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Autore Discussione: Sergio ZAVOLI -  (Letto 4765 volte)
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« inserito:: Giugno 22, 2007, 10:49:20 pm »

Cambiare la politica

Sergio Zavoli


L’ultima tornata delle «amministrative», il ballottaggio, ha visto ulteriormente diminuire il numero dei votanti. E aumentare, nel complesso, un consenso al centrodestra ampiamente prevedibile. Fin troppo, a giudicare dal modo in cui tanti, noi compresi, avevano alimentato un clima di rassegnazione, con qualche venatura persino masochistica. E adesso - parlo della reazione più vitale, non del pessimismo alimentato dal tenere «sotto schiaffo» la politica con ogni genere di pretesto e linguaggio, dalle funamboliche intercettazioni fino al bullismo in Parlamento - si riprende a parlare del Partito Democratico, lo strumento con cui riaccreditare un grande progetto riformista, risollevando al medesimo tempo l’immagine della nostra democrazia: un argomento ravvivato, di colpo, dall’attesa che Walter Veltroni confermi la disponibilità ad assumerne la segreteria. È inutile dire che una risorsa di questa rilevanza - per molti versi la più ardita nel panorama dell’ingegneria politica dal ’48 a oggi - riceve la sua prima legittimazione dal crescente rifiuto, nel Paese, delle forme liturgiche, e della loro sostanza compromissoria, cui troppe volte ricorre il potere oltre il lecito e l’accettabile.

Vede con chiarezza la realtà chi denuncia, come ha fatto risolutamente D'Alema, il crescente distacco della cittadinanza dai partiti, causato non solo dal loro diminuito prestigio, ma anche dall'impressione che, così andando le cose, stiano avviandosi verso una lenta, ma ineluttabile deriva. Voglio sottolinearlo perché è una questione urgente il doversi persuadere che non c'è mai tanto bisogno di politica come quando essa stessa sembra autorizzarci a voltarle le spalle.

Qualche esempio? Non foss'altro per avere permesso che una legge elettorale, motivata da ristretti e contingenti interessi di parte - cioè per creare il massimo di difficoltà nel governo del Paese al centro-sinistra, di cui si prevedeva la vittoria - rendesse pericolosamente labile il rapporto degli elettori con le istituzioni, e facendo del Parlamento, cardine del nostro ordinamento costituzionale, un'assemblea di rappresentanti scelti in modo fiduciario e autoreferenziale dai partiti; senz'altra possibilità, per il cittadino, che quella di votare la lista nel suo insieme, il massimo della conservazione partitocratica all'interno del bipolarismo, cioè in spregio del sistema che doveva superarla. Ma si stenta a capire anche altro: per esempio come il centro-sinistra, tornato al governo seppure con il noto margine di precarietà, non pensasse di dover affrontare, per far coincidere sintesi e coesione, la prospettiva di qualche malessere, non certo una sorta di obbligato cuci, scuci e ricuci che aggrava le difficoltà di una tra le esperienze più ardue cui l'inventiva politica abbia messo mano in sessant'anni di democrazia repubblicana.

Non nascondiamoci che i primi a doversene dolere sono i Ds, un partito orientato, nella sua grande maggioranza, a non volersi dare altri aggettivi che quello, comprensibile a tutti, di «democratico». Un aggettivo dalla trasparenza pari solo all'orgoglio con cui dichiara una vocazione autenticamente riformista; perché il riformismo, lungi dall'essere una terapia parziale e indolore, qualcosa di omeopatico, rappresenta la sola politica concreta cioè possibile, moderna cioè giovane, innovatrice cioè di sinistra, che una visione progressista possa concepire e proporre a un Paese sempre più deluso e disincantato.

Il progetto è chiaro: rilanciare un vincolo elettorale che, strappando i partiti al rischio incombente del ristagno in remore identitarie e strategie egoistiche, entrambe vischiose e logoranti, crei la premessa per una politica fortemente innovativa. È il modo attuale di conseguire quella «trasformazione democratica della società» di cui parlò Gramsci e che - in contesti, forme e accenti diversi - uomini altrettanto realisti ed esigenti, per esempio Gobetti e Di Vittorio, Nenni e Dossetti, Moro e Berlinguer, videro come un traguardo lontano, ma non eludibile. Era diventato dunque un obbligo ormai storico stabilire se tre grandi forze - la cultura socialista democratica, cattolica democratica e liberal democratica rappresentassero, o no, tre legittimi presupposti per dar vita a una comune appartenenza ideale e politica, garantita dalla volontà di trasformare una coalizione, da alleanza elettorale di partiti, in un soggetto unitario e federativo, pronto a ricevere contributi che non nascano dal dover creare maggioranze numeriche contingenti, perciò esposte a fenomeni di frazionismo, bensì idonee a gestire flessibilità naturali, cioè compatibili e positive.

Di fronte alla necessità di affrontare una politica corrispondente a un voltar pagina epocale, di cui Cina e India sono le avanguardie più clamorose, e dal carattere non più esotico, è indispensabile definire la condizione reale per condurre a compimento il rifiuto di una politica debole, raramente capace di affrontare, con la previdenza e il realismo dovuti, uno dei suoi più gravi problemi: la difficoltà di cambiare e durare, crescere e durare, rischiare e durare; e che oggi, proprio per questo, vuole garantire al Paese l'approdo a una percezione della storia che non ci attardi ulteriormente.

Certo, non si potranno saltare pezzi di tradizione, di società, di vita politica e sindacale, né fondare le ragioni del cambiamento lasciandoci ammonire, al di là del ragionevole, da esperienze di altri Paesi, estranee, per la loro storia, alla nostra stessa. Non saranno la Germania, la Spagna e la Francia a indicarci le nostre modernizzazionei, ma la consapevolezza di doverci emendare degli errori compiuti, per esempio dando vita a una politica che sappia rispondere al malcontento del Nord e alla delusione del Sud, per affrancarci dai nostri «strabismi ideologici» - come li chiamò Giustino Fortunato - i quali sono «il modo peggiore di guardare in faccia un'unica realtà». I risultati di Genova e Taranto sono fin troppo eloquenti.

Si dirà che non ci si libera da ostinatezze o contraddizioni profonde senza lo sforzo di capire - accettandola sino in fondo - la prova cruciale della tenuta politica intesa anche nel suo aspetto interiore ed etico. Cito solo la lezione dello scenario più drammatico della nostra storia recente, che ebbe al suo centro il sacrificio di Aldo Moro.

Quando s'incontrano porzioni fondamentali di società - come quelle rappresentate da credenti e non credenti, cattolici e laici - c'è dietro un richiamo all'unità che risponde a un comune allarme e a una generale esigenza. Ciò dovrà esprimersi non attraverso cooptazioni reciproche, dettate da stati di necessità o, peggio, da mere convenienze partitiche, ma nella persuasione che all'attacco dell'«antipolitica» o si risponde con una volontà, un progetto e uno strumento condivisi oppure la politica si consegna, da sé, a un rovello e a una deriva in cui il Paese sarebbe indotto a riconoscere solo una confessione d'impotenza. Da qui il dover intercettare, nelle sue forme reali, sofferenze sociali e disagi civili, che reclamano un quadro di certezze e di decisioni guidato, e non subíto, dalla politica. Se ciò non accadesse, temo che ne pagheremmo la conseguenza per un tempo molto lungo.

Chi teme per la politica, dunque, cambi la politica: rifiutarsi, significherebbe abbandonarla al giorno per giorno, cioè alla sua negazione. Ciò che occorre è capire le ragioni e la direzione di un «sentire diffuso» che sta assumendo forme non sempre o soltanto qualunquistiche; nell'idea, insomma, che sia la politica a governare il suo «mutamento», scontandone i prezzi; per quanto ci riguarda, non limitandosi a coltivare la nostra immagine storica, bensì mettendo in campo una grande energia civile e sociale, etica e morale al servizio di un cambiamento, questo sì, radicale. Lo dico includendo nella nostra, fino a ieri, comune appartenenza coloro i quali, persuasi che a sinistra della sinistra debba agire un'altra sinistra, hanno scelto di separarsi.

Magari, lo dico per paradosso, in vista di una successiva «unità» da maturare nel crogiolo dell'ennesima divisione. Mai, comunque, un'ideologia ha conosciuto una parola così alta e così violata come «unità». Anche quando, appena un anno addietro, siamo tornati al governo riconoscendoci in uno sforzo dal quale, non a caso, è scaturita proprio la parola «unione»! E tuttavia abbiamo il dovere civile e politico di tenere aperte le porte alla vicinanza, alla relazione e al dialogo. Su tale esigenza la sinistra, nella sua pur incongrua complessità, non può non aver fatto qualche riflessione.

La «cosa rossa» è segnata non solo dal mancato coinvolgimento popolare in Piazza del Popolo nella giornata romana di Bush, o dalla contrapposizione di «due sinistre» alle amministrative di Taranto, ma anche da ciò che matura nella direzione di quanto si può fare insieme, e per ciò stesso andrà fatto. Nella massima trasparenza.

Va infatti crescendo il numero di coloro che chiedono perché la sinistra ne genera sempre un'altra, perché da quella sorta di matrioska puoi trarne infinite altre, ciascuna figlia di una vicenda inconclusa, come se una storia fondamentale per produrre e consolidare il cambiamento avesse in sorte di dover continuamente «rinnegare» se stessa. Ma se non si accetta l'idea che la struttura sociale, pur conservando anacronistiche e gravi sacche di ritardo, è profondamente mutata, non si afferra il bandolo della realtà nuova. Voler governare con le vecchie regole una mera riaggregazione di forze indebolite dall'insorgere di altri scenari significherebbe dover riflettere sulle ragioni che indussero Gramsci a scrivere dei pericoli rappresentati dalla vischiosità della storia, e riconsiderare il monito di don Milani: «La politica è uscirne insieme!».

Per giunta in un Paese attraversato, sono parole di Amato, dai segni ritornanti di una «follia italiana», cioè dal progetto di screditare la politica con ogni mezzo, magari opponendole un elogio subdolo e strumentale della società civile come «sola» alternativa civico-morale. Cioè unica depositaria del «cuore» nazionale, magari saltando a piè pari quella parte che fa salire a 270 i miliardi annui di evasione fiscale! Va da sé che, per non disperdere il senso, ideale e politico, della questione bisognerà che una nuova prospettiva politica si faccia più chiara e più laboriosa verso il basso, e che una rinnovata «forma partito» non sia un onere e una responsabilità solo dei vertici, ma si misuri con chi esprime il consenso e legittima un potere: il Paese.

Sappiamo quanto sia mutata la natura della storia. Non può non mutare, di conseguenza, il modo di comunicarla e riceverla. Perciò, anche senza dimenticare il passato, per fare un partito capace di una non utopistica unità, occorre avere, e saper suscitare, una passione. La storia di questa passione è qui, in mezzo a noi. Confusa, va detto, tra varie indecisioni, alcune coltivate ad arte, per prendere tempo e, dunque, per perderlo. Se non, addirittura, per prendere altre strade. Ma bisognava credere in ciò che si doveva e si poteva fare e infatti, non senza fatica, si sta facendo. In più, oltre che fragili ci siamo scoperti divisi, e questa è la massima debolezza: ogni volta che ci si separa, da un'altra parte qualcos'altro si mette insieme. I vuoti hanno per destino quello di essere colmati. Qui, lo so bene, le voci della «sinistra di sinistra» sono concordi. Lo dico rispettando, ciascuna con i suoi ideali, le persone che hanno fatto una scelta diversa. E non ne dimentico il valore.

Vorrei citarne, per inciso, una fra tante: Gavino Angius, che per una consuetudine durata un'intera legislatura mi lascia un segno anche personale di separatezza. Va da sé che una nuova sinistra continuerà a trovare nella casa del Pd le ragioni per le quali ci si può scoprire diversi in tanti modi, ma non in quello d'essere del nostro tempo, cioè figli di una più giovane e dinamica democrazia. Se lo si è davvero non vuol dire esserlo per sé, ma per tutti. Sinistra e democrazia, allora, sono tutt'uno. Rifuggo dalla pretesa di trasformare una scelta politica, giusta o sbagliata, in una questione quasi filosofica.

Però quando la distinzione si fa tanto profonda è la politica a doversene far carico, ascoltando le domande che salgono da più parti e predisponendo le risposte per non deludere rinnovate e non più rimandabili speranze.

Non ho in mente una speranza astratta, di quelle che agiscono senza di noi, lontane dalla nostra storia, penso a quella - presente, laica, ragionata - di Elias Canetti, la quale dice: «Certe speranze, quelle di un giallo solare, che non nutriamo per noi stessi, quelle il cui adempimento non deve tornare a nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri (...)quelle speranze bisogna nutrirle, proteggerle, accudirle, quand'anche non dovesse mai giungere il giorno in cui si compiano: perché nessun inganno è altrettanto sacro e da nessun altro inganno dipende la possibilità di non finire sconfitti».

Pubblicato il: 22.06.07
Modificato il: 22.06.07 alle ore 8.33   
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« Ultima modifica: Novembre 14, 2007, 11:56:17 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 14, 2007, 11:55:37 pm »

Generazione senza Muro

Sergio Zavoli


Goffredo Bettini è un intellettuale formatosi con una generazione che porta in se stessa una grande ferita della storia: di fronte ai muri che cadono, per confrontarsi con un’autentica sofferenza sceglie quella di una personalità complessa, di grande ricchezza umana e civile, Pietro Ingrao, un politico di rango, incapace di uscirne con l’abiura, e perciò testimone esemplare di quella ferita. Il dialogo tra Bettini e Ingrao, in cui i conti non si fanno più sul «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» di Montale, è un documento di rara, persino spietata trasparenza. L’epistolario, dunque, è la chiave interpretativa di cose che hanno ancora le radici dentro un’ormai remota, sconfessata passione.

Alla storia politica di entrambi, cioè di Ingrao e di Bettini, sebbene li divida un certo numero d’anni, sono stati tagliati tre rami (Pci, Pds, Ds) e da quelle privazioni è nato, ogni volta, un liberante fattore di conciliazione rispetto alla propria vicenda anche personale. A chiare lettere, in questo senso, ha qualche non casuale assonanza con un altro libro, Memorie di una ragazza del secolo scorso, di Rossana Rossanda. Certo, queste ultime sono pagine più vicine alla temperie vissuta da Ingrao, rispetto a quelle di Bettini, anagraficamente più lontane, ma vi si trovano atmosfere e sentimenti che attraversano esperienze comuni e, al tempo stesso, diverse. Non si tratta, nell’un caso e nell’altro, di ripescare temi annegati nel «mare dell’oggettività», ma di non arrendersi, per dirla con Calvino, al «corso del mondo». È quello che fa Bettini, vivendo una storia cui è toccato, per la velocità del cambiamento, di essere sempre più contemporanea di se stessa.(...)

A chiare lettere affronta il tema scabroso della conversione da uno sbugiardato bigottismo ideologico a un laicismo che chiama in causa il rischio personale, con la sola garanzia della propria non barattabile libertà. È uno dei versanti fondamentali del libro: il mio amico Piero Coda, presidente dei teologi italiani, provocato sul tema delle scelte cruciali della vita, ha scritto: «Il senso tragico dell’esistenza umana sta nella coscienza per noi insuperabile della nostra responsabilità nel realizzare quella forma che la vita ci affida fino al limite della morte». Bettini, qui, a mio avviso tocca un punto alto di condivisione e di responsabilità: non sfugge infatti a una domanda concreta, politica: se cioè tutto ciò che è possibile è per ciò stesso anche lecito. Chiunque di noi sa che proprio nella politica Bettini sta esercitando la sua più intima e razionale compromissione con questo nuovo snodo postogli da una storia non solo sua, ma anche dei cattolici, o di una gran parte di essi. E sono proprio questi i giorni in cui è impegnato a creare una inedita, intelligente condivisione tra persone e cittadini diversi, rispetto al tema proprio della laicità.

Bisognerà disporsi, insomma, a una lettura nuova del rapporto tra Storia e Dio, vale a dire, a chiare lettere, tra questa e un’altra vita. Con una rivisitazione rispettosa e intelligente di regole, deleghe e deroghe che la laicità dovrà affrontare perché Dio non si identifichi solo nelle riserve, nei pregiudizi e nei dinieghi, ma anche nell’accoglienza del nuovo e del buono che permeano l’ecclesia, ma attraversano anche la comunità civile. Non andranno incoraggiate, di conseguenza, le intromettenze della politica, e meno ancora dell’ideologia, nelle questioni generate dal positivismo sperimentale della scienza, con le tecnologie sempre all’erta per cavarne cose, per la verità, non sempre nobili: qui la politica dovrà essere moderatrice e strumento ordinatore di materie che vanno sottoposte a giudizi di valore, con spirito di libertà e di ricerca, ma anche filtrati da codici interiori: a cominciare dalle norme di carattere etico. L’incontro, nel Pd, di due grandi culture, e di altre ancora, tutte fondate sulle rispettive diversità, non saranno, postula Bettini, un problema angustamente identitario, ma l’occasione di un’esperienza condivisa in nome di un progetto aperto, lealmente, a una comune, reciproca e riconosciuta diversità.

Bisognerà inoltre chiedersi se possa o no essere lecito pensare che anche un’etica razionale sia generatrice e portatrice di principi a loro volta ispiratori di altri sistemi valoriali, cioè di altre etiche nelle quali riconoscere - in ragione della pari dignità - diritti e doveri corrispondenti a un delicatissimo interesse di carattere generale; reclamando con ciò un’attenzione più realistica ed equa alle novità straordinarie introdotte dalle conoscenze teoriche, dalle tecnologie sperimentali e, come valore riassuntivo, dalla storia stessa. Bettini non ha, in materia, una duttilità opportunistica: al contrario è per la compromissione più profonda e dialetticamente più creativa. Una novità che, in altri tempi, sarebbe stata una ferma risposta ai dileggi in voga sul cosiddetto catto-comunismo.

Penso a quando, con la sua giovinezza, Goffredo fu in una posizione di singolare rilievo che implicava responsabilità intellettuali e morali riconducibili alla qualità della politica: già nell’80 era membro della direzione del Pci, quella delle grandi icone, e segretario della Federazione romana del partito. Viveva un momento di straordinarie accelerazioni della sua carriera politica, si facevano per lui ipotesi di valorizzazione che andavano al di là dell’osservanza di una tradizione attendista, fondata sulle cosiddette, magari un po’ bigotte, «prudenze illuminate». Già allora Bettini dovette misurarsi, fino a sacrificarne una gran parte, con «il patrimonio accumulato dalla parte dei sentimenti», per citare una bella espressione di Norberto Bobbio. Oggi è qui, con questo libro, approdato a una ricchezza di pensiero, di volontà, di utopia che si affida alla capacità della politica di liberare, non solo di redimere, la sua storia.

Ricordo quando la caduta del muro di Berlino mise in campo la responsabilità, non solo ideologica e politica, del dover prendere atto che un’epoca vista attraverso la Tv non avrebbe potuto, prima o poi, non rivelare un mondo attardato, e poi sconfitto, nelle sue illusioni e dalle sue colpe.

Penso al prezzo che uomini come Bettini, quando lo strappo venne a scadenza, pagarono al dover saldare il conto non solo politico, ma anche civile, culturale, etico delle loro scelte; senza rivalse o rinnegamenti, perché quel che contava non era rivendicare attestati di veggenza o certificare pentimenti, ma condividere la scoperta proprio dell’errore. Spesso, in quegli anni, ci si comportò come se non potesse che succedere quanto stava accadendo, e fossimo condotti per mano dalla televisione a vedere i risultati di una storia che esisteva, per i più, in quanto veniva mostrata; diventando oggetto di curiosità e di sorpresa, anziché essere letta come il frutto dell’agire e della decisione di produrla. Fra tante inquietudini - è detto nelle pagine di Bettini - ci solleva l’idea che non sia andata completamente perduta l’antica saggezza secondo cui c’è da allarmarsi quando la vita ha bisogno di promesse e di impegni straordinari, non quando ci si educa alla normalità, cioè a quella condizione favorevole all’intelligenza che, come nella storia di Ingrao, salva persino la sua lieve malinconia di poeta. (...)

Leggendo queste righe, che appartengono al corpo di riflessioni più inedite, inquiete e coraggiose dell’autore, confesso di avere avuto la sensazione di vivere un mistero, se così posso dire, religioso: quello di una generazione che si è mossa dentro il suo travaglio come i «ladri nella notte», al tempo in cui «il silenzio dei comunisti» era tutt’uno con le meditazioni notturne sul «Dio che è fallito», quando Reichlin, la Mafai e Foa s’interrogavano nel silenzio, rispondendosi con un altro silenzio - ma assordante, pauroso, ultimativo - che prima o poi avrebbe preteso di portare tutto alla luce.

Per parlare «a chiare lettere», come fa Bettini, non più disposti a essere come i cappotti della metafora pirandelliana, quella del maestro che crede di parlare ai suoi scolari, i quali non gli rispondono semplicemente perché sono i loro cappotti: in fila, ordinati e, appunto, silenziosi. Questo libro, in tempi di gravi cecità e strabismi, ha sullo sfondo lo scenario di un’apertura risoluta e incoraggiante, coglie aspetti di netto e forte rilievo umano e politico, civile e culturale. Essere qui a parlarne è segno di qualcosa che va cercando il suo momento; ciascuno lo veda come sa e vuole. Il libro è qui per riportare una grande e tragica storia al grado più alto di consapevolezza e responsabilità, coraggio e passione, perché il titolo dato a queste pagine non si limiti a richiamarle alla nostra attenzione. Per non dover dire, come fu umano tanti anni fa, che volevamo la luna.

Dimenticavo: la dedica del libro è a Walter. A chiare lettere, più che mai.

Il testo è tratto dal discorso che Sergio Zavoli ha tenuto lunedì sera al Teatro Argentina di Roma per la presentazione del libro «A chiare lettere» di Goffredo Bettini



Pubblicato il: 14.11.07
Modificato il: 14.11.07 alle ore 9.08   
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 14, 2008, 12:25:21 am »

Napoli, ultima fermata

Sergio Zavoli


Stiamo assistendo - chi sbigottito, chi indignato, chi persino incline al gusto perverso dell´autolesionismo - a questa sorta di degrado civile cui sono sottoposti Napoli e il suo circondario, sempre più invasi dallo scempio dei rifiuti accumulati sotto gli occhi di mezzo mondo.

Temo che la grande platea elettronica stia votandosi all´idea che una città tra le più belle e amate della Terra abbia per destino quello di essere, al tempo stesso, destinata a un´infrenabile agonia. Un tempo la natura sempre un po´ pericolante della metropoli partenopea veniva assimilata ai disastri naturali, ora è la spazzatura a indicare la forma del suo declino. Non si può dire che l´immagine dell´intero Paese ne esca indenne: nella tv mondiale lo sfacelo ha per titolo l´Italia, con Napoli nel sottotitolo, e sullo sfondo il Sud, un patrimonio per tanti versi grandioso, ma in questi giorni come cancellato dalla voracità del nauseabondo spettacolo.

Ci aveva molto colpito, qualche settimana fa, il giudizio del New York Times sulla nostra presunta infelicità. Eravamo offesi da quella interpretazione a parer nostro sommaria e un po´ malevola dell´Italia, e abbiamo reagito con una quantità di proteste francamente esagerate: mi chiedo, ora, con quale credibile sdegno possiamo rispondere alla denuncia di un´imprevidenza civile che non deturpa solo il volto della Campania, sfigurato com´è anche dalle egoistiche strategie di altre Regioni che hanno disseminato di rifiuti un gran numero di luoghi più o meno vicini a Napoli. È un altro ricorso di quella storia lungo la quale, non solo emblematicamente, «Cristo si è fermato a Eboli», fissando l´esclusione del Mezzogiorno dal resto di una grande vicenda unitaria cui aveva dato generosi e memorabili contributi. Adesso, sulla scia di quest´ultima prova che investe gran parte della società civile e politica della Campania, un tempo detta felix, si chiedono le dimissioni del sindaco di Napoli e del presidente della Regione, eredi e a loro volta imputati di gravi imprevidenze: oggi, per esempio, d´irresponsabilità a proposito degli inceneritori mai costruiti, notoriamente perché contrari alle regole dei fondamentalismi ambientali, da una parte, e agli interessi della criminalità organizzata, dall´altra. Intanto si va in piazza per impedire la riapertura di alcune discariche, una misura certo inquietante, ma la sola cui poter ricorrere, momentaneamente, per ridurre un´emergenza via via più grave. Appendere ai pennoni dell´illuminazione pubblica i simulacri del potere politico locale è un modo incivile di combattere una battaglia di civiltà. E che anche esponenti del governo centrale esprimano un plateale giudizio d´impotenza, quella di prima e di oggi, è una maniera suggestiva e retorica di portare a bollore una pentola a pressione cui, da tempo, è stata chiusa la valvola di sicurezza. Non per eludere le responsabilità recenti, e meno ancora per giustificarle, ma dove sono, e di chi, quelle che hanno permesso il prender piede e l´organizzarsi di un´attività criminale capace di garantirsi, impunemente, un affare di proporzioni colossali? Le impiccagioni dei fantocci, senza volto perché è la forca a dover primeggiare, le difese a oltranza, fino alle barricate, per evitare deboli misure estemporanee e supplenti, le strade bloccate dai maestri d´incendi calati a Pianura con i passamontagna, cioè vestiti da rapinatori, per eccitare - senza poter nascondere gli accenti del Centro e del Nord - i rivoltosi locali, ma anche per assalire i pompieri, triste e inaudito primato, sapendo che le ceneri producono un danno persino più grave, la diossina: ecco le mosche cocchiere dell´antipolitica, con la politica in difesa, disarmata dai sensi di colpa e dall´oggettiva difficoltà di fare ciò che non si è voluto o potuto, a dir poco, negli ultimi quindici anni.

A Napoli e in Campania si tenta di evitare il peggio affidando le misure emergenziali a un uomo di grande serietà ed esperienza, De Gennaro, e chiedendo a tutte le Regioni di prestare aiuto. Ma non si penserà di venire a capo di una crisi di queste proporzioni solo utilizzando l´esercito, provvedendo all´ordine pubblico e appellandosi a una, peraltro stentata, solidarietà nazionale. La politica, tutta, è messa alla prova. E, se fallisse, non resterebbero solo le reprimende del New York Times a descrivere le nostre debolezze: ci meriteremmo ben più delle sue esercitazioni sulla nostra "infelicità". Non a caso proprio uno storico, Nicola Tranfaglia, ci ha ricordato su questo giornale che «la Campania, nel trentennio precedente, era stata la discarica del Nord Italia», e che se «politici e amministratori campani non hanno considerato centrale e urgente la situazione, come si sarebbe dovuto, lo stesso hanno fatto i parlamenti e i governi succedutisi nei quindici anni che stanno per concludersi». Senza dire che alle singole e complessive responsabilità vanno comunque chiamati tutti i commissari responsabili di gestioni incongrue, parziali, persino riluttanti, e quel conglomerato di interessi particolari, spesso malsani, annidato nella rete dei consorzi. Perché, in tanti anni, si è nascosta la realtà? Quanti sanno che la Regione Campania, desolata e utile "cavia" di fronte alla quale si sono bendati anche i poteri nazionali, ogni settimana, da anni, paga mezzo milione di euro i convogli che trasferiscono in Germania i rifiuti, per tornare a pagarli, di ritorno, trasformati in energia? Ci voleva uno storico tra i più reputati per usare un argomento sul quale la politica, fino a oggi, si è comportata come la "gente perbene" quando, di fronte a ciò che reca disdoro, preferisce tacere?

Non meraviglia che quanti vorrebbero sbarazzarsi di questo governo trovino nell´esplosione del dramma campano una circostanza formidabile per scaricargli addosso una quantità di mondezza accumulata, si direbbe, in vista del colpo finale. Nel ‘93, approssimandomi ad assumere la direzione de Il Mattino, mi era stato detto: «Troverai un inferno!». Sapevo che avrei dovuto lavorare in un luogo dove si presentano, di continuo, rovine e successi esemplari. Ricordo che per orientare i giudizi senza cadere nella trappola dei luoghi comuni mi affidai a queste parole di Raffaele La Capria: «Il napoletano deve concludere dentro di sé, e da solo, quell´evoluzione che storicamente è rimasta inconclusa. Deve individuare, come una specie di peccato originale, il punto a partire dal quale tutto si è guastato, e ripartire proprio da quel punto». Lo ha fatto egli stesso, giorni fa, dopo una quindicina d´anni, in un forte articolo sul Corriere della Sera, avendo ritrovato proprio lui quel punto: non soltanto in un pubblico esame di coscienza, ma anche nella rivolta civile e morale per tutto ciò che via via è diventato la iattura del fatalismo come difesa, del compromesso come scorciatoia, del degrado come effetto irresistibile di una malata normalità. Non è più possibile lasciare tutto questo su una brace che si alimenta da sé, senz´altra forza che la pazienza, rassegnata e inerte. E occorre capire partendo da lontano. Napoli ha mancato da secoli le occasioni risolutive; perdute non perché è venuta meno alla Storia, ma in quanto le è mancata una Storia. Intendo dire che le ha perdute perché la sua storia non le ha prodotte. È rimasta sola, con la sua bellezza e la sua intelligenza, la sua cultura e la sua umanità, i suoi saperi e i suoi istinti perché non si è mai potuta misurare con una dimensione - non solo del naturale e del possibile, ma anche e soprattutto del necessario - che avesse in sé gli strumenti per modificarne radicalmente il corso. Sicché tutto si è di continuo accumulato, per dir così, su se stesso. Non è l´allegoria dei rifiuti cresciuti e ingovernati, è il documento di una civiltà che ha lasciato convivere le sue ricchezze con uno dei tassi più alti, al mondo, di invivibilità civica, troppo a lungo sopraffatta dal costume del disservizio e dell´impunità, del disordine e della rinuncia, cominciando dal decadere della storica struttura urbana fino alla macchia recente degli agglomerati brulicanti e negletti. Ai piedi del Vesuvio, per dirne una, è andata disordinatamente crescendo nella più avvilente promiscuità una popolazione dalla densità superiore a quella di Singapore. In una realtà del genere si è presto capito, non solo nel territorio, ma anche in Italia, e persino all´estero, che dalla mondezza si potevano ricavare enormi profitti. E oggi varie forme di teppismo, dal più endemico al più quotidiano e opportunistico, si incontrano sullo stesso fronte.

Di tutte le "leggi speciali" - se n´è perduto il conto - nessuna ha affrontato efficacemente questo problema. Si tende insomma a trascurare che, come e più di tutto il Mezzogiorno, Napoli ha vissuto una meta-storia; e non a caso ha ancora fortuna una lettura del suo cammino incentrata sull´antropologia, la scienza rivolta al massimo dell´immutabile. Sìcché, ogni cosa che vediamo di Napoli, e in genere del Sud, è come un corpo sempre ferito. Ecco perché, qui, molto è passato per la sconfitta, la delusione e la resa. Troppo, per potersi dare non solo le occasioni, ma anche l´animo, di chi vince. Lo stesso criterio dell´assistenzialismo, con il quale si è inteso portare effimero sollievo a ogni esigenza, parla da sé: non si cura una società elargendo sussidi quasi sempre interessati, cioè strumentali e ricattatori. Così, molto è fallito. Una società ricchissima di valori umani e culturali - quella, per paradosso, che ha vissuto con più intensità il fragile illuminismo italiano - abbandonata a tre povertà, emarginazione, degrado, lotta per la sopravvivenza, mai sanate alla radice, bensì lenite e perpetuate attraverso gli interventi straordinari, le clientele e il "voto di scambio" - non poteva non smarrire una strada fondamentale del suo cammino. Oggi, per trovarla, ci vogliono non parole, magari ad effetto, ma opportunità concrete, stabili e garantite, a cominciare dal lavoro. L´esatto contrario della "strategia dell´evenienza", in cui si alimenta uno stare al mondo tra arreso e scellerato, rinviando all´infinito le soluzioni, e dall´altra la forsennata pretesa di disfarsi di un terzo del Paese facendo un solo falò delle grandezze e delle colpe, del vero e del falso, dello strumentale e del legittimo. Occorre non travestire i fatti, ridurli a dei manichini e appenderli ai lampioni, come ha provveduto una bravata vile e teppistica, ma avere il coraggio di mettere tutto a nudo. E di chiamare a dar conto tutti i responsabili, non questo o quello. Anche a Napoli la storia siamo noi, il primo soggetto, e il solo garante, della democrazia. Non sarà possibile prender tempo se vorremo restituire al Paese, non soltanto a Napoli e alla Campania, la certezza dei diritti e dei doveri sanciti da una Costituzione - segno altissimo di libertà e unità - della quale stiamo per celebrare un consapevole anniversario.

Pubblicato il: 13.01.08
Modificato il: 13.01.08 alle ore 15.41   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 03, 2008, 12:27:49 pm »

Fratelli d’Italia o grande fratello

Sergio Zavoli


All’ennesima bagarre sull’inno di Mameli, risuonata anche in Parlamento con le stonature in cui continua a cadere chi si ostina a dileggiare musica e versi in verità non esaltanti, ma pur sempre del nostro canto nazionale, Giorgio Napolitano è sceso risolutamente in campo contro le ingiurie rivolte ai simboli della Repubblica.

Al pari di Carlo Azeglio Ciampi, attento difensore della laica sacralità dell’inno e del tricolore e di Oscar Luigi Scalfaro, severo paladino della Carta costituzionale, Napolitano esprime una pedagogia civile in cui la riscoperta dell’italianità si lega all’idea di un patria indivisa, socialmente, civilmente e culturalmente solidale.

Osservare l’invito del Partito democratico ad aprire e chiudere la Festa dell’Unità al canto dell’inno nazionale, e ricondurre l’attenzione degli italiani al significato delle parole «Fratelli d’Italia» - come ha fatto una documentatissima pagina dell’Unità, a firma di Vittorio Emiliani - non significa soltanto rendere onore al poeta che morì a ventitré anni per le ferite riportate combattendo sul Gianicolo in difesa della Repubblica romana, ma rinnovare la scelta di un simbolo che esprime tutto il Paese. All’essenzialità del già detto, vorrei aggiungere qualche rigo proprio sulle parole di quel canto controverso e addirittura schernito.

Mameli pensava di dare all’Italia una Marsigliese, cioè un canto di battaglia, ma due storie così distanti erano destinate ad avere accenti diversi; nel nostro, per dirne una, non ricorre nessun incitamento a far scorrere “un sangue impuro”, come nell’inno francese. È vero, nelle prime strofe incontriamo l’elmo di Scipio, poi la Vittoria che «porge la chioma» perché le sia tagliata in segno di soggezione. Un di più di archeologia storica, per il gusto d’oggi, e non fa meraviglia che ci sia stata, e perduri, qualche riluttanza a cantare un testo bisognoso di appropriate spiegazioni: che Scipio, per esempio, cioè Scipione, ricorda la gloria guerriera di Roma antica, e così la “coorte”, famosa unità militare di quel tempo. Solitamente, non si va oltre la prima strofa, sacrificando così il dolente e pur vigoroso «noi siamo da secoli / calpesti e derisi / perché non siam popolo / perché siam divisi / Raccolgaci un’unica / bandiera, una speme!». E ancora, a sostegno di quella speranza, «Uniamoci, uniamoci / l’unione e l’amore insegnano ai popoli / le vie del Signore ...». Certo, sono versi ridondanti, ispirati da una retorica ottocentesca, ma è l’animo del Risorgimento, candido, generoso e fraterno, che invoca la libertà per tutti i popoli. E che oggi è al centro di una ingenua proposta: quella di ritrovarne l’innocenza perduta trasformando in qualcosa di meno astruso e magniloquente il testo di Goffredo Mameli. Il quale, per giunta, non ne sarebbe l’autore: un vero e proprio plagio consumato ai danni, nientemeno, di un religioso, il padre scolopio Atanasio Canata! Da qui l’idea di cambiare almeno le parole, per renderle più laiche, chiare e avvincenti; tali, comunque, da poterle mandare a memoria, e cantarle evitando i cori, per dir così, a bocca chiusa, non saprei dire se più imbarazzanti e talvolta persino indecenti.

Va da sé che associo l’inno al giovane poeta morto sul Gianicolo, dove è sepolto, combattendo con Garibaldi. Capisco che sia arduo immedesimarsi in parole come «schiava di Roma» - penso all’orrore dei leghisti - ma so anche, e lo si dovrebbe far sapere a scuola, che «Fratelli d’Italia» fu cantato in tutte le insurrezioni del Quarantotto: a Napoli, a Palermo, nelle Cinque Giornate di Milano e quando, a Venezia, Daniele Manin proclamò la Repubblica. Era l’inno dei volontari che andavano a combattere, talché un grande storico della Rivoluzione francese, Jules Michelet, lo chiamò «la Marsigliese degli italiani». Nessuno, suppongo, neanche l’innovatore Sarkozy, si sognerebbe di rendere l’inno dei francesi “politicamente corretto” eliminando l'imbarazzante incitamento, traduco alla meglio, a «formare i battaglioni e marciare perché un sangue impuro abbeveri i nostri solchi!». Parole francamente più truci, e incongrue, del richiamo all’«elmo di Scipio» - cioè di Scipione, il vincitore di Cartagine - definito da un insigne storico militare inglese, Liddell Hart, «più grande di Napoleone», ammirato anche per la sua umanità verso gli sconfitti. Ma un dilemma, e non da poco, rimane: cambiare le parole nel senso di un restyling che intervenga qua e là oppure sostituire radicalmente il testo con un altro da scegliere attraverso un referendum? E a chi affidarne il compito? Al più insigne dei poeti viventi? A un concorso pubblico? Al giudizio di persone variamente rappresentative del patrimonio artistico e culturale, storico e civile del Paese? E chi, in definitiva, si farebbe garante dello “spirito d’italianità” del nuovo testo? Qualche esempio: gli ex presidenti della Repubblica e della Corte Costituzionale? O un solenne, accademico sinedrio arbitrale? Vengono le vertigini solo a parlarne. Certo, l’alternativa è a portata di mano: tenerci l’inno com’è, chiedendo allo Stato, alla politica e alla società civile di guardarsi, semplicemente, allo specchio: siamo sicuri che l’inno di Mameli avrebbe la precedenza su tutto ciò che ci fa sfigurare, in patria e all’estero? E anche accettando che l’autore delle parole sia, come qualcuno ha azzardato, il padre Canata - docente del convento di Carcare nell’entroterra savonese dove il giovane Goffredo si era rifugiato per sottrarsi alla polizia - potremmo mai chiamare il canto nazionale l’«Inno di Canata», cioè di un religioso ancorché imbevuto di spirito patriottico? Forse, per rimettere in onore la nostra immagine, sarebbe più ragionevole affidare alle grandi agenzie del significato - scuola e mass-media in testa a tutte - il suono ancora negletto e timoroso di una parola sola: patria. Tra non molto, di questo passo, ai ragazzi si racconterà che patria era un modo di dire, e non saranno gli inni, neppure quello nazionale, a rinverdirne il senso. L’Italia, d’altronde, è sempre pronta a mettersi in testa qualcosa: se l’è cinta con l’elmo di Scipio, i cappelli di paglia di Firenze, il fez, il casco coloniale, il basco di traverso, la bandana, nei giorni più bui il passamontagna, e sempre avendo l’aria di chiedersi con Mameli, o il Canata, «dov’è la vittoria». Un interrogativo contraddittorio dal momento che l’Italia, finalmente, «s’è desta»! E sia la benvenuta, purché «il vuoto di pria» non venga colmato ricorrendo a un esorcismo in cui confondere idealità e marketing, virtù vere e riciclate, empiti profondi e scoop mediatici, intellighenzia e grandi numeri, Fratelli d’Italia e il Grande Fratello, cioè il nostro vecchio, trabocchevole genio domestico: un’italianità d’accatto, a buon mercato, un tanto al mese, senza impegno. Privi, dal ‘45, di epos popolare, mi augurerei una patria che fosse l’emblema - ma basterebbe il segno - di un’Italia in grado di stimarsi. Idealmente, socialmente e moralmente capace di vivere la cittadinanza in uno spirito di serietà civica, fatta anche di regole e disciplina, condivisione e responsabilità, non solo di euforie e di egoismi. E poiché le parole contano per quello che hanno dentro, e comunicano, anche la più timida e desueta - patria - liberata da ogni ingannevole orpello, lungi dal volerla usare per infiammare storie già tragicamente conosciute, può aiutarci a vivere la cittadinanza al di fuori, e soprattutto al di sopra, delle apatie ideali e delle pigrizie civili. Ma «l’immagine sposta il piano dell’identità e della comunicazione dal livello logico-razionale a quello visivo-emotivo», scrive Aldo Grasso riferendosi alla Tv. Che sia la sola patria rimastaci?

A giudicare anche da come non di rado vi si strapazza il suo inno parrebbe, francamente, di sì.

Pubblicato il: 02.08.08
Modificato il: 02.08.08 alle ore 12.54   
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