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Autore Discussione: Gustavo Adolfo ROL - “L'illuminato” -  (Letto 2374 volte)
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« inserito:: Giugno 02, 2021, 10:19:31 pm »

RIFLESSIONI SUL SIGNIFICATO DELLA VITA E DELLA MORTE

SONIA ZUIN
2 Giugno 2021

Il tema dell’impredicibilità del futuro è probabilmente la questione irrisolta nella vita di molte persone. È così vasto e con implicazioni così profonde che, soprattutto nella cultura occidentale, tendiamo tipicamente ad adottare la strategia difensiva di relegarlo nell’oblio; dimentichiamo, o meglio facciamo finta di dimenticare, quello che non riusciamo a comprendere e ad affrontare perché di fronte alle grandi domande, prima fra tutte la durata della nostra vita, il più delle volte non abbiamo risposte valide, rimanendo con una sensazione di angoscia e smarrimento. Se non siamo anziani e se siamo in (supposta) buona salute, la nostra mente automaticamente proietta nel futuro scenari speculari al passato prossimo appena trascorso, apportando i dovuti ritocchi in base allo stato d’animo in cui ci troviamo e alle vicende che abbiamo alle spalle. L’immaginazione del futuro, intesa come bisogno primario di far luce, con la torcia della nostra fantasia, nel buio più impenetrabile dei giorni che abbiamo immediatamente davanti a noi, è anche fortemente condizionata dalla nostra attitudine a essere ottimisti o pessimisti: indipendentemente infatti dagli accadimenti recenti, se abbiamo una mentalità positiva tenderemo a immaginare, o quanto meno a sperare, in un futuro migliore rispetto al presente e all’immediato passato; viceversa nel caso di un approccio alla vita prevalentemente pessimista.

A volte capita però che un evento inaspettato faccia dissolvere istantaneamente le nostre proiezioni immaginifiche: tipicamente la comunicazione di una malattia importante, o anche solamente l’ipotesi di poter essere seriamente malati. Ecco svanire quello che pensavamo essere il nostro ragionevole futuro, rimanendo a mani vuote e spesso con scarse risorse; capiamo che abbiamo vissuto lunghi anni senza porci il problema e questo ci rende vulnerabili.

È evidente che il tema della fede è imprescindibile, perché una profonda e sincera spiritualità in genere aiuta a riempire il vuoto esistenziale che ci assale quando dobbiamo affrontare questi argomenti. Io non sono atea, ma non sono né praticante, né vicina a una particolare religione. Credo però che si possa seguire un percorso interiore laico che ci permetta di affrontare il tema del significato e del valore della vita e della morte con una certa serenità.

Nelle mie riflessioni ho capito che non ci si può interrogare sulla morte se non abbiamo prima affrontato il tema di quello che c’è prima: la vita. Esattamente come l’aria che respiriamo, la diamo per scontata per il fatto che tutti noi abbiamo vissuto lunghi anni, dall’istante in cui nasciamo a quello in cui incominciamo ad avere coscienza di noi stessi, senza essere consapevoli di essere vivi e senza percepirci e rappresentarci mentalmente come una realtà fisica e psichica indipendente dagli atri esseri viventi. Questa autoconsapevolezza estrema, tipica della nostra specie, è stata probabilmente indispensabile alla nostra incredibile crescita culturale, ma ci può indurre una sensazione di alienazione dal mondo, di solitudine, anche di angoscia, che spesso cerchiamo di sopperire rifugiandoci nell’oblio di una vita sociale a volte un po’ troppo superficiale.

Penso che un grosso sbaglio fatto da tante persone sia quello di considerare la vita come una nostra proprietà, come un bene di cui inconsciamente riteniamo di avere diritto. Dato che è normale pensare che ci viene fatto un torto quando qualcuno ci sottrae quello che ci appartiene legittimamente, l’idea che la vita sia un nostro diritto non ci permette di affrontare il tema della morte con sufficiente distacco e serenità. Provate allora a immaginare la vita come se fosse un dono, concetto che nelle mie lontane reminiscenze del catechismo ho sentito varie volte, ma che non avevo mai compreso veramente: un dono è qualcosa che riceviamo e di cui dobbiamo essere grati, è qualcosa che abbiamo non per nostro diritto, ma per volere di qualcun altro. È qualcosa da cui dovremmo essere gratificati fintanto che l’abbiamo. Sappiamo infatti che la vita è un dono molto particolare perché un giorno lo dovremo restituire. O forse restituire non è la parola più adatta perché la vita non è un oggetto. Meglio sarebbe dire: cedere, passare a qualcun altro. Lungi da me affrontare il tema della reincarnazione, ma solo introdurre l’altro grande tema di questa mia riflessione: il rapporto tra l’uomo e la società. Esattamente come l’aria e la vita, anche la società è data per scontata per lo stesso identico motivo della vita: esiste e interagiamo inconsapevolmente con essa da quando nasciamo e durante tutto il lungo periodo in cui viviamo senza avere coscienza di noi stessi. Questo meccanismo di usufruire inconsapevolmente di beni preziosi, dandoli per scontati, è proprio una fregatura perché non ci permette di dar loro il giusto valore. Forse nell’ultimo anno la pandemia e la conseguente segregazione sociale ci ha fatto capire quanto sia importante il nostro mondo di relazioni sociali, quanto sia cruciale l’appartenenza a una comunità che però, spesso, tante persone si arrogano il diritto di depredare.

Proviamo allora a immaginare la vita come se fosse una staffetta che corriamo tutti insieme, ognuno con il proprio passo e in base alle proprie capacità. Ma rimanendo insieme. E possibilmente aiutandosi l’un l’altro ad andare avanti. Dove? Non lo sappiamo se si rimane nell’ambito di un approccio laico alla vita, mentre le religioni ci dicono qual è la destinazione e anche il motivo. Ma non importa, non è a mio avviso fondamentale sapere dove stiamo andando e perché siamo in cammino. È infatti un dato di fatto che l’istinto più forte che abbiamo è quello di camminare, di andare avanti, di fare ogni momento un passo avanti anche quando la nostra strada è in salita e facciamo fatica. E a volte di fatica ne facciamo veramente tanta. Ecco che, in questo scenario basato sulla condivisione, la morte incomincia a fare meno paura perché l’angoscia del fine vita deriva a mio avviso soprattutto dall’idea della perdita di un diritto acquisito e dalla corrispondente solitudine che comporta questa impostazione mentale. Come se ci chiudessimo nella nostra stanza con in mano il nostro bottino (la vita) che teniamo saldamente in mano: l’idea che qualcuno possa sottrarcelo è inaccettabile anche perché ci fa capire che in quella stanza eravamo soli.

L’immagine della staffetta mette invece in relazione noi e gli altri e sposta il focus dal nostro io al contributo che abbiamo dato, non dico a tutta la moltitudine di persone che sono in cammino, ma almeno a quelle con cui abbiamo relazioni strette. Quelle che ci hanno aiutato quando avevamo i piedi doloranti e quelle che, a nostra volta, abbiamo sostenuto. Il fine vita fa molta meno paura se abbiamo la consapevolezza che, tutto sommato, abbiamo costruito qualcosa, che stiamo lasciando in ordine quello che abbiamo fatto. Sta a noi, con le nostre scelte quotidiane, fare in modo che il nostro cammino non sia solamente una sequenza di passi che facciamo perché l’istinto ci fa mettere ineluttabilmente un piede avanti all’altro, ma un percorso di cui possiamo essere soddisfatti e orgogliosi quando decidiamo di rallentare un attimo per guardarci indietro e valutare il senso della strada percorsa.

Da - https://www.glistatigenerali.com/societa-societa/riflessioni-sul-significato-della-vita-e-della-morte/
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 08, 2021, 04:36:48 pm »

Seid cosa dirti, oggi?

Siamo in ritardo per dirti qualsiasi cosa, ma il solo silenzio non basta.

Allora aggiungiamo, molti di noi concordano con ciò che hai scritto, molti di noi conoscono la situazione che descrivi, che non è razzismo ma soltanto cattiveria, suscitata da elementi che sappiamo bene perché hanno diffuso il Male.

Per questo non dovevi andartene ma cercarci meglio e di più.
ciaooo   
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 17, 2021, 10:54:28 am »

Gustavo Adolfo Rol

Ogni tanto vale la pena ribadire chi fosse Rol, sia per quelli che lo hanno appena conosciuto, sia per giornalisti, testimoni e disinformati che ancora non lo hanno inquadrato nel modo corretto, o che si ostinano a definirlo secondo criteri personali superficiali. Rol era un "illuminato" (ovvero, che ha raggiunto l'illuminazione), e questo lo ha confermato lui stesso post mortem in un prodigio che riproponiamo, raccontato da Chiara Barbieri:

«Correva l’anno 1999. Io ho studiato teologia e avrei voluto scrivere ed approfondire con l’abate della Novalesa – dove ho restaurato per 4 anni pergamene antiche e luogo che per i miei studi tutt’ora frequento – un libro sulle mistiche medievali, davvero grandi figure di donne.
Così avevo ordinato in libreria il commentario alla regola di San Benedetto scritto e commentato da Ildegarda di Bingen.
Questo libro non arrivava mai. Finalmente nel febbraio 1999 mi chiamano per dirmi che era arrivato. Vado a ritirarlo e trovo tutta la libreria tappezzata con la copertina del libro di Maria Luisa Giordano "Rol mi parla ancora". Mi sono detta che certamente questo era un segno e che avrei dovuto acquistare anche quel libro.
Io avevo frequentato il dottor Rol per circa 20 anni e mi era davvero rimasto nella mente e nel cuore. Erano passati 5 anni dalla sua morte, ogni tanto pensavo a lui anche se non tanto quanto ora che è onnipresente nella mia vita.
Dopo aver acquistato il libro della signora Giordano sono andata a riprendermi il primo libro che lei aveva scritto su Rol e con sorpresa – ma parlo di una sorpresa scontata perché’ chi ha conosciuto Rol non si sorprende più di tanto – ho trovato scritto a matita sulla prima pagina il numero di telefono della Giordano, che io non avevo mai posseduto e con la quale non avevo mai parlato in vita mia.
Feci il numero, mi presentai e raccontai che mi ero trovata scritto il suo numero di telefono e che pertanto avevo ritenuto di chiamarla perché ero convinta che il dottor Rol volesse questo. Le dissi anche che io ero sempre rimasta un po’ titubante sui poteri del dottore e di avere in contemporanea nutrito per lui ammirazione mista a timore ed una vera e propria paura. Infatti, lui mi aveva più volte invitata a casa sua, ma io proprio per paura avevo sempre declinato l’invito; la comparsa di quel numero di telefono scritto a matita mi era parsa una sollecitazione a contattarla ed aggiunsi che anche tutto questo in un certo senso mi faceva di nuovo un po’ paura. La signora Giordano mi tranquillizzò e mi invitò a leggere il suo libro che mi avrebbe fatto passare ogni timore.
Premetto che un giorno d’inizio estate, ma circa 10 anni prima [nel 1989 ca.], io ero come al solito a pranzo al ristorante La Pace di via Galliari dove anche il dottor Rol era solito cenare ogni giorno e mentre mangiavo avevo chiesto ad Agnese, la padrona del locale, come mai da alcuni giorni Rol non si fosse più fatto vedere. Lei mi disse che quasi certamente era già partito con la moglie per Mentone. Pochi istanti dopo comparve Rol vestito con un lungo impermeabile color cachi ed un cappellone in mano perché fuori stava piovendo. Allora io gli dissi: “Non è ancora partito per le vacanze?” lui mi guardò, sorrise e poi puntò il suo famoso indice verso di me dicendomi: “Pagina 47 quarta riga terza parola…ca’ lesa fort! (legga forte...)” Io lo guardai e gli chiesi dove dovevo leggere, e lui mi disse: “Ma nel suo libro, no?” Quella mattina io mi ero comperata un libro ma in quel momento me ne ero completamente dimenticata. Ce l’avevo ancora incellofanato dentro la borsa mi affrettai ad aprirlo ed alle sue precise indicazioni trovai scritto e lessi forte la parola “venerdì”. Lui allora si mise a ridere e disse: “Vede? Parto venerdì”. Io rimasi di stucco, e non riuscii mai più a dimenticare quel “pagina 47 quarta riga terza parola”. Quando terminai dunque di leggere il nuovo libro della signora Giordano molto stranamente pioveva come quel giorno al ristorante di tanti anni prima ed appena chiusi il libro mi apparve il dottor Rol con il solito impermeabile cachi e il cappellone, e puntandomi contro l’indice mi ripete “Pagina 47 quarta riga terza parola” andai subito a leggere e vi trovai la parola “illuminato”. Ebbene Rol dopo anni e dopo morto dava la risposta a tutti i miei quesiti.

Più volte, infatti, gli avevo chiesto di dirmi “chi” fosse realmente lui ed ora dopo 5 anni dalla sua morte mi aveva risposto!».
(tratto da: Franco Rol, "L'Uomo dell'Impossibile", Vol. I, 2015 (3a ed.), pp. 196-197)

Da Facebook del 15 giugno 2021
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 19, 2021, 11:37:35 pm »


Io, da Agnostico, non intendo affatto spegnere il sentimento del vivere nel mistero della Conoscenza, anzi è una continua ricerca, delusa ma dagli esseri umani, non da Dio.

Con l'Uomo-Dio Gesù vicino e riconoscibile, qui sulla Terra, potrei azzardare e chiedere a DIO: “Padre perché ci hai abbandonato”.

Ma immagino una risposta possibile “Vi ho mandato mio Figlio e l’avete ucciso, continuando a vivere nel Male, come se nulla fosse accaduto, cosa volete d’altro”.

Quindi taccio ma in piedi, non in ginocchio, finché l’età e la speranza in Dio me lo permetteranno.
ciaooo

 
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