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Autore Discussione: L’addio a regime forfettario e cedolare secca e ... altro.  (Letto 3840 volte)
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« inserito:: Marzo 19, 2021, 07:55:01 pm »

CATEGORIA: RES PUBLICA

L’addio a regime forfettario e cedolare secca: storia di un tradimento fiscale

 Scritto da Econopoly il 11 Marzo 2021

RES PUBLICA

Post di Sergio Lombardi, dottore commercialista specializzato nella fiscalità delle attività turistiche e delle travel experience, fondatore di Taxbnb.it e di Safexperience –

Il Covid rischia di spazzare via anche il regime forfettario e la cedolare secca, prima introdotti dal Fisco con trionfali previsioni d’incasso e campagne martellanti, oggi rinnegati e combattuti come iniqui privilegi. Negli ultimi mesi, ancora prima del cambio di esecutivo, l’attuale sistema di tassazione dei redditi delle persone fisiche è stato criticato, oltre che sui media, anche in una indagine parlamentare tuttora in corso. Nelle audizioni, i termini più frequenti sono stati equità e progressività, ma anche flat tax, purtroppo in negativo. La guerra fra poveri è appena iniziata, ed ecco le diverse categorie sociali lottare fra loro anche per una minore tassazione, con associazioni di inquilini che chiedono l’incremento delle tasse sui redditi da immobili, e pensionati e dipendenti che invocano uno stop alle agevolazioni del forfettario (già nel 2019 nel mirino di un ricorso per incostituzionalità a Catania da parte di due sigle sindacali del pubblico impiego, finora senza seguito).

Fra le prime mosse del nuovo premier Mario Draghi, dopo l’ennesimo DPCM e gli attesissimi ristori, è previsto l’annuncio di una riforma fiscale. In occasione del discorso per la fiducia al suo governo in Senato, Draghi ha dichiarato che “va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”.

A seguito di questa stringata e programmatica dichiarazione, sono state diffuse libere ipotesi sulla politica fiscale che il Governo intende realizzare. Fra le voci più ricorrenti, l’eliminazione del regime forfettario e una revisione della cedolare secca, per ridurre l’attuale disparità fiscale a sfavore dell’Irpef, riducendo il carico fiscale sui redditi da lavoro dipendente e da pensione. L’attuale contrapposizione sul sistema fiscale ottimale in Italia vede tendenzialmente il centro-destra schierato a favore della flat tax e le altre forze politiche a difesa della progressività dell’imposta sui redditi. Fra i principali tassapiattisti vi è il leghista Claudio Borghi, mentre il tecnico Carlo Cottarelli guida le fila dei no-flat, e celebri e pirotecnici sono stati i loro scontri televisivi.

In realtà, la flat tax non è una novità di oggi e nemmeno una invenzione del centrodestra, perché ad introdurla in Italia furono governi di centrosinistra: il primo governo Prodi istituì nel 1997 il “regime super semplificato”, un prototipo di forfait che presentava già dei coefficienti di redditività per settore, mentre il secondo governo di Giuliano Amato lanciò nel 2001 il “forfettino”, vero antenato del forfettario attuale, e finora il regime agevolato che ha avuto la vita più lunga, fino al 2014. Fra i padri dei due regimi agevolati ci fu Vincenzo Visco, che viene invece considerato un duro del Fisco, tanto da essere amabilmente soprannominato “Dracula” per il rigore delle sue politiche fiscali (ancora oggi è contrario alla cancellazione delle cartelle esattoriali fino al 2015 ipotizzata dal governo).

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Questo articolo ha lo scopo di effettuare un fact checking sulla reale possibilità di una riforma del fisco che preveda il taglio dei regimi agevolati e, nel caso, di valutarne le conseguenze.

1. SCIENZA O PROPAGANDA?
Prima di tutto, occorre considerare l’effettivo contenuto scientifico delle attuali ipotesi di riforma. Un ragionamento ha valore scientifico se confronta oggetti fra loro omogenei. Ma il reddito di lavoro dipendente e quello di lavoro autonomo non sono assolutamente omogenei, sia da un punto di vista giuslavoristico, che da quello fiscale, senza considerare le differenze nelle tutele e nel welfare tra le due categorie. Se iniqui privilegi esistono, essi risalgono almeno al 1986, data di nascita dell’attuale Testo Unico delle imposte sui redditi, in cui l’Irpef degli impiegati e quella dei professionisti sono estremamente diverse fra loro. Per esempio, i lavoratori autonomi non forfettari possono dedurre dal proprio reddito un considerevole volume di costi (autovettura e carburante, telefono e traffico telefonico, personale, ufficio, utenze, computer e periferiche, ecc.), mentre il lavoratore subordinato può dedurre solo i contributi previdenziali a suo carico.

Anche i redditi da immobili, che secondo le striscianti accuse degli ultimi mesi sarebbero solo “rendite privilegiate” da colpire con una maggiore tassazione (sia con una più alta aliquota di tassazione diretta che con una tassa patrimoniale), sono una forma di reddito ben distinta dagli altri redditi Irpef e storicamente non sempre ricompresa nel reddito complessivo. Le attuali contestazioni verso la cedolare secca (secondo Cottarelli concessa “in cambio di nulla”) trascurano il ruolo che essa ha avuto, nel far emergere rapporti di locazione prima sommersi, generando un importante gettito, garantendo un’offerta abitativa estesa, favorendo la mobilità di lavoratori e studenti sul territorio, ed insieme calmierando i canoni di locazione, dato il minor carico fiscale.

2) IL CONTESTO
L’attuale regime forfettario prevede un limite reddituale di 65mila euro e una aliquota del 15% (5% nel caso di startup), da applicare ai coefficienti di redditività, con una tassazione effettiva che raggiunge per alcuni settori il 2%.

Il secondo modulo della flat tax, contenuto anche nel Contratto di Governo 2018, prevedeva una tassazione del 20% per i redditi fino a 100mila euro, ma non è mai stato introdotto.

La tassa piatta ha conquistato milioni di contribuenti: attualmente su circa 2,5 milioni di persone fisiche con partita Iva attiva, ci sono 1,4 milioni di forfettari, e quasi la metà delle nuove partite Iva aperte nel 2020 hanno scelto il regime forfettario.

Dalla sua introduzione nel 2011, la cedolare secca ha attratto un numero sempre maggiore di contribuenti, tanto da essere attualmente applicata quasi per la metà (47%) del valore totale dei canoni di locazione. Oggi sono 2,5 milioni i proprietari che utilizzano la cedolare secca sugli affitti.

Proporre oggi un peggioramento della condizione economica per milioni di soggetti, in piena pandemia da un anno, quando si parla sempre più insistentemente di terza ondata del virus e di nuove chiusure, equivale ad una bomba economica, sociale e politica. Draghi, nell’unico suo discorso pubblico in materia di fisco dalla sua nomina, parla di ridurre il carico fiscale, non certo di aumentarlo: non avrebbe senso parlare di equità se, in un periodo in cui enormi risorse sono impegnate per il lavoro dipendente (la Cassa Integrazione ormai da un anno e il recentissimo aumento retributivo del Pubblico impiego in queste ore), si colpisce il lavoro autonomo già a rischio sopravvivenza, gravandolo di un carico fiscale improvviso e imprevedibile.

3. IL POPOLO DELLE PARTITE IVA
I titolari di partita Iva oggi, e soprattutto quelli con il regime forfettario, non sono tutti affermati professionisti con redditi elevati, e questo già prima del Covid. In molti casi, la partita Iva è effetto della precarizzazione di molte figure professionali, costrette a “diventare imprenditori” per sopravvivere, ma spesso oggi nemmeno in grado di pagare i contributi INPS, dovuti per molte categorie anche in assenza di reddito.

4. LE POSSIBILI REAZIONI
Nel caso venissero cancellati o resi meno convenienti i regimi fiscali agevolati, per la cedolare secca c’è un continuo presidio sindacale da parte delle associazioni della proprietà edilizia.

Diverso è il caso del regime forfettario, adottato trasversalmente da persone fisiche con partita Iva appartenenti a tutte le diverse categorie di attività nell’ambito delle professioni, dei servizi, dell’artigianato e del commercio, e pertanto di complessa rappresentanza e difficile tutela, in caso di abolizione della flat tax.

5. MIND THE GAP
Il rischio di una rivoluzione fiscale nasce da un gradino – o meglio gradone – nell’attuale tassazione Irpef. Dall’anno 2007 c’è un salto di ben undici punti quando si superano i 28mila euro di reddito, con la tassazione che schizza dal 27% al 38%. Sul tavolo di Draghi e delle Commissioni Finanze di Camera e Senato, varie proposte. La soluzione più probabile per ridurre il dislivello potrebbe essere creare un’aliquota intermedia del 32% per i redditi dai 28mila ai 40mila euro, mantenendo l’aliquota del 38% solo per i redditi dai 40mila ai 55mila euro. Naturalmente questo sconto, che alleggerirebbe le tasse sui redditi medi, ha un costo elevato, oltre 5 miliardi di euro. Proprio per finanziare questo gradino intermedio o coprire altri tagli ancora più radicali dell’Irpef, i regimi agevolati rischiano la cancellazione.

6. QUANTE RIFORME?
Una riforma fiscale in realtà è già in corso, e dovrebbe compiersi entro luglio, con l’introduzione dell’Assegno Unico, nuova agevolazione basata sull’ISEE per le famiglie con figli a carico che accorperà in un unico assegno tutte le agevolazioni a sostegno della genitorialità, detrazioni per familiari a carico, assegni per il nucleo familiare e varie prestazioni di welfare, non senza scompensi sulla tassazione e sugli attuali bonus fiscali, come descritto in questo articolo su Econopoly.

7. MODELLO DANESE O TEDESCO?
Secondo gli articoli più recenti sul fisco che verrà, in questa stagione vanno di moda le tasse “alla tedesca” o “alla danese”. Purtroppo, su temi così importanti si procede per slogan, a volte senza la minima comprensione di altri sistemi sociali ed economici molto diversi dal nostro. Interi codici di regole fiscali consolidate in decenni in una terra straniera non possono essere spiegati – e compresi – con due righe in un articolo. Nella mia attività professionale in ambito internazionale svolta nelle Big Four, ho appreso l’enorme complessità e la scarsa intercambiabilità dei sistemi fiscali. Soprattutto quello tedesco, per le sue particolarità come la Kirchensteuer (tassa sulle religioni, che pesa da sola l’8%), per i suoi complessi algoritmi necessari alla progressività, e per i suoi coefficienti familiari per il calcolo delle tasse, ha pochi elementi in comune con il nostro sistema fiscale.

Più che i sistemi fiscali, da Germania e Danimarca bisognerebbe importare la qualità dei servizi della pubblica amministrazione, la regolarità nel pagare le tasse, e la loro capacità assistenziale che in Italia stiamo gradualmente perdendo.

8. CONCLUSIONI: UN FISCO CHE MANTENGA LA PAROLA
Dagli elementi noti, non c’è alcuna evidenza che il regime forfettario e la cedolare secca stiano per essere riformati, e qualora ciò fosse in progetto, abbiamo fornito argomentazioni per far comprendere la delicatezza dell’attuale sistema di tassazione e i disastrosi impatti sull’economia.

Se si può auspicare una riforma fiscale equa, oltre a una riduzione generale del carico fiscale, essa dovrebbe portare regole certe e costanti. Gli imprenditori italiani sono provati e sfiduciati dai continui mutamenti delle regole, e gli investitori stranieri si guardano bene dall’espandersi in Italia, salvo grandi operazioni speculative. I continui cambiamenti sono anche fra le cause del sommerso e dell’evasione. Per poter pianificare, crescere, assumere e produrre, occorre stabilità. Senza incentivi, anzi disincentivando le attività produttive con un’ennesima batosta fiscale, come fanno a ripartire l’economia, i consumi e l’occupazione? Tra l’altro, i “piccoli” riceveranno ben poco dal Recovery Fund, quindi dovranno sostentarsi col loro lavoro.

In Italia ci sono meno di 400 società quotate e più di 41 milioni di contribuenti. Avrebbe allora senso parlare di fiducia dei contribuenti, piuttosto che di fiducia dei mercati finanziari.

Visto che in questi giorni tutti stanno dicendo la loro sul sistema fiscale ideale con teorie quanto meno originali, lanciamo da questa pagina una proposta: basterebbe rendere vincolanti le condizioni dei regimi fiscali d’impresa, rendendole non modificabili per almeno 5 o 10 anni, se non per volontà del contribuente. Con una semplice clausola di salvaguardia, si avrebbe certezza dei propri carichi fiscali, e le condizioni a cui ogni operatore ha aderito resterebbero immutate anche in caso di riforme fiscali, che riguarderebbero solo i soggetti che adottano in futuro per quel regime.

Ecco invece alcuni recenti esempi di applicazione retroattiva di norme fiscali e di violazione della gerarchia delle fonti, che hanno tradito le aspettative di milioni di contribuenti:

– l’esenzione Imu delle strutture ricettive extralberghiere, prima rivolta a tutte le attività per legge (DL convertito) e poi limitata retroattivamente per acconto e saldo Imu 2020 alle sole strutture imprenditoriali con una FAQ del MEF;

– il superbonus 110% per riqualificazione energetica, introdotto per legge a maggio 2020 in misura piena per le persone fisiche, ma con un interpello di dicembre 2020 ridotto del 50% per i titolari di Bed&Breakfast e Case Vacanze;

– le ritenute sui redditi di lavoro dipendente che i datori di lavoro forfettari sono tenuti ad operare dal mese di maggio 2019, regola che ha modificato pesantemente gli obblighi del regime forfettario con effetto retroattivo da gennaio 2019;

– la detassazione dei redditi dei lavoratori impatriati introdotta nel 2019 con il decreto Crescita e poi bloccata a fine 2020 a causa di un decreto attuativo mancante;

– il conguaglio Imu 2020 di marzo 2021, conseguente alla possibilità per i comuni di deliberare retroattivamente le aliquote Imu 2020.

Si parla tanto di pace fiscale, ma questa asimmetria ha ben poco di democratico: questo potere di abolitio regiminis corrisponde più ad un regime assolutistico che a un moderno Stato del mondo occidentale. C’è una bella differenza fra l’essere soggetto passivo di un rapporto tributario ed essere completamente passivo e condannato a fallire per scelte di altri.

In attesa di una maggiore equità, la stabilità delle regole si potrebbe raggiungere attraverso il potenziamento del ruolo del Garante del Contribuente, o semplicemente facendo applicare la disciplina esistente da più di venti anni nello Statuto dei Diritti del Contribuente, che prevede tempi ben precisi per l’introduzione di nuove regole fiscali e non ammette la retroattività. Sarebbe bello potersi fidare del sistema e concentrarsi sulla propria attività produttiva. Ma si sa, la Storia italiana è piena di colpi di scena, di sorprese, ed anche di tradimenti…

Twitter @Taxbnb
Da - https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/03/11/regime-forfettario-cedolare-secca-tradimento-fiscale/?uuid=96_PeNIRA5e
« Ultima modifica: Aprile 03, 2021, 04:34:01 pm da Admin » Registrato

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« Risposta #1 inserito:: Aprile 03, 2021, 04:33:12 pm »

Reddito, ecco come il latino ci aiuta a capire che cos’è
  scritto da Francesco Mercadante il 26 Marzo 2021
TASCHE VOSTRE
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L’economia è fatta di modelli, si basa cioè su delle ‘semplificazioni’ matematiche con le quali lo studioso, attraverso l’osservazione e l’analisi di una certa quantità di dati, tenta di elaborare leggi e paradigmi econometrici. Questa definizione di metodo, per certi aspetti sommaria, ci dà un’idea dell’attività incessante che un vero economista deve svolgere allo scopo di rispondere alle esigenze d’uno Stato o, più in generale, d’una comunità. In fatto di scuole di pensiero, è noto ai più che gli esperti finiscano spesso col dare vita a discussioni molto animate, talora addirittura asperrime e oltraggiose, giacché ciascuno rivendica il primato delle proprie conclusioni, considerando inadeguato il lavoro altrui.
A causa delle continue schermaglie, s’è ormai diffuso il convincimento secondo cui l’economia è una scienza inesatta: dal nostro punto di vista, che non è quello dell’economista, bensì quello del linguista che studia il linguaggio dell’economia, si tratta di un giudizio frettoloso e approssimativo, generato, il più delle volte, dall’incapacità di comunicare il dato scientifico. Molto di frequente, infatti, l’economia è affidata a una lingua di settore inaccessibile ed è ‘troppo’ mediata dai giornali. Insomma: gli economisti che hanno a cuore la divulgazione e, soprattutto, sanno praticarla sono pochi. Quando un’analisi o una previsione arriva ai media, è ormai troppo tardi: vi giunge talmente distorta che il cittadino comune vede o solo il male o solo il bene.
La stessa disputa tra i ‘pro-euro’ e gli ‘anti-euro’, di per sé, è tanto più ridicola quanto più i sostenitori dell’una o dell’altra fazione si sforzano di accreditare il proprio discorso delegittimando quello del presunto rivale. Nella scienza, male e bene non esistono. Non a caso, i modelli, cui abbiamo fatto cenno in apertura, sono costituiti da variabili, non già da elementi fissi e incontrovertibili; le variabili, a propria volta, sono in relazione le une con le altre e sono espresse da funzioni. Di conseguenza, ogni modello può essere perfettibile – senza dubbio –, tuttavia chi rispetta i parametri e le condizioni di sviluppo di un protocollo scientifico ed è onesto, ossia non asservito a interessi di partito, non può di certo prendere la proverbiale cantonata o, comunque, non può dire delle sciocchezze.
Un’altra notazione da aggiungere e sicuramente da non trascurare è quella che concerne la differenza tra flusso e stock. Una variabile di stock è data dall’esito di una misurazione effettuata in un momento determinato, mentre quella di flusso è rilevata in un intervallo di tempo. Col proposito di offrire al lettore un esempio proficuo e che sia pertinente all’indagine in corso, segnaliamo due termini: reddito e patrimonio. Non si fa fatica a descrivere il patrimonio come uno stock, poiché viene registrato come una sorta di ‘valore a saldo’ – per intenderci –, proprio nel momento in cui decidiamo di ricavarne la stima. Diversamente, il reddito è un vero e proprio flusso, essendo una grandezza formata da operazioni, scambi e, soprattutto, in un arco temporale più ampio che nel caso precedente. Dal reddito, infatti, si giunge alla ricchezza del singolo contribuente e dell’intero paese.
Quando consultiamo l’ISTAT e leggiamo “Nel 2020 un milione di persone in più in povertà assoluta”, acquisiamo informazioni in merito alla riduzione della ricchezza e, di conseguenza, del reddito. Parlare di PIL vuol dire parlare, giocoforza, della capacità di un paese di produrre reddito. Allo stesso modo, il reddito pro capite è definito come la capacità del singolo contribuente di produrre reddito; dalla qual cosa si ha il rovescio della medaglia: il reddito del cittadino genera, a propria volta, la base imponibile per le imposte. A ogni modo, è bene precisare che, in ambito macroeconomico, reddito e spesa si equivalgono: semplicemente: ogni euro che spendiamo diventa reddito per il venditore.
In questa direttrice d’analisi, procedendo oltre e dovendo fare una scelta lemmatica, per così dire, ci dedichiamo alla ricostruzione del significato originario di reddito, un sostantivo mutuato in modo paradigmatico da un verbo latino e il cui uso specifico e concreto viene fatto risalire alla tarda latinità. Prima di entrare nel merito della proposta, abbiamo il dovere di delimitare correttamente l’area di lavoro. Le parole che usiamo rappresentano il nostro mondo, lo mettono interamente a nudo, anche quando ci affidiamo agli artifici retorici o alla menzogna. Nello stesso tempo, queste parole recano in sé valori storici e designano legami e forme d’appartenenza. Oggi, secondo le devianze ‘strutturalistiche’ e ‘formalistiche’ di alcuni sedicenti e vanagloriosi riformatori, il latino e il greco sarebbero lingue inutili. Noi, rifiutando la polemica, ci permettiamo di far notare che l’efficacia delle lingue romanze, una volta abbandonato il latino, si muterebbe in un che di disfunzionale e fuorviante o – vogliamo osare – addirittura quasi babelico. Il termine che abbiamo scelto rappresenta una delle tante prove.
 
L’area semantica di reddito è inscritta, in modo inequivocabile e netto, nel paradigma del verbo reddo: reddo, reddis, reddidi, redditum, reddĕre. A beneficio del lettore che non conosce il latino, ricordiamo che reddo e reddis sono, rispettivamente, la prima e la seconda persona del presente indicativo, reddidi è la prima persona del perfetto indicativo, che corrisponde al nostro passato remoto o al nostro passato prossimo, redditum è il supino attivo, che in italiano manca, ma che adesso diventa l’elemento verbale da noi indagato, e reddĕre è l’infinito. Fin da ora, ci si può giovare della limpida congruenza e s’intuisce chiaramente e senza sforzo quanto sia importante questo ‘precedente linguistico’.
In un buon vocabolario di latino, troviamo i seguenti significati: rendere, ridare, restituire, dare in compenso, pagare, soddisfare. In altri termini, già nelle origini classiche, il concetto della relazione socio-economica, quantunque non razionalizzato, è ben delineato. Il reddito è garantito e concesso sulla base d’un’attività svolta: se così non fosse, non esisterebbero le forme della restituzione, del compenso e della soddisfazione. Emerge limpidamente, tra le altre cose, la natura del flusso quale relazione almeno tra due attori sociali, unitamente alla valutazione della prestazione e a una qualche unità di misura di pertinenza.
Come abbiamo detto in precedenza, il protocollo scientifico dev’essere rigorosamente rispettato, pertanto rivolgiamo la nostra attenzione alle fonti letterarie, grazie alle quali grammatici e filologi e, in generale, linguisti hanno potuto costruire i propri ‘modelli’, quei modelli di cui anche inconsapevolmente ci serviamo.
Te, boves olim nisi reddidisses / per dolum amotas, puerum minaci / voce dum terret, viduus pharetra / risit Apollo. [Apollo minacciava / terribile il fanciullo, che rendesse / le vacche tolte con l’inganno: invano / si cercò la faretra (ORAZIO, Odi ed Epodi, I 10 vv. 9-12, vol. 1, a cura di A. Traina ed E. Mandruzzato, 1996, Fabbri, Milano, pp. 90-91)]
Un primo piano di significato è indubbiamente quello della restituzione forzosa; il che potrebbe far pensare a qualcosa di diverso e lontano dalla ricchezza che l’uomo è in grado di produrre. Tuttavia, è bene riflettere sue due componenti: quella che riguarda la figura del dio Apollo, la cui legge è superiore a quella degli uomini, e quella dell’inganno. Di conseguenza, a ben vedere, la relazione e lo scambio insito in essa sono pienamente rispettati.
Lars Tolumnius, rex Veientium, quattuor legatos populi Romani Fidenis interemit, quorum statuae steterunt usque ad meam memoriam in rostris: iustus honos: eis enim maiores nostri qui ob rem publicam mortem obierant pro brevi vita diuturnam memoriam reddiderunt [Il comandante Tolumnio, re di Veio, fece uccidere a Fidene quattro ambasciatori romani, le cui statue erette sui rostri io ricordo bene. Onore meritato, in quanto i nostri antenati vollero dare a coloro che si erano sacrificati per la patria un ricordo imperituro a compenso della brevità della loro vita (CICERONE, Filippiche, IX, II, 4, in Le orazioni, vol. IV, a cura di G. Bellardi, 1978, UTET, Torino, pp. 488-489)]
Cicerone, che, in fatto di testimonianze e riscontri, è uno degli autori più utilizzati dai lessicografi, ci permette di stabilire una perfetta corrispondenza tra ciò che l’uomo guadagna o si conquista concretamente e ciò che gli viene riconosciuto. Questa forma di reddito è piuttosto esplicita: un nobile antecedente, per così dire.
Nunc, o caeruleo creata ponto (…) / Acceptum face redditumque votum, / Si non illepidum neque invenustum est. / (…) [Ora, o Dea nata dall’azzurro mare (…) / considera accettato il voto ed esaudito / se non è privo di spirito e indegno della grazia d’amore (CATULLO, Le poesie, I, c. 36, vv.11 e 16-17, a cura di F. Della Corte, 2006, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori, pp. 56-59)]
Con Catullo, concludiamo la pretta classicità a supporto della funzionalità semantica primeva di reddito. Quest’ultimo brano, sulle prime, potrebbe apparire mellifluo o esornativo, ma, a un esame profondo, ci si rende conto che solo qui si ha il vero concetto di appagamento, specie se posto in relazione (ancora una volta!) con la dea. La lingua si costruisce sulle occorrenze, non sulle perifrasi o sugli espedienti provvisori degli azzeccagarbugli che sanno stare comodamente su qualche sedia dottorale.
In sostanza, riepilogando, il termine reddito proviene dal participio passato neutro di reddo, ma, in funzione di termine indipendente dalla forma verbale d’origine e col significato di provento, compare solo nel latino tardo, com’è attestato nel Glossarium mediae et infimae latinitatis di Du Cange, dove il lemma reditus risulta in uso attraverso l’Historia Augusta, opera del IV sec. d. C. (scritta nel periodo tra il principato di Diocleziano e quello di Costantino, come dimostrano le dediche e le apostrofi ai due imperatori), in cui sono raccolte le biografie imperiali da Adriano a Numeriano.

Laborabat praeterea, ut condita militaria diligenter adgnosceret, reditus quoque provinciales sollerter explorans ut, si alicubi quippiam deesset, expleret [Compiva diligenti ispezioni ai magazzini militari e si informava delle risorse di tutte le province, per potere, in caso di necessità, aiutare le une con i prodotti delle altre, pur preoccupandosi, più di ogni altro, di non fare spese superflue (SPARTIANO, E., Vita di Adriano, in Scrittori della Storia Augusta, a cura di L. Agnes, 1960, UTET, Torino, p. 34; testo latino The Scriptores Historiae Augustae, vol. 1, a cura di D. Magie, 1921, Harvard University Press)]
Twitter @FscoMer

Da https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/03/26/reddito-latino-capire/?uuid=96_6uDJKVtr
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