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Autore Discussione: Enrico FIERRO.  (Letto 6999 volte)
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« inserito:: Dicembre 29, 2007, 12:42:54 am »

Quando l’assassino è un italiano

Enrico Fierro


Notizie di Natale. Che ti raccontano di delitti orrendi e di famiglie intere distrutte dal solito ubriaco al volante. Notizie di Natale, che però ti parlano anche di un Paese dalla indignazione a doppia velocità. Prendiamo l’assassinio indefinibile (nel senso che non ci sono aggettivi che possano aiutarci a definirlo) di Iole Tassitani. Il suo assassino l’ha sequestrata, tenuta prigioniera per dodici giorni, infine l’ha ammazzata. Senza pietà, facendo scempio del suo corpo, sezionato in 29 pezzi poi riposti in sacchetti neri. L’ha rapita e uccisa per soldi, Michele Fusaro, falegname con l’ossessione del corpo.

L’assassino, l’ha rapita e uccisa per soldi: Michele Fusaro, falegname con l’ossessione del corpo - che curava, informano le cronache - con lunghe sedute in palestra e chilometriche passeggiate. Un tipo normale, «tranquillo e riservato», «un insospettable», dicono di lui, ma col miraggio dei soldi facili.

Bellezza, danari e successo: le tre ossessioni sociali di oggi. I giornali di ieri (quelli confezionati dopo la pausa natalizia) hanno raccontato sequestro e delitto in tutti i particolari, anche i più macabri. Tanta cronaca, pochi commenti. Nessun politico ha parlato.

Eppure non osiamo immaginare cosa sarebbe successo se quella notizia - appena accennata tra le righe di un servizio letto nei telegiornali pochi giorni prima della soluzione del caso - si fosse rivelata vera. «Dietro il sequestro Tassitani - diceva - forse una banda di nordafricani». Il Nord, il profondo Nord sarebbe stato scosso da cortei leghisti con tanto di cappi sventolati e la richiesta perentoria di «cacciare i negri». Altri politici avrebbero replicato e per giorni il dibattito avrebbe infiammato il Paese.

Forse al punto di convincere il governo a varare un decreto d’urgenza. Lo abbiamo già visto con l’omicidio - ad opera di un rom di nazionalità romena - della signora Giovanna Reggiani.

Violenza, indignazione, proteste e decisioni politiche: un mix micidiale. E invece è accaduto che un contributo importante per arrivare a scoprire il garage degli orrori dove è stata massacrata la povera Iole Tassitani sia venuto proprio da un nordafricano. L’ex cognato del falegname accusato dell’omicidio, un marocchino, al quale Michele Fusaro aveva proposto un «affare» e tanti soldi da raggranellare con un sequestro di persona. L’uomo, appena saputo del rapimento Tassitani, è andato di corsa dai carabinieri a raccontare tutto.

Ubriachi al volante. Neppure loro potevano mancare in questo Natale delle bestialità. E così nel Begamasco una intera famiglia (padre, madre e figlia di dieci anni) viene distrutta in uno scontro frontale con un poderoso Suv Cherokee. Il trentaduenne che lo guidava aveva bevuto e tanto: nel sangue aveva alcol in una quantità quatto volte sopra il limite consentito dall’alcotest. Il suv, simbolo di potenza, l’alcol, la guida spericolata, forse le cose che sognava il falegname di Bassano del Grappa nei suoi deliri di successo e ricchezza. Anche in questo caso la notizia sparirà dalle pagine dei giornali. Ed è un male perché sul tema degli incidenti stradali e della irresponsabilità di tanti automobilisti - con passaporto italiano e non - non si discute mai abbastanza.

Non fu così nei mesi scorsi con Marco Ahmetovic, il rom romeno che ad Ascoli Piceno falciò quattro ragazzi. Anche lui era ubriaco alla guida del suo sgangherato furgone e anche la sua follia provocò indignazione. Ma per poco tempo. Perché nelle pieghe più nascoste di questo Paese c’è posto per tutto, anche per il «male» che diventa all’improvviso business. E così, mentre nell’Ascolano qualcuno trasformava la propria indignazione in violenza e dava fuoco alle baracche di un campo rom, un abile press agent (italiano) pensava di sfruttare al massimo le «qualità» di Ahmetovic. Che era destinato a diventare testimonial di una linea di prodotti (jeans, magliette, cinture borchiate) con studiate campagne pubblicitarie e contorno di abbondanti spot televisivi.

La cosa non ha avuto seguito, ma siamo sicuri che i prodotti lanciati dal «rom assassino» avrebbero avuto un grande successo nel paese dell’indignazione «a doppia velocità».

Pubblicato il: 28.12.07
Modificato il: 28.12.07 alle ore 12.22   
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« Ultima modifica: Novembre 16, 2008, 05:33:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 05, 2008, 06:23:19 pm »

Liti all’ombra dei rifiuti

Enrico Fierro


La situazione a Napoli è disperata.

Da oggi neppure in città si raccoglieranno i rifiuti per strada. Da ieri anche l’ultimo impianto di Cdr, gli orrendi e inutili scatoloni destinati a trasformare i rifiuti in combustibile che non potrà mai essere bruciato, è bloccato. A Pianura gruppi di ragazzotti dalla mano lesta hanno conquistato la leadership della rivolta popolare incendiando quattro autobus di linea. La camorra è scesa in campo. I boss e le famiglie che hanno interessi sulle aree destinate a parco e green per i campi da golf - gli investimenti incautamente promessi al posto della discarica che sta riaprendo - si stanno muovendo.

I clan che da sempre gestiscono il ciclo illegale dei rifiuti non intendono perdere un business che da solo porta più guadagni della droga. La Campania intera, da Caserta ad Avellino fino a Benevento, è esasperata. Si temono gli effetti che la diossina sprigionata nell’aria dai roghi delle montagne di mondezza avrà sulla salute dei campani di oggi e di quelli di domani. Il tutto in una realtà dove le statistiche delle autorità sanitarie - prima fra tutte l’Oms - parlano di un aumento di tumori, malattie respiratorie e mortalità infantile. Una destra col sangue agli occhi soffia sul fuoco. Il partito di Gianfranco Fini - che pure con il suo governatore Rastrelli ha avuto responsabilità enormi in tutta questa storia - ieri ha impiccato 24 manichini raffiguranti la sindaca Iervolino e il presidente della Regione Bassolino su tutto il Rettifilo, una delle strade più importanti della città. Non siamo ancora alla rivolta di Masaniello, ma manca poco.

Un disastro politico e sociale immane stringe Napoli e l’intera regione. E il centrosinistra che fa? Si divide. Potentati e correnti dentro i vari partiti colgono l’occasione della tragedia per regolare vecchi conti politici. Chi ha delicate responsabilità istituzionali sembra fare a gara a dire io non c’entro. Sulla scelta di riaprire la discarica di Pianura le divisioni più nette. C’è un prefetto, Alessandro Pansa, fino a pochi giorni fa commissario straordinario all’emergenza, che convoca una conferenza stampa per dire che lui ha avuto le “mani legate”. Da cosa? «Dalla sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, compreso il commissariato straordinario». Un j'accuse preciso, ma da un prefetto della Repubblica il cittadino qualsiasi si aspetta altro, soluzioni al problema e non suggestive analisi sociologiche. I napoletani, poi, che hanno assistito a 14 anni di sprechi indecenti, di funzionari di partito bolliti messi a capo proprio di quel commissariato nel quale dovrebbero porre la loro infinita fiducia, e di funzionari dello Stato che in missione a Napoli preferivano alloggiare all’Hotel Vesuvio o al Santa Lucia, ne hanno piene le scatole di prediche. Con il prefetto ieri ha litigato a muso duro il sindaco Iervolino, contrario alla riapertura della discarica di Pianura. Sono volate parole grosse e minacce di querela.

La destra appende manichini e soffia sul fuoco, e il centrosinistra si divide e attacca. Nel mirino Antonio Bassolino, il presidente della Regione, l’uomo che ha guidato il Commissariato straordinario ai rifiuti nella sua fase più delicata. In prima fila nelle richieste di dimissioni proprio quei parlamentari che in questi anni hanno accuratamente evitato di sporcarsi le mani con la mondezza.

Ora è il tempo di tirare il freno delle polemiche, di dimostrare che Napoli e la Campania, la sua classe politica sono in grado di uscire dall’emergenza. Con l’indispensabile sostegno pieno del governo, che non sempre c’è stato e con la responsabilità di tutti. Del prefetto e del nuovo commissario, che farebbe bene a spalancare le porte ai sindaci e ad evitare l’increscioso episodio dell’altro giorno, quando il primo cittadino di Caserta è stato tenuto fuori dalla porta e ricevuto solo da un funzionario. Serve questo e serve il dialogo con i cittadini. Pianura non può essere lasciata in balia di chi soffia sul fuoco. A Giugliano e ai comuni che ospitano Cdr e aree di stoccaggio vanno offerti impegni e scadenze precise. La salubrità del territorio e delle popolazioni deve essere monitorata costantemente da Asl, Università e ospedali. La gente va rassicurata con analisi scientifiche e parole chiare. Il senatore Tommaso Sodano, presidente della Commissione ambiente, proponeva un tavolo della responsabilità attorno al quale far sedere parlamentari e livelli istituzionali, il ministro Nicolais ha illustrato ieri ai giornali il suo piano per uscire dall’emergenza. Lo porti sul tavolo del governo, lo proponga anche a Napoli.

È difficile mettere fine alle polemiche, ai piccoli interessi di bottega, e lasciare alla destra la protesta e il masianellismo dei manichini appesi? Se non si fa questo, il rischio reale e molto ravvicinato è che tutta la politica del centrosinistra a Napoli e nell’intera Campania venga travolta da cumuli di rifiuti.

Pubblicato il: 05.01.08
Modificato il: 05.01.08 alle ore 14.01   
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 29, 2008, 05:07:24 pm »

Le mani della ’ndrangheta sulla sanità

Diciotto arresti eccellenti in Calabria.

Smantellato il «sistema» di Mimmo Crea, uomo della Nuova Dc

Enrico Fierro


Ha cambiato partiti, schieramenti, maggioranze e politici dei riferimento. Lo ha eletto il centrodestra, lo hanno corteggiato uomini del centrosinistra come Sergio D’Antoni e Franco Marini. È stato in lista alle scorse regionali calabresi con Agazio Loiero, ma prima era stato assessore con la destra. Ora è stato accolto nelle braccia della Nuova Dc di Gianfranco Rotondi.

La sua speranza? Tornare nelle stanze dei bottoni della Regione, quando la stella di Berlusconi e soci splenderà di nuovo sull’Italia e la Calabria. È Domenico Crea, Mimmo, impareggiabile prototipo di politico del Sud. Da ieri è in galera con l’accusa pesantissima di essere il punto di riferimento delle cosche di ’ndrangheta della fascia Jonica. Era un uomo a disposizione, insomma, un politico amico degli amici, uno dei tanti nella martoriata Calabria.

Con boss del calibro dei Morabito di Africo, dei Cordì di Locri, degli Zavettieri e dei mammasantissima di Bova Marina, Crea faceva affari. Tutti insieme, mafiosi, politici, alti funzionari della Regione, medici, si spartivano i miliardi della sanità pubblica. Con lui sono finiti in galera il figlio Antonio, direttore sanitario della clinica di famiglia, il direttore amministrativo dell’ospedale di Melito Porto Salvo, un operaio forestale organico ad una cosca mafiosa, un collaboratore di Crea, Iacopino Antonino. E in più il dottor Peppe Pansera, genero di Giuseppe Morabito, boss di Africo detto «Tiradrittu». Li arrestarono nel 2004 in un casolare dell’Aspromonte.

Nella lista dei magistrati della procura antimafia di Reggio Calabria diciotto persone, nove agli arresti domiciliari. Si tratta di medici e alti dirigenti della sanità calabrese, alcuni in quota centrodestra, altri, come il dottor Pietro Morabito, promossi dal governatore Loiero alla direzione di importanti Asl.

Mafia, politica e sanità. Sullo sfondo un omicidio politico che ha sconvolto la Calabria, quello di Franco Fortugno, medico ed esponente della Margherita. Lo ammazzarono il 16 ottobre del 2005. Alessandro Marcianò e suo figlio Giuseppe sono sotto processo con l’accusa di essere i mandanti. Anche loro compaiono nell’elenco dell’operazione «Onorata sanità». Fortugno, scrivono i pm Colamonici e Andrigo, «era un ostacolo» per gli affari di Crea e dei suoi accoliti. «Per questo andava eliminato, rimosso». Fortugno era un politico fuori dai giochi affaristico-mafiosi, un personaggio scomodo, era stato eletto soffiando il posto di consigliere regionale a Mimmo Crea. Gigi Meduri, viceministro ai Trasporti del governo Prodi, in una intercettazione lo giudica «un idiota», Alessandro Marcianò (il presunto mandante), uomo di fiducia di Crea, «un cazzo pieno d’acqua». È semplicemente un onesto.

La concezione della politica di Crea, invece, è diversa. Ecco la sua graduatoria del valore degli assessorati. «La sanità è prima, l’agricoltura e forestazione seconda, le attività produttive terza; in ordine di budget. sette mila miliardi... con la sanità. Agricoltura e forestazione assieme ci sono 4500 miliardi l’anno da gestire... perché la delega è tua, quindi tu sei responsabile di tutto, dalla programmazione alla gestione. Ogni assessorato hai almeno 5, 6 settori da sviluppare, uno se lo prende uno e un altro, sempre sugli indirizzi che do io... qualcuno segue questa linea quell’altro segue quell’altra, l’altro segue quell’altra (...) sono stato chiaro? oppure parlo arabo io?». Insomma, si va in Consiglio regionale non per quei quattro soldi (10mila euro al mese), ma per fare affari grossi. «Ma no con uno stipendio, che cazzo te ne fotte dello stipendio! (...) cioè ma quando hai me cretino tu che puoi fare? ti prendi i 10 mila euro di consigliere? e che cazzo sono?».

Nel 2005, se fosse diventato assessore alla sanità alla regione, Crea avrebbe gestito la «Fiat della Calabria», la salute pubblica che tra Cosenza e Reggio muove il 70% del bilancio regionale. «2000 miliardi me li gestivo io per i cazzi miei ... inc... allora perché vi dico ragionate con le teste e non fate gli storti... soffro quando penso... per una cazzata...». L’onorevole ha le idee chiare: se si vuole contare in politica bisogna maneggiare miliardi, tanto i controlli sono scarsi. «Qua è una regione che parte da Cosenza a Reggio Calabria; chi cazzo sa l’intervento che ha fatto qua o l’intervento che hai fatto ad Amantea o quello che puoi fare a Reggio Calabria». Crea parla con un amico, il vento politico sta cambiando e in Calabria certi ambienti lo capiscono prima dei politologi. L’amico gli predice un futuro roseo. «Se vince il centrodestra farai l’assessore?». Crea: «Su questo non c’è dubbio».

E come poteva averne l’uomo che secondo i magistrati dell’Antimafia reggina, in Calabria ha creato un vero e proprio «sistema». Antonio è suo figlio, è medico, dirige Villa Anya, la clinica di famiglia. «Noi dobbiamo partire ora a fare politica, a farci le nostre mangiate, le nostre nuove amicizie», dice dopo la mancata elezione del padre sconfitto per una manciata di voti proprio da Francesco Fortugno. «Che se uno lo sapeva prendeva cento milioni - dice al telefono con un amico - e se li comprava».

La morte di Fortugno spalancherà di nuovo le porte della Regione al padre Mimmo. Uomo di riferimento dei mammasantissima della jonica fin dall’inizio della sua carriera politica. «Gli altri dieci locali che noi possiamo attingere voti, poi vediamo a chi cazzo possiamo appoggiare per vedere nella Regione, per avere a uno che ci possa garantire di qualche cosa, ma nella peggiore delle ipotesi qualche lavoro», dice nel ’96 il medico-boss Peppe Pansera pensando proprio a Crea. La cosca Morabito, generi e figli medici, ha un pallino per la sanità al punto di avere una mano - con i corollario di intimidazioni e omicidi - anche sull’Università di Messina.

Il controllo delle stanze della regione dove si distribuiscono i miliardi della sanità è l’assillo della famiglia Crea. Peppino Biamonte, alto dirigente dell’assessorato regionale, risponde sempre «agli ordini», quando l’onorevole lo chiama. Crea: «Peppino, io sono qua con Nicola Adamo» (ds, all’epoca vicepresidente della giunta Loiero, ndr). Biamonte: «Stiamo lavorando sulla programmazione 2005-2006, vedi tu come è meglio». Poi Biamonte si mostra allarmato per la candidatura della vedova Fortugno alla Camera. Crea lo rassicura.

L’onorevole poteva tutto. I boss lo sostenevano. La sua villa Anya, una residenza per anziani, riceve l’accreditamento da parte della Regione e del servizio sanitario nazionale, subito dopo l’omicidio Fortugno. Dagli assessorati di Catanzaro gli stanziano 500 mila euro con un gioco delle tre carte. È il solito dottor Biamonte a fare il miracolo: firma una nota con la quale dirotta la somma dalla spesa farmaceutica alla clinica dei Crea.

Falsi, truffe aggravate, omissioni di soccorso e morti sospette a Villa Anya. La «clinica degli orrori», la definisce il procuratore Scuderi in una conferenza stampa. I pazienti morivano in clinica ma la morte veniva certificata in ospedale. Molti malati non venivano curati adeguatamente. Il direttore sanitario, figlio di Crea, spesso era fuori: dettava le cure alle infermiere. «Questa - dice di una anziana paziente una assistente - la facciamo morire noi».


Pubblicato il: 29.01.08
Modificato il: 29.01.08 alle ore 8.16   
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 06, 2008, 03:24:38 pm »

Lumia: «Così il rinnovamento del Pd si ferma in Sicilia»

Enrico Fierro


Peppe Lumia, una vita a occuparsi di mafia. Ora è fuori dalle liste. “Un errore non candidarlo”, dice Anna Finocchiaro. “Ha fatto più di due legislature”, replicano dal loft veltroniano. “La lotta alla mafia è una pratica e non una persona. Penso che Lumia verrà a lavorare con noi, è un amico”, promette Veltroni. Intanto lui, Giuseppe Lumia, non risponde al telefono. I capi del Pd ieri lo hanno cercato inutilmente.

Onorevole, nel prossimo Parlamento ci sarà Totò Cuffaro, l'uomo che festeggia a cannoli e rosolio una condanna a cinque anni, e lei no. E' questo il rischio?
“Effettivamente questo rischio c'è, vedremo nelle prossime ore cosa succederà, se ci saranno dei ripensamenti”.

Se il Pd non dovesse candidarla, sceglierà altre liste, altri partiti?
“In questo momento sono interessato al grande progetto del Pd. Veltroni è riuscito a mettere in piedi una grande innovazione che ha raggiunto e scosso le fondamenta del Paese, sia nella società che nella politica. Mi dispiace che una volta arrivati in Sicilia questo grande progetto si blocchi. E' un destino amaro: il rinnovamento si ferma sempre alla punta dello Stretto, viene frenato, storpiato. Il mio impegno di queste ore è salvare questo progetto, fare in modo che viva anche nelle candidature e che sia in grado di tenere insieme legalità e sviluppo.

Si candiderà con Di Pietro?
“Per ora sto ponendo un problema che prescinde dalla mia persona e forse anche dalla mia candidatura. In Sicilia abbiamo un sistema di potere che è entrato finalmente in crisi. Un sistema che fa perno sulle collusioni mafiose, sulle burocrazie corrotte, sul clientelismo di massa e che è in profonda difficoltà, c'è una domanda di cambiamento che mai si era vista. Mi riferisco al mondo dell'impresa e della produzione, alle università, alle associazioni. Ecco, io sto lavorando perché questa domanda di cambiamento trovi una risposta nella politica e abbia una possibilità di riversarsi nelle istituzioni”.

Nella lista al Senato del Pd c'è Vladimiro Crisafulli che nel 2001 parlava amabilmente con un boss di Enna, tale Bevilacqua. Nulla di penalmente rilevante, però...
“Questa candidatura è una cattiva novità che ho sempre combattuto secondo principi di etica politica. Non c'entra niente il dato penale, peraltro risolto con un richiesta di archiviazione da parte del magistrato, parlo delle enormi responsabilità politiche. Contesto questa candidatura, la combatto anche e soprattutto nella sua idea di fondo, nel modo di praticare la politica, nel suo rapporto con le istituzioni, nell'idea che si ha della Sicilia e del suo futuro. E continuerò a combatterla. Il Pd in Italia sta riformando la politica. Ma in Sicilia...”

In Sicilia?
“C'è questo meccanismo, l'isola la si considera un mondo a parte, spesso ci si arrende di fronte alla possibilità di promuovere una classe dirigente in grado di coniugare legalità e sviluppo. C'è una subalternità delle classi dirigenti siciliane verso Roma e i partiti centrali, i quali spesso lasciano mano libera ai vari potentati sul territorio. Tutto ciò è una palla al piede che impedisce la creazione di una classe dirigente moderna”.

Aspirazione difficilmente conciliabile col fatto che Totò Cardinale lascia il posto in Parlamento a patto che venga candidata sua figlia?
“Che dire? C'è una sfida tra innovazione e un panorama di candidature negative, contestate in Sicilia anche da quel mondo moderato che guarda con simpatia al Pd. Bisogna cambiare subito rotta”.

Onorevole, ha sentito Veltroni?
Ho fiducia in Walter, ma in Sicilia deve avere lo stesso coraggio che sta dimostrando sulle questioni del Nord, e lo stesso coraggio che ha avuto in Calabria e in Campania, insomma è necessario che anche sulla Sicilia faccia un investimento profondo e volti pagina sulle candidature”.

Lei ha fiducia che tutto ciò avvenga e che in Sicilia non vinca l'eterno gattopardo?
“La mia non è una fiducia statica, ma dinamica ed è frutto di impegno quotidiano, di lotta, di programma e di progetto. Sto lavorando perché il Pd dia risposte serie anche con le candidature a quella Sicilia del cambiamento che è frastornata ed ha bisogno di un messaggio forte”.

Pubblicato il: 05.03.08
Modificato il: 05.03.08 alle ore 14.42   
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:34:21 pm »

Mafia, lo scandalo delle finte confische

Enrico Fierro


In Calabria scoppia lo scandalo dei beni confiscati alla ’ndrangheta. Palazzi, case, fabbriche, terreni, strappati alla mafia più ricca e potente e da riconvertire in attività sociali, come vuole la legge Rognoni-La Torre. Ma così non è perché quelle ricchezze spesso restano nelle mani degli stessi mafiosi, oppure, ed è l’ipotesi migliore, vengono consegnati in ritardo alle associazioni cui sono destinate. Spesso beni sottratti dopo anni di indagini risultano abbandonati e lasciati in uno stato di assoluto degrado.

Incompetenze degli amministratori comunali, complicità, rapporti di parentela di tecnici e assessori con le famiglie mafiose, c’è tutto questo nell’inchiesta del Ros dei Carabinieri di Reggio Calabria.

Trecento pagine, più una vasta documentazione fotografica, firmate dal colonnello Valerio Giardina e da tempo sui tavoli della procura antimafia. Un’inchiesta durata due anni e che ha passato al setaccio 803 beni immobili confiscati alle cosche. Di questi, fino al 16 maggio 2006, 307 sono stati consegnati dall’Agenzia del Demanio ai Comuni. «Dai primi accertamenti - si legge nell’informativa dei Carabinieri - è emerso che parte degli immobili sono stati assegnati ad enti o associazioni di impegno sociale con notevole ritardo, cioè solo alcuni anni dopo la loro presa in consegna. Alcuni non sono stati mai assegnati ad alcun ente, con iter procedurali avviati e mai conclusi, pertanto inutilizzati. Altri ancora sono risultati in uso o nella disponibilità dei soggetti nei cui confronti si è proceduto alla confisca, o dei loro familiari». Una lunga premessa che spiega più di mille convegni con dotti «mafiologi» le ragioni di un fallimento annunciato. Dall’individuazione al sequestro, fino alla confisca e alla successiva assegnazione di un bene mafioso, passano in media quindici anni. Almeno in Calabria ora si sa per colpa di chi. I carabinieri hanno stilato un elenco di 371 persone, tecnici, sindaci, assessori, un numero altissimo di amministratori pubblici della provincia di Reggio. L’ipotesi di reato è quella di omissione d’atti d’ufficio aggravata dall’articolo 7 della legge antimafia (si commette un reato per favorire una associazione mafiosa).

A Reggio Calabria i beni confiscati alla potente cosca Libri «sono stati assegnati con notevole ritardo, alcuni anni dopo la loro presa in consegna da parte dell’amministrazione comunale». E non basta, perché, dopo aver spulciato mappe catastali, documenti del Demanio e atti giudiziari, il Ros ha scoperto che altri beni non sono stati mai assegnati ad alcun ente grazie a «iter procedurali avviati e mai conclusi». Si tratta di case e terreni «inutilizzati e, nel caso dei beni ubicati in contrada Lagani e San Cristoforo, addirittura in godimento rispettivamente ad una ditta dolciaria e a un privato». I carabinieri hanno anche scoperto che due appartamenti confiscati alla cosca Lo Giudice e da assegnare a famiglie indigenti non erano stati ancora utilizzati dal Comune. In uno dei due viveva tranquillamente la vedova del boss Peppe Lo Giudice. Quelle case erano state assegnate al Comune di Reggio nel 2001, «solo nel luglio 2006 - si legge nell’informativa del Ros - il Comune provvedeva ad emettere i provvedimenti di sfratto», in concomitanza con l’avio dell’inchiesta. Morale della favola: finiscono sotto inchiesta l’attuale sindaco Giuseppe Scopelliti, l’ex vicesindaco della città, Demetrio Naccari Carlizzi (oggi consigliere regionale del Pd e assessore al Bilancio), un magistrato ex assessore della giunta di centrodestra, Giuseppe Adornato, l’ex colonnello della Gdf, Graziano Melandri, ex assessore pure lui.

Dal capoluogo alla provincia. La situazione non cambia. A Palmi «nessuno dei beni confiscasti e consegnati al Comune» è stato mai utilizzato per i fini sociali previsti. Alcuni esempi: al camping «Due Pini», sequestrato alla cosca Mammoliti, doveva sorgere un «centro per anziani e ospitalità profughi ed altre categorie disagiate». C’era tutto, la spiaggia e 49 miniappartamenti che però «non sono stati identificati, né risultano in catasto», né risultavano sulle mappe altri 26 case. Finale della storia: «Il comune di Palmi, ritenendo di non vantare alcun diritto né sui miniappartamenti, né sugli immobili con i servizi, ma solo sul terreno libero, ha così inteso di non utilizzare il camping per le finalità stabilite». Burocrazia, direte voi. Non proprio. Perché per ogni comune inadempiente, i carabinieri hanno stilato una scheda che comprende rapporti di parentele e amicizie mafiose di sindaci, tecnici e assessori. Un assessore della giunta comunale di Reggio retta dal sindaco di An Scopelliti, «si accompagna spesso allo zio paterno». Non propriamente uno stinco di santo, notano i carabinieri, che snocciolano un lungo rosario di reati: fabbricazione e porto abusivo di esplosivi, porto abusivo di armi per un «soggetto dalla spiccata tendenza a delinquere». Un altro suo collega di giunta nel 2005 veniva fermato dai Carabinieri in compagnia di due noti mafiosi. Cose che capitano in Calabria.

A San Luca, paese della lunga guerra di mafia culminata con la strage di Duisburg, su un terreno confiscato al boss Antonio Pelle, superlatitante detto «Gambazza», dovrebbe sorgere un centro di aggregazione sociale. I carabinieri hanno scoperto che sulle case presenti nel fondo «erano stati eseguiti alcuni lavori di manutenzione, non portati a termine. Se ne desume che tali immobili non sono stati ancora utilizzati per le finalità cui erano destinati». Nella passata amministrazione comunale c’era un assessore donna, si legge nell’inchiesta, sposata con un «pregiudicato per traffico di sostanze stupefacenti e armi», fratello di uno dei più pericolosi latitanti della zona.

Ma è la storia di un palazzo di cinque piani nel comune di Benestare, confiscato al solito Pelle-Gambazza, a raccontarci come a creare difficoltà all’uso sociale dei beni mafiosi ci si metta anche la Giustizia. Nel 2003 il palazzone viene destinato al Comune per costruire un centro di recupero per persone handicappate. Ma il bene non viene materialmente consegnato «in quanto era pendente ricorso contro lo sfratto dei suoi occupanti, per il quale il giudice del Tribunale di Reggio Calabria aveva sospeso le operazioni di sgombero». Bisognerà aspettare quattro anni perché un’altra sezione del Tribunale dichiarasse inammissibile il ricorso degli eredi del boss Pelle.

Pubblicato il: 22.08.08
Modificato il: 23.08.08 alle ore 16.34   
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 08, 2008, 05:54:38 pm »

La rabbia bianca di Castel Volturno «Noi, i discriminati». Ma pochi


Enrico Fierro


«Ma è mai possibile che 'e guardie fermano solo a noi. A mio figlio hanno sequestrato la macchina pe na strunzata, non teneva l'assicurazione. Ma se quello non lavora come sfaccimma la paga l'assicurazione? Ma perché non fermano i negri. Dottò noi non siamo razzisti come dicono Santoro e Ruotolo che ci hanno fatto una chiavica in tv. Scrivetelo: noi siamo per la legalità. I negri se ne devono andare». Voci da Castel Volturno, voci stonate, bocche allargate a vomitare parole di odio. Contro tutto e tutti. Voci da una delle capitali del disagio di un Sud che sta per scoppiare. Un luogo non luogo che si chiama Domiziana. Una strada diventata informe periferia metropolitana in pochi anni. Una interminabile e orrenda teoria di case, palazzoni abusivi, ghetti maleodoranti, concessionarie di auto di lusso, albergacci dai nomi esotici, negozi cinesi, sale giochi, bar che si chiamano tropical e espongono palme di plastica, enormi cumuli di monnezza e masserie dove pascolano nere bufale con i fianchi incrostati di letame.

In questo pezzo d'Africa tra Napoli e Caserta trovi bianchi e neri, gialli e slavi dalla pelle pallida, onesti e malacarne, killer di camorra e boss. Tutti costretti a vivere insieme in un ex paradiso devastato da anni di incuria, di speculazione edilizia, di colpevole abbandono da parte dei governi e della politica.

È qui, a Castel Volturno, che ieri è scesa in piazza la rabbia bianca. Avevano promesso la serrata, ma i negozi erano tutti aperti, un grande corteo, ma c'erano poco più di cento persone. Quelli che c'erano si sono mostrati, hanno tirato fuori tutto quello che hanno in corpo. Il disagio per una vita miserabile in un posto miserabile, diventato presto odio. Contro il vescovo di Capua, monsignor Giulio Schettini, definito su un cartello «un magnaccio» che «ha trasformato Castel Volturno in un ghetto». Contro il governo che ha mandato i militari, contro la polizia che fa i posti di blocco, contro i centri di accoglienza, contro il sindaco. Il leit motiv del corteo sono i controlli. «Li vedete i soldati, stanno pure con la mimetica, questi ci hanno messo lo scuorno (la vergogna, ndr) in faccia. Vengono qui e la loro unica preoccupazione è dare la caccia ai vertici della camorra. Ma non li vedono tutti sti negri, che spacciano droga, che fanno prostituire le loro donne? A questi devono combattere i militari». «Ai posti di blocco fermano solo i bianchi, dicono che cercano i latitanti…». «Santoro è nu strunz…». «Il sindaco se ne deve andare, ha pure pagato i funerali ai sei negri uccisi, ma ai figli di mamma che muoiono chi ci pensa». «Il vero razzismo è quello che fanno contro di noi». Le parole sono queste. Tutti vogliono la legalità, pochi nominano la camorra. E allora, se è troppo semplice e scontato definire questa gente razzista, è davvero difficile non farlo.

Ci sforziamo di capire. Tra i cento o poco più c'è gente che non ce la fa, non arriva a fine mese, che non ha un lavoro, che è stanca di vivere in palazzoni dove sapori, umori, odori, nazionalità e disperazioni si mescolano. Ma ci sono anche volti e gente che vive oltre i margini di quella legalità che vagamente viene invocata. E parenti di qualche camorrista arrestato dopo l'eccidio dei sei immigrati. Il padre di uno di loro riceve strette di mani in segno di solidarietà. Quella negata pochi mesi fa ad un uomo onesto e alla sua famiglia. Si chiamava Domenico Noviello, ucciso dalla camorra perché vent'anni prima aveva denunciato il racket. Ai suoi funerali c'era pochissima gente.

Il ragazzo grassoccio e con la catena d'argento al collo che sta dietro il bancone della pasticceria nella piazza del paese è esplicito: «Io so’ razzista, che ci posso fare, mammà mi ha fatto così». Fuori c'è affisso un manifesto del Pdl. «Anno Zero, trasmissione antistatalista». Altre frasi contro i controlli, le intercettazioni e i centri di accoglienza. «Santoro è un criminale dell'informazione». Lo dice il consigliere del Pdl Sergio Luise. «L'immigrazione qui è un affare per tanti». Sono d'accordo, è un business per chi fa lavorare gli extracomunitari in nero, per chi affitta loro le case, per la camorra che prende percentuali sulla droga spacciata e sulle puttane messe sulla strada. Il consigliere mi guarda: «Il problema è un altro: l'affare lo hanno fatto i professionisti del buonismo, le associazioni tipo Caritas, i centri di accoglienza». Quando arriva il corteo che urla frasi contro il sindaco Francesco Nuzzo («sindaco monnezza dimettiti»), il consigliere d'opposizione del Pdl guarda soddisfatto ma defilato. Lascia fare.

Il sindaco non c'è, è a Brescia dove fa il giudice. Per telefono ci dice che «Castel Volturno è un problema sociale enorme, questa manifestazione è solo l'avvisaglia di un disagio sociale fortissimo che rischia di esplodere».

Pubblicato il: 08.10.08
Modificato il: 08.10.08 alle ore 8.17   
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:28:37 am »

In 40mila nella terra dei clan.

Ciotti: «Fuori dalla Chiesa i mafiosi»

di Enrico Fierro


Un Paese in guerra. Con eserciti che si combattono, le battaglie vinte e quelle perse, i morti e i feriti, gli eroi e i vigliacchi. Sì, una guerra. Lunga e interminabile.
È questa l'immagine che ti si fissa nella mente qui, a Casal Di Principe, lembo devastato della “Campania ferox”. Monnezza, veleni, guappi, killer, onesti e disonesti, e gli sfregi della devastazione sui paesi, sulle terre, finanche sulla vita della gente. E come in ogni guerra ci sono i sopravvissuti, le vedove, gli orfani, i fratelli e i genitori dei caduti. Per loro ci sono anche le medaglie del capo dello Stato. Alla memoria, quella che da quattordici anni, ormai, “Libera” e don Luigi Ciotti, prete e coscienza critica dell'Italia smemorata e rassegnata, coltivano con ossessione. “Non ne posso più!. Ogni anno la lista dei morti di mafia, camorra e 'ndrangheta si allunga”, dice dal palco ai 40mila che sono venuti in questo pezzo di Sud da tutta Italia. Anche dal Nord. Per non dimenticare, ma anche per urlare che “L'etica libera la bellezza”.

Slogan bellissimo
Slogan bellissimo e ingenuo in queste lande offese da politici che blaterano di legalità senza mai pronunciare la parola camorra, quaquaraquà che prendono voti e ordini dai boss. Ma lo slogan piace ad un vecchio uomo. La sua faccia è di quelle che incontravi nel Sud di una volta. Larga, sincera, con le rughe di un tempo scandito da fatica e sacrifici. E’quella di Gennaro Diana. Suo figlio si chiamava Giuseppe, don Peppino, il prete di Casale che la camorra uccise il 19 marzo di quindici anni fa. Questa giornata è intitolata a lui, il suo giovane volto è una effige stampata su manifesti, magliette, un grande striscione che occupa tutto il palco. Un “Guevara” cattolico per scout, studenti, ragazzini delle medie e bambini delle elementari col cappellino giallo. Il vecchio Gennaro si guarda intorno e sorride. “Hanno ucciso mio figlio, ma da allora è iniziata la loro sconfitta. La camorra non ha vinto”. Accanto ha sua moglie Iolanda, il nero addosso e la medaglietta col volto di Pinuccio al collo, e un altro figlio, Emilio. “La sera prima di essere ucciso Peppino aveva chiesto di comprare le zeppole per la festa di San Giuseppe. Da noi usa così”. La mattina del 19 marzo 1994, erano le sette , quando un commando della camorra casalese entrò nella sagrestia della chiesa del paese. C'erano pochi fedeli a quell'ora, don Peppino era senza protezione.
I killer spararono. Uccisero davanti all'altare e al volto santo del Cristo, come nel Salvador di monsignor Romero.

Dal palco enormi casse diffondono una canzone di Vasco Rossi, “voglio trovare un senso a questa storia”, dicono le parole. Già, qual è il senso di questa storia di guerra che ci racconta la morte di un prete? “E' la forza bestiale della camorra”, risponde Emilio Diana. “I boss, non potevano sopportare che un prete parlasse in chiesa contro di loro, gli intoccabili”. “Per amore del mio popolo non tacerò”, diceva don Peppino, il prete-profeta. Che aveva idee chiarissime sui mali della sua terra. “Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l'infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto dello Stato che nelle amministrazioni è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. Così la camorra diventa uno Stato deviante e parallelo rispetto a quello ufficiale”.

Ieri come oggi
Ieri come oggi. Tutto uguale in queste terre del Sud dove i boss eleggono sindaci e deputati, dove un sottosegretario potente del governo Berlusconi, Nicola Cosentino, è indicato da cinque pentiti come referente dei clan, dove i boss si sono infiltrati nel grande business dei rifiuti e dei centri commerciali, dell'edilizia e dello sfruttamento dei fondi europei. Li chiamano i casalesi. “Casalese non è il nome di un clan, ma quello di un intero popolo”, avverte uno striscione. “Anche mio padre era un casalese”. Parlano i figli di Federico Del Prete. Di mestiere faceva il venditore ambulante, per passione il sindacalista, per rabbia e senso civico denunciò imbrogli e estorsioni.
Lo uccisero il 18 febbraio 2002. “Papà fu lasciato solo, aveva scoperto il racket delle buste di plastica imposte dalla camorra agli ambulanti, un affare da 5 milioni di euro. Aveva denunciato tutto e gli avevano assegnato una scorta saltuaria”. Quando salgono sul palco a prendere la medaglia d'oro concessa dalla Presidenza della Repubblica, i figli di Federico Del Prete si tengono per mano. Con loro i familiari di Domenico Noviello, anche lui faceva l'imprenditore, anche lui aveva denunciato il racket del pizzo.
Anche lui era solo e fu ucciso per il suo coraggio. “E allora basta - urla don Ciotti dal palco – la Chiesa dica con chiarezza che gli uomini e le donne della mafia, i complici e i conniventi sono fuori”. E'una guerra che va combattuta con atti concreti, “lavoro, giustizia sociale, sicurezza”. Perché la mafia più pericolosa è quella delle parole”. “E a parole ci siamo tutti, sempre”, dice con malinconia don Luigi Ciotti.

20 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:13:07 am »

I tristi addii di un paese mai abbastanza raccontato

di Enrico Fierro inviato a L'Aquila


Le statistiche dicono tutto, ma non raccontano niente. A giorni sapremo come i morti del terremoto sono divisi paese per paese, per sesso, per età, per condizione sociale, per il timbro impresso sul passaporto. Ma sono calcoli freddi che non si imprimono nella memoria. Maciniamo numeri davanti alla tv. Tanti morti per le stragi del sabato sera, per le guerre, per gli incidenti sul lavoro. Eppure dietro ogni numero c'è una vita. Le ambizioni bruciate dagli anni e dai fallimenti, e i sogni giovani tutti ancora da vivere. Dietro ogni numero di quei 272 morti del terremoto c'è un pezzo d'Italia che abbiamo l'imperdonabile colpa di non raccontare mai. Uomini e donne, giovani e anziani, studenti e manovali, italiani e stranieri: un paese intero, il paese dei morti.
Che parte avrà nella statistica del dopo Rosalba Franco? Strappava la vita a Poggio Picena ed era una lavoratrice precaria al Comune. Ragazza madre con un figlio di dieci anni, dicono in paese. E lo dicono con comprensione, senza mai un accenno di giudizio, perché da queste parti la gente ha imparato ad essere aperta e accogliente. Rosalba è uno dei cinque morti del suo villaggio di mille abitanti. Viveva nel centro storico, la stanza per dormire era al secondo piano, quando l'hanno trovata il letto era al primo. Lei abbracciata al suo piccolo uomo.

E della piccola figlia di Grek Pavel, che di mestiere faceva il muratore? Di lei non sanno ancora il nome preciso. Colpa della burocrazia. Perché la bambina era in Italia da pochi giorni, Grek il padre aveva realizzato finalmente il suo sogno, portare la famiglia dalla Moldavia a Fossa, riabbracciare il suo cucciolo di tre anni. Ricongiungimento, si chiama. Lo facevano i vecchi emigranti abruzzesi quando andavano nella loro America. Una vita di pane e cipolla, la casa e poi il “richiamo” per la famiglia. Per Grek e la sua piccola il sogno dell' America che si chiama Italia si è spezzato nella notte di domenica.

I grandi campi

Sognava i grandi campi. E in un club importante aveva anche giocato, la giovanile della Fiorentina. Un successo, e a soli 14 anni. Poi il fallimento della squadra e il ritorno in Abruzzo, a giocare nel Loreto, a Celano. Sempre con lo stesso impegno. Il “campione” lo chiamavano. Domenica era andato a trovare la sua fidanzata a L'Aquila, in via XX settembre. Alle 3 passate il rombo che annuncia il sisma. La ragazza muore sul colpo, Giuseppe resiste, gli è crollato il soffitto addosso, ma ce l'ha fatta. Muore nella notte tra lunedì e martedì all'ospedale di Teramo. «Con negli occhi il verde del campo da gioco e il ricordo dell'odore dell'erba fresca”, dicono i suoi cari amici.

E quali erano i sogni dei ragazzi di via XX settembre, quelli della Casa dello Studente? Serena Scipione voleva laurearsi in medicina. Le foto la mostrano allegra, bella e solare. Da medico – confidava alle amiche – voleva andare nei paesi dove c'era più bisogno per salvare vite umane. E' morta con la sua amica Federica Moscardelli, 25 anni. Una forza della natura. Studiava a L'Aquila, ma al suo paese era volontaria della Croce Bianca, frequentava la chiesa e cantava nel coro.

Ragazzi

Ragazzi. Un pianeta indefinibile. Ognuno di loro è un mondo, una storia a sé. Fabio De Felice aveva vent'anni e studiava ragioneria. Lavorava. A Natale aveva fatto un po' di soldi spalando la neve. Domenica aveva anche litigato con i suoi che vivono a Onna e hanno una casa nuova. Solida di ferro e cemento. «Io nonna non la lascio dormire da sola. Ha paura del terremoto». Ha preso le sue cose ed è andato nella vecchia casa di pietra e tufi. Lì ha perso la sua lotta col sisma. Povero Davide contro un Golia che ha scaricato sulle fragili case dell'Abruzzo la forza di cinque atomiche.

09 aprile 2009
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