RIFLESSIONI SUL SIGNIFICATO DELLA VITA E DELLA MORTE
SONIA ZUIN
2 Giugno 2021
Il tema dell’impredicibilità del futuro è probabilmente la questione irrisolta nella vita di molte persone. È così vasto e con implicazioni così profonde che, soprattutto nella cultura occidentale, tendiamo tipicamente ad adottare la strategia difensiva di relegarlo nell’oblio; dimentichiamo, o meglio facciamo finta di dimenticare, quello che non riusciamo a comprendere e ad affrontare perché di fronte alle grandi domande, prima fra tutte la durata della nostra vita, il più delle volte non abbiamo risposte valide, rimanendo con una sensazione di angoscia e smarrimento. Se non siamo anziani e se siamo in (supposta) buona salute, la nostra mente automaticamente proietta nel futuro scenari speculari al passato prossimo appena trascorso, apportando i dovuti ritocchi in base allo stato d’animo in cui ci troviamo e alle vicende che abbiamo alle spalle. L’immaginazione del futuro, intesa come bisogno primario di far luce, con la torcia della nostra fantasia, nel buio più impenetrabile dei giorni che abbiamo immediatamente davanti a noi, è anche fortemente condizionata dalla nostra attitudine a essere ottimisti o pessimisti: indipendentemente infatti dagli accadimenti recenti, se abbiamo una mentalità positiva tenderemo a immaginare, o quanto meno a sperare, in un futuro migliore rispetto al presente e all’immediato passato; viceversa nel caso di un approccio alla vita prevalentemente pessimista.
A volte capita però che un evento inaspettato faccia dissolvere istantaneamente le nostre proiezioni immaginifiche: tipicamente la comunicazione di una malattia importante, o anche solamente l’ipotesi di poter essere seriamente malati. Ecco svanire quello che pensavamo essere il nostro ragionevole futuro, rimanendo a mani vuote e spesso con scarse risorse; capiamo che abbiamo vissuto lunghi anni senza porci il problema e questo ci rende vulnerabili.
È evidente che il tema della fede è imprescindibile, perché una profonda e sincera spiritualità in genere aiuta a riempire il vuoto esistenziale che ci assale quando dobbiamo affrontare questi argomenti. Io non sono atea, ma non sono né praticante, né vicina a una particolare religione. Credo però che si possa seguire un percorso interiore laico che ci permetta di affrontare il tema del significato e del valore della vita e della morte con una certa serenità.
Nelle mie riflessioni ho capito che non ci si può interrogare sulla morte se non abbiamo prima affrontato il tema di quello che c’è prima: la vita. Esattamente come l’aria che respiriamo, la diamo per scontata per il fatto che tutti noi abbiamo vissuto lunghi anni, dall’istante in cui nasciamo a quello in cui incominciamo ad avere coscienza di noi stessi, senza essere consapevoli di essere vivi e senza percepirci e rappresentarci mentalmente come una realtà fisica e psichica indipendente dagli atri esseri viventi. Questa autoconsapevolezza estrema, tipica della nostra specie, è stata probabilmente indispensabile alla nostra incredibile crescita culturale, ma ci può indurre una sensazione di alienazione dal mondo, di solitudine, anche di angoscia, che spesso cerchiamo di sopperire rifugiandoci nell’oblio di una vita sociale a volte un po’ troppo superficiale.
Penso che un grosso sbaglio fatto da tante persone sia quello di considerare la vita come una nostra proprietà, come un bene di cui inconsciamente riteniamo di avere diritto. Dato che è normale pensare che ci viene fatto un torto quando qualcuno ci sottrae quello che ci appartiene legittimamente, l’idea che la vita sia un nostro diritto non ci permette di affrontare il tema della morte con sufficiente distacco e serenità. Provate allora a immaginare la vita come se fosse un dono, concetto che nelle mie lontane reminiscenze del catechismo ho sentito varie volte, ma che non avevo mai compreso veramente: un dono è qualcosa che riceviamo e di cui dobbiamo essere grati, è qualcosa che abbiamo non per nostro diritto, ma per volere di qualcun altro. È qualcosa da cui dovremmo essere gratificati fintanto che l’abbiamo. Sappiamo infatti che la vita è un dono molto particolare perché un giorno lo dovremo restituire. O forse restituire non è la parola più adatta perché la vita non è un oggetto. Meglio sarebbe dire: cedere, passare a qualcun altro. Lungi da me affrontare il tema della reincarnazione, ma solo introdurre l’altro grande tema di questa mia riflessione: il rapporto tra l’uomo e la società. Esattamente come l’aria e la vita, anche la società è data per scontata per lo stesso identico motivo della vita: esiste e interagiamo inconsapevolmente con essa da quando nasciamo e durante tutto il lungo periodo in cui viviamo senza avere coscienza di noi stessi. Questo meccanismo di usufruire inconsapevolmente di beni preziosi, dandoli per scontati, è proprio una fregatura perché non ci permette di dar loro il giusto valore. Forse nell’ultimo anno la pandemia e la conseguente segregazione sociale ci ha fatto capire quanto sia importante il nostro mondo di relazioni sociali, quanto sia cruciale l’appartenenza a una comunità che però, spesso, tante persone si arrogano il diritto di depredare.
Proviamo allora a immaginare la vita come se fosse una staffetta che corriamo tutti insieme, ognuno con il proprio passo e in base alle proprie capacità. Ma rimanendo insieme. E possibilmente aiutandosi l’un l’altro ad andare avanti. Dove? Non lo sappiamo se si rimane nell’ambito di un approccio laico alla vita, mentre le religioni ci dicono qual è la destinazione e anche il motivo. Ma non importa, non è a mio avviso fondamentale sapere dove stiamo andando e perché siamo in cammino. È infatti un dato di fatto che l’istinto più forte che abbiamo è quello di camminare, di andare avanti, di fare ogni momento un passo avanti anche quando la nostra strada è in salita e facciamo fatica. E a volte di fatica ne facciamo veramente tanta. Ecco che, in questo scenario basato sulla condivisione, la morte incomincia a fare meno paura perché l’angoscia del fine vita deriva a mio avviso soprattutto dall’idea della perdita di un diritto acquisito e dalla corrispondente solitudine che comporta questa impostazione mentale. Come se ci chiudessimo nella nostra stanza con in mano il nostro bottino (la vita) che teniamo saldamente in mano: l’idea che qualcuno possa sottrarcelo è inaccettabile anche perché ci fa capire che in quella stanza eravamo soli.
L’immagine della staffetta mette invece in relazione noi e gli altri e sposta il focus dal nostro io al contributo che abbiamo dato, non dico a tutta la moltitudine di persone che sono in cammino, ma almeno a quelle con cui abbiamo relazioni strette. Quelle che ci hanno aiutato quando avevamo i piedi doloranti e quelle che, a nostra volta, abbiamo sostenuto. Il fine vita fa molta meno paura se abbiamo la consapevolezza che, tutto sommato, abbiamo costruito qualcosa, che stiamo lasciando in ordine quello che abbiamo fatto. Sta a noi, con le nostre scelte quotidiane, fare in modo che il nostro cammino non sia solamente una sequenza di passi che facciamo perché l’istinto ci fa mettere ineluttabilmente un piede avanti all’altro, ma un percorso di cui possiamo essere soddisfatti e orgogliosi quando decidiamo di rallentare un attimo per guardarci indietro e valutare il senso della strada percorsa.
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