LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 12:37:11 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Benazir (Senza pari) Bhutto - In memoria di una donna coraggiosa.  (Letto 8377 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:11:44 pm »

Giovedì, 27 Dicembre 2007

In memoria di una donna coraggiosa


Ho incontrato Benazir Bhutto a Londra, qualche mese fa, quando diede una conferenza stampa per annunciare la sua decisione di tornare in Pakistan, dopo molti anni di esilio in Gran Bretagna. Non l’avevo mai vista prima, dal vivo: era ancora bella come nelle foto e nei filmati televisivi di un tempo, con un’aria che sprizzava non solo intelligenza e determinazione ma direi anche allegria, ottimismo, fiducia nella vita. Da quando si era sparsa la voce che sarebbe presto rientrata in patria, per candidarsi alle elezioni presidenziali o per assumere la carica di primo ministro se il presidente Musharraf avesse accettato le sue condizioni per democratizzare il paese, una domanda la rincorreva in ogni appuntamento con la stampa: non ha paura? Non teme di essere assassinata?

Giovanissima e bellissima, a trentotto anni, nel 1988, Benazir era stata la prima donna eletta primo ministro in un paese musulmano.
Una novità rivoluzionaria per il Pakistan e per tutto l’Islam. Ma si può dire che lo shock di una donna che fa politica, da allora, è diventato ancora più grande. Fanatismo e terrorismo si sono diffusi come un virus nei paesi musulmani, cosicchè il ritorno in patria della signora Bhutto suscitava apprensioni ancora più forti di quelle create dalla sua prima ascesa al potere, vent’anni or sono. Lei, tuttavia, rispondeva sempre alla stessa maniera: “Non temo per me. Temo molto di più per la sorte del mio paese. Per questo sento che è venuto il momento di tornare, prima che sia troppo tardi”. Essendo tutt’altro che un’ingenua, era sicuramente consapevole dei rischi, e avrà certamente preso una serie di precauzioni: guardie del corpo, informazioni preventive con l’ausilio dei servizi segreti, forse anche quelli occidentali, americani inclusi. Ma a parte le ombre che da sempre si levano sui servizi segreti pakistani, nessuna protezione garantiva una sicurezza assoluta. Sono convinto che Benazir Bhutto sapesse che ci sarebbe stati attentati contro di lei in Pakistan, e che poteva morire. Eppure è tornata lo stesso, senza paura di morire.

Mi viene in mente una battuta cinematografica, non ricordo di quale film, forse “Braveheart”, forse “Troy”, forse “300″, quando qualcuno avverte l’eroe di turno che, se farà una certa cosa, rischierà di morire e lo prega di non farla. Ma l’eroe risponde: “Tutti dobbiamo morire, prima o poi”, e fa quello che ha stabilito, o che per lui ha stabilito il destino. La morte di Benazir Bhutto, in questo senso, contiene una lezione per tutti, anche per quelli che sono chiamati ad azioni e scelte molto più piccole, più normali, delle sue: fare quello che si crede giusto, quello in cui si crede, senza preoccuparsi all’infinito delle conseguenze, senza trovare ragioni, più o meno valide, per rimandare, rinunciare, arrendersi.

E l’altra lezione offerta dalla sua morte è che la sfida a cui il mondo libero è chiamato, contro fanatismo, estremismo, terrorismo di matrice islamica, sarà molto più seria, dura e dolorosa di quanto ci siamo resi conto finora. Non esiste protezione da questa minaccia, nè in Pakistan, nè altrove: il ventunesimo secolo sarà il “tempo degli assassini”, se non troveremo il modo di fermarli, e nella migliore delle ipotesi ci vorranno decenni.

Benazir Bhutto si era laureata a Oxford, dove aveva presieduto l’Unione degli Studenti, quella che organizza dibattiti con i grandi della terra, una carica appartenuta a innumerevoli futuri primi ministri britannici. Uno dei suoi compagni di studi era Timothy Garton Ash, oggi commentatore del Guardian, di “Repubblica” e autore di saggi best-seller sugli affari internazionali. Nel suo ultimo libro, Garton Ash racconta, senza fare il nome, di un compagno di studi, futuro leader di una grande nazione, insieme al quale fumava spinelli a Oxford: forse, anzi probabilmente, era Benazir. Cerco di immaginare come fosse, la giovane Bhutto, a Oxford, negli anni Settanta. E adesso questa donna capace di vivere dentro due mondi, l’Oriente e l’Occidente, questa leader che vestiva i panni della modernità e della tradizione, questo eroe che non temeva per la propria vita, non c’è più. Speriamo di riuscire a onorare la sua memoria, lottando coraggiosamente come ha fatto lei, con il sorriso sulle labbra, contro i piccoli e grandi soprusi che ci circondano.

da franceschini.blogautore.repubblica.it
« Ultima modifica: Gennaio 15, 2011, 05:04:12 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:12:33 pm »

La crisi pakistana

Attentato contro il passaggio alla democrazia

Icona anti-islamista e filo-americana, la Bhutto è stata uccisa per ostacolare le elezioni e mantenere il Paese instabile


WASHINGTON – In molti volevano la morte di Benazir Bhutto. Per questo la lista dei sospetti per l’omicidio eccellente è lunga. I qaedisti – Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri - hanno dichiarato da tempo la guerra al Pakistan. I suoi leader politici – a cominciare da Musharraf – sono nel mirino. Una «scomunica» che ingloba chiunque sia considerato come parte di un disegno americano. La strategia qaedista, in quest’ultimo anno, ha seguito un percorso chiaro: prima azioni nelle aree tribali, quindi contro le forze dell’ordine, infine contro gli esponenti in vista.

GLI OBIETTIVI - Tre gli obiettivi: ostacolare il processo elettorale; mantenere il Pakistan in un clima di perenne instabilità; impedire uno scenario iracheno dove la componente qaedista è isolata dal resto della società. Osama – non da oggi – ha gli uomini in grado di organizzare stragi e, soprattutto, gode di complicità interne al Pakistan. L’operazione può avere avuto come mandante il vertice storico di Al Qaeda e nel ruolo di esecutore uno dei tanti affiliati pachistani. Un esponente integralista ha rivelato in un colloquio telefonico con l’Adn Kronos International che l’ordine sarebbe venuto proprio da Al Zawahiri. A portarlo a termine un militante del gruppo separatista Lashkar E Jhanvi. Una rivendicazione difficile da verificare.

GLI 007 – Benazir era vista con ostilità da ambienti dell’intelligence pachistana conniventi con Al Qaeda. Per questi 007 era un avversario da battere per motivi locali e internazionali. Sul piano interno Benazir ha approvato la feroce repressione della ribellione nella Moschea rossa, dunque si è trasformata in una nemica giurata dell’islamismo. Su quello internazionale, la Bhutto era considerata uno strumento americano.

I RIVALI – Dopo il primo fallito attentato, qualcuno ha ipotizzato un coinvolgimento di rivali politici. L’attacco, in quest’ottica, voleva eliminare una figura ingombrante e pericolosa.

Guido Olimpio

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:14:43 pm »

Dalla Cina all'India, il mondo condanna l'attentato


L´uccisione di Benazir Bhutto in Pakistan è così grave da far bruciare più di cento punti alla borsa Usa del Dow Jones e portando i prezzi del petrolio a 97 dollari al barile. Sempre a New York, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha deciso di riunirsi in via straordinaria per discutere della situazione in Pakistan. Dall´incontro dei 15 membri del consiglio è prevista una dura condanna. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si è detto «traumatizzato e indignato» per l´attentato.

Ma la condanna è già arrivata da mezzo mondo. L'omicidio della Bhutto, ha detto una fonte del Dipartimento di Stato Usa, «mostra che ci sono ancora in Pakistan coloro che cercano di minare la riconciliazione e lo sviluppo democratico» del Paese. George W. Bush ha condannato il «vile» attacco e ha chiesto che i mandanti siano portati davanti alla giustizia. «Gli Stati Uniti - ha dichiarato dal suo ranch di Crawford, in Texas, il presidente americano - condannano con forza questo vile attacco ad opera di estremisti assassini che stanno tentando di minare la democrazia pachistana». La Russia ha condannato «fermamente» l'assassinio della Bhutto. «Speriamo che il Pakistan ritrovi la via della stabilità».

Cina e India, le due potenze emergenti dell' Asia, guardano da posizioni opposte, ma entrambe con preoccupazione, al dramma del vicino Pakistan. A Pechino, dove la notizia dell' assassinio di Benazir Bhutto è arrivata quando era già notte, non ci sono state reazioni ufficiali. L'agenzia Nuova Cina ha dato la notizia con rilievo ma senza commenti. A New Delhi Sanjaya Baru, portavoce del primo ministro Manmohan Singh, ha detto che «con la sua morte, il subcontinente ha perso una prominente leader che ha lavorato per la democrazia e per la riconciliazione nel suo paese».

Immediata la condanna di tutti i principali Paesi occidentali. Forte condanna del presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso. Per il premier britannico Gordon Brown la Bhutto, «è stata assassinata da vigliacchi che hanno paura della democrazia». Per quello spagnolo José Luis Zapatero l´attentato è «un selvaggio attacco terrorista».

Dolore e sgomento, insieme alla condanna di tale «atto di barbara violenza» sono stati espressi, a nome dell´Italia, dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D'Alema, che ha inviato un messaggio al suo omologo pachistano, Inam Ul Haque, nel quale si ribadisce «la determinazione dell'Italia a combattere ed isolare ogni forma di terrorismo».

Pubblicato il: 27.12.07
Modificato il: 27.12.07 alle ore 18.39   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Dicembre 28, 2007, 04:33:25 pm »

Esteri

Nacque il 21 giugno del 1953 da padre pachistano e madre iraniana

Addio alla Lady di Karachi

Qualche giorno fa aveva detto: ''I terroristi possono uccidere le persone, ma le loro idee sopravviveranno al terrore''


Roma, 27 dic. (Adnkronos/Aki) -
Quella dei Bhutto è una delle dinastie politiche più importanti del continente asiatico, che come quella dei Gandhi è vittima della propria fama. Benazir nacque il 21 giugno del 1953 a Karachi, da padre pachistano e madre iraniana. Suo padre, Zulfiqar Ali, era figlio di un ricco proprietario terriero, rimasto fulminato sulla via di un socialismo dai forti colori asiatici. Fondatore del Partito del Popolo Pachistano (Ppp), fu il primo civile a presiedere un governo della ''terra dei puri''. Sua madre Begum discende da una famiglia di commercianti iraniani trasferiti nel Pakistan.

Il triste destino riservato a Benazir, caduta sotto i colpi di un terrorista kamikaze, prima di lei aveva visto morire il padre Zulfiqar Ali e i due fratelli Shahnawaz a Murteza. Zulfiqar Ali fu condannato a morte nel 1979 dal generale golpista Zia ul Haq che lo aveva destituito dal potere. Shahnawaz morì misteriosamente nel suo appartamento a Cannes, nel 1985, mentre Murteza cadde vittima di un attentato nel 1996, appena rientrato in patria da un lungo esilio in Afghanistan.

Benazir, la figlia prediletta del padre, fu arrestata per la prima volta a 26 anni, rientrando dalla Gran Bretagna, dove aveva studiato Legge e Filosofia. ''Sono destinata a prendere il posto di mio padre, quando lui si ritirerà dalla politica'', diceva Benazir quando ancora studiava alla Oxford. ''Sarò la prima donna musulmana a guidare un Paese islamico'', ripeteva sempre negli anni felici dell'Università, quando erano decine i ragazzi che corteggiavano questa giovane e bella ragazza pachistana che amava truccarsi da occidentale anche se non ha mai smesso di portare abiti orientali.

Intelligente, bella, astuta, determinata e moderna, Benazir con la morte del padre dovette farsi carico di una eredità pesante, quella di guidare il Partito del Popolo Pachistano. I suoi principali avversari non erano i generali pachistani assetati di potere, ma i suoi due fratelli, Murteza e Shahnawaz, che non riconobbero mai a Benazir il ruolo che loro padre le aveva affidato. Come tutti i clan che si rispettano, anche quello dei Bhutto era diviso al suo interno e le avversità venivano manifestate pubblicamente, e talvolta anche violentemente. La moglie e la figlia di Shahnawaz, per esempio, hanno accusato Benazir della morte del loro congiunto, anche se non sono mai state capaci di dimostrare uno straccio di prova contro di lei.

Benazir rappresentava per molti pachistani la speranza, forse l'unica, di un cambio politico ed economico. Nei suoi recenti comizi elettorali, in vista delle elezioni del prossimo gennaio, Benazir aveva puntato tutto sul miglioramento economico del Paese e un adeguamento salariale per milioni di pachistani che vivono con soli due dollari al giorno. Benazir, nei due governi che aveva presieduto negli anni Ottanta e Novanta, aveva facilitato l'ingresso di molte donne nella vita pubblica in una società prigioniera delle tradizioni e di un fondamentalismo crescente.

Lei stessa aveva dovuto cedere a queste tradizioni, quando nel dicembre del 1987, appena due settimane dopo la prima vittoria elettorale e investitura come Primo Ministro, dovette sposare Asef Ali Zardari, il ricco uomo d'affari scelto dalla madre come vuole la tradizione. ''Un prezzo personale che ho dovuto pagare nel tentativo di poter lavorare per il mio Paese e la mia gente'', disse in un'intervista rilasciata nella sua casa di Dubai, negli anni dell'esilio volontario, mentre il marito 'imposto' dalla famiglia era in carcere per corruzione.

Benazir, rientrando lo scorso 18 ottobre nel Pakistan, sapeva di andare incontro alla morte. I terroristi l'avevano accolta con un attentato, il più grave nella storia del Paese, che provocò la morte di 139 persone e il ferimento di altre 400 degli oltre un milione di militanti del Ppp che si erano riuniti per accoglierla. ''Non ho vissuto fino alla mia età per lasciarmi intimidire dai kamikaze'', aveva sottolineato Benazir solo qualche settimana fa, quando molti le consigliavano di lasciare il Pakistan e far rientro a Londra. ''Non dobbiamo lasciare che i terroristi uccidano con le loro bombe il sogno di un Pakistan democratico'', ammoniva Benazir Bhutto.

''I terroristi - aveva detto Benazir qualche giorno prima di morire - possono uccidere le persone, ma le loro idee sopravviveranno al terrore''. L'ottimismo di Benazir non è però condiviso da molti pachistani, che in lei vedevano l'unica possibilità di riportare il Paese sui binari della democrazia. ''Con Benazir è morta anche la speranza di poter vivere in un Paese più giusto e migliore'', commenta Rahman Malek, uno dei più stretti collaboratori di Benazir.

''Quel faro di giustizia che suo padre Zulfiqar Ali aveva acceso tanti anni fa - continua Malek - è stato spento per mano di assassini vigliacchi a Rawalpindi. La nostra generazione ha perso l'ultima possibilità di vedere sbocciare nel Pakistan una democrazia''.

da adnkronos.com
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Dicembre 28, 2007, 04:34:22 pm »

ESTERI IL DOCUMENTO

"Conosco i nomi dei miei assassini"

di BENAZIR BHUTTO

 
La settimana scorsa sono sopravvissuta a un tentato omicidio, ma 140 uomini e donne tra i miei sostenitori e della mia scorta non ce l'hanno fatta. L'attentato del 18 ottobre ha messo in evidenza la critica situazione con la quale siamo alle prese oggi in Pakistan, oggi che cerchiamo di fare campagna elettorale per elezioni libere, oneste e trasparenti sotto la minaccia del terrorismo. Quanto è accaduto dimostra la sfida logistica, strategica e morale che incombe su tutti noi. Come possiamo fare campagna elettorale presso la cittadinanza sotto la minaccia costante e concreta di essere assassinati? Con l'eventualità di un massacro di innocenti?

L'attentato nei miei confronti non è giunto inaspettato. Da informazioni attendibili ero stata avvisata di essere presa di mira da elementi che vogliono ostacolare il processo democratico. Più specificatamente ero stata informata che Baitul Masood, un afgano a capo delle forze Taliban nel nord del Waziristan, Hamza bin Laden, un arabo, e un militante della Moschea Rossa erano stati mandati in missione con il compito di uccidermi. Ho anche temuto che fossero strumenti nelle mani dei loro stessi simpatizzanti, infiltratisi nella sicurezza e nell'amministrazione del mio Paese, gli stessi che ora temono che il ritorno della democrazia possa far deviare i loro piani.

Abbiamo cercato di prendere tutte le precauzioni del caso. Abbiamo chiesto i permessi per importare un automezzo corazzato a prova di proiettile. Abbiamo chiesto di ottenere gli strumenti tecnologici con i quali individuare e disattivare gli ordigni esplosivi improvvisati spesso collocati sul ciglio della strada. Avevamo chiesto che mi fosse assicurato il livello di sicurezza al quale ho diritto nella mia qualità di ex primo ministro.

Adesso, dopo il massacro, appare quantomeno sospetto il fatto che i lampioni delle strade circostanti il luogo esatto dell'attentato - Shahra e Fisal - fossero stati spenti, così da consentire agli attentatori suicidi di avvicinarsi quanto più possibile al mio automezzo. Provo grandissimo sconcerto all'idea che le indagini sull'attentato siano state affidate al vice ispettore generale Manzoor Mughal, presente quando mio marito alcuni anni fa stava quasi per perdere la vita per le torture subite.

Naturalmente, conoscevo i rischi che avrei corso. Già due volte in passato ero stata presa di mira dagli assassini di al Qaeda, tra i quali il famigerato Ramzi Yousef. Conoscendo il modus operandi di questi terroristi, so che tornare a colpire il medesimo bersaglio è per loro prassi naturale (si pensi al World Trade Center), e che dunque sicuramente stavo correndo un pericolo maggiore.

Alcuni esponenti del governo pachistano hanno criticato il mio ritorno in Pakistan, il mio progetto di far visita al mausoleo della tomba del fondatore del mio Paese, Mohammed Ali Jinnah. Mi sono trovata davanti a un dilemma: ero stata in esilio per otto anni, lunghi e dolorosi. Il Pakistan è un Paese nel quale la politica è qualcosa di molto radicato, che si pratica in massa, con un contatto faccia a faccia, persona a persona. Qui non siamo in California o a New York, dove i candidati fanno campagna elettorale pagando i media o spedendo messaggi e posta abilmente indirizzata. Qui quelle tecnologie non soltanto sono logisticamente impossibili, ma altresì incompatibili con la nostra cultura politica.

Il popolo pachistano - a qualsiasi partito esso appartenga - ha voglia, si aspetta di vedere e ascoltare i leader del proprio partito, e di essere parte integrante del discorso politico. I pachistani partecipano ai comizi e ai raduni politici, vogliono ascoltare direttamente e senza intermediari i loro leader parlare con megafoni e altoparlanti. In condizioni normali tutto ciò è impegnativo. Con una minaccia terroristica che incombe è straordinariamente difficile. Mio dovere è far sì che non sia impossibile.

Ci stiamo consultando con strateghi politici su questo problema. Vogliamo essere sensibili nei confronti della cultura politica della nostra nazione, offrire alla popolazione l'opportunità di prendere parte al processo democratico dopo otto lunghi anni di dittatura, ed educare cento milioni di elettori pachistani sulle problematiche all'ordine del giorno.

Non vogliamo, tuttavia, essere imprudenti. Non vogliamo mettere in pericolo senza motivo e senza necessità la nostra leadership e certamente non vogliamo rischiare un eventuale massacro dei miei sostenitori. Se non faremo campagna elettorale, saranno i terroristi ad aver vinto e la democrazia farà un ulteriore passo indietro. Se faremo campagna elettorale rischiamo di essere vittime di violenza. È un enorme problema insolubile.

Attualmente stiamo concentrandoci su tecniche per così dire ibride, che combinino il contatto individuale e di massa con l'elettorato con il rispetto di rigide misure di sicurezza. Laddove c'è chi ha il telefono, potremo provare a contattarlo con un messaggio preregistrato, che descriva le mie posizioni al riguardo di alcune questioni e inviti la cittadinanza a recarsi alle urne.

Nelle aree rurali stiamo prendendo in considerazione l'idea di trasmettere miei messaggi a intervalli regolari dagli impianti stereo installati nei centri dei villaggi. Invece di attraversare il Paese con i tradizionali mezzi di trasporto tipici della politica pachistana, stiamo prendendo in esame la possibilità di "caravan virtuali" o di "comizi virtuali", nel corso dei quali potrei rivolgermi a un pubblico numeroso di tutte le quattro province del Paese affrontando i temi più importanti della campagna.

Stiamo infine anche studiando la fattibilità di una nuova educazione dell'elettorato, di nuove tecniche che inducano a recarsi alle urne e che al contempo riducano al minimo la mia vulnerabilità e le occasioni per un attentato terroristico soprattutto nelle prossime cruciali settimane che ci separano dalle elezioni del nostro Parlamento.

Non dobbiamo permettere che la sacralità del processo politico sia sconfitta dai terroristi. In Pakistan occorre ripristinare la democrazia e l'equilibrio delle posizioni moderate, e il modo per farlo è tramite elezioni libere e oneste che instaurino un governo legittimo su mandato popolare, con leader scelti dal popolo. Le intimidazioni da parte di assassini codardi non dovranno far deragliare il cammino del Pakistan verso la democrazia.

copyrightbenazirbhutto2007
(traduzione di Anna Bissanti)

(28 dicembre 2007)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Dicembre 29, 2007, 12:32:42 am »

Una donna simbolo

Gabriel Bertinetto


Imprevista ed inattesa, Benazir Bhutto aveva fatto irruzione, da protagonista, pochi mesi fa, sulla scena politica pachistana dopo lunghi anni d’esilio. La sua riapparizione aveva sconvolto i piani di coloro che puntavano sul crescente ed apparentemente inarrestabile logoramento di Pervez Musharraf e del suo potere, per mettere in atto i propri progetti eversivi.

Per i gruppi integralisti filo-talebani ed i loro protettori in patria e fuori, Benazir andava eliminata subito, come una variabile che impediva di calcolare correttamente l'equazione della svolta eversiva cui stavano e stanno lavorando.

Ci hanno provato il giorno stesso in cui rimetteva piede in Pakistan, in ottobre. Fu una strage, ma mancarono il bersaglio principale. Hanno ripetuto il tentativo, stavolta purtroppo con successo, a meno di due settimane dalle elezioni parlamentari che con ogni probabilità avrebbero visto Benazir uscire vincitrice e candidata naturale alla guida del governo. Per i mandanti del suo assassinio, era importante prevenire quella eventualità per loro infausta, e hanno colpito con feroce determinazione.

L'odio misogino del fanatismo ideologico fondamentalista è solo una componente delle motivazioni omicide. Il fatto è che, per le sue indubbie personali doti oratorie ed organizzative, per il fascino che esercita ancora fra i ceti popolari il nome dei Bhutto, per il vertiginoso vuoto politico creato nel Paese da una dittatura prima accettata da molti come il male minore e poi rifiutata perché incapace di sradicare il male peggiore, Benazir sembrava l'unico elemento in grado di catalizzare i diffusi sentimenti popolari di resistenza alla temuta deriva teocratica, e ricostruire attorno a sé la speranza in una graduale transizione alla democrazia.

L'aveva capito lo stesso Musharraf, che la convinse a tornare dall'esilio proponendole un matrimonio politico all'insegna dell'interesse nazionale. Lui avrebbe mantenuto la presidenza della Repubblica, ma in cambio si impegnava a fare due importanti mosse per tirare fuori il Paese dalle secche dell'assolutismo militare da lui stesso imposto nel 1999. In primo luogo, rinunciare al comando delle forze armate, ponendo così fine all'anomala concentrazione di poteri risalente al giorno del golpe. Secondariamente, indire nuove e finalmente libere elezioni, alle quali avrebbero partecipato anche le formazioni arbitrariamente messe al bando otto anni fa, compreso il Partito popolare pachistano (Ppp) di Benazir. In prospettiva il patto Musharraf-Bhutto prevedeva una cogestione del potere, lui come capo di Stato, lei come premier consacrata da un successo elettorale largamente previsto.

Una scelta dettata dal realismo politico, quella di Musharraf. Lo stesso realismo che nel settembre 2001 lo spinse ad aderire alla coalizione internazionale guidata dagli americani per rovesciare quegli stessi mullah che Islamabad aveva aiutato a conquistare Kabul. Cambiare per sopravvivere. Allora come oggi. Allora Musharraf rischiava di essere spazzato via assieme ai vassalli afghani. Nel 2007 il pericolo viene dall'isolamento in cui è venuto progressivamente a trovarsi. Non era isolato nel 1999 quando prese il potere con la forza delle armi al culmine di una crisi politica, sociale ed economica gravissima, creata da inefficienza amministrativa e dilagante corruzione. Non era isolato nemmeno nel 2001 quando compì l'acrobatica giravolta che gli permise di restare in sella con l'assistenza degli alleati americani. La prima volta potè agevolmente cavalcare l'onda dell'anti-politica. La seconda incassò l'avallo dubbioso e condizionato dei ceti professionali, istruiti, aperti alla modernità, che non avevano mai avuto simpatie per i talebani e gli estremisti religiosi. Ma con l'andare del tempo entrambe le condizioni favorevoli sono venute a mancare, perché la corruzione e gli sprechi sono continuati anche sotto la dittatura, mentre la linea seguita da Musharraf nel contrasto dell'eversione islamista è stata contradditoria e improduttiva.

Musharraf si è ritrovato solo, senza sostegno popolare, senza l'appoggio di larghe fette del mondo degli affari, duramente criticato dai media, respinto da lobby influenti come quella forense e giudiziaria. Avrebbe potuto replicare con durezza, irrigidendo la stretta tirannica sulla nazione, consapevole dell'arma di ricatto di cui dispone nei confronti dell'Occidente grazie al proprio imprescindibile ruolo nella guerra al terrorismo, ad Al Qaeda, ai talebani, ai gruppi armati che minacciano il fragile potere di Hamid Karzai nel vicino Afghanistan. Ma avrebbe potuto farlo solo se avesse avuto la certezza di controllare davvero i maggiori strumenti del suo potere, cioè gli apparati di sicurezza. Quella certezza però non l'aveva, e la ragione del suo patto con Benazir Bhutto, nel nome della lotta all'estremismo ed al terrorismo e del ritorno alla democrazia, derivava proprio dalla consapevolezza di essere un leader circondato dai nemici nel proprio stesso palazzo.

Musharraf non è mai riuscito ad epurare completamente gli elementi filo-integralisti dai ranghi delle forze armate e dei servizi segreti. Ora, senza la sponda offertagli da Benazir, Musharraf è davvero solo, nel Paese e nel palazzo. Una solitudine alla quale, per il bene del Paese, la Bhutto ha cercato di sottrarlo persino quando il presidente il 3 novembre scorso proclamò lo stato d'emergenza. Un gesto che minava le basi stesse dei loro accordi ufficiosi. In quelle settimane drammatiche Benazir pur insistendo (e alla fine ottenendola) per la revoca dell'emergenza, non ha mai chiuso la porta al dialogo. Quel dialogo era per lei l'unica via perché il Pakistan potesse liberarsi progressivamente dello stesso Musharraf, senza però finire nelle mani di coloro che combattono Musharraf solo per imporre un regime peggiore. Una prospettiva inquietante, considerata la collocazione geopolitica del Pakistan, Paese dotato di armi nucleari.

Pubblicato il: 28.12.07
Modificato il: 28.12.07 alle ore 12.21   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Dicembre 29, 2007, 12:34:08 am »

Il voto e il sangue

Luigi Bonanate


Il terrorismo è la manifestazione più brutale e allucinante dei fallimenti della politica, di cui l’attentato a Rawalpindi è soltanto la più recente riprova. Benazir Bhutto non era né migliore né superiore a tantissimi altri politici, per statura ideologica, per passione politica e onestà. Ma ora è, indiscutibilmente, un’eroina della lotta per la democrazia.

Benazir non aveva neppure sempre seguito politiche che molti di noi apprezzerebbero, come lo sviluppo del nucleare militare in funzione anti-indiana o il sostegno ai ribelli islamici nel Kashmir. Eppure, non importa se consapevolmente o no, da ieri è un simbolo per chi si «ostina» a camminare verso la libertà. Naturalmente nessuno di noi accetterebbe più di riconoscere che le politiche altrui (buone o cattive che siano) possano essere combattute con le bombe e con il terrore. La politica, e in particolare quella che ha per metodo il nome di «democrazia», è nata proprio e specificamente per depurare le lotte di potere dal ricorso alla violenza: il violento sarà escluso dall’agone politico, perderà i diritti all’espressione di una politica e alla sua propagazione. Ciò significa che fin tanto che non riusciremo a ripulire la politica dalla violenza (di ogni tipo e in ogni manifestazione) non potremo fare altro che aspettarci, periodicamente, ritmicamente, cocciutamente, la ricomparsa del terrorismo.

Ebbene, tutto ciò lo sappiamo benissimo; ma quante volte abbiamo fatto finta, proprio noi nel mondo ricco, democratico, pacifico e civile, di non accorgercene? Quante volte abbiamo considerato una dura ma inevitabile (chi sa perché?) necessità lo stillicidio degli attentati iracheni? L’altro ieri, in un Paese a 200 chilometri da Bagdhad in un attentato ci sono stati 25 morti e almeno 80 feriti... chi ci fa più caso? Ma neppure l’indignazione, da sola, è sufficiente: non possiamo far finta, ancora, di non ricordare che nel 1991-92 l’Algeria cadde preda di una delle più spaventose crisi terroristiche della storia proprio nell’approssimarsi di un turno elettorale. Non voglio neppure maliziosamente suggerire che il ricordo di Madrid 11 marzo 2004 si sia perduto ben troppo presto nelle menti di tutti noi. Attentati ed elezioni; terrorismo e politica: un intreccio che già conoscevamo. Ma anche Benazir Bhutto lo sapeva, così bene che è difficile credere che il suo ritorno in Pakistan (un Paese artificiale, non lo si dimentichi mai: non c’è nulla di male in ciò, che pur tuttavia segnala l’anomalia della secessione dall’India nel 1947) sia stato una mossa puramente incosciente. Appena rientrata dall’esilio (che sarà pur stato contrattato con Musharraf, che poi ha pudicamente ceduto il comando delle Forze armate proprio nelle settimane scorse per presentarsi “ad armi pari” con i competitori alle elezioni) si era salvata a Karachi da un attentato che aveva fatto 138 morti e più di 500 feriti!

Qualcuno potrebbe dire che questi eventi in sostanza non sono altro che la conseguenza dell’arretratezza politica in cui questi Paesi (così l’Afghanistan, così le Filippine, la Thailandia, Myanmar, l’Indonesia, eccetera) sono stati tenuti dagli ex-colonizzatori. E ciò, almeno in parte, è vero: ma non possiamo proclamare le virtù e le meraviglie della globalizzazione se poi crediamo che certe parti del mondo siano ancora rinchiuse in un ghetto di ignoranza, incompetenza, inattendibilità e inaffidabilità - perché mai ce ne occuperemmo tanto, allora? Il fatto è che l’Occidente non è per nulla lontano (né psicologicamente né economicamente né culturalmente) da quei Paesi e da quegli eventi e non può chiamarsene fuori con l’aria di chi, scuotendo la testa, commenta tra sé e sé: non impareranno proprio mai a esser democratici... Si sbaglierebbe: non soltanto perché la democrazia non è difficile né da insegnare né da apprendere, purché ci sia chi ha la pazienza di rappresentarne le virtù, ma specialmente perché anche in ciò l’Occidente ha preceduto i Paesi di più recente formazione e ha offerto loro pessimi esempi. Vogliamo dimenticare che più d’uno dei Presidenti statunitensi morì assassinato, e che dei candidati come Benazir Bhutto, Robert Kennedy per non fare che un esempio, furono uccisi subito prima della chiamata alle urne e della probabile vittoria?

Con Benazir Bhutto dunque non muore soltanto una statista (in passato a sua volta accusata di corruzione, figlia di un altro statista estromesso dal potere e poi giustiziato da un altro generale, il famigerato Zia) consapevole e coraggiosa. Non sappiamo se avrebbe potuto vincere le elezioni; anche in condizioni diverse da quelle attuali ciò sarebbe risultato piuttosto improbabile e anzi la sua presenza finiva addirittura per ri-legittimare Musharraf. Sappiamo però con certezza che tutti noi rischiamo di perdere una parte di un bene preziosissimo: la fiducia nella democrazia. È difficile continuare, ogni giorno, a incassare colpo dopo colpo le cattive notizie, vedere che la copertura mediatica su Sarkozy-Carla Bruni la vince su qualsiasi altra emozione popolare o questione sociale, assistere agli scricchiolii delle nostre società affluenti dove si può morire per il profitto di un’acciaieria. E se guardandoci intorno dovessimo accorgerci di essere stati dei cattivi maestri o almeno di non avere avuto la forza o il coraggio di respingere le ingiustizie e la violenza, come potremo mai assistere con animo sereno alle prossime elezioni pachistane? Lasceremo che ci facciano sapere (da qualche Ufficio della Cia, ad esempio) che tutto si è svolto regolarmente, che Musharraf ha vinto democraticamente e che il mondo va nel migliore dei modi?

Non perdiamo, per carità, la capacità di indignarci.

Pubblicato il: 28.12.07
Modificato il: 28.12.07 alle ore 12.21   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Dicembre 29, 2007, 11:55:23 am »

Quella donna, una «provocazione» Ora un gesto per non dimenticare

di Bernard-Henri Lévy


Innanzitutto hanno ucciso una donna. Una donna bella. Una donna visibile, anzi, visibile in modo palese e spettacolare. Una donna per la quale era una questione d'onore, non soltanto tenere incontri politici in uno dei Paesi più pericolosi del mondo, ma farlo a viso scoperto, senza velo — l'esatto contrario di quelle donne vergognose e nascoste, creature di Satana e pertanto maledette, le uniche donne tollerate dagli apostoli di un mondo senza donne.
Con Daniel Pearl, hanno ucciso un ebreo.
Con il Comandante Massoud, un musulmano moderato, un uomo colto, uno spirito libero.
Per tanti anni hanno tentato, con Salman Rushdie, di uccidere un uomo che osava dire che essere uomo significa anche, talvolta, scegliere di scegliere il proprio destino.

E con Benazir Bhutto sono riusciti a uccidere tutto questo, e altro ancora: hanno ucciso una donna, quella donna, hanno annientato una provocazione intollerabile, tale era la luce di quel viso mostrato a tutti, semplicemente mostrato, esposto, nella sua nudità indifesa e magnificamente eloquente. Hanno ucciso quella donna, perché era quella donna, perché incarnava quel viso di donna allo stesso tempo inerme e pieno di una forza che non ammette repliche.

L'hanno uccisa perché viveva il suo destino di donna rifiutando la maledizione che pesa, secondo questi nuovi fascisti, i jihadisti, sulle fattezze umane delle donne. Hanno ucciso colei che era l'incarnazione stessa della speranza, dello spirito e della volontà di democrazia, non solo in Pakistan, ma in tutta la terra dell'Islam.
Pervez Musharraf è stato un falso nemico di Al Qaeda.
Con la sua rete di alleanze occulte, col suo modo di tenersi da parte una riserva di terroristi da cedere uno alla volta, col contagocce, a seconda delle esigenze dei suoi complicati rapporti con il grande amico americano, Musharraf ha finto di combattere le forze di Al Qaeda facendo il loro gioco sottobanco.
Se invece avesse vinto Benazir, se fosse almeno vissuta, semplicemente vissuta, non avrebbe mai smesso di dire, con la sua stessa vita, il suo essere, la sua presenza, con la sua testimonianza, che era la loro nemica più risoluta, assoluta, irriducibile: la Bhutto era, per i terroristi, una minaccia più che politica, oserei dire ontologica. Benazir non gli avrebbe lasciato scampo: loro lo sapevano, e l'hanno ammazzata.
La rivedo ancora, quel pomeriggio di dicembre del 2002, a Londra, all'epoca in cui indagavo sulla morte di Daniel Pearl e su quella polveriera, la base arretrata di Al Qaeda, e talvolta anche la base avanzata, che era già diventato il Pakistan. Bella, sì; incredibilmente coraggiosa nella sua volontà di tornare nel suo Paese, a tutti i costi, un Paese che le aveva già strappato, in un clima da tragedia shakespeariana, i due fratelli minori e il padre.

Rivedo il padre di Benazir, Zulfikar Ali Bhutto, trentacinque anni fa, poco prima della liberazione del Bangladesh e la scissione da quel Pakistan di cui era già primo ministro. Lo rivedo com'era allora, ignaro del destino che lo aspettava, elegante, raffinato, pakistano e anglofilo, musulmano e occidentale, incrocio vivente delle due culture, figlio naturale e promettente di due grandi lignaggi culturali che nessuno poteva immaginare, all'epoca, sarebbero stati travolti, in così breve tempo, da forze inarrestabili.
Queste personalità erano il sale della terra pakistana. Erano coloro che potevano impedire non solo a questo Paese, ma a tutta la regione, di sprofondare nel caos.

Benazir Bhutto è morta e un po' come il 9 settembre del 2001, giorno della morte di Massud, non posso fare a meno d'interrogarmi sul macabro programma che questi assassini devono avere in mente, non posso impedirmi di chiedermi a che cosa farà da preludio questo avvenimento tremendo, questo scoppio di tuono improvviso.

La reazione migliore è passare all'azione, e subito. Il modo migliore, l'unico, per rispondere a questa nuova e terribile sfida è di conferire immediatamente a questo evento tutta la sua importanza simbolica.
La signora Bhutto è stata appena inumata in questo Paese martire che, oggi più che mai, è il Pakistan. E il modo migliore per rispondere ai terroristi sarebbe ora, per Angela Merkel, per George Bush, per Gordon Brown, per Nicolas Sarkozy, di andare subito in Pakistan.

Dietro le spoglie mortali di questa grande donna, come in passato dietro quelle di Anouar Al-Sadat e di Yitzhak Rabin, avrebbero dovuto essere presenti, e in gran numero, i capi di governo e di Stato, per trasformare la celebrazione funebre in una manifestazione silenziosa e mondiale a favore dei valori della democrazia e della pace.

Ci sarebbe piaciuto, sì, che il Presidente francese, per esempio, avesse acconsentito a interrompere le sue vacanze per accompagnare nel suo ultimo viaggio questa grande donna ormai martire, cogliendo magari anche l'occasione per correggere le frasi davvero imprudenti pronunciate due giorni prima, quando ha parlato della religione, della fede, come della vera fonte della speranza dei popoli.

Ma no.
L'uomo che ha srotolato un tappeto rosso davanti a Gheddafi si è accontentato, in questa circostanza, di un secco comunicato. Ha risposto con il disprezzo a quelli che, come me, lo scongiuravano di trovare i gesti, o almeno le parole, adatti per salutare l'eroina assassinata. Ed è tutta la comunità dei capi di Stato democratici che è stata, oltre a lui, di una moderazione, di una prudenza, insomma di una vigliaccheria, davvero sorprendenti.

Non importa.
Benazir Bhutto, ormai, è molto più che un capo di Stato. È diventata un simbolo. Si è trasformata, come Massud, come Daniel Pearl, una formidabile bandiera. E bisognerà che, dietro questa bandiera, si raccolgano tutti coloro che non hanno ancora seppellito ogni speranza di libertà nella terra dell'Islam. Bisognerà che il suo nome diventi un'altra parola d'ordine, insanguinata ma bella, per quelli che ancora credono nella vittoria, nella terra dell'Islam, del genio benevolo dei Lumi su quello cattivo del fanatismo e del crimine.

A noi, cittadini d'Europa e degli Stati Uniti, spetta portare il lutto che i nostri leader hanno, per ora e nella sostanza, vergognosamente dimenticato.

(Traduzione di Rita Baldassarre)


29 dicembre 2007

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Dicembre 30, 2007, 12:29:40 pm »

TRE VERSIONI PER L'ASSASSINIO DELLA LEADER DELL'OPPOSIZIONE PAKISTANA

Omicidio Bhutto: successo per Al Qaeda

Confusione dopo l'attentato, ma il qaedismo, coinvolto o meno, trae comunque un vantaggio


WASHINGTON – Versioni contrastanti, rivendicazioni confuse, manovre. Troppe zone d’ombra circondano ancora la dinamica dell’attentato contro Benazir, così come dubbi sorgono sul comportamento delle autorità. Proviamo a sintetizzare i punti di un dossier esplosivo.

LA CAUSA - Sulle cause della morte della Bhutto sono state date tre versioni. La prima parlava di due colpi d’arma da fuoco che l’avrebbero raggiunta alla testa. Poi si è parlato di una scheggia della bomba fatta detonare dal kamikaze. Infine le autorità hanno sostenuto che la donna è deceduta in seguito ad un violento impatto con il tettuccio della vettura. A provocarlo l’onda d’urto della deflagrazione. Una tesi subito respinta dai collaboratori di Benazir: aveva una ferita d’arma da fuoco alla testa. Sarebbe stato utile effettuare l’autopsia ma il marito della Bhutto – probabilmente per motivi religiosi – si è opposto.

LA RIVENDICAZIONE – La polizia pachistana ha diffuso il testo di un'intercettazione che proverebbe il coinvolgimento nell’attacco di Beitullah Mehsud, un importante leader dei talebani locali. Ma lo stesso estremista ha smentito. Si è così ripetuto lo scenario d’ottobre. Mehsud, allora, aveva minacciato di usare i kamikaze contro Benazir, quindi aveva negato di aver organizzato il primo attacco. Esistono poi altre due rivendicazioni telefoniche fatte da elementi vicini al qaedismo. Nulla però di decisivo. Di solito Al Qaeda tende ad assumersi la responsabilità delle sue operazioni con un comunicato o un video. Se non lo ha fatto è perché non c’entra oppure il suo coinvolgimento è indiretto. Nel senso che l’attacco è stato condotto da una fazione non legata direttamente alla «casa madre» o i killer hanno agito per conto terzi. La pista degli islamisti resta quella privilegiata perché l’omicidio di un personaggio quale era la Bhutto può rientrare nei progetti eversivi del qaedismo.

 LA SICUREZZA – I sostenitori di Benazir continuano ad attaccare le autorità per le scarse misure di sicurezza adottate. Un’accusa che ne tira dentro un’altra: la Bhutto potrebbe essere rimasta vittima di un piano ordito dai militari e persino dallo stesso Musharraf. Un’ipotesi peraltro non esclusa da numerosi analisti occidentali che lanciano pesanti sospetti su ambienti dell’intelligence. Il rischio è che la tragica fine di Benazir resti avvolta nel mistero, così come è avvenuto per altri episodi nella storia recente pachistana. Certamente la mancanza di chiarezza e le polemiche di queste ore fanno il gioco dei terroristi. Il Pakistan è scosso, l’instabilità è il dato base, gli americani che hanno investito molto su Musharraf e la Bhutto non sanno bene cosa fare. Il risultato è che il qaedismo – coinvolto o meno – ha messo a segno un successo importante.

Guido Olimpio
29 dicembre 2007

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Gennaio 01, 2008, 11:40:05 pm »

ESTERI

Il racconto di John Moore, fotografo di Getty Images, che seguiva la campagna elettorale della Bhutto.

Ha assistito in diretta e documentato la morte dell'ex premier pachistana a Rawalpindi

Gli ultimi istanti di vita di Benazir "Così l'ho vista morire tra la folla"

di ALESSIA MANFREDI


Benazir Bhutto sul palco, che parla ai suoi sostenitori. La folla che le si accalca attorno, poi una palla di fuoco, il caos, gente che scappa ovunque. Facce scioccate, decine di corpi a terra, martoriati, la disperazione di chi se l'è cavata ma ha visto morire quelli accanto a sé. Gli ultimi istanti prima dell'assassinio dell'ex premier e leader dell'opposizione in Pakistan, uccisa dopo un comizio elettorale a Rawalpindi il 27 dicembre, sono stati vissuti in prima persona da John Moore, fotografo di Getty Images e premio Pulitzer nel 1990 per i servizi fotografici realizzati in Iraq. Li ha ripresi in queste immagini che Repubblica.it propone in esclusiva, e raccontati in un'intervista.

"E' stata una campagna elettorale molto intensa ed emotiva" spiega Moore, che ha seguito la Bhutto nei vari appuntamenti in vista delle elezioni legislative in Pakistan che erano in programma per l'8 gennaio. "Era talmente coinvolta, presa dai temi che toccava - dalla lotta al terrorismo ad Al Qaeda - che spesso urlava" dice il fotografo.

La gente avvertiva la sua passione e la seguiva, voleva toccarla, le andava incontro: è successo anche a Rawalpindi, durante il suo ultimo comizio. "Forse è stato per questo che ha deciso di alzarsi nella macchina per salutare la folla a discapito della propria sicurezza". Attimi rapidissimi in cui Benazir, in piedi nell'auto, saluta i suoi sostenitori. Poi il caos: Moore sente due colpi di arma: vede una palla di fuoco in alto e tutti che iniziano a scappare. Solleva di istinto la macchina fotografica e comincia a scattare in automatico a 360 gradi. Da qui la sequenza concitata, con l'obiettivo che cristallizza il panico seguito all'uccisione di Benazir Bhutto per mano, sembra, di due persone: una ha sparato, un'altra si è fatta esplodere seminando morte.

Immagini rapide, non a fuoco, che colgono la situazione mentre precipita. Un uomo viene ripreso più volte fra i corpi amputati rimasti a terra: anche lui era venuto a Rawalpindi ad ascoltare la sua leader. "Non era ferito, ma si disperava, completamente in stato di shock, scosso da emozioni troppo forti" racconta Moore.

La strage lascia a terra diverse persone e uccide quello che in moltissimi vedevano come il simbolo del possibile cammino del Pakistan verso la democrazia. "Benazir Bhutto sapeva di essere a rischio, per questo i suoi comizi erano sempre improvvisati e raccolti". Non però quello di Rawalpindi, che era stato annunciato con largo anticipo: ora e luogo erano stati comunicati con precisione. Un rischio immenso, che le è stato fatale. "Avevano ben chiaro il loro obiettivo, volevano lei e ci sono riusciti" conclude Moore. Ma chi si nasconda dietro quel "loro" rimane ancora un mistero.

(1 gennaio 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Gennaio 03, 2008, 12:24:32 am »

NUOVE RIVELAZIONI DAL PARTITO Della bhutto che chiede l'autopsia

«Uccisa da un'arma laser dell'esercito»

Citato un medico che aveva soccorso Benazir: «Aveva una ferita complessa, non da proiettile»

 
Sarebbe stata un'arma laser ad uccidere Benazir Bhutto. Lo riferisce The Nation citando un dirigente del Partito popolare pakistano (Ppp) della Bhutto, Babar Awan, secondo cui l'arma che ha ucciso l'ex primo ministro è simile a quella usata dalle forze americane in Iraq, ma non è in possesso dei talebani.

Awan cita le affermazioni di uno dei medici che si occuparono della Bhutto subito dopo l'arrivo in ospedale, secondo il quale «le ferite non erano di proiettile». I medici hanno infatti trovato che la ex premier perdeva materia cerebrale e presentava una ferita «complessa» che non poteva essere stata causata da un proiettile. Di qui il sospetto che gli spari e l'esplosione siano stati solo una messinscena per coprire l'impiego di un'arma sofisticatissima che in Pakistan è in dotazione solo ai reparti speciali che si occupano della sicurezza del presidente Pervez Musharraf.

Se questa ipotesi fosse confermata, sarebbe difficile per Musharraf sostenere la tesi dell'attentato compiuto dai talebani insieme ad «alleati di Al Qaeda».

Il nodo potrà essere sciolto con la riesumazione del cadavere e nuovi esami a cui finora il marito della Bhutto si è opposto. «Senza un'autopsia interna ed esterna, nessuno può arrivare ad alcuna conclusione sulle cause della morte», ha affermato una fonte del Ppp. «Il governo ha portato via le cartelle cliniche subito dopo il decesso» ha detto un medico al New York Times.

Le autorità pachistane sostengono che la Bhutto è rimasta vittima di un violento colpo alla testa contro il tettuccio dell'auto ma il video dell'inglese Channel 4 mostrerebbe la donna piegarsi in avanti dopo i colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata.

A rafforzare l'ipotesi del complotto di Stato una nuova rivelazione sull'omicidio: il giorno in cui è stata uccisa Benazir doveva consegnare a due parlamentari americani un dossier sul piano brogli per le elezioni preparato dai servizi segreti pakistani con soldi Usa.

02 gennaio 2008

da corriere.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!