proprio perciò essa rischia alla lunga di divenire insostenibile.

Finora le autorità italiane hanno cercato di eludere la contraddizione ora detta ricorrendo a un escamotage. In pratica, salviamo dal naufragio gli immigrati ma, contravvenendo alle disposizioni europee, spesso evitiamo di identificarli nel solo modo possibile, cioè prendendo le loro impronte digitali e depositando queste in una banca dati europea. In tal modo è loro possibile cercare di andare (e restare) in qualche altro Paese dell’Unione Europea perché da esso, anche se scoperti, non potranno mai essere rinviati nel Paese di prima accoglienza che li ha identificati - come prescrivono sempre le norme europee - semplicemente perché un tale Paese non è mai esistito.

È in questo modo che l’Italia, alla quale sotto questo riguardo fa buona compagnia tutta l’Europa, evita di affrontare la questione cruciale: quanti immigrati possiamo (può l’Unione) assorbire? Nessuno lo sa e/o lo dice: dieci milioni, venti milioni? I numeri che premono dall’Africa e dall’Asia sono di quest’ordine, ma nessuno se ne cura. Sembra che neppure sia lecito porsi la domanda.

Che tuttavia resta la domanda. Anche se preferiamo aggirarla definendo «operazione umanitaria» di salvataggio qualcosa che è senz’altro questo, sì, ma che, per le ragioni dette sopra, è pure una decisione politica di accoglienza. Una decisione che appartiene peraltro a quel genere di decisioni che hanno due caratteristiche che dovrebbero far tremare le vene ai polsi di qualunque politico si appresti a prenderle, dal momento che: a) una volta adottata è terribilmente difficile revocarla, e, b), una volta adottata, il ruolo di chi la adotta non può che essere di totale passività.

E infatti è questo il nostro caso. L’Italia e il suo governo, una volta deciso di affrontare l’immigrazione trans marina con l’operazione «Mare nostrum», di fatto non sono più in grado di esprimere alcun punto di vista o di sostenere alcun interesse proprii con una minima possibilità di far valere concretamente l’uno o l’altro. Anche perché privi di reali interlocutori. Essi svolgono più o meno il ruolo che svolge un centralino dei Vigili del fuoco nel rispondere alle chiamate di soccorso. Punto e basta.

Ma anche se non riceve risposta, la domanda decisiva resta in tutta la sua crucialità: quanti immigrati può accogliere l’Italia? Quanti l’Europa? Un numero illimitato? Può essere, ma allora sarebbe bene dirlo. Invece le classi politiche italiane ed europee hanno preferito finora far finta di nulla, e nei fatti conformarsi ai due comandamenti etici e/o ideologici che sembrano prevalere presso le loro opinioni pubbliche. Quello del cosmopolitismo multiculturale da un lato, e quello della sollecitudine cristiana per i derelitti dall’altro. Entrambi ottimi principi i quali, però, non solo non servono a governare il fenomeno migratorio, ma contribuiscono non poco a dare l’impressione - pregna ahimè di contenuti politici - di un Paese e di un continente che di fronte all’immigrazione non sanno fare altro che tenere la porta aperta e lasciare entrare chiunque voglia. Alimentando così il richiamo che esercitano sull’elettorato europeo (non sempre di destra!) i partiti che si ispirano a un radicalismo identitario fortemente xenofobo; i quali sono ben lieti di approfittare della politica dello struzzo adottata da troppe forze democratiche, della loro troppo frequente rinuncia suicida a dare voce alle ragioni dell’interesse e dell’identità nazionali.

Pensare che dal bene non possa che nascere il bene è da ingenui o da sprovveduti. Soprattutto nelle democrazie è spesso dal bene che può nascere il male: e in genere quando ci se n’accorge è regolarmente troppo tardi.

18 giugno 2014 | 09:09
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_18/accogliere-si-ma-ragionare-9908c782-f6a6-11e3-a606-b69b7fae23a1.shtml
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