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Autore Discussione: «Il sindacato rappresenta anche i fannulloni»  (Letto 8581 volte)
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« inserito:: Giugno 22, 2007, 10:45:13 pm »

Sul governo: «Il suo mestiere è creare problemi a imprenditori» «Il sindacato rappresenta anche i fannulloni»

Montezemolo a tutto campo, la frase più dura fa discutere: «Il sindacato rischia di diventare espressione della pubblica amministrazione, dei pensionati e anche di qualche fannullone»   


REGGIO EMILIA - Un attacco durissimo e su più fronti: il sindacato in primo luogo, ma anche governo e opposizione. Il presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo, davanti agli industriali di Reggio Emilia, non ha risparmiato accuse. Ma certamente la frase che farà più discutere è quella sul sindacato, proprio nel giorno del gelo fra il ministro dell'Economia e i sindacati sull'uso del tesoretto e le pensioni. «Le nostre proposte sono più popolari fra i lavoratori che nel sindacato» che ci sembra rischi di «diventare espressione della pubblica amministrazione, dei pensionati e anche di qualche fannullone».

GOVERNO - Ma il numero uno di Confindustria è duro anche con il governo: «C'è una classe di governo che ha come mestiere creare problemi agli imprenditori».
Governo che Montezemolo vede incapace di affrontare i temi della sicurezza: «Non ci sono piaciuti i tempi e i modi in cui si è affrontata la sostituzione dei vertici delle forze dell'ordine» aggiunge il presidente della Fiat, commentando l'avvicendamento ai vertici della Guardia di Finanza e le modalità di decisione di sostituzione del capo della polizia Gianni De Gennaro. «Se la ripresa c'è stata questa dipende fondamentalmente, se non esclusivamente dalle imprese, eppure il paese fa fatica a fare il tifo per le imprese. C'è un'inaccettabile cultura anti industriale» ha aggiunto ancora Montezemolo.

OPPOSIZIONE - A Montezemolo non piace nemmo questa opposizione, in particolare chi ha attegiamenti propagandistici, con un riferimento esplicito alla Lega: «In Italia serve un'opposizione che faccia meno propaganda e abbia un progetto politico. A noi non piace vedere show come quelli delle forze politiche (la Lega nord a Montecitorio ndr) che invadono i banchi del Governo. Quando il centrodestra era al governo - ha aggiunto il presidente di Confindustria - abbiamo sentito tante volte parlare i suoi esponenti del taglio dell'Irap. Non abbiamo visto un euro di Irap tolta. È necessario tagliare la propaganda e avere un progetto politico».

TASSE - Poi Montezemolo è tornato anche sul tema dell'imposizione fiscale: «Le tasse diminuiscono a tre condizioni, la prima è che le paghino tutti, perchè chi non le paga fa concorrenza sleale. La seconda è non pensare a recuperare l'evasione facendo accertamenti solo a quelli che le pagano. La terza, infine, è non fare una politica economica solo con le entrate senza tagliare mai la spesa pubblica. In Italia ci sono 18.000 membri di cda di società pubbliche. Tagliando la loro spesa si potrebbe reperire denaro per investimenti».

PENSIONI - Il presidente di Confindustria tocca successivamente anche il tema della previdenza: «Per quanto riguarda le pensioni, noi diciamo con chiarezza due cose. La prima è che la riforma Dini e la riforma Maroni consentono di raggiungere obiettivi di stabilitá finanziaria del sistema che non possono essere messi in discussione». «La seconda - conclude Montezemolo - è che bisogna guardare a cosa accade negli altri paesi europei: non possiamo essere il paese con la vita media più alta e quello dove si va in pensione prima di tutti gli altri. C'è il rischio che, tra poco più di venti anni, ogni lavoratore debba mantenere un pensionato. non è così che possiamo costruire il nostro futuro».

LA REPLICA DELLA CGIL - Molta irritazione viene espressa dalla Cgil dopo le affermazioni di Montezemolo. Fonti vicine alla segreteria generale definiscono il leader degli industriali, alla luce di quanto detto stasera, «il nuovo capo populista», che tenta di delegittimare il sindacato dopo averci provato con il sistema politico.

22 giugno 2007
 
da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 22, 2007, 10:46:29 pm »

Nodo pensioni: accordo possibile se c'è serietà nelle trattative «Troppe tensioni, Napolitano ha ragione»

Il premier Prodi replica all'allarme lanciato dal capo dello Stato sul declino delle istituzioni italiane.

E su Montezemolo: non rispondo 
 

BRUXELLES (Belgio) - «Le preoccupazioni del Presidente Napolitano sono preoccupazioni serie, già tante volte avevo osservato anch'io con preoccupazione le tensioni esistenti. Mi impegno e mi impegnerò il più possibile per ammorbidire la situazione e creare la possibilità di scambi e di cooperazione che sono sempre necessari per la gestione di un Paese democratico». Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Romano Prodi, rispondendo da Bruxelles alle domande dei giornalisti sull'allarme istituzionale lanciato giovedì dal presidente della Repubblica sullo stato delle istituzioni italiane.

SILENZIO SU MONTEZEMOLO - Pur incalzato dai cronisti, Prodi non ha voluto invece commentare gli attacchi al sindacato e al governo lanciati sempre giovedì dal presidente degli industriali italiani, Luca Cordero di Montezemolo. Alla domanda se avesse intenzione di rispondere al leader di Confindustria il presidente del Consiglio a risposto con un secco «no».

IL NODO PENSIONI - Il capo del governo ha poi affrontato il nodo pensioni. «La trattativa l'ho cominciata, aiutata e costruita - ha evidenziato Prodi -. E spero proprio che la si possa portare a termine». E a chi gli chiedeva se alla fine si troverà un'intesa tra le parti il premier ha risposto: «Dipenderà dalla serietà con cui si lavora».

22 giugno 2007
 
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 22, 2007, 10:47:10 pm »

Critiche anche dal centro.

L'unico d'accordo è Capezzone

La sinistra: Montezemolo è un black bloc

Insorge l'ala più radicale della coalizione di governo.

Giordano: è prigioniero di gabbia di ricchezza, non capisce il mondo del lavoro
 
 
ROMA -L'attacco frontale sferrato dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, contro il governo e contro i sindacati, accusati di tutelare anche i fannulloni, non è piaciuto in particolare all'area della sinistra cosiddetta radicale, ma non soltanto a quella. Le parole del capo degli industriali sono suonate come un affronto al ruolo del sindacato e come un ulteriore tentativo da parte del mondo delle imprese di attaccare il lavoro dipendente e le fasce più deboli della popolazione.

Prodi ha detto di non voler commentare mentre il segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano, non ha dubbi: «Quando si è prigionieri della mondanità e della ricchezza - spiega in un'intervista all'agenzia di stampa Agr - si ha difficoltà a rompere quella gabbia dorata e vedere le vere difficoltà del mondo di lavoro. Ma non tutte le imprese per fortuna la vedono così». Decisamente più duro il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena, che arriva a definire Montezemolo il «black bloc della politica italiana» perché «non perde occasione per cercare di sfasciare tutto». Secondo Russo Spena l'uscita del presidente di Confindustria risponde ad una precisa strategia: «Sfruttare la cosiddetta crisi della politica per esercitare il massimo della pressione ricattatoria e imporre politiche sempre più unilateralmente favorevoli agli interessi delle aziende».

Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che di Rifondazione comunista è espressione, dice di non voler «scivolare in una polemica» ma precisa che fannulloni e lavoratori sono due «termini imparagonabili». Bertinotti ha parlato a margine di una visita alla Syntess di Bollate, nel Milanese. E ha preso spunto proprio dai lavoratori che lo stavano attorniando in quel momento: «Alcuni di questi operai» - ha detto guadagnano 800 euro al mese e vorrei che si riflettesse sullo scarto tra questa retribuzione e la qualità del prodotto, la qualità industriale e la qualità umana e politica di questi lavoratori. È una comunità che vive con orgoglio questa esperienza».

«Il leader di una grande organizzazione quale è Confindustria dovrebbe essere più prudente - è invece l'opinione del senatore Verde, Natale Ripamonti - e pesare le parole con più senso di responsabilità, dal momento che ogni sua affermazione produce effetti nelle relazioni sociali e politiche». Secondo Ripamonti, Montezemolo dimentica che le organizzazioni sindacali «rappresentano il più grande presidio democratico del nostro Paese attraverso i milioni di iscritti tra i lavoratori, i pensionati, le donne e gli immigrati. Bisogna reagire, ognuno dalla sua parte, per impedire che dopo questi attacchi il Paese possa subire un arretramento nel funzionamento delle istituzioni democratiche».

Critiche a Montezemolo sono però arrivate anche dagli ambienti più moderati della coalizione di governo. Il ministro della Giustizia e leader dell'Udeur, Clemente Mastella, ha voluto esprimere «solidarietà al sindacato rispetto a questa sciocca considerazione». «I fannulloni - ha aggiunto - sono ovunque: tra gli imprenditori, tra i politici, tra i sindacalisti e tra i cittadini. Esiste da sempre questa storia di dividere la società politica da quella civile e ritenere quest'ultima migliore».

Persino dall'opposizione si avverte un certo fastidio per le parole di Montezemolo: «Non condividiamo certi giudizi nei confronti dei sindacati - sottolinea il coordinatore di Forza Italia, Sandro Bondi - , perchè anche se non concordiamo con loro su alcuni temi, non esprimeremmo mai giudizi sprezzanti su organizzazioni che sono parte fondante della nostra democrazia».
L'unica voce politica che ha mostrato esplicito apprezzamento per l'intervento di Montezemolo è stato quello di Daniele Capezzone, presidente della commissione Attività produttive della Camera: «ha ragione tre volte: sui sindacati, sul governo e sull'opposizione. Vedo che, evidentemente punti sul vivo, in molti reagiscono nervosamente alle parole del Presidente di Confindustria Montezemolo. Secondo me - prosegue Capezzone - fanno male, perchè i problemi posti da Montezemolo sono reali, e non possono essere, per così dire, esorcizzati, ma andrebbero affrontati nella loro gravità.

22 giugno 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 23, 2007, 07:53:27 pm »

Scilla, Cariddi e Pensioni

Ferdinando Targetti


La stabilità di un sistema pensionistico poggia su due principi: la stabilità finanziaria e l’equità intergenerazionale. Se non è soddisfatta la prima condizione, a motivo di un mutamento del trend di crescita dell’economia e/o delle condizioni demografiche, il sistema può essere equo, ma è destinato a collassare, perché chi è al lavoro deve pagare quote sempre più alte del proprio reddito per mantenere delle pensione agli anziani tanto generose quanto quelle che quegli anziani avevano pagato quando erano giovani ai vecchi di allora.

Se non è soddisfatta la seconda condizione si può avere un sistema che finanziariamente regge, ma che collassa per la rivolta sociale che deriva dal fatto che via via che il tempo passa i nuovi pensionati si rendono conto che ottengono pensioni via via minori rispetto a quelle ottenute dai pensionarti più vecchi alla cui pensione essi avevano contribuito con il reddito del proprio lavoro. Certo ci sono paesi, come il Cile, nel quale il passaggio da un sistema finanziariamente instabile ad uno stabile (un sistema tutto privato e a capitalizzazione) è stato intrapreso in breve tempo facendo pagare il prezzo a quella generazione di mezzo che perdeva il vecchio sistema e non aveva accumulato risparmi per il nuovo sistema, ma perché questa “riforma” potesse essere realizzata c’è voluta una repressione sanguinosa del dissenso e l’instaurazione di una dittatura feroce.

In Italia, prima della riforma Amato-Dini-Prodi-Maroni, il sistema era a ripartizione (con pensioni pagate in base all'ultimo stipendio), era generoso e aveva una certa equità intergenerazionale, ma la riduzione del tasso di crescita del reddito e l’invecchiamento della popolazione non consentivano che il sistema reggesse dal punto di vista finanziario e il rischio del collasso si avvicinava di anno in anno. È stata quindi intrapresa quella pluriennale riforma che è consistita nel passaggio al calcolo contributivo (pensione in base ai contributi versati), nell’estensione del calcolo anche al settore pubblico, nell’allungamento dell’età delle pensioni di anzianità. (Prescindiamo qui di trattare la questione del passaggio, equo, necessario anche se costoso, dallo “scalone Maroni” agli “scalini Damiano”).

Oggi ci troviamo però di fronte ad un ulteriore allungamento delle attese di vita e ad una conseguente necessità di rivedere i parametri in base ai quali il sistema, seppur riformato, sia finanziariamente sostenibile. Ma se compiamo questa necessaria operazione ci allontaniamo dalla Scilla dell’instabilità finanziaria, ma ci avviciniamo alla Cariddi dell’iniquità intergenerazionale, perché la revisione dei coefficienti della Dini significa che le pensioni di coloro che andranno in pensione dal 2015 in poi con pensioni interamente calcolate con il metodo contributivo, saranno assai più magre di quelle che oggi essi contribuiscono a pagare con il loro lavoro ai loro padri.

Questo è il dilemma che sta alla base delle considerazioni del bel libro di Giuliano Amato e Mauro Maré «Il gioco delle pensioni: rien ne va plus?» (Il Mulino, Bologna, 2007, euro 9,50). Si può sperare che le cose migliorino da sole? No. Perché affinché questo avvenga ci dovrebbe essere una tendenza del mercato del lavoro che veda un numero di forme di lavoro stabili e regolari crescente, quando invece si prospettano forme di lavoro più flessibili che comportano profili temporali di lavoratori con crescenti periodi di inattività. Un aiuto potrebbe venire dai flussi migratori di lavoratori, ma, pur a prescindere dagli squilibri sociali di un eccesso di immigrazione, non sembra una cosa così scontata che l'immigrazione si traduca in un regolare flusso di contribuzione previdenziale. Per Amato e Maré la soluzione al dilemma tuttavia esiste. Essa va ricercata in una politica basata su tre cardini. Il primo è dato dallo sviluppo della previdenza complementare, che è l’altra gamba della riforma del sistema pensionistico ideata negli anni ‘90. I fondi pensione presentano in Italia dei rendimenti alquanto elevati e possono quindi consistere in una buona integrazione della previdenza obbligatoria. Tuttavia la previdenza complementare in Italia, a differenza che in altri paesi più maturi, non è ancora decollata. Il secondo cardine consiste nell’innalzamento dell'età pensionabile: oggi mediamente le casse dell’Inps devono pagare ad un 57 enne che va in pensione di anzianità una ventina d'anni di pensione, calcolata, per una larga quota con il metodo a ripartizione, cioè prescindendo da quanto il lavoratore ha versato lungo la sua vita contributiva. In futuro quando il sistema a contribuzione sarà a regime il problema perderà di rilevanza perché ciascuno sceglierà il mix «età di pensionamento-livello di pensione» che preferirà. Il terzo cardine è l'idea innovativa del libro che a me pare di grande rilevanza.

Se l’evoluzione del mercato del lavoro è quello che descrivevamo più sopra, se la quota dei lavoratori con redditi bassi, molto bassi, non è destinata a scendere, se crescerà la quota di lavoratori che non potranno convertire in previdenza complementare il Tfr, perché non ce lo avranno (lavoratori autonomi o irregolari), se tutte queste realtà spiacevoli, ma molto probabili, si verificheranno, le persone che non saranno in grado nella propria vita di mettere da parte un adeguato risparmio da consentire loro di accedere alla previdenza complementare sono destinate ad essere numerose. Nei confronti di queste persone rimarrebbe irrisolto il problema della equità intergenerazionale: quei futuri pensionati (oggi giovani) avrebbero pensioni insufficienti a consentire loro una dignitosa vecchiaia. Per queste categorie di persone, questa è l’idea di Amato e Maré, devono essere previste forme di solidarietà redistributiva sottoforma o di ammortizzatori sociali (contributi figurativi nei periodi di inattività lavorativa) o di integrazione pensionistica. A mio parere, poiché il sistema contributivo non deve essere “sporcato” con l'introduzione di coefficienti finti (situazione che si avrebbe oggi se, come vogliono i sindacati, non si intervenisse sui coefficienti di trasformazione come previsto dalla legge Dini) questa operazione di redistribuzione dovrebbe essere posta finanziariamente a carico della collettività e cioè della fiscalità generale. A mio parere questo intreccio tra previdenza e fiscalità ha una sua ratio per il fatto che quella categoria di persone per le quali le prime due gambe (pubblica a ripartizione e privata complementare) non sono sufficienti a creare una pensione dignitosa si trova in quella condizione per le caratteristiche di flessibilità del mercato del lavoro, che sono richieste per dare maggiore dinamismo all’economia generale del Paese.

Pubblicato il: 23.06.07
Modificato il: 23.06.07 alle ore 15.18   
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 24, 2007, 04:26:25 pm »

Secondo il sottosegretario Letta l'intesa è ormai a portata di mano

Epifani: sì a un compromesso «intelligente»

Pensioni, il segretario generale della Cgil si dice pronto a firmare un accordo con il governo prima del Dpef. Ma ad alcune condizioni


ROMA - La riforma del sistema previdenziale potrebbe essere a portata di mano. Lo sostiene il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta, che si dice «ottimista» e che esorta a «fare di tutto per smussare gli spigoli e per fare un passo avanti per chiudere l’accordo. Vogliamo dare risposte ai pensionati di oggi e a quelli di domani». Letta lo ha detto a margine della Festa nazionale della Cisl a Levico Termine. E a strettissimo giro di replica gli risponde dalla stessa sede il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che si dice pronto a valutare le proposte dell'esecutivo, spiegando però che il sindacato sarà disponibile ad accettrare un compromesso solo se questo sarà giudicato «intelligente».

«SUPERARE LO SCALONE» - Epifani fa sapere che la Cgil è pronta a chiudere l’intesa sulle pensioni prima del Dpef. «Se si vuole fare l’accordo - ha spiegato Epifani - bisogna lavorare per un compromesso aperto e intelligente, che tenga conto di ciò che dice il sindacato. Altrimenti, è difficile arrivare a un risultato». Epifani ha sottolineato che la sua organizzazione firmerà «il miglior accordo possibile per la gente. Noi siamo impegnati a superare lo "scalone" e nel complesso a fare un accordo che dia risposte ai lavoratori e ai pensionati. Ci muoveremo in questa direzione - ha aggiunto - anche perché c’è troppo malessere tra la gente».

PENSIONAMENTO RITARDATO - Il nodo da sciogliere resta dunque quello del cosiddetto «scalone», ovvero dell'innalzamento dell'età pensionabile previsto dalla riforma Maroni già a partire dal prossimo anno: dal primo gennaio, in assenza di interventi legislativi, sarà portata da 57 a 60 l’età per le pensioni di anzianità fermo restando il requisito minimo dei 35 anni dei contributi versati. Dalle aree più a sinistra della coalizione, oltre che dal mondo sindacale, giungono sollecitazioni affinché il brusco passaggio al nuovo sistema venga cancellato o quantomeno attenuato il più possibile. L'operazione non sarebbe però facilmente sostenibile economicamente visto che la cancellazione del pensionamento ritardato comporterebbe maggiori onteri immediati a carico del bilancio dello Stato.
 
«SERVE BUON SENSO» - Sulla necessità di giungere presto ad un'intesa è tornato ad esprimersi anche il «padrone di casa» della festa di Levico, il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni: «Sarebbe un segnale positivo - ha commentato -: penso solo ai problemi che si possono risolvere con gli ammortizzatori sociali, con la rivalutazione delle pensioni minime, con il secondo livello di contrattazione che permette di avere più salario per i lavoratori. Su tutti questi temi che sono importanti è bene che si arrivi ad una intesa, vedo però che ci sono alcuni che cercano di smarcarsi da un lato o dall'altro. La politica deve fare il suo dovere, ora serve buon senso, basta con questo caos e con questa confusione».
I DUBBI DI CONFINDUSTRIA - Perplessa, invece, Confindustria, che attraverso il proprio direttore generale, Maurizio Beretta, a sua volta presente alla kermesse cislina, sottolinea come «ci sono leggi esistenti che stanno dando risultati positivi e coerenti con quanto si muove in Europa» e per questo «non c’è bisogno di intervenire, modificando la situazione esistente». La priorità, secondo Beretta, dovrebbe piuttosto essere quella di «non aggravare la situazione della finanza pubblica».

24 giugno 2007
 
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 24, 2007, 04:33:28 pm »

Fannulloni
Pietro Spataro


Joubert aveva 23 anni, veniva dal Sudafrica con la speranza negli occhi: è caduto da un ponteggio nella Darsena di Viareggio. Vincenzo ne aveva 73, lavorava ancora perché con i seicento euro della pensione non si vive: è volato giù dal secondo piano di una palazzina in ristrutturazione a Napoli. Xholi aveva anche lui 23 anni, veniva dall’Albania, ed era orgoglioso del suo lavoro di elettricista in una ditta appaltatrice dell’Enel a Civitella Val di Chiana: è finito fulminato da una scarica potentissima. Massimo di anni ne aveva 40, lavorava in una fornace.

È morto schiacciato da un carrello, solo come un cane dentro un tunnel. L’elenco potrebbe continuare perché è lunghissimo. È fatto, da ieri, di cinquecento nomi, che messi uno accanto all’altro fanno la lunga, drammatica scia che insanguina l’Italia dall’inizio del 2007. Morti sul lavoro. Omicidi bianchi. Qualcuno dice, più delicatamente, incidenti. Ad essere coinvolti sono i poveri della terra, gli ultimi, i meno protetti. Quelli che pur di lavorare accettano condizioni di sicurezza minime. Quelli che li vedi spesso lungo le strade, all’alba, mentre aspettano i nuovi «caporali», viaggiano su pulmini scassati e la sera tornano distrutti nelle loro povere case. Quelli che non hanno voce e che solo il sindacato considera una emergenza nazionale. Quelli che spesso, tanto spesso, vengono da paesi lontani, dilaniati dalla povertà e dalla guerra, a cercare una speranza in più nel nostro paese ma che spesso, troppo spesso, trovano disperazione, sfruttamento e morte.

È il nostro dramma. Perché l’Italia, nonostante l’impegno di questo governo, resta il Paese con il più alto tasso di morti sul lavoro. È un dramma al quale dare risposte. Diciamolo con parole semplici: prima di tutto la dignità e la sicurezza. Prima di tutto la vita sul lavoro, e non la morte. E allora si fermi con ogni mezzo questa assurda e ignobile guerra che fa più morti della mafia.

Dietro ognuno di quei nomi ci sono storie di vita, famiglie distrutte. Ci sono figli e mogli e padri e madri che restano e che soffrono, spesso nell’assoluta solitudine. Che lottano per avere giustizia e spesso non l’avranno. A loro noi dobbiamo qualcosa.

A loro gli imprenditori devono qualcosa. Il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, non ha mai speso una parola importante - di quelle per intenderci che fanno titolo sui giornali - per questi poveri cristi. Nelle sue ormai quotidiane crociate contro il mondo intero, nelle sue continue scomuniche contro il governo, la sinistra, i sindacati, i lavoratori (l’ultima contro il sindacato che difende i fannulloni), non ha mai sentito il dovere di dire una frase su un dramma che tocca direttamente pezzi importanti della categoria che rappresenta.

Quanti sono gli imprenditori fannulloni che in cambio di un appalto in più, di una commessa in più, di un vantaggioso contratto in più mettono a repentaglio la vita dei loro operai? Montezemolo domani mattina, appena mette piede nel suo studio di presidente degli industriali italiani, prima di pronunciare l’ennesima difesa della superiorità morale e politica della sua categoria, se lo chieda. E in tutta onestà, perché ne è capace, si dia una risposta sincera.

pspataro@unita.it

Pubblicato il: 24.06.07
Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.15   
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 01, 2007, 10:09:04 pm »

Dal Senato un buon segnale
Franco Marini


Il 27 giugno l'Aula del Senato ha approvato un importantissimo provvedimento che contiene nuove misure a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e la delega al governo per il riassetto e la riforma normativa della materia. Arriva così dal Parlamento una prima decisa risposta per fronteggiare il fenomeno drammatico delle morti bianche e degli infortuni sul lavoro che quotidianamente scuotono le nostre coscienze e ci interrogano sulla nostra capacità di intervento. È la prima volta dal 1994, quando fu varata la nota legge 626 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, successivamente integrata nel 1996, che si affronta la materia in maniera organica.

Nelle ultime legislature, si è discusso a lungo nelle aule parlamentari circa la necessità di introdurre nuove norme a tutela dei lavoratori per fronteggiare le dinamiche, peraltro non sempre lineari, di un mondo del lavoro sempre più complesso. Ma non si è giunti ad alcuna determinazione.

Ora il provvedimento approvato dal Senato passa all’esame della Camera. Sono certo che verrà approvato in tempi brevi per consentire anche l’entrata in vigore di alcune norme, immediatamente precettive, scaturite dal lavoro parlamentare, per rispondere concretamente ad una emergenza drammatica in attesa che l’esecutivo, entro nove mesi dall’approvazione definitiva del provvedimento, proceda alla razionalizzazione dell’apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, e, quindi, al riassetto complessivo dell’intera normativa in materia di sicurezza.

Tra le misure che saranno fin da subito operative figurano la modifica delle procedure degli appalti pubblici al ribasso; l’indicazione nei bandi di gara dei costi per la sicurezza e l’obbligo per gli imprenditori di destinare gli importi delle sanzioni eventualmente comminate per il mancato rispetto delle norme ad interventi di prevenzione. Inoltre il Ministero del Lavoro viene autorizzato ad assumere nuovi 300 ispettori.

Si tratta di interventi mirati, volti a dare subito maggiori tutele ai lavoratori. Ma sono anche il frutto di una forte proficuità dei lavori del Senato. E di una risposta alla costante preoccupazione espressa dal presidente della Repubblica che più volte nel tempo è intervenuto per sollecitare la fine di questo stillicidio di morti e infortuni.

Il provvedimento è stato approvato con i soli voti della maggioranza. C’e’ stato un confronto parlamentare vivace, com’ e’ naturale quando non si registra un pieno accordo, ma voglio dare atto ai gruppi di maggioranza di averlo portato avanti con determinazione e ai gruppi di opposizione di aver rinunciato durante l’esame del provvedimento all’uso legittimo degli strumenti regolamentari che avrebbero potuto influire sui tempi di approvazione.

Il disegno di legge sulla sicurezza introduce anche un nuovo e importante principio che estende l’applicazione delle sue norme a ’’tutti i lavoratori e lavoratrici, autonomi e subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati’’. Ma questo non è il primo provvedimento rilevante che il Senato ha recentemente licenziato in materia di lavoro.

Lo scorso 12 giugno, infatti, l’Aula di Palazzo Madama ha dato il primo via libera ad un altro disegno di legge volto a combattere con strumenti incisivi la piaga del caporalato. Un testo normativo che introduce, tra l’altro, nel Codice penale il reato di ’’grave sfruttamento’’ di immigrati prevedendo pene severe fino all’arresto obbligatorio in caso di flagranza. Misure che consentono di fronteggiare fenomeni altrettanto drammatici come la riduzione in schiavitù nella difesa dei diritti di tutti i lavoratori.

Altri provvedimenti saranno necessari per dare risposte al lavoro che cambia. Tuttavia la piena attuazione del Testo unico sulla sicurezza consentirà un altro importantissimo passo in avanti. Sarà uno strumento fondamentale per recuperare la dignità del lavoro ripensandolo ponendo al centro la persona e i suoi diritti faticosamente conquistati.

*Presidente del Senato



Pubblicato il: 30.06.07
Modificato il: 01.07.07 alle ore 10.23   
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 11, 2007, 05:03:40 pm »

Dopo l’editoriale di Repubblica, parla il segretario confederale Cgil rilasciando una intervista a "Liberazione"
(pubblicata oggi 10 luglio 2007)

Scalfari dice falsità. C'è chi vuole far cadere Prodi

di Roberto Farneti


Scalfari dice delle palesi falsità». Paolo Nerozzi, segretario confederale Cgil, respinge con forza le accuse mosse ai sindacati (e al presidente della Camera Fausto Bertinotti) dal fondatore del quotidiano la Repubblica con l’editoriale di domenica scorsa. «Noi corporativi? Si parla tanto dello scalone, giustamente, ma ricordo - ribatte Nerozzi - che stiamo facendo una trattativa unica. Vogliamo risposte precise anche su pensioni basse e precarietà».

Secondo Scalfari, Cgil Cisl e Uil, chiedendo l’abolizione dello scalone, non starebbero rispettando l’accordo siglato con l’allora ministro Maroni.
Cosa falsa. Contro quella riforma delle pensioni abbiamo fatto molti scioperi, qualcuno da soli, e anche molto duri.

Repubblica però insiste. Ricorda che, in realtà, l’unico sciopero esclusivamente sulle pensioni lo avete fatto nel marzo 2004, dopo l’approvazione della riforma.
Non è vero, ne facemmo uno generale e altri articolati. E’ vero che molti scioperi ebbero come bersaglio anche le leggi finanziarie, ma perché dentro le finanziarie c’erano anche le pensioni. Quindi Repubblica continua a mentire sapendo di mentire. Altrettanto falsa è l’affermazione di Scalfari sul presunto accordo tra noi e Maroni per il rinvio della revisione dei coefficienti. Lo stesso Maroni ha smentito, la Cisl e la Uil pure. Perché un giornale si spinge a dire cose talmente false? Aggiungo: perché improvvisamente si scoprono i giovani? Anche qui, un tema viene evocato ma non per risolverlo, bensì per aumentare la confusione sulla trattativa. La mia opinione è che ci sono forze, anche all’interno della maggioranza, che non vogliono fare l’accordo con il sindacato perché non vogliono modificare lo scalone di Maroni. Penso che ci sia qualcuno che lavora per far cadere questo governo e poi addossare la responsabilità ai sindacati “corporativi” o a qualche forza di sinistra.

Prodi ha però già detto chiaramente che lo scalone va superato e che presto farà una sua proposta.
Prodi deve avere il coraggio di fare un accordo con le parti sociali e su questo costringere le forze della maggioranza a esprimersi, anche tramite un voto di fiducia.

Non a caso si parla di inserire l’eventuale intesa sulle pensioni dentro la Finanziaria.
A me questo interessa meno, l’importante è che si faccia l’accordo e si trovi poi il modo per farlo passare, perché lo scopo del sindacato è non avere più lo scalone.

Avete chiesto al governo e a Prodi di presentare una proposta condivisa, ma i sindacati non sembrano compatti. C’è la Cisl che vede con favore il mix di quote e scalini, ipotesi che Uil e Cgil hanno detto di non condividere...
Se c’è l’accordo il sindacato sarà compatto, le proposte che abbiamo finora presentato sono unitarie.

Qual è la linea del Piave della Cgil?
Innanzitutto io penso che i lavori non siano uguali e che ci sono categorie di lavoratori per i quali 57 anni sono anche troppi. Altri possono essere accompagnati da forme di incentivi.

I famosi “lavori usuranti”, difficili però da definire...
La nostra proposta è di escludere chi lavora su tre turni, chi lavora alla catena di montaggio, chi fa i lavori cosiddetti “vincolati”, cioè ripetitivi. Comunque le strade per arrivare all’accordo sono tante. La base di partenza, che dò per scontata, è che non si parli di alzare l’età pensionabile delle donne e che si possa andare in pensione con 40 anni di contributi. Altrimenti non discutiamo neanche.

Tornando ai giovani. Domani (oggi ndr) il governo incontrerà una delelegazione del Forum nazionale dei Giovani. Nel frattempo Capezzone sogna una marcia dei 40mila «per dare un futuro ai nostri ragazzi». Il significato propagandistico di queste iniziative è evidente: brandire l’arma del conflitto generazionale per sostenere la necessità dell’innalzamento dell’età pensionabile. Più o meno lo stesso schema utilizzato da Berlusconi quando, per manomettere l’articolo 18, spiegava che se i giovani fanno fatica a trovare lavoro la colpa è delle eccessive tutele sindacali conquistate dai loro padri. In questo caso, l’argomento è che se non si interviene, tra qualche anno l’Inps non avrà più i soldi per pagare le pensioni ai giovani. Cosa rispondi?
La mia prima risposta è una domanda: che cos’è il Forum dei Giovani, chi rappresenta? Mi risulta che tutti i sindacati dei precari, a cominciare dal Nidil, non siano stati invitati. Mi risulta che il sindacato più votato dagli studenti alle recenti elezioni universitari non sia stato invitato. In ogni caso, mi auguro che il governo sottoponga al Forum dei giovani il superamento dei contratti a tempo determinato, norme di sicurezza contro il precariato, misure di sostegno per l’affitto, borse di studio per la formazione e la ricerca. Se non proporrà niente di tutto questo, sarà l’ennesima presa in giro. Quanto alla sostenibilità del sistema previdenziale, dai dati dell’Inps si vede che i soldi ci sono, soprattutto per i lavoratori dipendenti. E ciò grazie anche al contributo dei tanti lavoratori immigrati. L’allarme sui conti e sul futuro dei giovani è perciò strumentale.

da www.sinistra.democratica.it
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 14, 2007, 11:41:06 pm »

Cisl e Uil: «Le distanze non sono grandi, gli incentivi vanno bene»

Pensioni, lunedì incontro governo-sindacati

Ferrero: contro di noi un'offensiva centrista Convocazione probabile a inizio settimana prossima.

Rifondazione: «La riforma in Finanziaria dopo il referendum tra i lavoratori» 
 

ROMA - «Le condizioni sindacali per chiudere l’accordo ci sono. Il quadro politico, invece, non è ancora stato completato». Lo hanno affermato fonti sindacali sabato al termine dell'incontro in mattinata del ministro del Lavoro, Cesare Damiano, con i responsabili della previdenza di Cgil, Cisl e Uil per fare il punto della situazione. Secondo le stesse fonti si sarebbe trattato di un incontro di «transizione» in attesa di una convocazione che potrebbe arrivare già lunedì. Ma intanto si apre un problema politico all'interno della maggiornza. Dopo le uscite di Rutelli e Dini sulle ipotesi di riforma, il ministro ferrero (Rifondazione) replica: «Contro di noi c'è un'offensiva dei centristi»

SINDACATI FAVOREVOLI A CONTRIBUTI - «Uil, Cgil e Cisl sono d'accordo con la proposta Damiano per gli incentivi». Lo ha riferito il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti. «Basterebbero gli incentivi per aumentare l'età pensionabile media. Peccato che Damiano non abbia potuto nemmeno spiegare la sua proposta, perché bocciato dalla sua stessa maggioranza», ha aggiunto il sindacalista. Una posizione simile è stata espressa dal segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni: «Tra governo e sindacati non ci sono grandi distanze. L’accordo si farà lo se si vorrà fare. Chi lavora contro l’accordo pagherà il conto con la gente».

DUE IPOTESI - Restano due ipotesi: "scalino" a 58 anni a partire dal 1° gennaio 2008 con passaggio a quota "95" (anni di età + anni di contributi, ndr) dopo due anni, e quota "96" dopo un ulteriore biennio; oppure direttamente quota "95" a partire dal prossimo anno, aumentandola progressivamente ogni due anni fino a raggiungere al massimo quota "97". Per chi svolge attività usuranti sarebbe comunque garantito il diritto a uscire dal lavoro a 57 anni.
 
RIFONDAZIONE: PENSIONI IN FINANZIARIA - «È essenziale che si arrivi rapidamente a un accordo. Le norme sullo scalone dovrebbero essere messe nella Finanziaria: si consentirebbe così la consultazione dei lavoratori in autunno». È l'opinione espressa dal ministro della Solidarietà socialePaolo Ferrero al comitato politico di Rifondazione comunista. «Sulle pensioni non c'è un problema economico, le risorse ci sono e sono interne al sistema previdenziale. C'è invece un problema politico: è in atto un'offensiva centrista di Dini e Rutelli contro il sindacato e i lavoratori». È la stessa linea del segretario del partito, Franco Giordano: «Il sindacato ha chiesto una consultazione di massa, una cosa giusta. Mi pare evidente che bisognerà dare tempo al sindacato di fare la consultazione».
IN 10 ANNI +1,8 MILIONI - Tra il 1995 e il 2005 le pensioni sono aumentate di oltre 1.800.000 unità con una crescita dell'8,5%, arrivando a 23.257.480. L'elaborazione è dell'ufficio studi dei commercianti di Mestre. L'incremento più elevato si è registrato nel Lazio (+17,3%). In Umbria e Liguria ormai ci sono quasi 50 pensioni ogni 100 abitanti.

14 luglio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 15, 2007, 09:26:45 am »

Niente scaloni tra padri e figli

Stefano Fassina


Per conoscere il Patto annunciato nei giorni scorsi dal presidente Prodi per risolvere il difficile negoziato sulla riforma delle pensioni dobbiamo ancora attendere. Nel Consiglio dei Ministri di ieri non se ne è parlato. Nell’attesa, forse è utile provare a capire perché è così difficile giungere ad un compromesso che ammorbidisca lo «scalone», salvaguardi i lavoratori prossimi alla soglia dei 57 anni ed impegnati in attività usuranti ed attui quanto chiaramente disposto dalla Riforma Dini del 1995 sui coefficienti di trasformazione per rendere sostenibile la spesa pensionistica in relazione all’allungamento della vita.

Le ragioni delle difficoltà sono molte e profonde. Certamente tra esse c’è la regressione economico-corporativa della cultura politica di importanti forze del centrosinistra, prima ancora che del sindacato. Certamente c’è la debolezza di numeri e di capacità egemonica dei settori riformisti della maggioranza e delle forze sociali.

Tuttavia, forse, c’è anche altro. Forse, c’è un’impostazione sbagliata dei termini del problema da affrontare. Anche oggi, come già avvenuto alla fine degli anni 90 in tema di pensioni, di Statuto dei Lavoratori e di contratto nazionale di lavoro, il dibattito ruota intorno al conflitto generazionale: meno ai padri, più ai figli. Eliminare le pensioni di anzianità dei padri per dare ammortizzatori sociali ai figli precari.

Siamo sicuri che la variabile generazionale sia quella rilevante per portare in porto la riforma del welfare? Siamo sicuri che il problema oggi, nell’Italia in declino non solo economico, ma anche etico, rispetto ai paesi europei, sia ridistribuire risorse tra coorti anagrafiche, in un gioco a somma zero, dove qualcuno perde (i padri) e qualcun altro vince (i figli)? No, non sono questi i termini corretti e fecondi per tematizzare il problema. Vediamo perché.

L’Italia, come ha meritoriamente ricordato Veltroni al Lingotto, è un paese che, nell’ambito dei paesi sviluppati, si distingue per essere una società sostanzialmente castale. Il coefficiente di permanenza dei figli nel decile di reddito dei padri è intorno a 0,6, ossia il 60 percento dei figli «eredita» il titolo di studio e la collocazione reddituale dalla famiglia. Tale livello di immobilità sociale accomuna l’Italia al Brasile, un paese emergente, caratterizzato da profondissime disuguaglianze frutto di decenni di dittature militari. L’Italia è molto lontana dai livelli delle economie sviluppate, non solo quelle a maggiore mobilità come il Canada e la Svezia (rispettivamente, 0,21 e 0,28), ma anche Stati Uniti, Regno Unito e Francia (intorno a 0,42). La spiegazione dell’immobilità italiana risiede in larghissima parte nel sistema educativo: i figli ereditano la condizione reddituale della famiglia perché ne ereditano, innanzitutto, il livello di scolarizzazione. La lettura delle valutazioni Ocse sulle competenze linguistiche e logico-matematiche degli alunni dei 27 paesi membri, non lascia dubbi sull’ereditarietà del nostro sistema scolastico. Il peggioramento del livello medio di preparazione degli studenti italiani (ventesimi su 27), è sintesi di un’enorme differenza dei risultati a seconda della famiglia di provenienza e del territorio di residenza: il figlio di genitori con la licenza media o senza titolo di studio, residente nel Centro-sud ha una capacità linguistica pari a quella media di uno studente messicano, all’ultimo posto nella classifica Ocse; all’estremo opposto, il figlio di genitori laureati, residenti nel Nord raggiunge risultati pari alla media degli studenti finlandesi, al vertice della classifica Ocse. Oltre che nella scuola, la spiegazione dell’immobilità sociale italiana risiede nell’assenza del merito tra i criteri di selezione delle posizioni sociali: come ha documentato un recente rapporto della Luiss («Generare classe dirigente»), l’Italia è un’economia delle conoscenze, più che della conoscenza. La famiglia di origine, oltre al titolo di studio, assicura anche l’accesso alla professione dei genitori, sia nei settori privati che in quelli pubblici: il dipartimento di medicina dell’università di Bari, come ha scritto Walter Tocci, ha un elenco di professori che sembra un pacchetto di certificati di famiglia. Allora, è evidente che la faglia principale sul terreno delle opportunità e dei diritti non ha natura anagrafica, ma sociale: è enormemente più ampio lo squilibrio di opportunità e diritti tra un giovane figlio di operai a Taranto e un coetaneo figlio di professionisti al Milano, che quello tra padre e figlio di Taranto e padre e figlio di Milano, per quanto possano essere peggiorate le aspettative delle generazioni più giovani.

Se è così, ed è così, perché un operaio, anche se non «usurato» dal lavoro, o un impiegato dovrebbe rinunciare alla certezza della pensione di anzianità e, spessissimo, al reddito aggiuntivo da attività in nero o in grigio, quando sa che, nel migliore dei casi, le risorse a cui rinuncia andrebbero a lenire la precarietà del figlio che comunque eredita la sua condizione sociale? In tale quadro di immobilità, è difficile che non prevalga il familismo, nostro male endemico: la redistribuzione al figlio la fa il padre direttamente, senza correre i rischi di una intermediazione incerta ed inefficiente delle amministrazioni pubbliche in un mondo immutabile.

Allora, per superare le resistenze dei padri è necessario invocare e proporre non «un nuovo grande Patto tra le generazioni», confinato al welfare e alla redistribuzione di risorse (scarse) in un quadro statico, ma «un nuovo grande Patto tra le corporazioni», proiettato all’accumulazione e alla crescita in un’ottica economica e sociale dinamica. Insomma, dal compromesso al ribasso, in vigore negli ultimi tre decenni in funzione risarcitoria, ad un Patto per lo sviluppo in chiave promozionale.

Un patto scrivendo il quale le corporazioni continuano a difendere interessi particolari, ma diventano lungimiranti, smettono di litigare per conservare fette di una torta sempre più piccola e cooperano per fare una torta più grande.

Insomma, un gioco a somma positiva, dove vincono tutti, padri e figli, perché l’Italia si rimette in moto, torna a crescere, moltiplica le opportunità, spezza le catene delle caste. Nel patto per lo sviluppo, dovrebbe essere scritto che la rinuncia alle pensioni di anzianità avviene, innanzitutto, in cambio del rilancio della scuola pubblica e dell’università, della liberalizzazione dell’accesso alle professioni, della centralità del merito e del principio di responsabilità nella selezione e nella promozione nelle amministrazioni pubbliche.

Per fare solo un altro esempio, ma la lista è lunga, nel Patto per lo sviluppo dovrebbe anche essere scritto che la rinuncia all’evasione fiscale avviene in cambio della riqualificazione dei servizi pubblici e privati alle imprese ed ai cittadini (dalle banche all’energia, dalle assicurazioni alle professioni), della modernizzazione delle infrastrutture, della riforma e del contenimento delle spese pubbliche e, quindi, della riduzione delle tasse. Forse, proporre ogni specifica riforma nell’ambito del Patto per lo sviluppo renderebbe meno ostili le corporazioni. Ad una condizione, però: il proponente del Patto deve essere credibile nell’impegno a condurre in porto la modernizzazione del Paese in tutti gli ambiti, con equità e determinazione.

Chiudere senza eccessive concessioni corporative il negoziato sulle pensioni è condizione necessaria per una Legge Finanziaria in grado di intervenire su altri importanti capitoli di spesa e per realizzare il ventaglio di riforme strutturali in discussione in Parlamento. Il Pd lavorando nella società può contribuire non poco alla sfida.


Pubblicato il: 14.07.07
Modificato il: 14.07.07 alle ore 12.56   
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