LA-U dell'OLIVO
Novembre 26, 2024, 11:12:20 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Eulogia del PCI e dei suoi uomi migliori, da parte di Gianni Cuperlo.  (Letto 3249 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« inserito:: Marzo 23, 2021, 11:43:56 pm »

Ieri pomeriggio abbiamo ricordato Alfredo Reichlin, quattro anni dopo la sua scomparsa. Ho sistemato le cose che ho detto e mi fa piacere metterle qui.

Buona giornata e un abbraccio

“Grazie per l’occasione e per il modo che avete scelto di ricordare Alfredo.
Grazie a Pierluigi Ciocca e a Pietro per le cose che hanno detto e che diranno.
Gli anniversari portano spesso a ripensare le cose che ci sono state o che si sono vissute (in fondo è anche l’atteggiamento più naturale e spontaneo).
Nel caso di Alfredo la reazione è un po’ diversa.
Nel senso che torna alla mente tutta intera la ricchezza dell’uomo, del suo legame verso gli affetti più intensi, la famiglia, gli amici, e insieme a questo la statura dell’intellettuale, del dirigente politico.
Sono ambiti, sfere, sulle quali in molti hanno riflettuto, scritto, discusso (penso alla raccolta di saggi e testimonianze curata da Mariuccia Salvati).
Nel mio caso, per il poco che vale, l’anniversario è un ricordo che si rinnova: ma non nello spirito di tornare a quello che è stato.
Direi che il pensiero è a quello che avrebbe potuto essere.
Alle cose che Alfredo avrebbe ancora potuto dirci – aiutarci a capire – se il tempo gli avesse concesso il privilegio (oppure la punizione) di conoscere assieme a noi questi mesi faticosi, dolorosi, a modo loro terribili.
Perché poi ciascuno di noi coltiva voci, sensibilità, sapienze, delle quali sentiamo più acuta la mancanza quanto più ci pare difficile interpretare, capire, le vicende che ci avvolgono.
Ora, potrà sembrare un fuor d’opera (e in effetti lo è): ma a volte a me capita di pensare a come Faber, come De André, avrebbe raccontato lo sfilare delle bare di Bergamo.
O a come Ronconi (ma questo potrebbe dircelo Roberta) avrebbe immaginato di trasporre il teatro fuori dal teatro (spinto magari dalla offesa di un dramma che improvvisamente si è impadronito della vita di milioni di persone).
Ecco, molte volte in questi mesi (ho testimoni che possono confermarlo) mi sono chiesto dove Alfredo avrebbe dirottato la sua attenzione.
Cioè come avrebbe vissuto, come avrebbe descritto, le strade deserte delle nostre città.
O i bollettini dei contagi e dei decessi.
O le scuole chiuse per mesi, coi ragazzi a scoprire una forma della didattica che annulla la sua parte più necessaria e vitale.
Oppure gli squilibri (lo sguardo sul mondo non lo ha mai tradito), dicevo gli squilibri di una campagna per la sicurezza di interi continenti e popolazioni (mentre ci parliamo in 130 nazioni non è stata ancora inoculata una sola dose di vaccino).
Ma soprattutto (naturalmente posso sbagliare) credo che, molto più di altri, si sarebbe interrogato sull’impatto della tragedia di questo ultimo anno sulla democrazia.
Nello specifico sulla fatica degli ordinamenti democratici a reggere l’urto prolungato di una emergenza quando questa tenda a trasformarsi nella normalità.
Perché è in quella linea di confine – e di passaggio – che il controllo sociale da parte di regimi illiberali o apertamente autoritari può determinare delle trasformazioni profonde nella coscienza di grandi masse sulla efficacia della democrazia e delle sue istituzioni.
Ecco, penso che tutto questo ci manchi.
Ci manchi questo profilo di Alfredo.
E manchi per una ragione sopra le altre.
Perché in lui c’era un tratto, non so quanto esclusivo o legato a quella sua generazione così segnata dall’avere traversato un secolo grandioso e terribile come è stato quello ultimo, dicevo un tratto che certamente è stato parte di una scuola, di una formazione, che ha sempre inteso la politica fuori e oltre i legami della dottrina.
E al contempo, sempre fuori e oltre le limitazioni della cronaca.
Se posso dirlo, nel corso degli anni questo aspetto è divenuto per me uno degli elementi della personalità di Alfredo che mi ha più spiazzato.
Perché capitava di sentirci, con una certa frequenza.
Capitava di vedersi.
Ma la cosa che puntualmente si verificava (che fosse una conversazione al telefono o una visita lassù a Via Dandolo) era che l’impatto, le prime frasi, non erano mai il riflesso della rassegna stampa di quella mattina.
L’attenzione poteva rivolgersi a un grande tema (la guerra in Siria o i morti nel Mediterraneo, o il secolo cinese) e però sempre con la capacità, e l’impegno, a costruire dei collegamenti, una trama del pensiero, che facilmente poi si congiungeva alla cronaca (all’agenda politica o del partito) ma offrendoti una chiave, una interpretazione di quei fatti che era interamente sua.
Che fino lì non avevi trovato altrove e che lui ti sottoponeva con la cura di un linguaggio dove quasi nulla era lasciato al caso.
Era una lingua la sua, una eleganza del porgere, comprensibile, diretta, e allo stesso tempo capace di portarti a quel suo livello / Capace sempre di farti pensare.
E poi capitava, che in momenti più significativi (penso a passaggi politici densi di implicazioni), quella cura assumeva persino dei caratteri anomali per lo spirito del tempo.
Ricordo una visita mattutina in una di quelle occasioni (forse la nascita del governo Monti, ma potrei sbagliare) quando assieme a un dirigente di partito più giovane di me lo andammo a trovare (eravamo noi tre) e lui ci disse che aveva riflettuto e voleva condividere alcuni pensieri, e siccome li riteneva importanti, preferiva farlo in una forma scritta.
E allora prese il notes dal tavolino e ci lesse degli appunti scritti a mano che erano una vera e propria relazione.
Un testo che avrebbe meritato di essere letto dinanzi a una platea ben più numerosa e qualificata e io rimasi colpito (anche un po’ imbarazzato) dall’idea che quella fatica potesse ridursi a convincere un paio di interlocutori come noi.
Però era un modo (e al fondo, una lezione) che ti insegnava ad avere una forma di rispetto per ogni situazione nella quale dovevi imbastire un dialogo magari con l’obiettivo di convincere qualcuno delle tue buone ragioni.
Forse anche un venir meno di questa attenzione ha pesato nel suo giudizio sulla politica che ha continuato a osservare fino alla fine.
Lo ricordo perché Alfredo, soprattutto negli ultimi anni, aveva una percezione chiara della perdita di autorevolezza e spessore della classe politica anche dentro la parte nella quale aveva militato nel corso di una vita lunga e intensa.
Non so dire quanto questa consapevolezza lo angustiasse / Però il nodo di una ricerca sulle responsabilità della sinistra di fronte ai grandi mutamenti della storia, questo tema lo ha accompagnato sino all’ultimo (e a quell’articolo per l’Unità che ha dettato qualche giorno prima di andarsene).
Detto ciò non so dire come avrebbe commentato il centenario del Partito nel quale ha costruito la sua militanza.
Magari avrebbe sorriso di quei bancali delle librerie che in questi mesi riservano tutto un settore ai saggi più diversi dedicati ai cento anni dalla scissione di Livorno.
Giorni fa nella mia Feltrinelli, qui dietro casa, ne ho contati diciotto.
E ancora una volta a scorrere quei titoli e i loro autori, tutti degnissimi, mi sono trovato a pensare che forse sarebbe stato un regalo in più poter leggere anche la sua di testimonianza.
Non tanto e solo sulla vicenda storica in sé, perché molte cose sull’argomento Alfredo aveva avuto modo di dirle, di scriverle (penso ancora una volta allo scambio con Vittorio Foa e Miriam Mafai sul “Silenzio dei comunisti” e ai diversi volumi degli ultimi anni).
Ma proprio sul perché un partito che ha cessato di esistere più di trent’anni fa raccoglie ancora una attenzione (e se penso a chi è nato dopo la fine di quella storia) un interesse e una passione così intensi.
Non ho elementi per dirlo, ma mi viene da pensare (o forse mi piace pensare) che Alfredo sarebbe stato d’accordo nel dire che non accade per un ritorno di nostalgia.
Non c’è nostalgia per quella stagione: e molti che quel partito hanno conosciuto (vi hanno militato, lo hanno votato) sono coscienti dei limiti, degli errori, che hanno accompagnato quella storia e in parte anche il suo epilogo.
No: credo che la ragione vera di questi riflettori accesi sia nella delusione per ciò che è venuto dopo.
O meglio sarebbe dire: che non è venuto dopo.
Per una sinistra – e per classi dirigenti di quella parte – che tutto sommato non sono state all’altezza della prova.
Nel senso che hanno conquistato – e questo certamente va a loro merito – la chiave del potere (quello vero, esercitato, ammesso che stia ancora nella sede deputata della politica).
Però a costo di lasciare sullo sfondo la dimensione del consenso, della rappresentanza di quel corpo di interessi e bisogni che la sinistra del vecchio secolo aveva saputo tradurre in una spinta di emancipazione per chi nasceva e partiva dal fondo della fila.
Se avessi dovuto condividere con Alfredo un pensiero del genere, avrei provato a imitarne lo stile e magari gli avrei detto la verità (dal mio punto di vista) in questo centenario dei comunisti italiani.
E cioè che noi a lungo abbiamo avuto il soggetto ma non abbiamo avuto il governo.
Poi abbiamo avuto il governo, ma abbiamo perduto il soggetto.
Ora, a scanso di equivoci, Alfredo ha sempre avuto ben chiara l’importanza del governo, ma non ha mai – neppure per un istante – pensato che la sinistra potesse fare a meno del soggetto.
Che per lui voleva dire di un popolo.
Su questo c’è una formula usata un paio d’anni fa da Mario Tronti in apertura di un suo dialogo con Andrea Bianchi.
Lui si chiedeva se si può essere sconfitti senza essere vinti.
Penso possa accadere.
Penso che in questi trent’anni la sinistra sia stata sconfitta (a più riprese), ma non sia vinta nei suoi principi.
C’è quel passo del “Silenzio dei comunisti”: mi è capitato in un’altra occasione di citarlo, ma se lo riprendo con voi questa sera è perché riassume meglio di tante parole il senso di una ricerca che lo ha accompagnato sempre.
È il passo dove Alfredo si interroga e scrive: “Noi, noi gli occidentali, gli illuministi, i laici, non dovremmo domandarci come mai quando la religione colonizza ogni altro campo della vita umana la chiamiamo teocrazia, quando la politica colonizza ogni altro campo della vita umana lo chiamiamo assolutismo, mentre se la legge del denaro tenta di colonizzare ogni altro campo della vita umana questa noi la chiamiamo libertà?”.
Ecco, a questo interrogativo non è mai venuto meno.
E forse basterebbe questo a dare un senso e riassumere quei diciotto volumi bene esposti sul bancale della mia libreria.
Alfredo non ha avuto modo di lasciarci la sua testimonianza su questo centenario, ma forse gli sarebbe piaciuta quella frase usata dall’amico di una vita, Emanuele Macaluso, e citata di Aldo Tortorella, poche settimane fa, nel saluto che ha rivolto a Macaluso davanti alla sede della Camera del lavoro, qui a Roma.
“Quel partito – il Pci – mi era entrato dentro” aveva detto Macaluso poche settimane prima, in una tavola rotonda sul centenario.
E la spiegazione non era perché, giovane com’era – giovani com’erano – avessero letto l’intera dottrina marxista, tantomeno i quaderni che Gramsci aveva riempito negli anni del carcere e che avrebbero letto e studiato anni dopo.
Semplicemente quella era la forza che si batteva dalla parte dei braccianti analfabeti, degli zolfatari, degli ultimi tra gli umili.
Con le contraddizioni che Alfredo ha descritto (ne ha parlato Pietro benissimo).
La consapevolezza di essere stati una grande forza comunque partecipe di una democrazia bloccata (con le formule che hanno scandito quella condizione: la Via italiana al socialismo – le riforme di struttura – un’idea di democrazia progressiva).
È vero: quel partito si è posto il problema di ricomporre classe e nazione: e in questo davvero la lotta di Liberazione era stata intesa e vissuta come una sorta di nuovo Risorgimento.
Ma tutto ciò fu reso possibile perché il comunismo italiano ha avuto una sua matrice originale, autonoma (non voglio dire “eretica”).
A Livorno nel ’21 era prevalsa la tesi più radicale (quella di Bordiga) / Gramsci fu marginale in quel congresso.
Ma già nel gennaio del ’26 con le Tesi di Lione c’è una svolta che trova nella figura di Gramsci un riferimento essenziale.
Comunque la si legga quella storia, non è stato poco.
E se un dirigente, un intellettuale, un uomo generoso, giunto in una età avanzata, sceglieva di leggere una relazione una mattina in casa dinanzi a due spiantati, beh forse era il suo modo di dirci che quella lezione di vita lui l’aveva capita e che sarebbe stato bene che almeno qualcuno dopo di lui – dopo di loro – ne facesse tesoro.
Ecco, più o meno era quello che mi sentivo di dire, di condividere assieme a voi, nel ricordo di un caro amico, di un caro Maestro.

Di un caro compagno.
Grazie


Da – Fb del 23 marzo 2021 da Gianni Cuperlo.

Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!