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Autore Discussione: I limiti dell’ambientalismo e la proposta Ecosocialista.  (Letto 4116 volte)
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« inserito:: Giugno 24, 2021, 11:31:28 pm »

L'Ulivo, coalizione politica, l'hanno ucciso i politici di Sinistra con la schiacciata d'occhiolino degli ex-Margherita: un disastro che ci ha portato il berlusconismo.

L'Ulivo è una Idea e le idee da sole non vivono e non muoiono!

L'Idea dell'Ulivo è ancora vergine, si può concedere a molti MA con un limite: presentarsi alle elezioni e se l'Ulivo viene votato STARE NEL PROGETTO ULIVISTA, per almeno 5 anni! 
Dopo di che ci può essere anche il divorzio politico.

Se si dimostrasse ancora una volta solo una coalizione politica poltronifera, non ci si deve neppure provare.
Tanto si sa che le coalizioni senza progetti reali, presentati e votati dal "popolo", sono soltanto una presa in giro, come le Liste Civiche di Famiglia!

ggiannig

su Fb del 24 giugno 2021
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 28, 2021, 11:39:51 pm »

 Persona che ha condiviso

Nicola Puccetti  ·

C'è bisogno di coerenza e costanza determinazione e perseveranza, non si vede una vera unione ne vera coesione tra lavoratori, ne tanto meno a livello sindacale, si percepisce parvenza di interesse economico e personale, serve più credibilità servono più fatti, abbiamo una costituzione che nei suoi primi 12 principi racchiude il significato dell'essere Italiano dello spirito, delle speranze dei sogni e delle persone che questa Italia la volevano migliore dopo aver visto l'orrore di due guerre toccato e visto il fondo più buio che la natura umana poteva concepire lavorato senza tutele ne diritti e sofferto veramente la fame.

Quei 12 principi che per essere capiti vanno letti e riletti tutti assieme collegati l'uno a l'altro da un sottile filo ideologico quello della vita, del diritto e dovere al lavoro ma anche alla formazione, della libertà di scelta, del rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo al ruolo e al dovere che ha il popolo in quanto sovrano e del governo in quanto suo rappresentante eletto.

Ed ecco, sono poi definiti i 3 poteri separati dello stato che devono lavorare autonomamente ciascuno circoscritto alle sue competenze ciascuno vigile sugli altri, ciascuno negli interessi di Tutti gli Italiani,
I diritti questo paese se li é guadagnati nel sangue, suo e degli altri, ma la memoria e corta e viene dato per scontato che i diritti acquisiti siano tali.

Lo sono fintanto che il popolo é cosciente e combatte per loro, non serve ne guerra ne violenza
Serve chiedersi se si é Italiani
Serve chiedersi se ci si riconosce in quella costituzione
Serve comprensione e collaborazione
Non c'é destra, centro o sinistra
Non c'è operaio o imprenditore
Non c'é commerciante o consumatore
Non c'é civile o militare
c'é solo il Popolo Italiano e la sua Costituzione con tutto ciò che rappresenta

da – Fb del 22 giugno CGIL dixit.
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 28, 2021, 11:42:38 pm »

Il Monitore Democratico. Caro Letta noi Ulivisti, vecchi d'impegno, del formare Circoli PD sul web si discuteva già nel 2008, … inascoltati. Il 14 ottobre 2007 fu fondato il PD.

L'Ulivo fu fondato il 6 marzo 1995 e noi animatori del forum www.ulivo.it fummo da quasi subito una bella realtà in Internet, una realtà molto attiva e apprezzata anche perché indipendente dai vertici di Partito, in altre faccende affaccendati.

Noi nell’Ulivo.it e poi nel forumista.net le “correnti” che disturbavano le discussioni “si mettevano nel cestino dei rifiuti”, cioè si rifiutavano al bisticcio.

Non usavamo nessuna selezione o valutazione preventiva.
Democraticamente si lasciavano leggibili i loro post ma si impedivano le loro provocazioni!

Oggi qualsiasi piccolo personaggio fasullo e improduttivo, ma astuto nell’uso dell’antica tecnica anarchica della “propaganda del fatto” gli si dà retta e spazi abbondanti in tv e sul cartaceo.

E si crea il Caos che predando consensi, induce a sbagliare alle elezioni non ancora completamente democratiche.

Infatti noi siamo definiti a livello internazionale una Democrazia Incompleta.

ciaooo

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« Risposta #3 inserito:: Luglio 02, 2021, 11:25:52 pm »

Nei giorni in cui stava per nascere il governo giallo-verde capitò di dover dibattere, appunto, sulla maggioranza che si stava saldando e sul governo che essa avrebbe partorito.
Di fronte a molti ragionamenti complessi e a riflessioni sommamente politologiche capitò di osservare, ottenendo anche qualche stupore (a volte perfino ammirato), che si parlava e si trattava, ma a nessuno veniva in mente chi sarebbe stato il presidente del consiglio di quel governo. Giuseppe Conte, allora, era ancora conosciuto solo da una piccolissima cerchia, per i più attenti era il ministro della pubblica amministrazione in pectore del fanta governo indicato da Luigi Di Maio prima delle elezioni. Insomma, si procedette, come è noto, prima a cercare una specie di maggioranza, con la mezza buffonata del contratto di governo, e poi a trovare il premier. Questo non è solo un episodio, non è solo una stranezza in più nell’anomalia generale del governo populistissimo.

È, invece, un fatto illuminante e da cui possiamo trarre spunti utili anche oggi. Perché, forse per abitudine a vedere prima le coalizioni, prima gli assetti politici, e poi i leader (il famoso e falsissimo “prima vengono i programmi, che sono la cosa importante, e poi vedremo i nomi”), abbiamo tutti interiorizzato un errore interpretativo e, per farla breve, tendiamo a non capire quanto contino, invece, nomi e persone. Andiamo ancora più indietro per vedere qualche caso. Il primo presidente laico, di un piccolo partito, come sappiamo tutti fu Giovanni Spadolini. Ma, un’altra persona avrebbe potuto guidare quel governo? A distanza di anni possiamo dire tranquillamente di no. E lo stesso, anche di più visto il personaggio, vale per Bettino Craxi. E per Ciriaco De Mita o Giulio Andreotti. E dopo vale per Silvio Berlusconi. Sono tutti, sì, espressione di equilibri di potere e di coalizioni, ma, prima, viene la loro personalità politica, senza la quale quegli equilibri sarebbero rimasti inespressi. Pensate, appunto, al senso che Craxi ha dato al pentapartito, o al modo in cui Berlusconi è riuscito a dare una direzione politica a una roba raffazzonata con un ex missino e un capo leghista simpatico, sveglio, ma, allo stesso tempo, improponibile. Numericamente le maggioranze c’erano, ma, senza le persone in grado di dare ad esse carne e idee, non avrebbero prodotto nulla di politico. E arriviamo a Mario Draghi. Oggi, e con queste premesse, si capisce che non è per nulla, il suo, un ruolo tecnico o un governo tecnico quello che guida. Ma è, appunto, l’espressione attraverso le capacità di una persona di una maggioranza che non sapeva, e forse neanche desiderava, di essere tale. E questa condizione (guardate come ha chiuso la vicenda del cashback e come ha tenuto a bada le rimostranze dei 5stelle) ha molto da dirci sugli sviluppi prossimi, sullo scenario che potrebbe seguire alla scissione tra contiani e grillini, e anche, nell’altro campo, tra populisti di destra e europeisti (per usare due categorie molto all’ingrosso).

E stamattina, un po’ a sorpresa, Draghi ha esposto una specie di manifesto programmatico di politica economica


LE TRE "COSE" PRINCIPALI

Fatto #1
I piccoli passi (primaverili, perché il dato è di maggio) della ripresa dell’occupazione in Italia. Ma, con l’estate, in questi giorni, e le riaperture piene, dovremmo vedere una crescita ben più forte, con i servizi a trainare.

Fatto #2
L’Uefa non sposterà mai la finale da Londra, ma la questione, e i rischi di contagio evidenti, sta diventando sempre più grave. Una nota di questa mattina dell’Uefa dice, laconicamente, che “tutte le partite degli Europei si svolgeranno come programmate”. Ma restano le perplessità. Mario Draghi e Angela Merkel ne hanno parlato per primi, ora servirebbe un’azione comune di tutti i governi europei, unico modo per ottenere lo spostamento da Wembley. Anche per consigliare alle autorità dell’Uefa di sganciarsi dalla erratica e non sempre affidabile leadership inglese, senza rimpianti e senza doversi sentire vincolati da precedenti piccoli scambi di gentilezze.

Fatto #3
Il detenuto in sedia a rotelle, picchiato e umiliato dagli agenti durante le violenze di Santa Maria Capua Vetere.

Oggi in pillole
Primi abbozzi di leggi per le famiglie
A cena vediamo come sta andando il voto nel seggio che fu di Jo Cox
La transizione ecologica, vista da vicino
La super fabbrica di batterie che Nissan va a piazzare in Uk
La vita da falco di Donald Rumsfeld


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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 03, 2021, 06:35:48 pm »

I limiti dell’ambientalismo e la proposta Ecosocialista

Una politica ecologica seria non può che essere anticapitalista e cogliere i nessi fra le contraddizioni ecologiche e quelle non ecologiche del capitale.

Nancy Fraser 29 Settembre 2021

In un lungo e approfondito saggio contenuto nel numero di MicroMega in edicola e libreria la filosofa statunitense Nancy Fraser spiega perché un ambientalismo che non metta in discussione le fondamenta del capitalismo non va molto lontano. Ne pubblichiamo un estratto.
Le politiche del clima sono balzate al centro della scena[1]. Anche se persistono sacche di negazionismo, attori politici dei più diversi colori stanno diventando verdi. […].
L’ecopolitica, in sintesi, è divenuta ubiquitaria. Non più appannaggio esclusivo di movimenti ambientalisti autonomi, il discorso sul cambiamento climatico appare adesso una questione urgente rispetto alla quale ogni attore politico deve prendere posizione. Incorporata in un mucchio di programmi in concorrenza tra loro, la questione viene variamente declinata secondo i diversi impegni cui si accompagna. Col risultato, sotto un superficiale consenso, di un inquieto dissenso. Da una parte c’è un crescente numero di persone che vedono il riscaldamento globale come una minaccia alla vita sul pianeta Terra così come la conosciamo. D’altra parte, costoro non sono accomunati da una stessa visione delle forze della società responsabili di quel processo e nemmeno dei cambiamenti nella struttura sociale necessari per fermarlo. Sono più o meno concordi sul dato scientifico, ma decisamente discordi sulle politiche[2].
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E tuttavia “concordi” o “discordi” sono definizioni troppo vaghe per fotografare la situazione. L’ecopolitica oggi si sviluppa all’interno di una crisi epocale da cui è inevitabilmente segnata. Crisi dell’ecologia, certo, ma anche dell’economia, della società, della politica e della salute pubblica ovvero una crisi generale i cui effetti si diffondono ovunque come metastasi, scuotendo la fiducia nelle visioni del mondo consolidate e nelle élite al potere. Ne risulta una crisi di egemonia e un “inselvatichirsi” dello spazio pubblico. Non più domata dal buonsenso dominante che blocca le opzioni fuori dagli schemi, la sfera politica è divenuta ora il luogo di una ricerca frenetica non solo di politiche migliori, ma di nuovi progetti politici e nuovi stili di vita. Accumulatasi ben prima dello scoppio del Covid, ma da questo fortemente intensificata, questa “atmosfera instabile” permea l’ecopolitica che si dà necessariamente al suo interno. Il dissenso sul clima è pesante, di conseguenza, non “solo” perché la sorte della Terra è in bilico, e nemmeno “solo” perché il tempo stringe, ma anche perché il clima politico è, a sua volta, agitato dalla turbolenza.
In questa situazione, per difendere il pianeta bisogna costruire una controegemonia per superare l’attuale cacofonia di opinioni e arrivare a un buonsenso ecopolitico in grado di orientare un progetto di trasformazione largamente condiviso. Certo, quel buonsenso deve aprirsi un varco tra la massa di opinioni in conflitto e identificare precisamente ciò che va cambiato nella società per fermare il riscaldamento globale, collegando in modo efficace le autorevoli scoperte della scienza del clima a un resoconto altrettanto autorevole dei motori storico-sociali dei cambiamenti climatici. Per divenire contro-egemonico comunque il nuovo buonsenso deve trascendere il “meramente ambientale” e affrontare la reale entità della crisi generale, deve collegare la sua diagnosi ecologica ad altre preoccupazioni vitali, inclusa quella per l’insicurezza dei mezzi di sostentamento e per i diritti negati dei lavoratori, il disinvestimento pubblico dalla riproduzione sociale e la svalutazione cronica del lavoro socio-assistenziale, l’oppressione imperialista etno-razziale, la dominazione sessuale e di genere, la spoliazione, l’espulsione e l’esclusione dei migranti; la militarizzazione, l’autoritarismo politico e la brutalità poliziesca. Tutte preoccupazioni che senza dubbio si intrecciano e sono esacerbate dai cambiamenti climatici. Ma il nuovo buonsenso deve evitare “l’ecologismo” riduttivo. Lungi dal trattare il riscaldamento globale come la carta vincente che prevale su tutto il resto, deve rintracciare quella minaccia nelle dinamiche sociali sottostanti che a loro volta alimentano altri aspetti della crisi attuale. Solo affrontando tutti i più importanti risvolti di questa crisi, “ambientali” e “non-ambientali”, e rivelando le interconnessioni, potremo cominciare a costruire un blocco contro-egemonico che sostenga un progetto comune e possieda l’autorevolezza politica per perseguirlo con efficacia.
Questo è un compito arduo. Ma ciò che lo porta nella sfera del possibile è una “felice coincidenza”: tutte le strade portano alla stessa idea, il capitalismo. Il capitalismo, nel senso che definirò a breve, rappresenta il motore storico-sociale del cambiamento climatico e la dinamica centrale istituzionalizzata da smantellare per fermarlo. Il capitalismo, così definito, è anche profondamente implicato in forme di ingiustizia sociale apparentemente non-ecologiche: dallo sfruttamento di classe all’oppressione razzista-imperialista alla dominazione sessuale e di genere. E il capitalismo ha un ruolo centrale anche nelle impasse apparentemente non-ecologiche dell’ordinamento sociale: nelle crisi della cura e della riproduzione sociale; della finanza, delle filiere di produzione e distribuzione, salari e lavoro; di governance e de-democratizzazione. L’anticapitalismo, perciò, potrebbe, anzi dovrebbe, diventare il tema organizzativo centrale di un nuovo buonsenso. Rivelare le connessioni che legano tra loro gli innumerevoli fili di ingiustizia e irrazionalità, è la chiave per poter sviluppare un progetto contro-egemonico di trasformazione in senso ecologico dell’organizzazione sociale. […].
Esistono già, in una forma o nell’altra, molti dei mattoni essenziali alla costruzione di questa politica. I movimenti per la giustizia ambientale sono già, in linea di principio, transambientali in quanto prendono di mira i legami tra eco-danni e uno o più assi di dominio, in particolare il genere, la razza, l’etnia e la nazionalità; e alcuni di questi sono esplicitamente anticapitalisti. Analogamente i movimenti dei lavoratori, i Green New Dealer e alcuni eco-populisti impugnano (alcuni) prerequisiti di classe nella lotta contro il riscaldamento globale: soprattutto la necessità di collegare la transizione verso le energie rinnovabili alle politiche pro-classe lavoratrice su redditi e occupazione, e l’esigenza di rafforzare il potere statale in quanto contrapposto alle grandi multinazionali. Infine, i movimenti per la decolonizzazione e delle popolazioni indigene puntano l’obiettivo sull’intreccio estrattivismo-imperialismo. Insieme alle correnti per la decrescita, invocano un ripensamento profondo del nostro rapporto con la natura e dei nostri stili di vita. Ciascuna di queste visioni ecopolitiche coltiva al suo interno intuizioni autentiche.
Ciononostante, la condizione attuale di questi movimenti, sia che li si consideri nel loro insieme, sia presi singolarmente, non è (ancora) adeguata al compito che li aspetta. Finché i movimenti per la giustizia ambientale continueranno a occuparsi quasi esclusivamente delle svariate conseguenze delle eco-minacce sulle popolazioni subalterne, non riusciranno a prestare la dovuta attenzione alle dinamiche strutturali alla base del sistema sociale; sistema che non soltanto produce disuguaglianze, ma porta a una crisi generale che minaccia il benessere di tutti, oltre che del pianeta. Il loro anticapitalismo non è quindi abbastanza concreto, e il loro trans¬ambientalismo non va ancora abbastanza in profondità.
Qualcosa di simile vale anche per i movimenti che hanno come interlocutore lo Stato, e in particolare per gli eco-populisti (reazionari) ma anche per i Green New Dealer (progressisti) e per i sindacati. Questi attori privilegiano la struttura dello Stato nazionale-territoriale e la creazione di posti di lavoro grazie a progetti di infrastrutture verdi, dando in tal modo per scontata una visione insufficientemente ampia e diversificata della “classe dei lavoratori”, che non comprende, in realtà, solo gli operai addetti alle costruzioni ma anche i lavoratori dei servizi; non solo i salariati, ma anche quelli che non percepiscono alcun salario; non solo quelli che lavorano “nella madrepatria” ma anche quelli impiegati all’estero; non solo gli sfruttati, ma anche gli espropriati. Inoltre le correnti che hanno come interlocutore lo Stato non prendono sufficientemente atto della posizione e del potere della controparte, perché continuano ad aderire alla classica premessa socialdemocratica secondo cui lo Stato può servire due padroni e può salvare il pianeta tenendo sotto controllo il capitale, senza bisogno di abolirlo. Di conseguenza neanche questi sono abbastanza anticapitalisti e transambientali, almeno fino ad oggi.
Infine, gli attivisti della decrescita tendono a confondere le acque politiche accorpando quello che deve necessariamente crescere in un sistema capitalista (ovvero il “valore”) con quello che dovrebbe crescere ma non può farlo all’interno del capitalismo, ovvero beni, rapporti e attività capaci di soddisfare l’immensa estensione di esigenze umane insoddisfatte in tutto il globo. Un’ecopolitica autenticamente anticapitalista deve smantellare l’imperativo connaturato di far crescere il primo e al tempo stesso affrontare la questione di come far crescere in modo sostenibile il secondo in quanto questione politica da decidere mediante deliberazioni democratiche e pianificazione sociale. Allo stesso modo, gli orientamenti associati alla decrescita, come l’ambientalismo come stile di vita da una parte e i modelli sperimentali comunitari dall’altra, tendono a evitare la necessità di scontrarsi con il potere capitalista.
Prese nel loro insieme, inoltre, le giuste intuizioni di tutti questi movimenti non bastano a costituire un nuovo senso comune ecopolitico e non riescono ancora a convergere su un progetto controegemonico di trasformazione ecosociale che, almeno in linea di principio, potrebbe salvare il pianeta. Certo, sono presenti alcuni elementi essenziali transambientali: diritti dei lavoratori, femminismo, antirazzismo, antimperialismo, coscienza di classe, ideali democratici, anticonsumismo, antiestrattivismo. Ma non sono ancora integrati in una solida diagnosi sulle radici strutturali e storiche della crisi attuale. Quello che a oggi manca è una prospettiva chiara e convincente che colleghi tutte le preoccupazioni presenti, ecologiche e non, con un unico sistema sociale e, per suo tramite, che le colleghi tra di loro.
Ho ripetuto qui che tale sistema ha un nome. Si chiama società capitalista, concepita in modo espansionista per comprendere tutte le condizioni di base necessarie all’economia capitalista: natura non-umana e potere pubblico, popolazioni espropriabili e riproduzione sociale; tutti non a caso soggetti alla cannibalizzazione da parte del capitale, tutti sotto shock per la devastazione che li sta travolgendo. Dare un nome a questo sistema, e definirlo a grandi linee, significa presentare un altro tassello del puzzle controegemonico che dobbiamo risolvere. È possibile che questo tassello ci aiuti a metterne a posto altri, a rivelare le loro più probabili tensioni e potenziali sinergie, a mettere in chiaro le loro origini e a capire dove possono arrivare insieme. L’anticapitalismo è il tassello che fornisce una direzione politica e una forza critica al transambientalismo. Mentre quest’ultimo apre l’ecopolitica al mondo in generale, il primo si concentra sul nemico numero uno.
È dunque l’anticapitalismo quello che traccia la linea di separazione, indispensabile in qualsiasi blocco storico, tra “noi” e “loro”. Smascherare il mercato del carbonio per la frode che è significa stimolare tutte le correnti ecopolitiche potenzialmente orientate all’emancipazione perché si svincolino pubblicamente dal “capitalismo verde”. Spinge inoltre ogni corrente a prestare attenzione al proprio specifico tallone d’Achille, alla propria tendenza a evitare di scontrarsi con il capitale, perseguendo o un (illusorio) scollegamento o compromessi di classe (squilibrati) o una (tragica) parità nella vulnerabilità estrema. Insistendo sul nemico comune, inoltre, il tassello anticapitalista del puzzle indica un sentiero che tutti – i partigiani della decrescita, della giustizia ambientale e del Green New Deal – possono percorrere insieme anche se in questo momento non riescono a vedere la destinazione esatta, tanto meno a concordare sulla sua definizione.
Naturalmente resta da vedere se potremo davvero raggiungere una destinazione qualsiasi o se la Terra continuerà a riscaldarsi fino al punto di ebollizione. Ma le nostre migliori speranze per scongiurare un simile destino risiedono nella costituzione di un blocco controegemonico che sia transambientale e anticapitalista. Dove esattamente possa portarci questo blocco, se dovesse riuscire nel suo intento, non è dato sapere. Ma se dovessi dare un nome alla nostra meta, io sceglierei “ecosocialismo
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