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Autore Discussione: La scienza e la cultura degli insulti. Dario Fo: autore, attore e regista  (Letto 2565 volte)
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« inserito:: Dicembre 29, 2007, 12:31:14 am »

28/12/2007 (7:0) - DARIO FO

Le parolacce autobiografia di una nazione
 
Dario Fo: autore, attore e regista
 
La scienza e la cultura degli insulti


Shakespeare e Marlowe già nel XVI secolo, tanto in scena quanto nella vita, pronunciavano parolacce: L’ebreo di Malta inveiva dando della «testa di fallo» ai suoi persecutori, addirittura in italiano, cazzo! Il fool del Re Lear usava espressioni come culo e chiappe, con varianti d'appoggio a ogni occasione. Nel testo originale, Amleto fa allusioni chiare e provocatorie al sesso femminile. Dialogando con Ofelia, sdraiato con lei presso il palco degli attori, le chiede: «Potrei distendermi col viso sul boschetto che tieni in grembo… o è già prenotato?». In un'altra scena, Ofelia, impazzita, canta raccogliendo dal canestro piccoli fiori: «Nel mio canestrino non si deposita più il tuo pettirosso. Che me ne fo di questo picciol nido amoroso? Più non respira e gemiti non ha. Non mi resta che buttarlo intrammezzo ai rovi».

Espressioni al limite dello sconcio recita Molière nel Medico per forza e nel Don Giovanni. \ Non parliamo delle oscenità esibite da Ruzzante, dall'Aretino e da Giulio Cesare Croce, il fabbro, nel suo Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Ma è davvero incredibile venire a scoprire che uno dei maggiori campioni del turpiloquio fosse Leonardo da Vinci con una sua famosa tiritera sul fallo recitata in tutte le sue varianti oscene.

Questo infiorar discorsi con espressioni da trivio ci dà memoria che nell'italiano galleggia una considerevole quantità di parole di chiara origine sessuale, considerate da molti scurrili o comunque sconvenienti; eppure cercheremo di dimostrare con esempi chiari che anche il triviale fa parte del patrimonio alto d'ogni popolo. […]

È risaputo che la lingua italiana parlata oggi da noi è nata dall'assemblaggio di vari dialetti dell'Italia centrale ai quali si sono aggiunte poi altre parlate volgari del territorio italico.

Dante Alighieri, per formare il proprio volgare poetico, compì un'inchiesta davvero scientifica sulla lingua parlata e scritta e sulle espressioni letterarie e orali degli autori italiani del suo tempo, soprattutto sulla giullaria. In particolare raccolse ballate, strambotti grotteschi e fabulazioni di autori popolari conosciuti e anonimi, e li ordinò in una raccolta che chiamò De vulgari eloquentia.

Fra esse spicca la famosa Rosa fresca e aulentissima di Ciullo o Cielo d'Alcamo; così come fece tesoro del Detto del gatto lupesco, del lamento della sposa padovana, della storia erotico-amorosa sull'incontro accidentale di due amanti del Salento... Ancora, studiò i testi di Bonvesin della Riva, poeta milanese che lo precedette di una trentina d'anni e che con Bescapè fu uno degli ispiratori del suo viaggio all'Inferno.

Fra i testi che rimasero solo in forma di nota, c'è un dialogo osceno-lirico a contrasto dell'Irpinia fra un pettirosso e il frutto rigoglioso di un fico. Di questo dialogo musicale, possiamo offrirvi alcune strofe davvero eccezionali. Eccovele: «Canto de giovenetta, frutto del fico: “Che va ziranno ancò tonno tonno a me dintonno? Che va zercanno, petterosso? Ogne momento tu me sta addosso e me fa spaviento”.

«Canto di masculo, lu petterosso: “De quanno, frutto dolze, la fissura toja s'è averta 'ppenn'anticchia, sorte de là nu tal prafummamento che tutto lo meo core se deschiatta”.
«Giovenetta: “Stamme allu largo, uccello rosso, che jo so' ben donde volessi entinzere el too' becco”.
«Masculo: “Tu se' crudel, ficola zentil, che io so' assetato e solo dello parfumo tojo me vorraria notrire”.
«Giovenetta: “Già, 'na beccata e via, tanto pe' gradire. E che importa po' se me guasti la fissura, che ben jo te conoscio, 'na volta che te se' accattato 'o piascè, petterosso mio, tu desparisci e no te se fa chiù veghé”.
«Masculo: "Frutto odoroso, no' me scazzare, tu se' maturata da fiorire... comme no gerasole! Quinni te tocca sceglie all'intrassat, subitamente, che lo dolzore tojo già s'è spalamato pe' ll'universo tutto. O lasci che a sugghiar sia eo, lo petterosso, o a frotte te vieneranno addosso: calabron, sciame d'ape e vesponi... io so' dolze e delecato, jo te farò plazer con riverenza, chilli so' 'na masnada de violenzia... e scarranata te lasseranno... o frutto de fico, meo adorato”». Ho ascoltato per la prima volta, quasi trent'anni fa, questo canto popolare scoperto da ricercatori del gruppo lombardo. Fra loro c'era Roberto Leidi, che si diceva più che convinto dell'origine greca di questo contrasto poetico-grottesco e, per testimoniarne la veridicità, mostrò a tutti noi l'immagine di un vaso attico del IV secolo sul quale stava dipinto, nero su terra rossa, il gioco amoroso fra il frutto del fico e il pettirosso.

Ascoltando la registrazione, una voce femminile e una maschile si alternavano accompagnati da chitarra, flauto e cornamusa; era un canto gioioso intercalato da passaggi struggenti. Purtroppo la paternità di queste ballate è rimasta sconosciuta, ma la qualità dei loro ritmi denuncia una sapienza espressiva veramente straordinaria; gli autori dimostrano di saper gestire il loro linguaggio con l'apporto di espressioni e forme lessicali mutuate da numerosi altri idiomi: forme provenzali, catalane, greche e latine, e perfino strambotti arabi d'amore.

Purtroppo dobbiamo lamentare che nelle nostre scuole, inferiori e superiori, la ricerca e lo studio delle origini della nostra lingua vengono difficilmente promulgati, e oltretutto si continuano a tenere in bassa considerazione il dialetto e le sue forme lessicali e idiomatiche, ricche e numerose. Per di più, si tende a inculcare la scellerata idea nei ragazzi, fin dall'infanzia, che dialetto sia sinonimo di misero, incolto e anacronistico.

Ma il punto chiave dell'analisi in questione è l'uso dei termini che le persone perbene definiscono osceni, triviali o semplicemente parolacce. Ogni regione del nostro Paese può esibire una quantità strepitosa di epiteti scurrili in una specie di tenzone interregionale dove è davvero impossibile stabilire quale sia vincitore. In verità l'utilizzo e il peso di queste cosiddette volgarità cambiano enormemente di valore e di significato appena varchiamo il confine di ogni singola provincia. Vi sembrerà assurdo, anzi paradossale, ma tutto dipende dalle origini culturali e storiche della comunità in questione, dai differenti costumi, dalle opposte tradizioni civili, morali, religiose che hanno determinato nei secoli in queste popolazioni, culture e senso civico assolutamente diversi.

Qualcuno penserà che io stia giocando al paradosso ridanciano: «Cosa ci vieni a raccontare, che la differenza storica di un popolo condiziona anche gli insulti e le parolacce?». Sì. È proprio così. Anzi, cercherò di dimostrarvi che un attento esame delle scurrilità e degli improperi fa scoprire con chiarezza inconfutabile i valori o le bassezze di un popolo meglio di qualsiasi altra analisi scientifica.

Non so se avete fatto caso ma la prima grande discrepanza nell'uso di sconcezze risiede nel genere, maschile o femminile. I latini per indicare una persona sciocca e di poco senno la insultavano definendola cunia!, cioè il sesso femminile, ritenuto, evidentemente, un organo privo di valori, bellezza e armonia. Cunia significava matrice, cioè parte del congegno per mezzo del quale si stampavano monete. Egualmente, ancora oggi, i francesi e gli spagnoli sembrano essere dello stesso avviso giacché l'insulto a un ritardato è ancora «Con!» o «Tête de con!» in Francia, e «Coño!» per gli iberici.

Per indicare il sesso femminile i veneti usano «mòna!» e con quell'espressione definiscono uno sciocco di scarsa creatività. Ma attenti, questo termine non allude al conio delle monete né alla moneta stessa bensì alla scimmia, più esattamente al babbuino che fin dai tempi lontanissimi veniva indicato col termine mòna per cui si hanno mòna o monna, mònasìna, babbuina. Ognuno di voi di certo ha in mente lo stupendo dipinto di Vittor Carpaccio nel quale il pittore quattrocentesco raffigura una graziosa scimmietta; e di lui, con altri grandi pittori veneti, ricordiamo ritratti di cortigiane che tengono sulle spalle graziosi babbuini addobbati in modo clownesco. Personalmente ne ricordo uno di anonimo veneziano dal titolo La regina de le mòne.

Il vezzo di «sfottere» nominando il sesso femminile è presente anche nei napoletani che utilizzano l'espressione «fesso!», maschile di fessa, appunto la parpaja. Un'espressione tipica dei partenopei è: «ca' nisciuno è fesso!», cioè a dire qui nessuno è imbecille, sprovveduto e tantomeno babbeo!

Dove invece l'allusione al sesso femminile si fa davvero triviale e greve, per non dire sgradevole, è a Roma e provincia. Nel linguaggio dell'intero Lazio spunta ogni tanto, è vero, qualche termine gentile, tipo appunto ciumachella, oppure ciuccia, cirella, pucchia, ma queste espressioni vengono letteralmente travolte, sepolte da altre espressioni quali fregna, pantegana, sorcia e sorca, zoccola e chiavica.

So che a 'sto punto farò sussultare qualcuno d'indignazione, ma devo forzatamente sottolineare che tanta trivialità di termini si produce nel caposaldo clericale d'Europa e del mondo, dove, è ben risaputo, la misoginia è addirittura proverbiale, e il disprezzo per tutto ciò che è femminile storicamente rasenta e sorpassa ogni limite civile.

Qui devo prendere un respiro e farmi coraggio perché il lemma che dovrò mettere in campo è usato nel resto di tutta l'Italia ma ritenuto scostumato fino alla sconcezza. Tenetevi… a vostra volta prendete fiato… lo dico: «Fica!» o meglio, come si pronuncia in lombardo e in tutto il Nord Italia, «figa!», dove il frutto, il fico, è «fig», dal latino ficus. Il termine era già presente nel greco sykon e mantiene la stessa accezione.

Ma da dove sortirebbe, anzi avrebbe origine la gran differenza di valore fra come si considera questo termine in Lombardia rispetto al resto d'Europa? Prima di tutto da noi, nella piana del Po, quando si vuole indicare un uomo sfortunato anzi perseguitato dalla malasorte, si dice che quello è uno sfigato, cioè privo della gioia e della fortuna espressa dal sesso femminile. Attenti, non è come credono in molti un'espressione coniata da qualche anno insieme al termine figo, per indicare un ragazzo aitante e di bell'aspetto. No, questi tre termini fica, bellezza e fortuna hanno un'origine millenaria. Infatti, lo vedremo più avanti, sono paradigmi associati fin dall'antichità a Venere, dea dell'amore, da cui un uomo privo della fortuna, cioè della protezione di Venere, è uno sfigato.

Non a caso Fano, nelle Marche, si chiama così per ricordare che, fin dal tempo dello sbarco degli achei sulla costa adriatica, lì esisteva un tempio dedicato a Venere, detto appunto Fanum Fortunae. Le sacerdotesse di quel tempio offrivano il proprio amore ai marinai di transito nel porto contiguo; il ricavato delle loro affettuosità veniva devoluto al mantenimento del tempio. Ancora, sempre nella piana del Po, quando un uomo vuol significare il suo stupore e compiacimento nello scoprire l'inizio di una giornata felice e radiosa, immancabilmente esclama: «Figa! Che meravegia de ziornada!», cioè si usa il sesso femminile come supporto esaltante.

E notate bene che mai ci si permetterebbe di irridere con altri termini denigratori nei riguardi della parpaja topola, anzi, il sesso femminile viene spesso indicato con nomi di fiori e di frutti: viola, brügna (prugna), mügnaga (albicocca), perseghin (pesca).

Esistono anche dialoghi o monologhi dell'Alto Medioevo in cui il personaggio recitante è il sesso femminile che parla di sé definendosi «brolo tenerìn de dolzo parfumo», cioè tenero cespuglio d'erba fiorita. Ancora, esistono fabulazzi dove la sposa s'inventa di aver smarrito la parpaja e il giovane marito, disperato e un po' rintronato, va alla ricerca del zentil fructo per boschi, campi e dentro fiumi, il tutto attraverso situazioni spassose e soprattutto poetiche.

A proposito di parpaja, che in Piemonte e in Provenza significa farfalla, ecco che in entrambe le due regioni l'uso del termine in questione è impiegato per esprimere significati e immagini addirittura poetici, il che succede anche in Lombardia. Ora dobbiamo chiederci: come mai solo in Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia è dato costante questo particolare atteggiamento quasi sacrale verso il sesso della femmina, per cui su di lei non ci si permette di fare ironia di sorta, mentre il ruolo di imbecille di basso spirito viene immancabilmente imposto al sesso maschile cosicché pirla, bigolo, piciu, belìn, üsell, lüganega (salame cotto) diventano sinonimo di ritardato, tonto, ottuso, scervellato ecc.?

Le ragioni di una tale contrapposizione sono senz'altro da ricercare nelle diverse origini storico-culturali di ogni popolo. Infatti, tornando alla sacralità della parpaja topola e della fortuna radiosa rappresentata da Venere e dal suo sesso nel Centro e nel Nord Italia, va ricordato che le primordiali divinità celtiche nella Valle padana, prima ancora che ci arrivassero i romani, erano quasi esclusivamente di sesso femminile. Esistono infatti in vari musei lombardi statue di divinità arcaiche delle quali una mi ha particolarmente colpito: quella dedicata alla dea della Ragione. Ragione non intesa come processo di giustizia ma come possesso di intelletto.

Presso i celti di Lombardia, tre erano le Matres, le divinità della Terra, le grandi madri creatrici dell'universo; e ancora femmina colei che creò gli uomini, anzi per prima creò una sua figlia, la femmina avanti l'uomo! Questo ci fa anche capire perché Sant’Ambrogio, nobile di origine romana, eletto vescovo di Milano nel V secolo, resosi conto del peso e del valore di cui la donna godeva nella società degli abitanti la Val padana, non appena nominato responsabile sia amministrativo sia religioso della città e delle diocesi dell'intiero Nord Italia, decise di non osteggiare i riti ancestrali di quelle comunità, riti che, come abbiamo detto, vedevano al primo posto divinità femminili. Questa, secondo molti storici, è la ragione fondamentale per cui Ambrogio diede molto valore ed evidenza al cosiddetto rito mariano, cioè elesse la Madre di Cristo a Grande Madre di tutti i culti e operò per riuscire a elevare lo stato sociale delle donne, impegnandosi con duri interventi contro la misoginia comune nei latini, acciocché le ragazze potessero scegliere fra l'imposizione di un marito da parte dei genitori e il vivere in comunità di femmine che rifiutavano il matrimonio come intimazione.

da lastampa.it
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