Admin
Utente non iscritto
|
|
« inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:08:25 pm » |
|
L’umile Italia, viva e dolorosa, di Tobino
Giulio Ferroni
Per Mario Tobino, medico e scrittore, appassionato della vita in tutte le sue forme, radicato nella più viva tradizione popolare toscana e versiliese, scrivere è stato sempre un modo di essere dentro un mondo vivo, di dar voce ad una realtà in movimento, piena di vite, di esperienze, di passioni: in un senso della vita che non ha nulla a che fare con il programmatico vitalismo di tante rovinose ideologie novecentesche, ma che si radica nel riconoscimento della concretezza dei rapporti, degli incontri con gli esseri umani e con le cose, nel confronto essenziale con le necessità della vita materiale, nell’impegno a riscattare la dignità umana entro l’inesorabile fluire delle leggi naturali, tra tensione morale e ricerca di una bellezza semplice e vigorosa, senza aloni sentimentali o estetizzanti. Nella sua aperta e avventurosa disponibilità ad entrare in rapporto con gli altri, ad una diretta immersione nelle cose, Tobino è stato scrittore «antico» e popolare, ma lontano da ogni culto del «primitivo» e da ogni populismo, spregiudicatamente e toscanamente laico: nei suoi libri si sente ancora il pulsare vivo di quella «umile Italia» di cui Pasolini lamentava la fine, un’Italia toccata subito in un’adolescenza vissuta insieme ai ragazzi di Viareggio, sofferta nelle esperienze della guerra e della Resistenza, osservata nei suoi esseri più deboli nella lungo lavoro di psichiatra nel manicomio di Magliano, in un esercizio di attenzione alle vite concrete dei malati, di partecipazione diretta alla loro esperienza (e il valore da lui attribuito al rapporto quotidiano e «comunitario» dello psichiatra con i malati di mente lo portò ad un atteggiamento polemico nei confronti della legge Basaglia e della chiusura dei manicomi). Questo scrittore così vigoroso, che non può essere ricondotto a nessun gruppo letterario, che si è affidato sempre alla propria energia incontenibile, indifferente ad ogni proposito programmatico, ha qualcosa di «classico», per la severa spontaneità con cui dice sempre quello che ha da dire: estraneo alle teorie e alle disintegrazioni della scrittura novecentesca, alla sua ossessione del negativo, nella sua scrittura avverte il pericolo che grava sul mondo vivo e concreto che egli ama, ma senza ripiegamenti elegiaci, anzi con la persistente felicità di chi quel mondo lo ha abbracciato fino in fondo, di chi se ne è fatto sostanza e corpo personale.
Occasione di una nuova attenzione all’opera di Tobino può essere data dall’uscita del Meridiano a lui dedicato, curato ottimamente da una giovane abilissima filologa come Paola Italia (Opere scelte, ottobre 2007, pp.CXLIII-1919), con due introduzioni, una di Eugenio Borgna (A tu per tu con la follia), che mette in luce i caratteri della psichiatria di Tobino, la sua attenzione alle «strutture di significato» della follia, la sua disponibilità a confrontarsi con le motivazioni esistenziali dei malati; e una di Giacomo Magrini (Partigiani di mare), che insiste con sottigliezza sul rapporto dell’autore con gli «eterni della realtà». Alle introduzioni segue, come è costume dei Meridiani, una ricchissima Cronologia, elaborata dalla curatrice, fitta di dati informativi di prima mano. Sono presenti poi i testi delle maggiori opere narrative di Tobino, quasi tutte sospese tra romanzo e autobiografia, costruite sulla trasposizione romanzesca di esperienze personali vissute con integrale partecipazione, come è il caso dei libri dedicati all’attività psichiatrica (qui Le libere donne di Magliano, del 1953, e Per le antiche scale, del 1972: e peccato che manchi l’amaro Gli ultimi giorni di Magliano, del 1982, sulla fine di quella lunga esperienza), del libro sulla partecipazione alla seconda guerra mondiale apparso ne «I gettoni» di Vittorini, Il deserto della Libia, del 1952, di quello sulla morte della madre e sul destino della sua famiglia, La brace dei Biassoli, del 1956. Di eccezionale densità sono le Notizie sui testi, con cui la curatrice fornisce articolatissime informazioni sulla genesi, la redazione, la storia editoriale delle varie opere. Sia qui che nella Cronologia Paola Italia ha avuto modo di appoggiarsi su fitto materiale d’archivio e soprattutto sui quaderni autografi custoditi presso gli eredi di Tobino, che contengono, oltre a materiale preparatorio per i romanzi poi pubblicati e a testi inediti, un vastissimo Diario, che occupa 101 quaderni e procede dal 4 marzo 1945 al 17 luglio 1980.
L’uso di questi autografi costituisce in effetti la grande novità del Meridiano: e oltre a servirsene variamente per la Cronologia e per le Notizie sui testi, la Italia pubblica, in appendice al testo de Le libere donne di Magliano, un Quaderno, in cui l’autore discute animatamente le reazioni suscitate dal libro specialmente nell’ambiente del manicomio, e, come esempio e anticipo del Diario (in vista di una sua più ampia pubblicazione), le pagine del 1950.
Il Diario costituisce in effetti una sorta di serbatoio dell’intera esperienza di Tobino, zibaldone personale da cui sono scaturite man mano alcune delle sue opere fondamentali: la messa in scena dell’esperienza personale rivela la fonte e la ragione prima del suo scrivere, del diretto rapporto che egli istituisce tra vita e scrittura. E già queste pagine del 1950 mostrano in più punti la forza dell’investimento personale con cui egli affrontava una scrittura scandita nel ritmo dei giorni, fatta di umori, di disappunti, di rabbie, di entusiasmi, di scatti opposti, di vitale allegria e di cupa malinconia. Nel Diario egli stesso credeva di vedere la sua opera «migliore», proprio perché rivolta a «ristabilire l’uomo», a farsi voce del vissuto, «uguale alla natura, all’architettura dei fiumi, del mare, alla cerchia dei monti che cova una pianura». E al diario affidava tutti gli eccessi della sua vitalità, con la sua ricerca di grandezza, di bellezza, di umanità autentica e palpitante, il suo amore per l’Italia («il paese dove a ogni secondo prorompe la vita»), pur capace di dargli «nausea» per la viltà, la paura, la mediocrità, l’insulsaggine che il nostro paese accoglieva (e accoglie) dentro di sé. Il suo io si impone qui in piena, assoluta evidenza, con le sue qualità e i suoi difetti, con un’esibizione di valore personale, contro gli uomini «piccini», contro un nemico abitato da «una marea di mediocri e vili».
Ma Tobino si offre pienamente al mondo nell’atto stesso di accamparvi tutto se stesso; vuole entrare dentro il cuore del mondo e farlo proprio: il suo puntare sull’io non coincide con quel narcisismo che ha aduggiato e aduggia tanti intellettuali contemporanei, ma fa pensare piuttosto all’egotismo di un autore da lui tanto amato e a cui più volte si riferisce in questo Diario del 1950, il grande Stendhal. Formidabile ad esempio questa notazione, che, specchiandosi nel veloce destino dell’autore, della sua vita trascinata via dal tempo, ne afferma la singolare energia poetica: «La vita di Stendhal è un lampo, come la mia. Non ha avuto tempo di fare nulla, avendo meditato tutto. Come il fiume è fuggita. È la vita che mollemente scivola via. Ha rincorso sempre, ciò che non si afferra. Finalmente un completo poeta». La passione per Stendhal conduce ad una sfida all’impossibile ritorno del tempo: «Come vorrei che Stendhal fosse vivo per vedere che aveva ragione». E il tempo si proietta anche verso un sogno d’amore in un impossibile futuro: «Se è una fanciulla, fra trecento anni, esca i seni dalla stoffa che li ricopre e me li mostri e mi dica: o ombra, o antico morto, amerei te se ora tu fossi vivo, ti farei vedere in questo silenzio la mia bellezza, hai tanto amato la vita che io amo te che lo meriti; sono la più bella di questa città». Con Stendhal Tobino condivide la disposizione all’eccesso, l’abbandono fulminante alla bellezza, all’amore, all’indignazione, l’energia deformante nei giudizi sul mondo, l’adesione alla vita sociale e l’opposizione ad essa: aggiungendo una particolarissima coloritura popolare e toscana. Spirito anarchico e laico, egli scommette tutto se stesso in ogni momento e in ogni situazione dell’esistenza, con una schiettezza provocatoria e con qualche esito di maschilismo molto poco politically correct.
Ma davvero impagabili in questo Diario del 1950 sono certi eccessi, proiezioni del mondo sulla misura dell’io, fino al limite del paradosso. Ecco così un uso tutto laico ed energetico dell’anno santo 1950, che culmina in San Pietro nell’esaltazione per Michelangelo («è lui che inconsapevolmente viene adorato dalla moltitudine, è la sua tragedia davanti al mistero dell’uomo che fa inchinare la moltitudine», mentre il papa sembra «un povero vecchietto, un uccellino caricato a molle e trasportato su quella sedia, un fuscello in un mare»). E così Tobino prende di petto gli scrittori italiani a lui contemporanei, con giudizi impietosi e taglienti: entro il Diario del ’50 inserisce una sua bislacca storia letteraria del ventennio fascista, con frecciate in più direzioni che non sono semplicemente frutto di maldicenza da outsider, ma risalgono proprio a quel suo esplosivo egotismo, sono segno di una intolleranza verso i riti del mondo letterario ufficiale, verso i modelli critici assestati, verso gli atteggiamenti programmatici che pretendono di filtrare l’inafferrabile autenticità della vita. Così, pur riconoscendone il carattere parziale ed eccessivo, non semplicemente malevole appaiono tante battute, come quella sugli ermetici fiorentini che «si beano del nulla caramellato, dell’aridità mascherata di astruseria», o quella sul critico che «parla sempre di Foscolo, il quale se fosse in vita dopo che lo avrebbe preso a calci per due chilometri non lo direbbe a nessuno vergognandosi di aver faticato i muscoli per un simile limitato», o quella su Moravia «sempre indaffarato a sciorinar segatura», ecc. Ma con questi esagerati giudizi Tobino afferma la sua sconfinata passione per la vita, la sua richiesta pressante di una letteratura che afferri in sé l’energia guizzante del tempo che scorre, che dia voce all’amore e al dolore, che si affidi alla bellezza senza stare a guardare la propria ombra. Passione certamente «contro tempo» quella di Tobino, nemico giurato delle complicazioni intellettualistiche della cultura del Novecento, delle infinite torsioni del negativo, del vario aggregarsi degli scrittori in gruppi, tendenze, conventicole. Ma proprio da questo suo essere «contro tempo» e dal singolare egotismo che l’accompagna è scaturita la sua capacità di ascolto del mondo che ha attraversato, della follia dei suoi malati e dell’Italia da lui intensamente amata.
Pubblicato il: 27.12.07 Modificato il: 27.12.07 alle ore 8.19 © l'Unità.
|