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Autore Discussione: Luigi ZINGALES. -  (Letto 50685 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Luglio 26, 2010, 10:24:26 am »

La roulette dei bonus

di Luigi Zingales

Le regole Ue sui premi ai banchieri si possono aggirare: aumentando ogni anno lo stipendio

(23 luglio 2010)

Il Parlamento europeo ha votato nuove regole per i bonus dei banchieri. Non più del 30 per cento dei bonus potrà essere pagato in denaro, tra il 40 e il 60 per cento dovrà essere differito per almeno tre anni, almeno il 50 per cento dovrà essere investito in "contingent capital", una nuova forma di debito che si trasforma in azioni quando la banca è in difficoltà (e quindi quando le azioni valgono poco). L'aspetto più interessante è che questi limiti non sono imposti solo all'amministratore delegato, ma a tutti i principali dirigenti. Il "New York Times" ha lodato l'iniziativa, che non ha eguali in nessun altro paese. Il settore finanziario non ha gradito, parlando di rischio di perdita di competitività delle banche europee rispetto a quelle americane.
Chi ha ragione? L'interferenza politica sulle scelte delle imprese private è sempre rischiosa. In un mercato competitivo lo stipendio è determinato dal contributo che ciascun individuo fornisce. Quando sono decisi per legge, invece, i compensi sono influenzati dal potere politico, incentivando le persone ad accumulare potere politico invece che a produrre di più e meglio.

Nel settore bancario, però, la crisi ha evidenziato un problema. Bonus molto elevati possono indurre i banchieri ad assumersi toppo rischio. Per capire il problema immaginatevi che qualcuno vi dia 100 euro per fare una scommessa alla roulette e vi prometta il 20 per cento di quello che vincete. Quale giocata farete? Puntando sul rosso, se vincete il croupier vi paga la posta. Quindi il guadagno è di soli 100 euro, 20 dei quali costituiscono il vostro compenso. La pallina ha 18 probabilità su 37 di finire su un numero rosso (ci sono 18 rossi, 18 neri e lo zero). Quindi il vostro compenso atteso, che si ottiene moltiplicando l'ammontare del compenso in caso di vincita per la probabilità di vincere, è di 9,7 euro. Se invece puntate su un numero singolo, in caso di vittoria ricevete 35 volte la posta, quindi un guadagno netto di 3500 euro, e il vostro compenso sarà di 700 euro. Ovviamente la probabilità di vincere è molto più bassa (una su 37). Ciononostante il vostro compenso atteso sarà di 18,9 euro, quasi il doppio di prima. Nonostante che il gioco della roulette sia disegnato in modo tale da eguagliare il valore atteso di ogni puntata, il contratto che avete ricevuto vi farà preferire le puntate più rischiose. Perché?

Come agente voi non tenete in considerazione la probabilità con cui l'investitore recupera i suoi soldi, ma solo il valore atteso della vincita netta, che aumenta con l'aumentare del rischio. La struttura dei bonus nel settore finanziario è molto simile, soprattutto nel settore del trading. I gestori scommettono: se vincono, si prendono il loro bonus; se perdono, si spostano ad un'altra banca e ricominciano.
A questo punto dovreste domandarvi perché la struttura del bonus è fatta così male. In parte è il risultato di una combinazione perversa tra il desiderio di motivare i manager con compensi che crescono con il risultato e la possibilità che il settore finanziario ha di aumentare a dismisura il rischio. In parte, è il risultato di un problema di corporate governance. Nella migliore delle ipotesi a decidere i compensi sono gli azionisti. Data la forte leva finanziaria delle banche, gli azionisti si arricchiscono quando le scommesse sono fortunate e, quando sono sfortunate, a pagare sono i creditori (o lo Stato che li assiste). Nella peggiore delle ipotesi a decidere i compensi sono altri manager, che hanno contratti simili e quindi gli stessi incentivi a rischiare.

L'idea migliore per risolvere questo problema è quella di imporre dei requisiti minimi di capitale basati sul rischio delle scelte fatte dai banchieri. È quello che si è cercato di fare con gli accordi di Basilea, con pessimi risultati. Di qui il desiderio di agire anche sugli altri margini. Imporre il pagamento differito di una grossa parte del bonus è sicuramente una buona idea, così come il requisito che la parte differita sia investita in modo da rendere il manager compartecipe delle perdite, per ridurre gli incentivi ad assumersi rischio. Il vero problema è che queste nuove regole si applicano ai bonus, non agli stipendi. Invece che pagare a gennaio un bonus per la performance dell'anno precedente, le banche pagheranno il bonus lungo il corso dell'anno sotto forma di stipendio, che verrà rinegoziato ogni anno.
In altre parole, senza regole più effettive per ridurre gli incentivi al rischio degli azionisti, limitare i bonus è solo un palliativo poco efficace, che sarà facilmente aggirato.

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« Risposta #31 inserito:: Settembre 04, 2010, 09:29:13 am »

Tra diritti e flessibilità

di Luigi Zingales

Su libertà, dignità e sicurezza non si tratta.

Ma il sindacato in tempi di crisi deve discutere di turni e di lavoro il sabato

(03 settembre 2010)

I periodi di recessione sono particolarmente difficili per la tutela dei diritti dei lavoratori. Come nei momenti di boom i dipendenti si affrettano a chiedere aumenti e nuove tutele, in quelli di recessione sono le imprese a sfruttare il maggior potere contrattuale per cercare di comprimere non solo i salari, ma anche molti dei diritti acquisiti dai dipendenti.

Lo abbiamo visto nel caso della Fiat, dove l'amministratore delegato Sergio Marchionne ha messo di fronte agli operai di Pomigliano d'Arco la scelta tra un cambiamento delle regole in fabbrica e la chiusura degli impianti. Lo abbiamo sentito nelle parole del ministro Giulio Tremonti che, intervenendo al convegno di Cl di Rimini, ha dichiarato "se vuoi diritti perfetti nella fabbrica ideale rischi di avere diritti perfetti ma perdi la fabbrica, che va da un'altra parte".

Stiamo forse ritornando al capitalismo selvaggio? Per quanto terribile sembri questo processo, fa parte di una sana dialettica di mercato. Esistono alcuni diritti fondamentali, come quello della tutela della libertà, della dignità e della sicurezza sul lavoro, che fanno parte dei diritti individuali, in quanto persona prima ancora che in quanto lavoratore. Come tali questi diritti non sono e non devono essere soggetti alla contrattazione tra le parti. Al di fuori di questi, però, è difficile stabilire cosa sia giusto. Da un lato, gli imprenditori si lamentano che ogni restrizione riduce la produttività aumentando il costo del lavoro per unità di prodotto e rendendo le loro imprese meno competitive. Dall'altro lato, i sindacati si lamentano che ogni cambiamento penalizza fortemente gli operai, aggravando le loro condizioni lavorative e la loro salute. Molto spesso si esagera da entrambe le parti, per portare acqua al proprio mulino. Ma esiste del vero da entrambi i lati.

Tutte le forme di protezione, dalle restrizioni sui turni festivi alla lunghezza delle ferie, tendono ad avere un costo in termini di competitività. Se gli impianti di Pomigliano d'Arco possono lavorare solo cinque giorni alla settimana, invece di sei, gli investimenti devono essere ammortizzati su un numero minore di automobili, alzando i costi e quindi riducendo la competitività. D'altro canto lavorare di sabato rende più difficile agli operai avere una normale vita familiare e sociale, con conseguenze sul loro benessere e anche sulla loro salute.

Che cosa è giusto fare? In un libero mercato la scelta non viene fatta a livello centralizzato sulla base di criteri di giustizia, ma viene delegata ai singoli operatori economici, sulla base del prezzo. Molti operai sono contenti di lavorare anche di sabato in cambio di un compenso più elevato. Altri no. Se un'impresa vuole ammortizzare gli impianti su sei turni settimanali, deve riuscire a convincere un numero sufficiente di operai a lavorare di sabato e per far questo deve pagarli di più. Se il beneficio in termini di più rapida ammortizzazione degli impianti è sufficiente a pagare il maggior salario richiesto, la produzione avverrà su sei turni, altrimenti no.

In realtà, le contrattazioni a cui assistiamo in questi mesi hanno ben poco a che vedere con questa immagine ideale. Innanzitutto, le imprese chiedono maggiore flessibilità, offrendo nulla in cambio, anzi minacciando i licenziamenti. Il motivo è che i salari sono rigidi verso il basso. Non potendo ridurli neanche in piena recessione, alle imprese non resta che concentrarsi nel tagliare le altre componenti del costo del lavoro. Da qui il recente "attacco" a molte conquiste sindacali.

Il secondo motivo è che questa diversità di preferenze tra lavoratori spaventa ilsindacato che fa di tutto per coprirla. Per massimizzare il proprio potere contrattuale, il sindacato ha bisogno di un fronte compatto. Per ottenerlo deve assicurarsi che tutti gli operai siano trattati allo stesso modo, anche quando questo danneggia non solo l'impresa, ma anche l'operaio. Per questo il sindacato non vuole permettere ai lavoratori di scegliere se lavorare di sabato o no sulla base delle loro preferenze individuali (e del prezzo che viene offerto loro), perché teme che gli imprenditori sfruttino la competizione tra lavoratori per ridurre i salari (e il potere del sindacato).

Questa logica funziona bene nei momenti di espansione, ma è controproducente nei momenti di crisi. Nei paesi scandinavi i sindacati sono riusciti a proteggere i fondamentali diritti dei lavoratori offrendo in cambio una maggiore flessibilità. È tempo che questo avvenga anche in Italia.

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« Risposta #32 inserito:: Novembre 27, 2010, 05:51:03 pm »

I politici italiani vadano a scuola di mercato da Sarah Palin

di Luigi Zingales

Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2010 alle ore 09:32.

   
Era da giorni che ricevevo telefonate da giornalisti americani che mi domandavano se ero l'advisor economico di Sarah Palin. La cosa mi sembrava alquanto strana. Non solo non avevo mai avuto il piacere di conoscere l'ex governatore dell'Alaska, ma dubitavo perfino che lei sapesse della mia esistenza. In America sono poco conosciuto al di fuori del mondo accademico. E anche i miei scritti più divulgativi non sono circolati al di fuori di una ristretta cerchia di intellettuali.

Martedì il mistero è stato risolto, con l'uscita del suo nuovo libro: America by Heart. Non solo dal libro risulta che Sarah Palin conosce alcuni dei miei lavori, ma mi cita nel suo libro come l'economista che ha fatto di più per difendere il libero mercato durante la crisi, abbracciando la mia idea di un capitalismo "pro market e non pro business". Quello che sorprende è che non solo conosce il mio nome, ma che dimostra di capire pienamente la mia posizione. È una posizione non facile tra chi, in nome della difesa del mercato, difende il sistema a oltranza, comprese le degenerazioni che abbiamo visto durante la crisi, e chi invece non crede nel mercato e vuole soffocarlo o peggio distruggerlo. Un difficile distinguo tra un populismo crescente che vede nel ricco un approfittatore e nel finanziere un criminale e una cortigianeria imperante che difende i ricchi in quanto tali e li rispetta, indipendentemente dal modo in cui hanno accumulato la loro ricchezza.

È una posizione rischiosa da un punto di vista politico perché denuncia come le grosse imprese si siano appropriate della bandiera del libero mercato, utilizzandola per arricchirsi mentre di fatto restringevano la competizione e succhiavano soldi ai contribuenti. Difficile perché rischia di alienare l'establishment economico e quindi di perdere la più grossa fonte di finanziamento in campagna elettorale, almeno per chi non è sostenuto dai sindacati. Forse la Palin se lo può permettere perché l'establishment economico e politico è già tutto contro di lei e quindi non ha nulla da perdere. E perché gode di un seguito popolare che le consente di imitare (almeno dal punto di vista del finanziamento elettorale) le orme di Barak Obama, che ha raccolto enormi somme di denaro con piccoli contributi attraverso internet. Obama, però, a fianco della marea di piccoli finanziatori, si è avvalso di massicci contributi del mondo finanziario. Contributi che poi ha ripagato, al di là della retorica elettorale, con un occhio di riguardo verso questo mondo. Farà la Palin la stessa fine: paladina di un capitalismo popolare da candidata e poi difensore degli interessi costituiti una volta eletta?

È possibile. Ma in America, almeno durante la campagna elettorale, c'è chi sente il bisogno di difendere l'interesse del mercato anche quando contrasta con l'interesse dei grossi capitalisti.

In Italia, questa distinzione è perduta tra una sinistra che ancora diffida del mercato e una destra che è posseduta da un capitalista. Vorrei illudermi che la mancanza di interesse da parte dei politici italiani per l'idea di "pro market e non pro business" sia solo dovuta al fatto che nemo propheta in patria. Temo però che le ragioni siano ben più profonde: cresciuta in un capitalismo relazionale e corrotto la maggior parte dei politici italiani non riesce neppure a concepire i benefici del libero mercato e della vera competizione, una competizione non distorta dall'interesse dei grossi capitalisti. È facile ridere di Sarah Palin, ma dimostra di avere dei valori che i nostri politici non hanno.

©RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:20:42 am »

L'opinione

Purché scandalo sia

di Luigi Zingales

L'uso politico e non partitico delle inchieste giornalistiche è la via giusta per informare gli elettori e battere la corruzione

(26 novembre 2010)

Se uno dovesse giudicare l'Italia dagli articoli che appaiono sulla stampa estera, ne avrebbe una visione terribile.
Gli scandali sessuali rappresentano (triste a dirsi) l'aspetto più innocente. Quando i nostri ministri non sono accusati di ricevere tangenti, gli ex ministri sono condannati per mafia. Scandali che in altri paesi distruggerebbero la carriera del personaggio politico più rispettabile, vengono ignorati. La corruzione non viene più percepita come una degenerazione, ma come la norma. Il Paese sembra aver perso perfino la forza di indignarsi.

Quale futuro ci attende? Per fortuna, la situazione non è così bieca. Se l'Italia vista dall'America può sembrare un paese moralmente sottosviluppato, non lo è in un contesto storico. Gli stessi Stati Uniti, che oggi si ergono come esempio di moralità, agli inizi del Ventesimo secolo erano più corrotti dell'Italia. La polizia era un feudo dei partiti. I senatori erano al soldo dei grossi industriali come Rockefeller e la corruzione dilagava.

Migliorare è possibile. Per capire come farlo è necessario imparare dai successi altrui. Come hanno fatto gli Stati Uniti ad emergere dalla corruzione imperante agli inizi del secolo scorso? La risposta è semplice: attraverso l'uso politico (non partitico) degli scandali. Il problema fondamentale di ogni democrazia è che la maggior parte degli elettori non è informata. Informarsi richiede tempo e il tempo è denaro. Per l'elettore medio il costo di diventare informato eccede il beneficio che ne può ricavare attraverso un voto informato. Il risultato è che la stragrande maggioranza dei cittadini rimane ignorante sulle decisioni politiche fondamentali. Questa ignoranza favorisce la corruzione: i politici prendono decisioni nell'interesse loro e dei loro finanziatori, non della maggioranza.
L'unico antidoto a questa triste situazione è rappresentato dai mass media. I media hanno la capacità di trasformare anche l'argomento più noioso in intrattenimento e così facendo educano gli elettori, spesso a loro stessa insaputa. Il film documentario di Al Gore ha fatto di più per la causa dell'ambiente che mezzo secolo di campagne dei Verdi.

Negli Stati Uniti del primo Novecento questo ruolo di sensibilizzazione non veniva svolto dai film documentari, ma dai periodici, che scoprirono i benefici, in termini di vendite, delle inchieste giornalistiche. Nel 1905 "Collier's Weekly" pubblicò una serie sulla "Grande Frode Americana", sulle medicine che nuocevano alla salute. Lo stesso anno Upton Sinclair pubblicò a puntate su "Appeal to Reason" il libro "La Giungla", una descrizione impietosa dell'industria degli insaccati. Il disgusto fu tale che il Congresso approvò una legge sul controllo dei salumi e il Pure Food and Drug Act, che creò la famosissima Food and Drug Administration, che ancora oggi regola gli standard di sicurezza del cibo e dei medicinali americani. Nel 1906 "Cosmopolitan" pubblicò a puntate "Il Tradimento del Senato", una descrizione impietosa della corruzione dei senatori americani, che all'epoca non venivano eletti, ma nominati dai governatori. Nel 1912 la costituzione fu riformata per rendere il Senato elettivo.Tutte queste riforme furono approvate da un presidente Repubblicano (Theodore Roosevelt prima e Taft poi) e da un Congresso per lo più a maggioranza repubblicana. Non fu quindi una battaglia tra democratici e repubblicani, ma una risposta di politici attenti alla volontà popolare. Per dei politici emergenti, gli scandali rappresentano una ghiotta opportunità di successo. In un mondo politico competitivo, in pochi se la lasciano scappare.

Cosa manca all'Italia d'oggi per cominciare una stagione di riforme? Innanzitutto, un settore dei media animato da motivi commerciali e non politici. I coraggiosi documentari della Gabanelli hanno un grosso successo di pubblico. Se ne vediamo così pochi è perché tanto la Rai quanto Mediaset non operano secondo logiche commerciali, ma secondo logiche politiche.

In secondo luogo, il sistema politico italiano rende difficile l'entrata di outsider. A destra abbiamo un'azienda padronale trasformata in partito, a sinistra un partito erede del centralismo democratico trasformato in azienda. In questo contesto è difficile per donne e uomini nuovi irrompere sul mercato politico sfruttando il malcontento diffuso.
Senza un pubblico informato, però, non esiste spazio per un politico nuovo. Se vogliamo cambiare, dobbiamo cominciare riportando le logiche di mercato nel mercato dei media.

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« Risposta #34 inserito:: Dicembre 24, 2010, 06:34:01 pm »

Se fallisce lo Stato

di Luigi Zingales

I casi di default si sono ridotti perché i governi hanno rimediato stampando moneta.

Ma ora per i paesi dell'area euro questa opzione non è più disponibile.

Resta la ristrutturazione del debito con quel che ne consegue

(17 dicembre 2010)

Irlanda, manifestazione Irlanda, manifestazioneIl primo default di uno Stato sovrano di cui si abbia memoria avvenne, guarda a caso, in Grecia nel IV secolo avanti Cristo, quando dieci delle 13 città-Stato appartenenti alla lega Attica non ripagarono i prestiti contratti con il tempio di Apollo a Delo (letteralmente il santuario della finanza dell'epoca). Ma nella Storia l'infamia del default non ha risparmiato nessuno. Fecero default i sovrani inglesi, come si ricordano ancora a Firenze, e fecero default perfino i tedeschi nel 1683 con Federico Guglielmo I. Tra il XVI e la fine del XVIII secolo, però, il primato spetta alla Francia (otto default), seguita a ruota dalla Spagna (sei default). Non sorprende tanto che gli Stati sovrani talora non paghino, quanto che questo avvenga così di rado, dati i poteri molto limitati dei creditori di uno Stato sovrano. Se escludiamo le guerre e le riparazioni ad esse connesse, l'ultimo default di uno stato dell'Europa occidentale risale al 1893 ad opera della Grecia (sempre lei). Perché gli Stati fanno default così raramente?

Il primo motivo è che gli Stati moderni sono costantemente affamati di soldi. Un paese in cui le spese al netto degli interessi eccedono le entrate non può sospendere i pagamenti così facilmente. Appena lo fa si trova tagliato fuori dai mercati, e quindi incapace di raccogliere le risorse per finanziare la spesa corrente. In questa situazione è meglio per un governo indebitarsi ulteriormente, spostando il peso del debito su generazioni e governi futuri, invece che affrontare oggi il caos che un default comporterebbe.
Anche quando costringere i creditori ad una ristrutturazione è la soluzione migliore, i governi democratici hanno paura di intraprenderla. Era facile per Eduardo III d'Inghilterra non pagare i Perruzzi e i Bardi, che erano stranieri. Molto più difficile è per un leader politico ripresentarsi alle elezioni dopo aver fatto default sul debito, soprattutto quando questo è detenuto internamente.
Ma il terzo, e forse principale, motivo è che nell'ultimo secolo i governi europei hanno avuto un altro strumento per fare parziale default, ovvero l'inflazione. Con l'avvento della moneta cartacea gli Stati sovrani hanno potuto ridurre il valore reale del loro debito stampando più moneta, facoltà di cui si sono ampiamente avvalsi. Essendo un default mascherato e strisciante, l'inflazione è meno costosa politicamente, almeno nel breve periodo.
Per i paesi dell'area euro questa opzione non è più disponibile, almeno a livello individuale. È sempre possibile che la Banca centrale europea monetizzi parte del debito dei paesi a rischio, ma per farlo dovrebbe ricevere il consenso anche della Germania, molto avversa al rischio di inflazione. Senza questa via di scampo, il rischio di un default è molto più elevato. Quanto elevato?

Per paesi con un forte deficit al netto degli interessi, come la Grecia e l'Irlanda, il costo economico e politico di un default sarebbe stato enorme. Per questo hanno fatto di tutto per evitarlo. Paradossalmente, però, il sostegno offerto dal Fondo monetario internazionale e dall'Unione europea rende loro più agevole una ristrutturazione parziale del debito (una forma di parziale default). Non dovendo tornare immediatamente sul mercato, si possono permettere di imporre delle concessioni ai creditori senza mettere in ginocchio il Paese. E questa sarà l'inevitabile sorte di questi due Paesi, anche perché una fetta consistente del loro debito è detenuto da stranieri. Il costo della ristrutturazione, quindi, ricade in gran parte sul resto del mondo: un aspetto molto interessante dal punto di vista politico.

Più complessa è la situazione per l'Italia. Il deficit al netto degli interessi è limitato. Se i tassi sul nostro debito dovessero impennarsi, aumentando a dismisura la spesa per interessi, l'opzione di un default, almeno parziale, diventerebbe più attraente. Rimane, però, politicamente molto costosa: la metà del nostro debito è detenuto internamente e gran parte del rimanente è detenuto da banche europee che sarebbero messe in ginocchio da un nostro default, con ripercussioni sul nostro sistema bancario. Al momento quindi possiamo dormire sonni tranquilli. Ma se oltre l'Irlanda anche la Spagna dovesse ristrutturare il debito, i nostri governanti avrebbero sufficiente copertura politica per forzare anche loro una ristrutturazione. Al grido di "l'hanno fatto gli altri, perché non possiamo farlo anche noi", un consolidamento del debito (allungamento delle scadenze con una riduzione dei tassi) diventerebbe inevitabile.

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« Risposta #35 inserito:: Febbraio 18, 2011, 04:56:30 pm »

Mister Bondi fatti più là

di Luigi Zingales

(18 febbraio 2011)

Stabilimento Parmalat Stabilimento ParmalatQuando si parla di risanatori di aziende in Italia non c'è nessuno che eguagli Enrico Bondi. A lui sono stati affidati i casi più difficili, da Montedison a Parmalat. Bondi ha saputo fronteggiare difficilissime negoziazioni con le banche, tagli pesanti del personale, indagini per recuperare fondi occultati in un meandro di partecipazioni incrociate. In aggiunta, nel caso Parmalat ha mostrato un'aggressività nel far causa a tutti (dalle banche alla società di revisione alle agenzie di rating) degna dei migliori liquidatori d'oltreoceano. Così facendo è stato in grado di recuperare per vie legali più di 1,5 miliardi di euro. Parmalat, che nel dicembre del 2003 sembrava destinata alla liquidazione, è oggi un'azienda sana, che nel 2009 ha fatturato quasi 4 miliardi di euro, con un utile netto di gestione di 230 milioni di euro.

Per molto meno, altri amministratori delegati sono stati considerati degli eroi. Bondi invece non solo non viene celebrato, ma rischia addirittura di essere licenziato. Un gruppo di investitori stranieri ha preparato una lista alternativa per il consiglio di amministrazione che verrà presentata alla prossima assemblea. Questo gruppo ha già dichiarato che, se vince, sostituirà l'amministratore delegato: un fatto senza precedenti in Italia. Si tratta di una manovra di speculatori senza scrupoli o di un'importante novità nel governo societario in Italia?

Innanzitutto, è importante capire che in un mondo che cambia i successi passati non sono necessariamente un indicatore di capacità a gestire il futuro. Marcello Lippi, l'allenatore che ci portò al trionfo di Berlino, è stato anche uno dei principali responsabili del disastro in Sudafrica. All'indomani della fine della seconda guerra mondiale, gli elettori inglesi scelsero di mandare a casa il vittorioso Winston Churchill per sostituirlo con Clement Attlee. Non fu ingratitudine. Le leve del comando non devono essere assegnate per riconoscenza, ma per competenza. Quelle stesse qualità che resero Churchill un leader ineguagliabile durante il conflitto lo rendevano poco adatto a gestire le riforme necessarie nel periodo post bellico.

Lo stesso vale per Bondi. La persona migliore per gestire un'azienda in crisi finanziaria, non è necessariamente quella ideale per rilanciarla. Tanto bravo è stato Bondi a gestire la ristrutturazione, tanto lento è nell'individuare le nuove vie di sviluppo. Il fatturato organico di Parmalat è fermo, i profitti sono in discesa e il mercato domestico del latte Uht è fortemente insidiato dai prodotti generici. La distribuzione geografica dell'azienda (con una forte presenza in Italia e Canada) risulta troppo sbilanciata e non sufficientemente diversificata. Nel contempo, Parmalat siede su 1,34 miliardi di euro di liquidità, frutto dei pagamenti ricevuti nelle cause legali. Perché non usare parte di quei proventi per completare l'espansione geografica dell'azienda? E perché non distribuirne una parte agli investitori, invece che tenerla malamente impiegata in titoli finanziari?

Sono queste le domande che con tutta probabilità si sono posti gli invesitori istituzionali esteri. Per la maggior parte non si tratta di hedge fund con un orizzonte temporale breve, ma fondi comuni come Skagen, la prima società di fondi norvegese, e la canadese Mackenzie. Insieme hanno presentato una lista per proporre una strategia alternativa.

Si tratta di un'iniziativa senza precedenti anche sul mercato americano, dove gli investitori istituzionali detengono più del 60 per cento delle azioni quotate. Ma si tratta di un'iniziativa positiva. In qualità di maggiori azionisti questi investitori dovrebbero partecipare maggiormente al governo societario. Purtroppo invece sono troppo cauti nel prendere posizioni contro il management per paura di inimicarsi la categoria: non vogliono mettere a rischio i ricavi che fanno vendendo servizi alle imprese. Non a caso l'iniziativa è partita da fondi norvegesi e canadesi con presenza nulla in Italia. Fino a quest'anno, l'altro motivo per la scarsa partecipazione degli investitori istituzionali erano le regole di voto, che rendevano molto difficile agli investitori istituzionali votare in assemblea.

Grazie ad un nuovo regolamento dell'Unione europea, questa complicazione è stata eliminata. Mi auguro quindi che la lista Parmalat rappresenti l'alba di un nuovo giorno. Sarebbe ora che la scelta dei leader delle principali aziende italiane non venisse più fatta nei salotti buoni in base al principio della lealtà e della riconoscenza, ma sul mercato in base al principio della competenza.

   
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:19:30 pm »

Dove Geronzi ha sbagliato

di Luigi Zingales

Il presidente delle Generali è strapagato e come responsabilità ha solo comunicazione e gestione del consiglio. In entrambi i casi ha fatto errori. Cosa ne pensano coloro che gli hanno dato quello stipendio?

(07 aprile 2011)

All'indomani della nomina di Cesare Geronzi a presidente di Assicurazioni Generali avevo indicato quanto, secondo i parametri di mercato, un presidente senza deleghe come lui avrebbe dovuto guadagnare: circa 600 mila euro all'anno. Con una pratica in voga in Italia, la scelta del consiglio non fu rivelata al mercato al momento in cui fu effettuata, ma solo ora, undici mesi dopo, all'interno della relazione annuale.

Lo stipendio di Geronzi è di 3.3 milioni all'anno, un compenso che lo posiziona tra i presidenti senza deleghe più pagati d'Europa.
Posso facilmente immaginarmi come i membri del comitato remunerazioni (Paolo Scaroni, Leonardo Del Vecchio e Lorenzo Pellicioli) abbiano giustificato questa scelta al consiglio. Un manager del talento di Geronzi deve essere adeguatamente compensato. Il valore che crea per l'azienda è di gran lunga superiore allo stipendio offerto. Come il 90 per cento dei guidatori pensa di essere migliore della media, così il 90 per cento di consigli pensa che i suoi manager meritino compensi superiori alla media perché di qualità eccezionali. Undici mesi dopo possiamo valutare se queste aspettative corrispondano alla realtà. In genere è molto difficile stabilire quando un manager crea o distrugge valore. Le imprese sono organizzazioni complesse, al cui successo (o insuccesso) contribuiscono molte persone. Ma a Geronzi il consiglio di Generali ha affidato solo due responsabilità: la comunicazione e la gestione del consiglio. Quindi è relativamente facile determinare se in questi undici mesi si è guadagnato lo stipendio.

Cominciamo dalla comunicazione.
Generali non è mai stata una società molto forte dal punto di vista comunicativo. � comprensibile che in soli undici mesi Geronzi non abbia potuto migliorare di molto questa situazione. Ma sarebbe stato auspicabile che non la peggiorasse. La sua intervista al "Financial Times", in cui prospettava progetti di investimento opposti a quelli annunciati dal management durante l'investor day, ha confuso maggiormente il mercato. Geronzi non sembra neppure molto bravo nella comunicazione con l'Istituto di vigilanza delle assicurazioni private (Isvap). Stando alle notizie apparse sui giornali, da quando Geronzi si è insediato, Generali ha ricevuto ben due rilievi.

Ma il vero punto di debolezza della presidenza Geronzi riguarda la gestione del consiglio. In genere è impossibile valutarne dall'esterno il funzionamento. Il motivo è che le riunioni sono segrete e tali devono rimanere. Che un consigliere del calibro di Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, si dimetta, però, non è certo un buon segno. Il segno diventa decisamente brutto quando altri consiglieri parlano sui giornali. Se sui giornali si insultano, come è accaduto nel caso di Generali, è ancora peggio. Quando poi a parlare è un vicepresidente della società, come Vincent Bolloré, la situazione è patologica.

Se poi il vicepresidente comunica informazioni che secondo gli amministratori indipendenti sono non corrette e il presidente, responsabile della comunicazione non interviene a smentirlo, lasciando il mercato nel dubbio, possiamo chiederci se si tratti di un consiglio ben gestito. Questa visione è condivisa dal mercato. Un report di Kepler Capital Markets, una delle principali reti di consulenti finanziari indipendenti, scrive: "Il prezzo delle azioni Generali non dipende dalla qualità delle operazioni o dalla crescita della società (che rimane forte), ma piuttosto dall'imbarazzante corporate governance. La soap opera può essere sintetizzata come segue: il presidente Cesare Geronzi (un manager con esperienza nel settore bancario, ma non in quello delle assicurazioni) continua a disturbare il lavoro di un top management molto capace". In qualsiasi altro paese al mondo un presidente avrebbe richiesto le dimissioni di un vicepresidente che attacca la società.

E se fosse stato incapace di ottenerle, si sarebbe dimesso. Geronzi no. Non ha fatto né l'uno né l'altro. A questo punto il problema non è più di Geronzi, ma di coloro che l'hanno proposto (Mediobanca), che l'hanno votato (il consiglio) e, in particolar modo, che hanno deciso di strapagarlo. Leonardo Del Vecchio, che è una persona seria, si è già dimesso. Che fanno Scaroni e Pellicioli?

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« Risposta #37 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:31:57 pm »

Che fine farà Mediobanca

di Luigi Zingales

Con le nuove regole della Ue investitori istituzionali e piccoli azionisti avranno più potere: si comincerà a contare i voti e non solo a pesarli.

Così l'istituto fondato da Cuccia muterà da centro di potere a fondo chiuso

(22 aprile 2011)

"Le azioni non si contano", affermò il mitico presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, "Ma si pesano". Su questa filosofia orwelliana, in cui alcuni sono più uguali degli altri, si fondò il potere di Mediobanca. L'idea di Cuccia fu geniale. Nell'Italia provinciale del dopoguerra, il capitalismo italiano aveva bisogno di un country club, una società di mutuo soccorso per proteggere gli imprenditori nostrani. In un mondo non ancora contaminato dal golf, Mediobanca inventò il "salotto buono", il club più esclusivo, cui si accedeva solo per invito. Invece che green incontaminati, ai capitalisti nostrani il country club made in Italy offrì riserve di caccia sconfinate.

Come tutti i country club, anche Mediobanca aveva le sue regole. La prima era il mutuo soccorso. I membri del salotto buono dovevano evitare di competere tra loro e assistersi vicendevolmente, votando l'un per l'altro e associandosi in arcani patti di sindacato. La seconda regola era la tolleranza. Se alcuni dei membri del salotto buono risultavano incompetenti o incapaci, non venivano cacciati ma aiutati, come le pecore nere delle grandi famiglie nobiliari.

Era cruciale che il management di ogni impresa importante appartenesse al salotto buono. Che fosse poi bravo era un plus non richiesto. La terza regola era l'eccesso di riservatezza. Non solo non si parla coi giornali, ma neanche con la magistratura. Più che il senso civico, valevano i vincoli di appartenenza.

Tale appartenenza al salotto buono offriva molti vantaggi. Innanzitutto, i suoi membri potevano usare la leva finanziaria e rischiare, perché sapevano che, in caso di crisi, Mediobanca li avrebbe salvati. I Pirelli, gli Agnelli e molti altri potevano controllare le loro aziende con quote ridotte di capitale, grazie alla ragnatela di incroci azionari tessuta da Mediobanca. Infine, qualsiasi pacchetto azionario comprato da un membro del salotto valeva automaticamente di più, perché parte di una coalizione vincente. E' come se esistessero azioni di serie B e azioni di serie A, e ai membri del salotto buono era dato di trasformare le prime nelle seconde. Col tempo, come tutti i club troppo esclusivi, anche il nostro salotto buono è diventato un po' asfittico.

Negli anni, le rigide regole hanno scoraggiato gli imprenditori migliori (i del Vecchio, i Moretti Polegato, gli Illy), attirando invece i peggiori. La globalizzazione del mercato dei capitali ha creato alternative. Alcune grandi imprese, come la Fiat, l'hanno abbandonata, dimostrando che fuori del salotto buono non solo si sopravvive, ma si prospera.

Il seme dell'inevitabile declino, però, è stato piantato da una oscura regola dell'Unione europea. Il potere di Mediobanca nasceva dai complicati intrecci azionari, che si reggevano su un'assenza, almeno alle assemblee, degli investitori istituzionali italiani ed esteri. Per costoro era troppo costoso bloccare grossi pacchetti di azioni per molti giorni solo per votare. Le nuove regole, imposte dall'Ue, hanno ridotto questo costo, facilitando la presenza dei fondi esteri. Nelle assemblee Ansaldo e Telecom gli investitori istituzionali hanno sfiorato la maggioranza.

Vedremo cosa succederà in Eni e Generali. L'anno prossimo, con l'introduzione del voto telematico, anche i piccoli investitori potranno votare senza sobbarcarsi il peso di un viaggio o di una delega. Questo non farà che ridurre il peso di Mediobanca. I voti si cominceranno a contare, non pesare.

La democrazia azionaria trasformerà Mediobanca da centro di potere, che detiene i pacchetti di controllo di tutte le imprese italiane, in un fondo chiuso, una holding di partecipazione che detiene quote non decisive, ma fortemente illiquide. Come tutti i fondi chiusi, quoterà a sconto rispetto al valore di mercato delle attività che detiene. E come tutti i fondi chiusi finirà per essere liquidata, e con essa quello che Guido Carli chiamava «il bidone vuoto del capitalismo italiano» che Cuccia teneva tanto gelosamente a guardia.

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« Risposta #38 inserito:: Giugno 10, 2011, 06:33:41 pm »

Attenzione alla bolla brasiliana

di Luigi Zingales

Entrambi fanno parte dei Bric. Ma il Brasile non è la Cina che punta tutto sull'industria: prospera grazie al boom dell'export di materie prime e di prodotti agricoli. Ma se la crescita mondiale rallenta...

(03 giugno 2011)

I rappresentanti dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) I rappresentanti dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina)Alla stampa anglosassone piacciono gli acronimi. Se le nazioni europee in crisi sono i PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), le nuove potenze emergenti sono i BRIC: Brasile, Russia, India e Cina. Nonostante siano localizzati ai quattro angoli del mondo, questi quattro paesi hanno molto in comune: sono grandi (insieme rappresentano il 25 per cento della superficie e il 42 per cento della popolazione del mondo), sono in forte crescita (l'anno scorso in media il 7,5 per cento) e vogliono contare di più sulla scena mondiale.

In Brasile, dove sono in visita in questi giorni, il miracolo dei Bric si sente in maniera palpabile. L'aumento dei prezzi delle materie prime ha arricchito il Paese. Un boom immobiliare ha stimolato l'edilizia. Un forte apprezzamento del cambio ha reso economici i prodotti di importazione e ha trasformato San Paolo in una delle città più care al mondo. Ma questo miracolo si vede anche nei numeri ufficiali.

Quest'anno il Brasile supererà l'Italia in Prodotto interno lordo, diventando la sesta potenza economica del mondo. Le prospettive di crescita sono rosee anche grazie a una situazione demografica molto positiva. La popolazione del Brasile ha un'età media di 29 anni (contro i 53 dell'Italia). Questo significa che nei prossimi anni ci saranno molti più giovani che entreranno nella forza lavoro dei vecchi che andranno in pensione, aumentando le prospettive di crescita futura. Il petrolio scoperto al largo di Rio de Janeiro promette al Brasile l'indipendenza energetica. I Campionati del mondo del 2014 e le Olimpiadi del 2016 non fanno altro che suggellare agli occhi di molti il ruolo del Brasile come il nuovo Eldorado.

E' tutto oro quel che luccica?
Non basta appartenere ai Bric per assicurarsi una crescita a livelli cinesi. A differenza della Cina, il successo del Brasile non è dovuto a una rapida industrializzazione, ma al boom dei prezzi e delle esportazioni di materie prime e di prodotti agricoli. Ogni qual volta il prezzo delle materie prime sale, il Sud America conosce una fase di espansione, che finisce quando i prezzi scendono.

Il Brasile non sta facendo nulla per gettare le basi per una crescita più duratura. Non si sta dotando delle infrastrutture necessarie allo sviluppo. Mentre a Shanghai un treno superveloce ti porta dall'aeroporto al centro città in 9 minuti, a San Paolo ci vogliono due ore e mezza nel traffico infernale. Il Brasile non sta neppure investendo in istruzione. Nelle statistiche internazionali il Brasile è agli ultimi posti sia per la qualità sia per la quantità di istruzione. Solo il 26 per cento dei brasiliani ha un diploma di scuola media superiore, contro il 46 dei cinesi.

Nonostante la popolarità, l'ex presidente Lula non è riuscito in otto anni ad attuare riforme strutturali. Ha approvato, è vero, il primo piano di trasferimenti alle famiglie indigenti. Ma si tratta di un puro sussidio che non risolve la disoccupazione e la sottoccupazione, anzi tende a perpetuarla creando incentivi a lavorare in nero. Si tratta di briciole: i sussidi al credito industriale ammontano a più del doppio.

La corruzione rimane alta. E' di questi giorni uno scandalo che vede coinvolto un ministro che in sei mesi avrebbe guadagnato 10 milioni di euro in consulenze. E il governo distorce pesantemente le scelte economiche del Paese per fini politici. La compagnia petrolifera nazionale Petrobras è costretta a tenere artificialmente basso il prezzo della benzina per ridurre surrettiziamente l'inflazione misurata.

L'amministratore delegato di una delle più grosse imprese private del Paese è stato licenziato, nonostante la sua ottima performance, per far posto a un manager più vicino al governo. Anche a capo della Banca centrale è stato messo un governatore docile, che fa temere un rialzo dell'inflazione, che viaggia già intorno al 6 per cento.

Finché l'economia mondiale cresce a ritmi elevati, il Brasile godrà, suo malgrado, di un boom economico. Ma un rallentamento della crescita mondiale potrebbe avere effetti devastanti sull'economia brasiliana. A differenza della Cina, il Brasile sta godendo un breve Carnevale. Purtroppo dopo il Carnevale arriva sempre la Quaresima.

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« Risposta #39 inserito:: Luglio 01, 2011, 06:35:45 pm »

Perché Tremonti se ne infischia

di Luigi Zingales

Quasi tutto il Pdl lo vorrebbe far fuori. Le Lega lo ha abbandonato.

Ma ha l'appoggio dell'establishment economico mondiale.

Che ha sedotto con il suo rigore. E che lo può portare a Palazzo Chigi

(24 giugno 2011)

Anche i piu' acerrimi nemici di Giulio Tremonti gli riconoscono il merito di aver tenuto saldi i conti pubblici durante la crisi pi? grave degli ultimi ottanta anni. Tra il 2007 e il 2010, quando il disavanzo pubblico dell'Inghilterra E' passato dal 2,7 per cento del PIL al 13,3 per cento, quello dell'America dal 2,8 al 10,7, e la Spagna E' passata da un avanzo del 1,9 a un disavanzo dell' 8,5 per cento, il disavanzo italiano E' salito "solo" dall'1,5 al 5,4 per cento del PIL.

Perfino l'"Economist", non certo tenero con il governo Berlusconi, ha elogiato Tremonti scrivendo che è grazie alla sua rigida politica fiscale che l'Italia ha evitato (finora) la crisi dell'Eurozona. Agli occhi del mondo Tremonti è oggi la persona di fiducia, l'uomo su cui i mercati finanziari internazionali contano per tenere l'Italia fuori dalla crisi dei debiti sovrani. Ma Tremonti non è sempre stato un Quintino Sella. Da ministro delle Finanze del primo governo Berlusconi promosse la legge per la defiscalizzazione degli utili di impresa reinvestiti, riducendo fortemente la pressione fiscale. Da ministro dell'economia del secondo governo Berlusconi ridusse le aliquote Irpef e Ires e abolì l'imposta su donazioni e successioni, invertendo il processo di riduzione del debito pubblico. Durante il suo mandato nel secondo governo Berlusconi l'avanzo primario (ovvero la differenza tra entrate dello Stato e le sue uscite al netto degli interessi sul debito pubblico) si ridusse dal 3,2 per cento del Pil nel 2001 allo 0,3 nel 2005.

Cosa ha provocato questa trasformazione del Tremonti dei condoni e della finanza allegra al Tremonti del rigore?

L'ipotesi più semplice è che Tremonti abbia fatto di necessità virtù. Agli inizi del secondo governo Berlusconi l'obiettivo era rilanciare la crescita, e Tremonti cercò di farlo con una politica fiscale espansiva. Nel contesto corrente, la situazione dei conti pubblici italiani è talmente a rischio che anche un keynesiano come Tremonti si trova costretto a fare il rigorista. Seppur credibile questa tesi si scontra contro i tempi della "conversione" di Tremonti. Il suo rigorismo non nasce con la crisi del 2008, ma con il ritorno al ministero dell'Economia nel terzo governo Berlusconi. Vi ricordate il famoso "tesoretto" che si trovò il governo Prodi? Fu il risultato di un inaspettato aumento del gettito fiscale all'inizio del secondo governo Prodi.

L'aumento fu troppo immediato per essere attribuibile a qualsiasi iniziativa del governo di sinistra. La stretta fiscale fu effettuata da Tremonti quando ritornò al dicastero dell'economia tra il settembre 2005 e il maggio 2006. Nonostante le virtù profetiche di cui si vanta il nostro ministro è difficile sostenere che si preparasse già allora alla crisi internazionale. Perchè allora si trasformò in rigorista?

I più maligni sostengono per far perdere Berlusconi alle elezioni e prenderne il posto. Ma l'ipotesi più probabile è che si tratti di una più acuta intuizione politica. Mancando di una forte base politica, se voleva succedere a Berlusconi, Tremonti, doveva da un lato rendersi indispensabile alla Destra, dall'altro indebolire i suoi rivali all'interno della Destra. La stretta fiscale consegue entrambi gli obiettivi.

Riducendo il deficit, Tremonti si accredita all'estero come l'unico esponente credibile del governo Berlusconi, manovra perfettamente riuscita visto gli elogi dell'"Economist". Contenendo la spesa, Tremonti indebolisce i suoi rivali interni, che dipendono dalla spesa pubblica per sostenere la loro rete clientelare.

La crisi internazionale non fu che un fortunato accidente, che rese questa strategia ancora più vincente. Queste motivazioni personali non tolgono il merito a Tremonti. In politica non contano le intenzioni, ma i risultati, e Tremonti li ha ottenuti. Ma ci devono mettere in guardia dai rischi futuri. Il rigorismo di Tremonti non è frutto di convinzioni personali, ma di tatticismo. Quali che siano le sue motivazioni per imporre una disciplina fiscale, speriamo che resistano all'offensiva populista di Berlusconi. Altrimenti dopo il Portogallo ci sarà l'Italia.

 
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« Risposta #40 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:26:33 am »

L'opinione

Un Bruce Willis all'Economia

di Luigi Zingales

La catastrofe era annunciata: a far traboccare il vaso è stata la perdita di fiducia nel ministro Tremonti dopo il caso Milanese. Adesso solo un piano eroico può salvare l'Italia. Ma serve un eroe in grado di attuarlo

(14 luglio 2011)

Nel film "Armageddon: lo scontro finale", un meteorite della dimensione del Texas è in rotta di collisione con la Terra. Per evitare il cataclisma, la migliore squadra di geologi (capitanata da Bruce Willis) è mandata nello spazio per far esplodere il meteorite.

L'Armageddon finanziario che sta per colpire l'Italia ha lo stesso grado di prevedibilità. Come da tempo vado scrivendo su queste colonne, la solvibilità dell'Italia è a rischio. Una dichiarazione di insolvenza da parte del nostro governo avrebbe effetti devastanti sul patrimonio delle principali banche e assicurazioni italiane ed europee, con conseguenze economiche disastrose non solo sull'Italia, ma sull'interno continente europeo.

La solvibilità di un paese è determinata da tre fattori: i fondamentali economici, quelli politici e le aspettative del mercato. I fondamentali economici dipendono dal rapporto tra crescita del Prodotto interno lordo (Pil) e crescita del debito. Se un paese ha un deficit elevato e un tasso di crescita del Pil basso o addirittura negativo, il debito cresce più rapidamente del Pil e quindi diventa rapidamente insostenibile. Per brevi periodi di tempo il rapporto deficit/Pil può essere più elevato del tasso di crescita del Pil, purché ci sia fiducia che il governo sia in grado di riaggiustare il deficit e di rilanciare la crescita. Il che ci porta alle aspettative.

Quando il mercato perde la fiducia nella capacità di un governo di fronteggiare la crisi, comincia a richiedere dei tassi di interesse più elevati per compensare il rischio di un possibile default. Purtroppo, questa reazione può trasformare un timore in una profezia che si autorealizza: i più alti tassi di interesse aumentano il costo del debito pubblico e quindi la dimensione del deficit, aggravando i fondamentali e peggiorando ulteriormente le aspettative. A questo punto il meteorite entra in rotta di collisione e, a meno di un intervento eroico alla Bruce Willis, il disastro diventa inevitabile.

In aggiunta, nel caso italiano le aspettative sono influenzate negativamente dalla tardiva reazione dell'Europa alle crisi degli altri paesi. In passato, anche di fronte a fondamentali molto deboli, il mercato è stato generoso con in paesi europei in crisi, fidandosi delle promesse di aiuto ripetutamente avanzate dai leader europei. Di conseguenza, i possibili aiuti europei sono diventati un fattore cruciale nelle aspettative. Per questo ogni indicazione di una mancanza di unità d'azione a livello europeo, si traduce in un aumento del rischio di insolvenza di tutti i paesi in difficoltà.

Finora l'Italia era riuscita a evitare la rotta di collisione, in parte per meriti propri (un deficit di bilancio relativamente contenuto), in parte per demeriti altrui. Siccome Grecia, Irlanda e Portogallo erano messi peggio di noi, il mercato si era concentrato maggiormente sulla possibilità (ora quasi certezza) di una loro insolvenza. La cattiva gestione a livello europeo di queste crisi, però, ha aumentato il nostro rischio paese.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è il crollo di fiducia internazionale nei confronti del governo e in particolar modo del ministro Tremonti. Nel bene e nel male, fino a questo momento Tremonti aveva rappresentato una garanzia di solidità finanziaria. Vere o presunte che siano, le strette relazioni tra il ministro e il suo ex braccio destro Marco Milanese, accusato di corruzione, minano la fiducia nei confronti del nostro Paese.

Non si tratta di una cospirazione internazionale, ma di una reazione perfettamente razionale. Come ci si può fidare di un ministro che - secondo l'accusa - vive a casa di un corrotto? Purtroppo, queste notizie finiscono con l'apparire più credibili perché si innestano su una percezione del nostro Paese come corrotto e disonesto. Ed è difficile sostenere che questa percezione è del tutto ingiustificata quando la Corte di Appello di Milano conferma indirettamente che lo stesso premier ha corrotto un giudice.

Ora che il circolo vizioso aumento tassi-aumento deficit si è messo in moto, solo un piano eroico potrà salvarci. Troverà l'Italia il suo Bruce Willis?

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« Risposta #41 inserito:: Settembre 02, 2011, 06:05:23 pm »

Quando anche i ricchi piangono

di Luigi Zingales

Nel confronto con gli Stati Uniti il contribuente medio-alto italiano paga più tasse.

Le aliquote sono alte, ma il vero problema è l'allargamento della base imponibile e la lotta all'evasione

(25 agosto 2011)

"Fatemi pagare più tasse". Raramente si sente questa frase. Ma se a scriverla è Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi d'America, non può non fare scalpore. E' come se in Italia lo scrivesse Berlusconi. Ed è vero che Luca Cordero di Montezemolo si è espresso a favore di una patrimoniale, ma non ha riportato, come ha fatto Warren Buffett, il suo reddito e le imposte da lui effettivamente pagate dicendo che erano troppo poche. La destra repubblicana ha ironizzato che se Warren Buffett vuole pagare più tasse è libero di farlo: l'Agenzia delle Entrate americana accetta donazioni.

L'ironia è fuori luogo. Warren Buffett ha già donato 8 miliardi di dollari (metà della sua ricchezza) alla fondazione Gates. E una cosa è pagare più imposte da solo e un'altra sapere che si è parte di un sacrificio che può fare la differenza. Se fosse solo Buffett a pagare più imposte, la situazione fiscale americana non cambierebbe. Se applicate a tutti i ricchi, non risolverebbero il deficit fiscale, ma sarebbero un utile contributo. Il Tax Policy Center ha stimato che un'aliquota del 50 per cento per redditi superiori al milione di dollari frutterebbe circa 5 miliardi di dollari di entrate all'anno. Se lo dice anche Buffett è vero che i ricchi pagano troppe poche tasse?
Quale sia l'ammontare equo di imposte è difficile da stabilire. La scienza economica ci dice che aliquote elevate aumentano l'evasione e l'elusione e riducono gli incentivi a lavorare, ma non è in grado di dire quale sia il livello giusto. Alla fine si tratta di una scelta politica. Io ritengo che aliquote superiori al 50 per cento siano inique, a qualsiasi livello di ricchezza. Un'aliquota superiore al 50 significa che una persona lavora più per lo Stato che per se stesso.

Rispetto a questo limite (arbitrario) come si comparano gli Stati Uniti e l'Italia? Negli Stati Uniti l'aliquota federale più elevata è il 35 per cento, cui si somma un'imposta statale e (spesso) un'imposta comunale. Un abitante di New York che guadagni più di 500 mila dollari, paga un'imposta statale dell'8,97 per cento e una comunale del 3,876, per un complessivo 43,3 per cento (le imposte locali sono detraibili dal reddito federale). Quando tra due anni terminerà la riduzione delle aliquote approvata da Bush, si arriverà al 47,7 per cento, molto vicino al fatidico 50. Si noti che questa imposta si applica anche ai redditi da interessi.
Perché allora Buffett si lamenta? Non solo perché vive in Nebraska, dove le imposte locali sono più basse, ma soprattutto perché esistono troppe esenzioni. Molto onestamente Buffett ammette che, grazie a varie esenzioni legali, lui paga in imposte solo il 17,4 per cento del reddito. Lo scandalo quindi non è che le aliquote sono troppo basse, ma che le elusioni sono troppo elevate. Dalla riforma fiscale di Reagan, che ridusse le aliquote ed aumentò la base imponibile, sono stati introdotti 7000 cambiamenti e le pagine del codice tributario sono aumentate del 74 per cento. Oltre a fare felici i commercialisti, queste leggi creano sperequazione: i più potenti si fanno fare le norme all'uopo per eludere legalmente le imposte. E' giunto il momento di rifare una riforma alla Reagan. Purtroppo le condizioni fiscali del Paese non permettono un forte abbassamento delle aliquote, ma un allargamento della base è assolutamente necessario.

E l'Italia? Le imposte locali sono ancora agli albori e l'aliquota marginale l'anno scorso (prima dell'imposta di solidarietà) era il 43 per cento, molto simile a quella americana. La differenza è che in Italia quell'aliquota comincia a 75.000 euro. A pari livello di reddito l'aliquota a New York è solo del 33. L'altra grossa differenza è che in Italia i redditi da interessi non si sommano al reddito da lavoro, mentre negli Usa sì. Per non parlare poi dell'evasione. Il fisco italiano quindi tartassa proporzionalmente di più i contribuenti medio alti. Come negli Stati Uniti, però, la soluzione non sta in un aumento delle aliquote, ma in un allargamento della base imponibile e una riduzione dell'evasione. Con l'eccezione dei supermilionari, sui redditi tassati in Italia di imposte se ne pagano anche troppe, il problema è elusione ed evasione.

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« Risposta #42 inserito:: Settembre 08, 2011, 12:27:54 pm »

Il dilemma infernale della Bce e dell'Italia

di Luigi Zingales

4 settembre 2011

Un mese fa lo spread tra i BTp italiani e i Bund tedeschi raggiunse i 413 punti base (ovvero il 4,13%). Senza un immediato intervento della Banca centrale europea il Governo italiano rischiava di perdere l'accesso al mercato e quindi di fare default.

Per questo fu spedita la famosa lettera di Trichet a Berlusconi in cui - si dice - la Bce si impegnava ad acquistare titoli italiani in cambio di una manovra del nostro Governo che anticipasse il pareggio di bilancio al 2013 e rilanciasse la crescita.
L'intervento della Bce si basava sulla presunzione che il mercato fosse eccessivamente pessimista sulle capacità del Governo italiano di ripagare il debito e promuovere la crescita. La lettera di intenti serviva a rendere più credibile l'azione del Governo italiano. Combinata con alcuni acquisti strategici sul mercato secondario, poteva stabilizzare la situazione.

La condizione necessaria per il successo di questo intervento, però, era la capacità del Governo italiano di approvare in tempi rapidi una manovra adeguata. Per quanto elevati, gli acquisti dei nostri titoli da parte della Bce erano solo un palliativo. Nel corso di una giornata, acquisti concentrati possono temporaneamente elevare i prezzi. Questi temporanei rialzi generano perdite (temporanee) a chi specula al ribasso. Il rischio di queste perdite (anche se temporanee) può dissuadere degli speculatori da assumere posizioni molto aggressive. In altri termini, la Bce, spaventando gli speculatori, può ridurne la pressione. Anche questi benefici, però, sono temporanei. Se la situazione reale sottostante non cambia, gli effetti dell'intervento svaniscono quasi subito.
E così è stato. L'intervento della Banca centrale europea e l'immediata presentazione di una nuova, più ambiziosa, manovra da parte del nostro Governo hanno temporaneamente ridotto lo spread al di sotto dei 300 punti. Ma era solo una pausa, non una svolta. Il mercato aspettava di vedere se poteva ancora credere nella nuova manovra del Governo italiano.

Purtroppo, le lotte intestine nel Governo hanno avuto un effetto negativo. Perfino il Wall Street Journal, uno dei pochi giornali internazionali che ha sempre mostrato un occhio di riguardo verso il nostro presidente del Consiglio, ha scritto un articolo molto critico in cui si sottolineava che le recenti proposte di Silvio Berlusconi avevano «seminato confusione sia tra i suoi alleati che tra i suoi critici».
La speranza della Banca centrale europea era che bastasse dettare delle condizioni per indurre il Governo italiano a fare quello che avrebbe dovuto fare già dai primi di luglio. Purtroppo si è rivelata una pia illusione. Rassicurato dalla riduzione degli spread, il Governo italiano ha cominciato lentamente a fare marcia indietro. I tagli delle Province sono stati aboliti, il "contributo di solidarietà" eliminato, tutta la manovra fortemente annacquata.

A questo punto la Banca centrale europea si trova di fronte a una scelta difficilissima. Se vuole favorire il processo di integrazione europea, deve punire l'Italia o per lo meno il suo Governo che non ha mantenuto i patti. La fattibilità di un'unione fiscale, con i trasferimenti che essa comporta, si basa sulla capacità delle istituzioni europee di controllare i Governi nazionali eccessivamente prodighi. Senza questa capacità di controllo i trasferimenti avrebbero solo l'effetto di prolungare il dissesto finanziario dei Governi nazionali, non di risolverlo. Continuare a sostenere l'Italia nonostante la violazione della promessa fatta, distrugge la credibilità di ogni condizione futura e quindi il futuro dell'Unione Europea.

Tuttavia, la Bce è consapevole che abbandonare adesso l'Italia al suo destino equivarrebbe alla fine dell'euro. Spingendo il Governo a fare il suo dovere, la Bce ne ha messo a nudo l'inaffidabilità, paradossalmente peggiorandone l'immagine. Per questo motivo è possibile che domani, anche in presenza di acquisti della Bce, gli spread schizzino al rialzo. È certo però che in assenza del sostegno della Bce la situazione sarebbe di gran lunga peggiore a quella del 5 agosto. Anche se l'European Financial Stability Facility (Efsf) volesse intervenire, non avrebbe sufficienti risorse per farlo. D'altra parte non ci sarebbe il tempo per far votare a tutti i Parlamenti europei un aumento della dotazione dell'Efsf, anche se ci fosse la volontà politica di farlo.

L'abbandono dell'Italia da parte della Bce porterebbe quasi inevitabilmente a un default del Paese (e quindi delle banche italiane che detengono grosse quantità di titoli pubblici). Facilmente questi default si propagherebbero alle banche francesi e tedesche, con conseguenze inimmaginabili. Difficilmente l'euro sopravvivrebbe a questo scenario.
In altre parole, punire il Governo italiano avrebbe effetti così catastrofici che la Banca centrale europea non può credibilmente minacciarlo. Non potendo farlo, manca di credibilità. Pensava di poter facilmente controllare il Governo italiano. Ora invece, paradossalmente, ne è vittima.

Quale via di uscita? Che sia il nostro Parlamento a punire il Governo per la sua inettitudine. Non è tanto un problema di maggioranza quanto di capacità e credibilità dell'azione di governo: o si cambia o si esce dall'Europa
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« Risposta #43 inserito:: Settembre 23, 2011, 05:13:26 pm »

L'opinione

Se la Bce fa il gioco dei governi

di Luigi Zingales

Prima Weber poi Stark si sono ribellati a una banca centrale che tassa i cittadini europei a vantaggio dei Paesi in difficoltà. Senza averne il potere. Draghi non poteva arrivare in un momento peggiore

(14 settembre 2011)

La crisi finanziaria ha costretto gli italiani a un corso intensivo di economia. La differenza di rendimento tra i titoli del tesoro italiani e quelli tedeschi, che un tempo interessava solo i trader, è oggi notizia di apertura dei telegiornali. Per capire le tensioni politiche a livello europeo, però, non basta aver imparato il gergo della finanza, richiede una comprensione profonda della funzione di una banca centrale: il controllo dell'offerta di moneta al fine di garantire la stabilità dei prezzi.

Un tempo la stabilità dei prezzi era garantita tramite la convertibilità della moneta in oro. Questa soluzione aveva due grossi limiti.
Primo, il livello dei prezzi era determinato dalla disponibilità mondiale di oro. La scoperta di una nuova miniera creava inflazione, l'aumento della domanda di oro per usi industriali deflazione. Secondo, l'impossibilità di accomodare improvvisi aumenti nella domanda di moneta. Quando un fallimento, una guerra, o un terremoto aumentavano l'avversione al rischio degli investitori e quindi la loro domanda di moneta, la banca centrale non poteva rispondere aumentando temporaneamente l'offerta di moneta. Era costretta quindi ad alzare i tassi di interesse per rendere più costoso detenere moneta e quindi per ridurne la domanda. L'aumento dei tassi però deprimeva gli investimenti reali, causando una recessione: fu l'origine principale della Grande Depressione. Una moneta non convertibile, però, manca di un'ancora di riferimento. Può essere più facilmente usata per finanziare i deficit pubblici e generare inflazione, come avvenne in Italia negli anni Settanta. Per questo motivo tutti i Paesi sviluppati hanno creato delle banche centrali indipendenti dal potere politico. La Banca centrale europea (Bce) ne è l'esempio più estremo.

Come fa la Bce a fornire liquidità senza generare inflazione? Il modo più tradizionale è quello di prestare dei soldi alle banche in cambio di garanzie (titoli). Queste operazioni immettono liquidità nel sistema solo temporaneamente, perché alla scadenza del prestito le banche devono restituire la liquidità alla Bce. Un altro modo per farlo è quello di comprare dei titoli per poi rivenderli per drenare liquidità. Entrambe queste operazioni presuppongono la solvibilità dei titoli comperati o presi a garanzia. Se la Bce compra dei titoli che fanno default, non può rivenderli per drenare liquidità e quindi di fatto immette nel sistema moneta che può generare inflazione. Se da un lato l'acquisto di titoli a rischio di fallimento impone una tassa da inflazione a tutti i cittadini europei, dall'altro fornisce un sussidio agli emittenti di quei titoli. Non si tratta quindi più di una operazione di politica monetaria, ma di un'operazione di politica fiscale, legittima solo se approvata dal Parlamento. Come possono dei tecnocrati non eletti e, per disegno costituzionale, non responsabili di fronte a nessun organo elettivo decidere chi tassare e chi sussidiare?

Questo è il punto essenziale del dibattito all'interno della Bce. Preoccupato della lentezza della politica, nel maggio 2010 il consiglio della Bce decise a maggioranza di acquistare titoli greci. L'allora governatore della Bundesbank, Axel Weber, votò contro e poi si dimise, perché in questo atto vide una pericolosa violazione dei principi ispiratori della Bce. Per lo stesso motivo si è dimesso la settimana scorsa Jürgen Stark, il rappresentante tedesco nel consiglio della Bce. Invece che attenersi al suo compito di autorità monetaria, la Bce si è trasformata in un'autorità fiscale che tassa tutti i cittadini europei a vantaggio del governo greco (e ora italiano). Per molti la Bce non ha né l'autorità politica né quella legale per fare queste operazioni. Per altri il fine giustifica i mezzi. In assenza di un intervento dei governi, la Bce deve sostituirsi a essi, per evitare la catastrofe. E' in parte quello che ha fatto la Federal Reserve che, per questo motivo, è sotto attacco del Congresso Usa. Se continua così la Bce sarà sotto attacco del Parlamento tedesco. Mario Draghi non poteva assumere l'incarico in un momento peggiore.


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« Risposta #44 inserito:: Ottobre 13, 2011, 04:34:25 pm »

Rischio Paese per le banche

di Luigi Zingales

Gli istituti italiani sono molto esposti sui titoli pubblici.

Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dovere parlare chiaro: se questo governo privo di credibilità continua, prima o poi falliscono tutti

(06 ottobre 2011)

Durante la crisi finanziaria del 2008, i governi intervennero ad aiutare le banche in difficoltà. Sfruttando la posizione di forza, i politici, da Obama a Tremonti, si sentirono in diritto di redarguire, se non di licenziare, i banchieri. Oggi le parti si sono invertite. Sono i problemi di finanza pubblica a generare la crisi delle banche. E' forse giunto il momento per i banchieri di redarguire, se non di licenziare, i politici? Per capire questo capovolgimento di fronti è necessario comprendere come è cambiato il mondo bancario.

La banca tradizionale, in cui l'attivo era principalmente composto da prestiti alle imprese e il passivo di depositi, appartiene al passato. Tra le principali banche europee, i prestiti tradizionali rappresentano in media solo il 51 per cento dell'attivo e i depositi solo il 36 per cento del passivo. Oggi le banche hanno all'attivo azioni, obbligazioni, e derivati e si finanziano massicciamente con obbligazioni, sia a breve che a lungo. L'introduzione di modelli più sofisticati (ma non necessariamente più precisi) di valutazione del rischio ha anche permesso alle banche, secondo le regole di Basilea II, di ridurre il loro capitale di rischio.

In media solo il 4 per cento del valore totale dell'attivo è finanziato da capitale azionario. Questi cambiamenti creano un doppio legame tra le banche e i mercati finanziari. Da un lato, il valore dell'attivo delle banche è maggiormente esposto alle fluttuazioni nel valore dei titoli. Dall'altro, la loro capacità di finanziamento dipende in modo cruciale dal mercato obbligazionario.
Nel 2008, la crisi bancaria in America, Inghilterra e Germania fu dovuta a cattivi investimenti in titoli, aggravati da una leva finanziaria molto elevata. In questo caso la colpa fu principalmente dei banchieri. In Irlanda e Spagna, la causa fu l'esplosione della bolla immobiliare. Qui i banchieri sono corresponsabili, ma raramente il sistema bancario sopravvive a crolli nel mercato immobiliare.

Anzi, il fatto sorprendente è che le due principali banche spagnole, Bbva e Santander, siano ancora in piedi nonostante il ciclone che ha colpito la Spagna. Alcuni sostengono sia merito delle misure precauzionali imposte dalla Banca di Spagna, altri di una finzione contabile: non hanno ancora adeguato completamente il valore dei loro prestiti al crollo dei prezzi immobiliari. In Italia e nel resto d'Europa la crisi bancaria del 2008 fu principalmente dovuta alla difficoltà di reperire fondi sui mercati obbligazionari europei ed americani. Le perdite subite dai fondi di mercato monetario americano che avevano investito in Lehman crearono una fuga dei risparmiatori da questi strumenti. Dovendo fronteggiare massicci riscatti i fondi monetari smisero di investire in titoli, rendendo pressoché impossibile alle banche europee reperire fondi su questo mercato.

Oggi la causa dello shock è diversa, ma la dinamica è simile. Le banche europee sono imbottite di titoli pubblici. Le banche francesi e tedesche sono molto esposte alla Grecia, quelle italiane no. Ma sono enormemente esposte al rischio Italia, sia nel settore pubblico, che nel settore privato. La crisi di finanza pubblica, elevando lo spread dei titoli pubblici italiani, ne fa scendere i prezzi, causando forti perdite alle banche.

D'altro lato, le banche subiscono anche il rischio Paese. Se la manovra fiscale restrittiva del governo causa una forte recessione, a patire sono le imprese e quindi i crediti che le banche hanno verso di loro. Il mercato è consapevole di questi rischi e quindi fa pagare un costo addizionale alle banche italiane per raccogliere fondi sui mercati. Dato l'elevato costo della loro raccolta, le banche italiane fanno fatica a diversificare il loro rischio, comprando ad esempio titoli tedeschi. Il rendimento di questi titoli è inferiore al costo della raccolta, compromettendo la profittabilità e quindi la solvibilità di lungo periodo delle banche. Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dover parlare chiaro. Se questo governo, privo di credibilità, continua, chi prima chi dopo, falliscono tutti. E' ora che lo dicano.

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