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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 31, 2007, 05:15:44 pm » |
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Le fabbriche dimenticate
Oreste Pivetta
Sette morti, uno dietro l’altro, come un rosario. Un’altra tragedia nel calendario nero del lavoro. Mille e più morti in un anno. Sette in una fabbrica soltanto, la TyssenKrupp, che ha un nome pesante da grande industria straniera, qualcosa che sembra giunto da noi a rapinare le nostre vite. È stata la sequenza interminabile, dal 6 dicembre, a impedire che presto tutto venisse dimenticato. Giuseppe Demasi è l’ultimo, dopo Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo e Rosario Rodinò. Aveva ventisei anni, un ragazzo morto all’età in cui molti dei suoi coetanei stanno per lasciare l’università e, magari, non ancora la casa di famiglia.
Nel dolore per quelle morti, c’è anche la scoperta di quel lavoro e di quelle condizioni. Nell’idea di molti la fabbrica è diventata un corpo estraneo, aree dismesse e imprese da “dislocare”, intanto lontano dalle città, poi lontane in chissà quale paese. Cancellando le fabbriche s’è preteso di cancellare alcune parole: sfruttamento, ad esempio.
Parola vecchia, come altre rimpiazzata da un vocabolario fatto di flessibilità e produttività e naturalmente di modernità e competitività, che evidentemente dovrebbero miracolosamente guarirci dall’eterna malattia dei bassi salari, della precarietà, della fatica sporca. Il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, ancora ieri in un’intervista, invitava a discutere di contrattazione aziendale senza «sottolineature demagogiche sui salari più bassi» (dimenticando peraltro che il premio di risultato esiste dal 1993). I sette della TyssenKrupp avevano a loro modo fatto i conti con i «salari più bassi» e senza nessuna demagogia: accettavano in una fabbrica in via di smantellamento gli straordinari per coprire i buchi d’organico, un turno dopo l’altro, con la produttività che sale come vorrebbe appunto Confindustria. «Così si guadagnava bene», raccontava un operaio di Torino e ne sarà stato anche felice. Fino a milleseicento euro al mese. Peccato che i padroni non dicano mai quanto investono per inseguire produttività e competitività. Sono traguardi che si raggiungono anche migliorando le macchine e l’organizzazione, persino ripulendo le stanze dove si lavora. Sul sagrato del Duomo di Torino, dopo i funerali dei primi quattro caduti, ci è capitato di sentire un anziano operaio lamentare con altri anziani operai anche questo: quanto fossero sporchi di unto e grasso quei locali della TyssenKrupp.
A Torino ne sono morti sette in una sola fabbrica. In Italia ne sono morti mille in tante fabbriche e in tanti cantieri. Alla fine le cause della strage sono sempre le stesse. Si muore cadendo da una impalcatura o schiacciati da una lama d’acciaio che crolla da un gru, se un cavo si spezza. O bruciati se un tubo si buca. Torino e TyssenKrupp diventeranno un luogo nella memoria nazionale, non si può dire quanto condivisa però. Come Marcinelle, la tragedia dell’Italia dei migranti, quando in una miniera di carbone mezzo secolo fa morirono 262 minatori, 136 italiani. Come Mattmark, in Svizzera, quasi dieci anni dopo, quando una valanga d’estate travolse le baracche dei muratori che stavano costruendo una diga sopra Saas Fee: cento morti, la metà italiani. O come, di recente, un decennio fa, Ravenna: tredici bruciarono nel fuoco del serbatoio di una nave che stavano ripulendo. E poi ci sono i morti, avvelenati lentamente, dai fumi o dalle scorie che penetrano nei polmoni, al Petrolchimico o all’Eternit. Nella tragica incultura di questo paese, anche l’indifferenza trova il suo posto.
Ci sarà una fine? Si può promettere tutto. Ma è difficile per chiunque promettere una fine. Quarant’anni fa, e torniamo ai nostri Sessanta, quando ancora le fabbriche producevano e quando ancora non si usava “dismissioni”, forse tirava un’aria diversa: la bandiera dei diritti sventolava anche per la salute nel lavoro e per la sicurezza nel lavoro. Poi le crisi ripetute spensero poco alla volta quelle tensioni e un’inversione culturale sembra abbia spento anche la voglia di battersi per i propri diritti. La vicenda di Torino, accanto alle lacrime, alla solidarietà, alla protesta, ci lascia una lezione: si possono pretendere dai padroni accordi più favorevoli, si può chiedere allo Stato più forza nei controlli, più efficacia nelle leggi, più rigore nelle sanzioni, però c’è il rischio che comunque qualcosa o molto sfuggano e si aprano varchi che lasciano morti: come spiegano la TyssenKrupp o i tanti cantieri del subappalto e del lavoro nero. Alla fine i lavoratori devono “contare” su se stessi, sulla propria voglia di cambiare le cose, ripristinando la loro scala dei valori: prima viene la vita (e magari una vita decente), poi viene la produttività e chi può impedirci di credere che una vita decente sia una delle prime ragioni di produttività. Sapendo di poter “contare” se c’è unità, se c’è un sindacato forte e forte in ogni luogo di lavoro, sindacato dentro l’azienda, di reparto in reparto.
Pubblicato il: 31.12.07 Modificato il: 31.12.07 alle ore 6.35 © l'Unità.
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