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Autore Discussione: L'indubbio coraggio di Benazir era venato di fanatismo.  (Letto 2236 volte)
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« inserito:: Dicembre 30, 2007, 04:41:21 pm »

Possedeva una dose straordinaria di coraggio fisico

La «figlia del destino» e il suo tragico errore: aver creduto ai talebani

L'indubbio coraggio di Benazir era venato di fanatismo.

Ostentava sempre la stessa disinvoltura priva di ironia


Anche i suoi critici più severi non potranno negare che Benazir Bhutto possedesse una dose straordinaria di coraggio fisico. Quando suo padre, nel 1979, era in carcere con una condanna a morte comminatagli dalla dittatura militare pakistana, mentre altri membri della sua famiglia cercavano di fuggire dal Paese, lei audacemente vi ritornò. In quella circostanza, il conflitto con il brutale generale Zia-ul-Haq le costò cinque anni di vita, passati in prigione. Lei sembrò limitarsi ad un atteggiamento sdegnoso verso quell'esperienza, così come verso il piccolo, perfido uomo che gliel'aveva inflitta.

Nel 1985, Benazir vide uno dei suoi fratelli, Shahnawaz, morire in circostanze misteriose nel sud della Francia, e nel 1996 l'altro, Mir Murtaza, colpito a morte da poliziotti in divisa davanti alla casa di famiglia a Karachi. Fu a quel famoso indirizzo — 70 Clifton Road — che andai a incontrarla nel novembre del 1988, nell'ultima sera della campagna elettorale, e scoprii di persona quanto fosse coraggiosa. Mettendosi al volante di una jeep, senza curarsi di farsi accompagnare dalle guardie del corpo, partì con me per un giro da brivido dei quartieri poveri di Karachi. Ogni tanto scendeva dalla jeep, saliva sul tetto con un megafono e arringava la folla che premeva intorno alla macchina, fino quasi a rovesciarla. Il giorno dopo, il suo Partito del Popolo Pakistano (PPP) ottenne una vittoria schiacciante, che la portò ad essere, a 35 anni, la prima donna eletta alla guida di un Paese musulmano. Il suo mandato si concluse — come il successivo, iniziato nel 1993 e durato tre anni — con uno spiacevole miscuglio di accuse di corruzione e di intrighi politici, che la condusse a un esilio dorato in Dubai. Ma capì che l'esilio avrebbe significato per lei la morte politica. Come altri due importanti politici asiatici, Benigno Aquino nelle Filippine e Kim Daejung nella Corea del Sud, decise che era importante correre il rischio di ritornare a casa. E ora se ne è andata, sapendo che poteva succederle, come era successo ad Aquino.

Chi sarà stato? È grottesco, ovviamente, che questo assassinio abbia avuto luogo a Rawalpindi, presidio dell'élite militare pakistana e sede del Flashman's Hotel. È come se Benazir Bhutto fosse stata uccisa durante una visita a West Point o alla base dei marines di Quantico in Virginia. Ma, cercando di capire a chi giovi questa morte, è difficile pensare al generale Pervez Musharraf, attuale leader del Paese. Il colpevole più probabile è l'asse Al Qaeda/talebani, forse con qualche aiuto da parte dei molti simpatizzanti più o meno nascosti nei servizi di intelligence pakistani. Queste erano le persone su cui la Bhutto aveva puntato il dito dopo la devastante bomba che il 18 ottobre aveva colpito il corteo di chi le dava il bentornato in patria. Benazir Bhutto avrebbe avuto buone possibilità di conoscere questi legami, perché quando era primo ministro aveva perseguito una intensa politica pro-talebani, volta a estendere e radicare il controllo del Pakistan sull'Afghanistan e a dare al suo Paese una maggior portata strategica nel lungo conflitto con l'India per il Kashmir.

Il fatto è che l'indubbio coraggio di Benazir era venato di fanatismo. Nessun'altra donna in politica nella storia moderna ha avuto un simile complesso di Elettra, era interamente votata alla memoria del padre giustiziato, l'affascinante — e privo di scrupoli — Zulfikar Ali Bhutto, ex primo ministro che una volta aveva asserito che il popolo pakistano avrebbe mangiato erba piuttosto che abbandonare la lotta per ottenere un'arma nucleare. Socialista di nome, Zulfikar Bhutto era un opportunista autocratico, e questa tradizione di famiglia è stata ripresa dal PPP, un partito apparentemente populista che non ha mai tenuto delle vere elezioni interne, e di fatto era una proprietà della famiglia Bhutto, come molte altre cose in Pakistan.

«Figlia del destino» è il titolo dato da Benazir Bhutto alla sua autobiografia. Ostentava sempre la stessa disinvoltura priva di ironia. Con quale grazia mi ha mentito, ricordo, e con che sguardo fermo degli occhi color topazio, sul fatto che il programma nucleare del Pakistan fosse esclusivamente pacifico e per usi civili. Come sembrava sempre reagire con giustificata indignazione, quando le venivano rivolte domande spiacevoli sulle accuse di corruzione che erano state mosse a lei e al marito playboy, Asif Ali Zardari. (Su questo argomento, la giustizia svizzera si è recentemente pronunciata a suo sfavore). E ora le due principali eredità dei governi Bhutto — le armi nucleari e gli islamisti divenuti più forti — sono più vicine tra loro. Ma il suo assassinio è un vero disastro.

 Ci sono ragioni per credere che avesse sinceramente cambiato idea, almeno sui talebani e Al Qaeda, e che fosse disposta a contribuire alla battaglia contro di loro. A quanto si dice, aveva interrotto ogni rapporto con il discusso marito. Stava accettando il fatto che vi fosse un collegamento tra la mancanza di democrazia in Pakistan e l'ascesa del fanatismo manipolato dai mullah. Tra coloro che si preparavano a presentarsi alle prossime, tormentate, elezioni, era il solo candidato con un seguito di massa che potesse opporsi alle sirene fondamentaliste. E fino alla fine si è mossa trascurando il problema della sua «protezione», senza curarsi della propria incolumità. Questo coraggio a volte sarebbe stato degno di miglior causa, e molti dei problemi che la Bhutto affermava di voler risolvere erano in parte attribuibili a lei. Nonostante ciò, è stata in qualche modo una figlia del destino.

© Christopher Hitchens
Distribuito da The New York Times Syndicate
(Traduzione di Maria Sepa)
30 dicembre 2007

da corriere.it
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