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Autore Discussione: SOCIALESIMO. Perchè.  (Letto 39597 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 22, 2021, 11:32:59 am »

Un commento lusinghiero di Domenico Proietti, Segretario confederale della UIL
 
Coniugare la coesione sociale con la ripresa economica del Paese
 
Auguri di buona strada al rinvigorito Avanti. Non solo perché rappresenta una testata storica del giornalismo italiano, un patrimonio di idee di cui il Paese sente il bisogno per innalzare il livello del dibattito, ma anche per le sue analisi che permettono di avere un canale lungimirante di informazione.

Ne è un esempio la recente previsione su come si sarebbe concluso il confronto sul blocco dei licenziamenti, che ha anticipato l’intesa poi siglata tra Governo e Parti sociali. Complimenti al direttore Claudio Martelli che aveva indicato subito una strada di buonsenso e di razionale praticabilità, che coniugava la coesione sociale con la ripresa economica del Paese. Sono certo che l’Avanti continuerà a svolgere questo importante ruolo su tutti i più significativi temi del Paese a cominciare dalla riforma delle politiche attive del lavoro.

Nel consolidare una preziosa collaborazione, buon lavoro all’Avanti! e a Claudio Martelli.

Domenico Proietti,
Segretario confederale UIL
 
DA avanti.it
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 02, 2021, 03:41:33 pm »

PANZIERI, Raniero in "Dizionario Biografico"

Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>
12:11 (3 ore fa)
a me

https://www.treccani.it/enciclopedia/raniero-panzieri_%28Dizionario-Biografico%29/
 
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 17, 2021, 08:07:44 pm »

Pier Paolo Pasolini, Eretico & Corsaro
 
( "Vie nuove",15 settembre 1971)

"La cosa si racconta in due parole: mia madre, mio fratello ed io eravamo sfollati da Bologna in Friuli, a Casarsa. Mio fratello continuava i suoi studi a Pordenone: faceva il liceo scientifico, aveva diciannove anni. Egli è subito entrato nella Resistenza. Io, poco più grande di lui, l'avevo convinto all'antifascismo più acceso, con la passione dei catecumeni, perché anch'io, ragazzo, ero soltanto da due anni venuto alla conoscenza che il mondo in cui ero cresciuto senza nessuna prospettiva era un mondo ridicolo e assurdo. Degli amici comunisti di Pordenone (io allora non avevo ancora letto Marx, ed ero liberale, con tendenza al partito d'azione) hanno portato con sé Guido ad una lotta attiva. Dopo pochi mesi, egli è partito per la montagna, dove si combatteva. Un editto di Graziani, che lo chiamava alle armi, era stata la causa occasionale della sua partenza, la scusa davanti a mia madre. L'ho accompagnato al treno, con la sua valigietta, dov'era nascosta la rivoltella dentro un libro di poesie. Ci siamo abbracciati: era l'ultima volta che lo vedevo.
Sulle montagne, tra il Friuli e la Yugoslavia, Guido combatté a lungo, valorosamente, per alcuni mesi: egli si era arruolato nella divisione Osoppo, che operava nella zona della Venezia Giulia insieme alla divisione Garibaldi. Furono giorni terribili: mia madre sentiva che Guido non sarebbe tornato più. Cento volte egli avrebbe potuto cadere combattendo contro i fascisti e i tedeschi: perché era un ragazzo di una generosità che non ammetteva nessuna debolezza, nessun compromesso. Invece era destinato a morire in un modo più tragico ancora.
Lei sa che la Venezia Giulia è al confine tra l'Italia e la Yugoslavia: così, in quel periodo, la Yugoslavia tendeva ad annettersi l'intero territorio e non soltanto quello che, in realtà, le spettava. Mio fratello, pur iscritto al partito d'azione, pur intimamente socialista (è certo che oggi sarebbe stato al mio fianco), non poteva accettare che un territorio italiano, com'è il Friuli, potesse essere mira del nazionalismo yugoslavo. Si oppose, e lottò. Negli ultimi mesi, nei monti della Venezia Giulia la situazione era disperata, perché ognuno tra due fuochi. Come lei sa, la Resistenza yugoslava, ancor più che quella italiana, era comunista: sicché Guido venne a trovarsi come nemici gli uomini di Tito, tra i quali c'erano anche degli italiani, naturalmente le cui idee politiche egli in quel momento sostanzialmente condivideva, ma di cui non poteva condividere la politica immediata, nazionalistica.
Egli morì in un modo che non mi regge il cuore di raccontare: avrebbe potuto anche salvarsi, quel giorno: è morto per correre in aiuto del suo comandante e dei suoi compagni. Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l'operato del partigiano Guido Pasolini. Io sono orgoglioso di lui, ed è il ricordo di lui, della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo. Che la sua morte sia avvenuta così, in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità'.

(Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, Dialoghi 1960-1965, a cura di Giancarlo Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1996. )
Da Fb del 15 agosto 2021
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 06, 2021, 06:05:09 pm »

Jouhatsu (蒸発)

Il nuovo termine del nostro lessico tematico giapponese è jouhatsu (蒸発), letteralmente “evaporazione” (il verbo “evaporare” si scrive jouhatsu-suru,  蒸発する), cioè le persone che spariscono e non si fanno più trovare per anni. Se ci pensate, si dice più o meno così anche in italiano: “Non l’hanno più trovato, è come se fosse evaporato”. Tuttavia, il termine più appropriato in italiano è “svanire”, che ha un sapore diverso da quello giapponese; anzi, l’assenza di sapore, dato che l’evaporazione lascia dei residui, mentre lo svanire no.
Chi sono, allora, gli “evaporati” in Giappone? Di solito sono quelli che non reggono più la pressione della società, gli impegni, le regole, le gerarchie, e decidono di scomparire, darsi alla macchia, andare da un’altra parte (del Giappone) e rifarsi una vita. O quelli che si vergognano molto per un licenziamento, un matrimonio fallito, una dipendenza, una vita condotta in modo disordinato e disonorevole.

Attenzione, quelli che scompaiono quasi sempre non lo fanno da soli: ci sono delle aziende che aiutano queste persone a scomparire in modo discreto. Le aziende si occupano di quelli che vengono chiamati “traslochi notturni“.“traslochi notturni“. Altra bella immagine, ma è una libertà del traduttore della Bbc: in giapponese si dice yonige-ya (夜逃げーや) che vuol dire (agenzia per la) “fuga di notte”. Fanno “volare via” la gente: gli spostano le cose (la parte del trasloco) ma si occupano anche della rilocalizzazione, di trovare nomi alternativi, identità false ma plausibili, storie che aiutino uno straniero a rifarsi una vita in un altro contesto, ma sempre all’interno del Giappone. Non si va romanticamente a vivere in montagna o in qualche atollo, però. Si finisce invece in un quartiere abbandonato alla gestione della mafia giapponese o in una delle piccole cittadine fuori dal radar, fatte per i paria e i senza casta, vivendo di lavoretti più o meno legali, pagati per contanti e avendo a che fare con un sistema sanità informale da ambiente criminale. Si evapora ma non si scompare: si va altrove, un po’ più in là, a sopravvivere, vivendo d’espedienti.

La polizia sostanzialmente non interviene, a meno che non ci siano incidenti o crimini, perché in Giappone la privacy delle persone è difesa in maniera ossessiva, rendendo la scomparsa un po’ più facile. L’unico modo che quelli rimasti hanno per scoprire cosa è successo a chi scompare è assumere un investigatore privato, cosa che apre tutto un altro giro di considerazioni e valutazioni, inclusa (per noi) la differenza culturale che ha l’investigatore privato nella società giapponese rispetto alla nostra. Materia per altri lemmi tematici.

La pratica di fare jouhatsu è nata negli anni Sessanta ed è il modo con cui si è cristallizzato un concetto altrimenti non sostenibile dagli individui nella cultura tradizionale giapponese: fuggire da un matrimonio infelice o dalla sofferenza e disonore di un divorzio. Con lo scoppio della bolla degli anni Ottanta e il crash finanziario dell’economia giapponese che ne è seguito, fare jouhatsu è diventato il modo per rendere socialmente accettabile quello che da noi sarebbe l’atto di licenziarsi e lasciare il lavoro. Noi sogniamo di aprire il ciringuito sulla spiaggia, l’AirB&B in Toscana o il locale hipster in centro a Milano, loro che non si potevano licenziare o perdere il lavoro, senza un buon motivo (non certo la felicità) dovevano inventarsi una via di uscita. Diversa dalla strada tradizionale per uscire dagli obblighi sociali, che un tempo sarebbe stato il suicidio.

Evaporare è divenuta un’alternativa più ragionevole e al tempo stesso comprensibile per tutti. A pensarci bene, è una versione meno tossica e più vitale della pratica dell’hikikomori (“ひきこもり” oppure “引きこもり”), letteralmente “staccarsi e stare in disparte”, cioè gente che scappa dalla società chiudendosi letteralmente e fisicamente in sé stessa, cioè chiudendosi fisicamente in casa, o meglio, nella propria stanza dalla quale non esce più.

Si capisce allora la vitalità positiva dell’evaporare. È un atto comprensibile, a condizione però di rispettare un altro tabù sociale: così come non si parla di suicidio, in Giappone non si parla pubblicamente neanche di jouhatsu.

Da - https://www.ilpost.it/antoniodini/2021/06/09/jouhatsu-%e8%92%b8%e7%99%ba/
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 10, 2021, 11:50:11 am »

Non si doveva e non si deve investire sui fannulloni!

Lo Stato deve sollecitare la parità retributiva, ma non lasciando a carico delle imprese il costo della maternità e delle conseguenti necessità della donna!

ggiannig
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 15, 2021, 11:29:39 pm »

Un proporzionale contro i populismi

REDAZIONE  14 SET 2021
     
Una nuova agenda per non essere più subalterni al M5s. Ascoltare Guerini
Sullo stesso argomento:
Avanti tutta sul proporzionale
 
Un proporzionale bellissimo
Mentre i partiti della destra sembrano ossessionati dalla scadenza elettorale, che vorrebbero anticipare il più possibile, il Pd sembra voler rimuovere i problemi legati a questo appuntamento che, in ogni caso, dovrà affrontare entro il 2023. Non si tratta, naturalmente, di avviare la campagna elettorale politica con grande anticipo, ma di predisporne le condizioni. Il primo punto è il sistema elettorale, la cui eventuale riforma deve essere incardinata o almeno discussa già ora. Converrebbe ritornare a un sistema proporzionale, che lascia più libero il gioco politico e può registrare meglio i cambiamenti, in parte già avvenuti, in parte auspicabili, nella dialettica politica grazie alla fase di ampia collaborazione governativa in corso. Il Pd continua a ondeggiare tra vecchie nostalgie maggioritarie legate al bipolarismo dell’altro ieri e comprensione realistica dell’interesse oggettivo per il proporzionale: è ora che si dia una mossa.

L’altro elemento che va chiarito è il profilo con cui il partito intende presentarsi all’elettorato, che deve essere il più netto possibile. Invece di baloccarsi con ipotesi irrealistiche come la candidatura di Mario Draghi alla testa di una coalizione con i 5 Stelle (ma solo pochi mesi fa si parlava di un analogo ruolo di Giuseppe Conte, e si è visto com’è andata a finire), il Pd dovrebbe sottolineare la sua autonomia e riaffermare che il candidato premier è il segretario del partito. Lo ha detto venerdì scorso, alla festa dell’Unità di Bologna, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini al direttore Claudio Cerasa, e ha ragione da vendere. Mimetizzarsi dietro improbabili coalizioni offusca l’immagine e l’impegno programmatico del partito, mentre questa è la fase della competizione, leale e democratica, tra forze che però mettono in evidenza le distanze e le differenze, senza demonizzazioni ma anche senza confusioni o indulgenze. Il momento delle trattative verrà dopo le elezioni in base al risultato di ciascuno, non prima.

Da - https://www.ilfoglio.it/editoriali/2021/09/14/news/un-proporzionale-contro-i-populismi-2923189/
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 01, 2021, 09:31:16 pm »

I limiti dell’ambientalismo e la proposta ecosocialista

Una politica ecologica seria non può che essere anticapitalista e cogliere i nessi fra le contraddizioni ecologiche e quelle non ecologiche del capitale.

Nancy Fraser 29 Settembre 2021

In un lungo e approfondito saggio contenuto nel numero di MicroMega in edicola e libreria la filosofa statunitense Nancy Fraser spiega perché un ambientalismo che non metta in discussione le fondamenta del capitalismo non va molto lontano. Ne pubblichiamo un estratto.
Le politiche del clima sono balzate al centro della scena[1]. Anche se persistono sacche di negazionismo, attori politici dei più diversi colori stanno diventando verdi. […].
L’ecopolitica, in sintesi, è divenuta ubiquitaria. Non più appannaggio esclusivo di movimenti ambientalisti autonomi, il discorso sul cambiamento climatico appare adesso una questione urgente rispetto alla quale ogni attore politico deve prendere posizione. Incorporata in un mucchio di programmi in concorrenza tra loro, la questione viene variamente declinata secondo i diversi impegni cui si accompagna. Col risultato, sotto un superficiale consenso, di un inquieto dissenso. Da una parte c’è un crescente numero di persone che vedono il riscaldamento globale come una minaccia alla vita sul pianeta Terra così come la conosciamo. D’altra parte, costoro non sono accomunati da una stessa visione delle forze della società responsabili di quel processo e nemmeno dei cambiamenti nella struttura sociale necessari per fermarlo. Sono più o meno concordi sul dato scientifico, ma decisamente discordi sulle politiche[2].

E tuttavia “concordi” o “discordi” sono definizioni troppo vaghe per fotografare la situazione. L’ecopolitica oggi si sviluppa all’interno di una crisi epocale da cui è inevitabilmente segnata. Crisi dell’ecologia, certo, ma anche dell’economia, della società, della politica e della salute pubblica ovvero una crisi generale i cui effetti si diffondono ovunque come metastasi, scuotendo la fiducia nelle visioni del mondo consolidate e nelle élite al potere. Ne risulta una crisi di egemonia e un “inselvatichirsi” dello spazio pubblico. Non più domata dal buonsenso dominante che blocca le opzioni fuori dagli schemi, la sfera politica è divenuta ora il luogo di una ricerca frenetica non solo di politiche migliori, ma di nuovi progetti politici e nuovi stili di vita. Accumulatasi ben prima dello scoppio del Covid, ma da questo fortemente intensificata, questa “atmosfera instabile” permea l’ecopolitica che si dà necessariamente al suo interno. Il dissenso sul clima è pesante, di conseguenza, non “solo” perché la sorte della Terra è in bilico, e nemmeno “solo” perché il tempo stringe, ma anche perché il clima politico è, a sua volta, agitato dalla turbolenza.
In questa situazione, per difendere il pianeta bisogna costruire una controegemonia per superare l’attuale cacofonia di opinioni e arrivare a un buonsenso ecopolitico in grado di orientare un progetto di trasformazione largamente condiviso. Certo, quel buonsenso deve aprirsi un varco tra la massa di opinioni in conflitto e identificare precisamente ciò che va cambiato nella società per fermare il riscaldamento globale, collegando in modo efficace le autorevoli scoperte della scienza del clima a un resoconto altrettanto autorevole dei motori storico-sociali dei cambiamenti climatici. Per divenire contro-egemonico comunque il nuovo buonsenso deve trascendere il “meramente ambientale” e affrontare la reale entità della crisi generale, deve collegare la sua diagnosi ecologica ad altre preoccupazioni vitali, inclusa quella per l’insicurezza dei mezzi di sostentamento e per i diritti negati dei lavoratori, il disinvestimento pubblico dalla riproduzione sociale e la svalutazione cronica del lavoro socio-assistenziale, l’oppressione imperialista etno-razziale, la dominazione sessuale e di genere, la spoliazione, l’espulsione e l’esclusione dei migranti; la militarizzazione, l’autoritarismo politico e la brutalità poliziesca. Tutte preoccupazioni che senza dubbio si intrecciano e sono esacerbate dai cambiamenti climatici. Ma il nuovo buonsenso deve evitare “l’ecologismo” riduttivo. Lungi dal trattare il riscaldamento globale come la carta vincente che prevale su tutto il resto, deve rintracciare quella minaccia nelle dinamiche sociali sottostanti che a loro volta alimentano altri aspetti della crisi attuale. Solo affrontando tutti i più importanti risvolti di questa crisi, “ambientali” e “non-ambientali”, e rivelando le interconnessioni, potremo cominciare a costruire un blocco contro-egemonico che sostenga un progetto comune e possieda l’autorevolezza politica per perseguirlo con efficacia.

Questo è un compito arduo. Ma ciò che lo porta nella sfera del possibile è una “felice coincidenza”: tutte le strade portano alla stessa idea, il capitalismo. Il capitalismo, nel senso che definirò a breve, rappresenta il motore storico-sociale del cambiamento climatico e la dinamica centrale istituzionalizzata da smantellare per fermarlo. Il capitalismo, così definito, è anche profondamente implicato in forme di ingiustizia sociale apparentemente non-ecologiche: dallo sfruttamento di classe all’oppressione razzista-imperialista alla dominazione sessuale e di genere. E il capitalismo ha un ruolo centrale anche nelle impasse apparentemente non-ecologiche dell’ordinamento sociale: nelle crisi della cura e della riproduzione sociale; della finanza, delle filiere di produzione e distribuzione, salari e lavoro; di governance e de-democratizzazione. L’anticapitalismo, perciò, potrebbe, anzi dovrebbe, diventare il tema organizzativo centrale di un nuovo buonsenso. Rivelare le connessioni che legano tra loro gli innumerevoli fili di ingiustizia e irrazionalità, è la chiave per poter sviluppare un progetto contro-egemonico di trasformazione in senso ecologico dell’organizzazione sociale. […].
Esistono già, in una forma o nell’altra, molti dei mattoni essenziali alla costruzione di questa politica. I movimenti per la giustizia ambientale sono già, in linea di principio, transambientali in quanto prendono di mira i legami tra eco-danni e uno o più assi di dominio, in particolare il genere, la razza, l’etnia e la nazionalità; e alcuni di questi sono esplicitamente anticapitalisti. Analogamente i movimenti dei lavoratori, i Green New Dealer e alcuni eco-populisti impugnano (alcuni) prerequisiti di classe nella lotta contro il riscaldamento globale: soprattutto la necessità di collegare la transizione verso le energie rinnovabili alle politiche pro-classe lavoratrice su redditi e occupazione, e l’esigenza di rafforzare il potere statale in quanto contrapposto alle grandi multinazionali. Infine, i movimenti per la decolonizzazione e delle popolazioni indigene puntano l’obiettivo sull’intreccio estrattivismo-imperialismo. Insieme alle correnti per la decrescita, invocano un ripensamento profondo del nostro rapporto con la natura e dei nostri stili di vita. Ciascuna di queste visioni ecopolitiche coltiva al suo interno intuizioni autentiche.

Ciononostante, la condizione attuale di questi movimenti, sia che li si consideri nel loro insieme, sia presi singolarmente, non è (ancora) adeguata al compito che li aspetta. Finché i movimenti per la giustizia ambientale continueranno a occuparsi quasi esclusivamente delle svariate conseguenze delle eco-minacce sulle popolazioni subalterne, non riusciranno a prestare la dovuta attenzione alle dinamiche strutturali alla base del sistema sociale; sistema che non soltanto produce disuguaglianze, ma porta a una crisi generale che minaccia il benessere di tutti, oltre che del pianeta. Il loro anticapitalismo non è quindi abbastanza concreto, e il loro trans¬ambientalismo non va ancora abbastanza in profondità.

Qualcosa di simile vale anche per i movimenti che hanno come interlocutore lo Stato, e in particolare per gli eco-populisti (reazionari) ma anche per i Green New Dealer (progressisti) e per i sindacati. Questi attori privilegiano la struttura dello Stato nazionale-territoriale e la creazione di posti di lavoro grazie a progetti di infrastrutture verdi, dando in tal modo per scontata una visione insufficientemente ampia e diversificata della “classe dei lavoratori”, che non comprende, in realtà, solo gli operai addetti alle costruzioni ma anche i lavoratori dei servizi; non solo i salariati, ma anche quelli che non percepiscono alcun salario; non solo quelli che lavorano “nella madrepatria” ma anche quelli impiegati all’estero; non solo gli sfruttati, ma anche gli espropriati. Inoltre le correnti che hanno come interlocutore lo Stato non prendono sufficientemente atto della posizione e del potere della controparte, perché continuano ad aderire alla classica premessa socialdemocratica secondo cui lo Stato può servire due padroni e può salvare il pianeta tenendo sotto controllo il capitale, senza bisogno di abolirlo. Di conseguenza neanche questi sono abbastanza anticapitalisti e transambientali, almeno fino ad oggi.
Infine, gli attivisti della decrescita tendono a confondere le acque politiche accorpando quello che deve necessariamente crescere in un sistema capitalista (ovvero il “valore”) con quello che dovrebbe crescere ma non può farlo all’interno del capitalismo, ovvero beni, rapporti e attività capaci di soddisfare l’immensa estensione di esigenze umane insoddisfatte in tutto il globo. Un’ecopolitica autenticamente anticapitalista deve smantellare l’imperativo connaturato di far crescere il primo e al tempo stesso affrontare la questione di come far crescere in modo sostenibile il secondo in quanto questione politica da decidere mediante deliberazioni democratiche e pianificazione sociale. Allo stesso modo, gli orientamenti associati alla decrescita, come l’ambientalismo come stile di vita da una parte e i modelli sperimentali comunitari dall’altra, tendono a evitare la necessità di scontrarsi con il potere capitalista.

Prese nel loro insieme, inoltre, le giuste intuizioni di tutti questi movimenti non bastano a costituire un nuovo senso comune ecopolitico e non riescono ancora a convergere su un progetto controegemonico di trasformazione ecosociale che, almeno in linea di principio, potrebbe salvare il pianeta. Certo, sono presenti alcuni elementi essenziali transambientali: diritti dei lavoratori, femminismo, antirazzismo, antimperialismo, coscienza di classe, ideali democratici, anticonsumismo, antiestrattivismo. Ma non sono ancora integrati in una solida diagnosi sulle radici strutturali e storiche della crisi attuale. Quello che a oggi manca è una prospettiva chiara e convincente che colleghi tutte le preoccupazioni presenti, ecologiche e non, con un unico sistema sociale e, per suo tramite, che le colleghi tra di loro.
Ho ripetuto qui che tale sistema ha un nome. Si chiama società capitalista, concepita in modo espansionista per comprendere tutte le condizioni di base necessarie all’economia capitalista: natura non-umana e potere pubblico, popolazioni espropriabili e riproduzione sociale; tutti non a caso soggetti alla cannibalizzazione da parte del capitale, tutti sotto shock per la devastazione che li sta travolgendo. Dare un nome a questo sistema, e definirlo a grandi linee, significa presentare un altro tassello del puzzle controegemonico che dobbiamo risolvere. È possibile che questo tassello ci aiuti a metterne a posto altri, a rivelare le loro più probabili tensioni e potenziali sinergie, a mettere in chiaro le loro origini e a capire dove possono arrivare insieme. L’anticapitalismo è il tassello che fornisce una direzione politica e una forza critica al transambientalismo. Mentre quest’ultimo apre l’ecopolitica al mondo in generale, il primo si concentra sul nemico numero uno.
È dunque l’anticapitalismo quello che traccia la linea di separazione, indispensabile in qualsiasi blocco storico, tra “noi” e “loro”. Smascherare il mercato del carbonio per la frode che è significa stimolare tutte le correnti ecopolitiche potenzialmente orientate all’emancipazione perché si svincolino pubblicamente dal “capitalismo verde”. Spinge inoltre ogni corrente a prestare attenzione al proprio specifico tallone d’Achille, alla propria tendenza a evitare di scontrarsi con il capitale, perseguendo o un (illusorio) scollegamento o compromessi di classe (squilibrati) o una (tragica) parità nella vulnerabilità estrema. Insistendo sul nemico comune, inoltre, il tassello anticapitalista del puzzle indica un sentiero che tutti – i partigiani della decrescita, della giustizia ambientale e del Green New Deal – possono percorrere insieme anche se in questo momento non riescono a vedere la destinazione esatta, tanto meno a concordare sulla sua definizione.
Naturalmente resta da vedere se potremo davvero raggiungere una destinazione qualsiasi o se la Terra continuerà a riscaldarsi fino al punto di ebollizione. Ma le nostre migliori speranze per scongiurare un simile destino risiedono nella costituzione di un blocco controegemonico che sia transambientale e anticapitalista. Dove esattamente possa portarci questo blocco, se dovesse riuscire nel suo intento, non è dato sapere. Ma se dovessi dare un nome alla nostra meta, io sceglierei “ecosocialismo
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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 03, 2021, 06:31:18 pm »

Coloro che ostacolano i CAMPI PROVVISORI di SMISTAMENTO e ACCOGLIENZA, vogliono alimentare il Caos e la violenza accampati nelle strade e il successo delle Destre razziste.

ggiannig ciaooo

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L’Europa si prepara ad accogliere i migranti afghani in “campi di prigionia”

Intervista a Carla Peruzzo, coordinatrice sanitaria di MSF in Grecia, a partire dal nuovo campo nell’isola di Samos per “accogliere” i profughi che arrivano dalla Turchia.

Valerio Nicolosi 22 Settembre 2021

“È impressionante vedere uno scivolo in mezzo al filo spinato” racconta Carla Peruzzo, coordinatrice sanitaria di Medici Senza Frontiere in Grecia, che abbiamo intervistato per parlare del nuovo campo per i migranti allestito nell’isola di Samos, uno dei punti di approdo dei richiedenti asilo, soprattutto afghani, che arrivano dalla Turchia.
Le autorità greche stanno sperimentando un nuovo modello, più simile alla detenzione che all’accoglienza, e il campo di Samos si inserisce proprio sul solco di quanto già sperimentato a Lesbo e a Salonicco, dove i campi sono di fatto delle prigioni.
“Questo nuovo centro è stato costruito con i soldi dell’Unione Europea, milioni e milioni spesi per un centro che di fatto è una detenzione amministrativa di persone richiedenti asilo” aggiunge la coordinatrice sanitaria nell’intervista.
Il campo sarà delimitato dal filo spinato, entrare e uscire non sarà facile. All’interno ci sarà anche una zona separata, dove verranno spostate le persone che dovranno essere rimpatriate in Turchia, Stato considerato “sicuro” dal governo greco, e nei paesi d’origine.
“Il 14% dei nuovi pazienti di Samos tenta il suicidio mentre il 66% pensa a farlo, è una condizione difficile” racconta Peruzzo in riferimento all’intervento sanitario messo in campo da Medici Senza Frontiere nell’isola, e aggiunge: “Dopo la vittoria dei Talebani l’Europa si sta preparando ad una possibile nuova ondata di profughi e lo fa chiudendosi dentro le proprie mura”.

Da - https://www.micromega.net/samos-campo-migranti-grecia/
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 18, 2021, 05:55:49 pm »

Ballottaggio chiarificatore

La partitocrazia perde come rigurgito dei Partiti sfiniti.
La politica dell'antico muffito speriamo capisca i chiari suggerimenti degli assenti per protesta e non si lasci impressionare dalle proteste di piazza o di porto, manovrate e utilizzati come strumenti sciocchi dello Sfascismo, quello imperante nella parte degli italiani che adorano il Caos.

Io su Fb sull’affluenza
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« Risposta #24 inserito:: Ottobre 20, 2021, 11:13:19 am »

Secolarizzazione
Enciclopedia on line

Secolarizzazione Termine entrato nel linguaggio giuridico durante le trattative per la pace di Vestfalia (1648), allo scopo di indicare il passaggio di beni e territori dalla Chiesa a possessori civili, e adottato in seguito dal diritto canonico per indicare il ritorno alla vita laica da parte di membri del clero/">clero. Nel 19° sec. è passato a indicare il processo di progressiva autonomizzazione delle istituzioni politico-sociali e della vita culturale dal controllo e/o dall’influenza della religione e della Chiesa. In questa accezione, che fa della s. uno dei tratti salienti della modernità, il termine ha perso la sua originaria neutralità e si è caricato di connotazioni valoriali di segno opposto, designando per alcuni un positivo processo di emancipazione, per altri un processo degenerativo di desacralizzazione che apre la strada al nichilismo.

Tra i fautori più convinti della s. come liberazione da ogni forma di tutela religiosa spiccano le secular societies, sviluppatesi in Inghilterra nella seconda metà dell’800 e variamente ispirate al positivismo e al materialismo: esse fecero del secularism un programma politico e ideologico, spesso improntato all’anticlericalismo e/o all’ateismo. Nell’ambito del pensiero sociologico, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si tentò di restituire al termine un significato neutrale e descrittivo.

1. L’analisi classica: Durkheim, Weber, Troeltsch
É. Durkheim riteneva che il progresso avrebbe portato la religione tradizionale a un declino irreversibile; ma era altresì convinto che nessuna società potesse sopravvivere senza quel tessuto connettivo (valori, credenze e riti capaci di suscitare intensi legami di solidarietà) proprio di una natura essenzialmente religiosa. Nelle società progredite e altamente differenziate la religione non sarebbe quindi scomparsa, ma avrebbe subito una metamorfosi, consistente nella s. dei suoi contenuti (sacralizzazione della persona umana, culto dell’individuo).
Per M. Weber, invece, il mondo moderno è caratterizzato da un radicale ‘disincantamento’ (esito inintenzionale dell’etica protestante, che ha sciolto ogni legame magico-simbolico tra Dio e il mondo) e dall’affermazione della razionalità strumentale: di qui l’autonomizzarsi della politica, dell’economia e della ricerca intellettuale dalla religione. All’interno della sfera intellettuale il conflitto tra razionalismo e orientamento religioso è, secondo Weber, particolarmente acuto: il razionalismo della scienza empirica, che ha una pretesa di totalità e di autosufficienza, non riconosce l’esigenza di fondo della religione – la ricerca di un ‘senso’ nell’accadere intramondano – e la sospinge nel dominio dell’irrazionale: di conseguenza la religione, nel mondo moderno, viene a essere confinata nell’esperienza mistica.

Sulla scia di Weber si colloca il teologo liberale E. Troeltsch, il quale riprende l’idea del legame tra protestantesimo e mondo moderno, ma – a differenza di Weber – vede in alcune fondamentali idee della modernità (la separazione tra Stato e Chiesa, la tolleranza religiosa e la libertà di culto) una s. dei principi del cristianesimo evangelico. Anche successivamente, è stato in ambito protestante che la s. è stata interpretata in senso positivo, vale a dire come progressiva realizzazione dei principi cristiani e come tendenza verso un cristianesimo ‘adulto’, libero dal mito. L’interpretazione della s. come naturale protendersi del cristianesimo verso il mondo è condivisa anche da F. Gogarten, che però distingue da essa il secolarismo, inteso come pericolosa tendenza delle istituzioni terrene a divinizzarsi, sostituendosi alla dimensione religiosa.

2. Teorie contemporanee
La categoria di s. è tornata a giocare un ruolo centrale nelle scienze sociali negli anni 1960 e 1970, anche in seguito al manifestarsi, nel mondo occidentale, di nuovi movimenti religiosi, che sembravano incrinare la previsione – comune a larga parte della cultura moderna – di una inesorabile s. delle società moderne. Secondo B.R. Wilson, la società moderna priva la religione delle sue funzioni di integrazione morale e la confina pertanto nella sfera privata, dove peraltro essa assume caratteri e significati latamente culturali (s. come desacralizzazione). Per T. Luckmann, invece, la religione – in quanto bisogno dell’organismo umano di trascendere la dimensione biologica – rappresenta una costante antropologica insopprimibile; ma nella società industriale moderna, persa la capacità di imporre un ordine condiviso all’esperienza sociale e individuale, si è frammentata in una pluralità di tradizioni e istituzioni religiose, che agiscono in una sorta di situazione di mercato. Di qui la trasformazione della religione in una questione di ‘scelta’ o di ‘preferenza’ personale (s. come privatizzazione della religione). Per T. Parsons la moderna società industriale non è il frutto del ‘disincantamento del mondo’, ma della istituzionalizzazione dei valori cristiani, che si sono trasferiti nella sfera morale laica (s. come trasposizione della religione nella sfera secolare). Sulla stessa linea si colloca R.N. Bellah, che riprendendo da Rousseau il concetto di religione civile e facendone la chiave di volta per intendere i caratteri salienti della cultura americana, concepisce quest’ultima come un insieme condiviso di valori, simboli e riti derivati dalla tradizione cristiana, ma trasformati e adattati a legittimare l’identità nazionale. Sulle religioni ‘secolari’ o ‘politiche’ – ossia, sulle grandi ideologie contemporanee, considerate come ‘equivalenti funzionali’ della religione tradizionale – si sono soffermati sia Parsons sia J.P. Sironneau.

In ambito filosofico, di particolare interesse è la riflessione sviluppata da K. Löwith, secondo cui le moderne filosofie della storia traggono «origine dalla fede biblica in un compimento futuro» e finiscono «con la s. del suo modello escatologico». Secondo H. Blumenberg, invece, non esiste continuità tra l’escatologismo della tradizione ebraico-cristiana e l’idea illuministica di progresso, giacché quest’ultima è ispirata all’homo faber, creatore di storia e di forme.

Da treccani.it
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 20, 2021, 11:26:20 am »

Gianni Gavioli

La cattiva politica e quella apatica che ha lasciato fare, ci hanno dimostrato la capacità di gruppi modesti in capacità e numero, caricati da algoritmi motivazionali riescono a ingannare e manipolare intere popolazioni di inconsapevoli vittime delle proprie deficienze culturali e civiche.

Non sentirsi una NAZIONE di Diversi, capaci di esprimere valori comuni é il cancro storico di cui Oggi vediamo le Metastasi locali e personali.

Rispetto al passato oggi i Cittadini capaci di elaborazione dei fatti, hanno la possibilità di verificare in chiarezza nei social la consistenza della fragilità' mentale, degli scontenti della propria incapacità di ricerca della serenità.

Da Fb 12 ottobre 2021
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 21, 2021, 11:06:37 am »


SOCIALESIMO, perché.

Perché è un termine nuovo che deve contenere il concetto assoluto di DEMOCRAZIA e il progetto sociale di SOCIALISMO.

Perché è molto meglio utilizzare “esimo” come per esempio:

cristianesimo, cattolicesimo, umanesimo, battesimo, confucianesimo, incantesimo ecc. ecc. sino al mio ultimo parto SOCIALESIMO!

“Esimo”, suffisso che unito a molte parole e infiniti numeri ci porta a più ampie vedute e una maggiore ricchezza di contenuti, rispetto al cugino “ismo”, già più oppressivo di suo.

ggiannig ciaooo
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 27, 2021, 12:33:13 pm »

Gianni Gavioli

Sempre più spesso mi viene da considerare, leggendo alcuni commenti, che i veri problemi per questo paese vengano si dà quel lungo elenco di insufficienze politichesi, dalla malavita di ogni tipo corruzione compresa, oppure dal chiasso contradaiolo di poveri cristi sociali presi in giro e strumentalizzati da Sfascisti di vertice o di borgata, ma no, quelli una democrazia completa e le nostre democratiche Forze dell'ordine ci metterebbero e ci mettono in sicurezza.

Allarmante invece che una moltitudine di intellettuali e persone colte non si rendano conto di quanto Male fanno, con i loro scritti sfascisti, non per la volontà di sfasciare il Sistema, ma soltanto per soddisfare il loro narcisismo patologico.

Il loro infelice narcisismo patologico (che è un disturbo di personalità con precisi sintomi).

Io su Fb del 26 ottobre 2021
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 27, 2021, 12:35:49 pm »

Andare all'indietro, è il tempo dei sindacati obsoleti.

Ricattare Draghi è come ricattare e metterci tutti in allarme, inutilmente.

Invece di fare braccio di ferro con Draghi, che ha ben altro da fare, ne discutano con i ministri competenti!!

ciaooo
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 29, 2021, 12:07:47 pm »


Per SOCIALESIMO DEMOCRAZIA SOCIALISTA intendiamo si debba dare priorità al Progetto prima di tutto, alla DEMOCRAZIA COMPLETA, poi solo dopo averla realizzata, arrivare al SOCIALISMO.

Non è un particolare di poco conto, richiede tempo, volontà politica e sociale!


La Democrazia si può manipolare, ma non sarebbe più Democrazia Completa! La nostra di oggi è INCOMPLETA come Democrazia e lo vediamo in questi giorni, malgrado ci sia Draghi al Governo e Mattarella alla Presidenza della Repubblica.

Il Socialismo, la Storia di secoli lo dimostra, è un complesso di ideologie, movimenti, dottrine, orientamenti politici di sinistra, che tendono a trasformare la società.

Se il Socialismo nel trasformare la nostra società (ed è necessario farlo) non è ben controllato da uno STATO DEMOCRATICO COSTITUZIONALE, diverrebbe malleabile in senso pericolosamente negativo!

Sia per l’Individuo, sia per la Comunità stessa.

ggianni ciaooo
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