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Autore Discussione: Luigi ZINGALES. -  (Letto 50871 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 17, 2011, 05:16:15 pm »

Diverso parere

Rischio Paese per le banche

di Luigi Zingales

Gli istituti italiani sono molto esposti sui titoli pubblici.

Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dovere parlare chiaro: se questo governo privo di credibilità continua, prima o poi falliscono tutti

(06 ottobre 2011)

Durante la crisi finanziaria del 2008, i governi intervennero ad aiutare le banche in difficoltà. Sfruttando la posizione di forza, i politici, da Obama a Tremonti, si sentirono in diritto di redarguire, se non di licenziare, i banchieri. Oggi le parti si sono invertite. Sono i problemi di finanza pubblica a generare la crisi delle banche. E' forse giunto il momento per i banchieri di redarguire, se non di licenziare, i politici? Per capire questo capovolgimento di fronti è necessario comprendere come è cambiato il mondo bancario.

La banca tradizionale, in cui l'attivo era principalmente composto da prestiti alle imprese e il passivo di depositi, appartiene al passato. Tra le principali banche europee, i prestiti tradizionali rappresentano in media solo il 51 per cento dell'attivo e i depositi solo il 36 per cento del passivo. Oggi le banche hanno all'attivo azioni, obbligazioni, e derivati e si finanziano massicciamente con obbligazioni, sia a breve che a lungo. L'introduzione di modelli più sofisticati (ma non necessariamente più precisi) di valutazione del rischio ha anche permesso alle banche, secondo le regole di Basilea II, di ridurre il loro capitale di rischio.

In media solo il 4 per cento del valore totale dell'attivo è finanziato da capitale azionario. Questi cambiamenti creano un doppio legame tra le banche e i mercati finanziari. Da un lato, il valore dell'attivo delle banche è maggiormente esposto alle fluttuazioni nel valore dei titoli. Dall'altro, la loro capacità di finanziamento dipende in modo cruciale dal mercato obbligazionario.
Nel 2008, la crisi bancaria in America, Inghilterra e Germania fu dovuta a cattivi investimenti in titoli, aggravati da una leva finanziaria molto elevata. In questo caso la colpa fu principalmente dei banchieri. In Irlanda e Spagna, la causa fu l'esplosione della bolla immobiliare. Qui i banchieri sono corresponsabili, ma raramente il sistema bancario sopravvive a crolli nel mercato immobiliare.

Anzi, il fatto sorprendente è che le due principali banche spagnole, Bbva e Santander, siano ancora in piedi nonostante il ciclone che ha colpito la Spagna. Alcuni sostengono sia merito delle misure precauzionali imposte dalla Banca di Spagna, altri di una finzione contabile: non hanno ancora adeguato completamente il valore dei loro prestiti al crollo dei prezzi immobiliari. In Italia e nel resto d'Europa la crisi bancaria del 2008 fu principalmente dovuta alla difficoltà di reperire fondi sui mercati obbligazionari europei ed americani. Le perdite subite dai fondi di mercato monetario americano che avevano investito in Lehman crearono una fuga dei risparmiatori da questi strumenti. Dovendo fronteggiare massicci riscatti i fondi monetari smisero di investire in titoli, rendendo pressoché impossibile alle banche europee reperire fondi su questo mercato.

Oggi la causa dello shock è diversa, ma la dinamica è simile. Le banche europee sono imbottite di titoli pubblici. Le banche francesi e tedesche sono molto esposte alla Grecia, quelle italiane no. Ma sono enormemente esposte al rischio Italia, sia nel settore pubblico, che nel settore privato. La crisi di finanza pubblica, elevando lo spread dei titoli pubblici italiani, ne fa scendere i prezzi, causando forti perdite alle banche.

D'altro lato, le banche subiscono anche il rischio Paese. Se la manovra fiscale restrittiva del governo causa una forte recessione, a patire sono le imprese e quindi i crediti che le banche hanno verso di loro. Il mercato è consapevole di questi rischi e quindi fa pagare un costo addizionale alle banche italiane per raccogliere fondi sui mercati. Dato l'elevato costo della loro raccolta, le banche italiane fanno fatica a diversificare il loro rischio, comprando ad esempio titoli tedeschi. Il rendimento di questi titoli è inferiore al costo della raccolta, compromettendo la profittabilità e quindi la solvibilità di lungo periodo delle banche. Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dover parlare chiaro. Se questo governo, privo di credibilità, continua, chi prima chi dopo, falliscono tutti. E' ora che lo dicano.

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« Risposta #46 inserito:: Novembre 10, 2011, 11:38:18 pm »

L'opinione

Il futuro dell'euro è scritto in rete

di Luigi Zingales

Quando una previsione è la media di molte stime, è affidabile. Un esempio?

Le puntate via Internet sulla moneta unica: la probabilità che un paese esca entro il 2012 è al 43 per cento.

Malgrado le certezze dei politici

(28 ottobre 2011)

Lo statistico inglese Francesco Galton un giorno passeggiava per la fiera del suo paese e notò un'interessante gara a premi.
Ai partecipanti veniva richiesto di indovinare quante libbre di carne si sarebbero ottenute macellando un manzo che pascolava di fronte alla folla. Ben 800 persone parteciparono alla gara e nessuno indovinò il peso esatto, ovvero 1.198 libbre. Da bravo statistico Galton analizzò i dati e scoprì che la media delle stime era vicina alla cifra esatta: 1.197 libbre, un errore di meno dello 0,1 per cento.
Nessun partecipante, neppure i macellai più esperti, era stato in grado di fare meglio.

La saggezza della folla batteva quella degli esperti. Era l'anno di grazia 1906. Da allora esperimenti simili sono stati ripetuti a migliaia. La scoperta di Galton rimane vera: la folla batte gli esperti. Non si tratta di una semplice curiosità statistica ma di una realtà straordinariamente importante, che sta alla base di fenomeni disparati come la superiorità del sistema democratico, l'affidabilità delle enciclopedie su Internet e il successo dell'economia di mercato. Nella Repubblica di Platone, il governo spettava agli esperti (gli aristoi) perché erano più sapienti. Ma se la media della folla è più brava degli esperti, la democrazia è preferibile all'aristocrazia.
Se la media è meglio degli esperti, Wikipedia, l'enciclopedia su Internet che aggrega l'opinione degli internauti, è più affidabile dell'Enciclopedia Treccani, che per ogni voce si basa sull'opinione di pochi esperti. Se la media batte gli esperti, il mercato (che aggrega l'opinione degli operatori) batte qualsiasi esperto nelle previsioni.

Ovviamente ci sono eccezioni. Per essere una stima affidabile, la media deve essere fatta aggregando stime indipendenti, ovvero stime che non si influenzino l'una con l'altra, né che siano influenzate da un fattore comune. Se aggrego le opinioni di una folla che esce da un film dell'orrore avrò delle stime falsate. Gli appassionati dei film dell'orrore hanno delle caratteristiche in comune: non rappresentano la media della popolazione. In aggiunta, la visione del film può avere influenzato le loro attitudini: spaventati diventano tutti più avversi al rischio. Nello stesso modo se aggrego l'opinione di un comitato di persone, che hanno discusso tra loro le proprie opinioni, non ottengo necessariamente una stima più accurata di quella di un esperto, perché i membri del comitato possono essersi influenzati l'un l'altro.

Per questo motivo, noi economisti ci fidiamo particolarmente dei prezzi di mercato, quando questi mercati sono liquidi (ovvero hanno un numero sufficiente di partecipanti). Non solo i prezzi di mercato rappresentano un'aggregazione della domanda e dell'offerta di molti operatori, ma sono validati dal fatto che gli operatori investono i propri soldi su queste opinioni. Se questo non bastasse, c'è un ulteriore meccanismo che rende i mercati credibili. Se un operatore ritiene che il prezzo di mercato non corrisponda al vero valore, può arricchirsi speculando sulla differenza e la sua speculazione spinge il prezzo verso il valore effettivo. Questa teoria non vale solo per i mercati finanziari, ma per qualsiasi mercato sufficientemente liquido.

Internet ha permesso la creazione di molti mercati. Su www.intrade.com si scommette su tutto. Su chi vincerà la nomination per il partito Repubblicano (Mitt Romney è favorito con il 67 per cento delle possibilità), se Murdoch lascerà la guida di News Corp entro la fine dell'anno (12,5 per cento), se l'oro chiuderà il 2011 al di sopra dei 1.700 dollari l'oncia (49,3 per cento).

Purtroppo tra queste previsioni, che tendono a essere molto affidabili, non c'è traccia di una sulla caduta di Berlusconi. Ma ce ne sono molte sull'euro. La probabilità che uno dei paesi appartenenti all'euro ne esca prima del 31 dicembre 2012 è stimata al 43 per cento.
A Francoforte e Bruxelles politici e banchieri centrali sostengono che l'euro è irreversibile. Il mercato non sembra condividere questa opinione. A chi credete?


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« Risposta #47 inserito:: Dicembre 02, 2011, 06:05:42 pm »

Germania

La Merkel deve cambiare ricetta

di Luigi Zingales

La crisi dell'euro è arrivata a toccare anche il cuore dell'Unione, compresa la stessa Germania. È ora che cadano i paletti posti dalla
Cancelliera all'acquisto di titoli sovrani da parte della Bce

(02 dicembre 2011)

Ogni malattia ha i suoi rimedi.

Per il mal di testa c'è l'aspirina, per la polmonite la penicillna, per il cancro le radiazioni. Anche in economia i rimedi differiscono a seconda delle situazioni. Stampare moneta, quando c'è inflazione è disastroso. Farlo nel mezzo di una recessione può essere salutare. Il medico non deve impegnarsi in anticipo sulle proprie cure, perché può venir sostituito in qualsiasi momento. I politici, invece, ricevono una delega per cinque anni. Per ottenerla devono creare un rapporto fiduciario con gli elettori, impegnandosi su proposte semplici. Una promessa di non aumentare le imposte se non quando assolutamente necessario rende un candidato poco credibile.

Una volta eletto è facile sostenere che la situazione è eccezionale e proporre un aumento delle tasse. Fa molto più presa una promessa assoluta. Vi ricordate lo slogan di George Bush padre? Niente nuove tasse. Semplice e credibile. Grazie a questo slogan fu eletto. Una volta diventato presidente, però, Bush si rese conto che il deficit era troppo elevato e decise di aumentare le imposte. Fu una scelta responsabile, ma gli costò la rielezione. Il problema è ancora maggiore quando certe scelte economiche diventano un simbolo, come la parità aurea negli anni Venti.

Ancorare la propria valuta all'oro è un modo per garantirne la stabilità. Ma questa parità deve essere fissata ad un livello sostenibile, cioè ad un tasso di cambio che bilanci le importazioni con le esportazioni. Per gli elettori traumatizzati dall'inflazione, la parità pre-bellica aveva un forte valore simbolico. Promettendo questa parità i politici evocavano la prosperità perduta e guadagnavano consenso. Fu così che molti governi europei fecero l'errore di tornare a parità auree insostenibili, come la mitica quota Novanta sostenuta da Mussolini.

Il segno che la ragione politica sta prevalendo su quella economica è che le scelte economiche vengono vendute come valori morali o dimostrazione di virilità politica, invece che come risposte ottimale ai problemi esistenti. Questo è il problema che i politici europei, e in particolare il cancelliere tedesco Angela Merkel, si trovano ad affrontare. L'euro è in crisi. La crisi di fiducia non è più limitata ai Paesi periferici, ma si sta estendendo al nocciolo duro: Austria, Finlandia, Germania stessa. Di fronte a una crisi generalizzata dei titoli sovrani, i governi hanno solo una risorsa: l'uso della banca centrale come acquirente di ultima istanza.

Se la crisi non è di insolvenza, ma di illiquidità, l'intervento della banca centrale è sufficiente ad arrestarla, senza costi per l'Unione. Se però si tratta di una crisi di insolvenza, un intervento della Bce può creare inflazione e soprattutto induce i governi nazionali a posticipare il risanamento, trasformando una crisi di illiquidità in una di insolvenza. Angela Merkel aveva ragione quando diceva che la Grecia era insolvente e la Bce non doveva intervenire. Aveva ragione anche quando diceva che l'Italia doveva fare il suo dovere prima di essere salvata. Adesso però che sia la Grecia che l'Italia stanno facendo il loro dovere e la crisi si è spostata sulla Francia e il Belgio, la sua posizione di rigidità diventa eccessiva. Le radiazioni servono a curare il cancro, ma, se si eccede, si uccide il malato.

Il rischio di Angela Merkel è proprio questo. E' molto difficile cambiare una posizione quando questa posizione è stata fin qui corretta. E' ancora più difficile farlo quando questa è la promessa fatta agli elettori. La Merkel e, prima di lei, Kohl promisero ai tedeschi che non avrebbero mai dovuto scegliere tra l'euro e il rischio di inflazione. Fin dall'inizio questa promessa era di dubbia sostenibilità. Tuttavia fino a questo momento è stata una promessa utile non solo dal punto di vista elettorale, ma anche da quello economico, guidando la Merkel a scelte economicamente corrette. Ora che la diagnosi è cambiata, però, questa promessa rischia di diventare come la mitica quota Novanta: propaganda utile per il consenso ma disastrosa per l'economia. Dal coraggio di cambiare ricetta si vede non solo il vero medico, ma soprattutto il vero statista.

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« Risposta #48 inserito:: Dicembre 10, 2011, 11:16:29 am »

Dopo il rigore ora una svolta culturale

di Luigi Zingales

7 dicembre 2011


Dopo le prime tre settimane è venuto il momento di tirare i primi (provvisori) bilanci sul Governo Monti. Nei rapporti con i nostri partner europei, Monti ha conseguito un istantaneo successo. La sua esperienza e competenza lo collocano una spanna sopra Sarkozy e la Merkel. Il suo programma di austerità, pur con luci ed ombre, è coraggioso. Rappresenta il massimo di rigore fiscale che il nostro Paese può sostenere (e forse anche di più).

Il vero tallone d'Achille riguarda quello che io considero l'obiettivo principale: una riforma culturale. Può sembrare strano che un economista anteponga la riforma culturale a quella fiscale. Ma proprio perché economista mi rendo conto che il rigore fiscale è condizione necessaria ma non sufficiente per salvare l'Italia.

Il vero problema dell'Italia è la mancanza di crescita e alla base di questa mancata crescita ci sono due cause: la peggiocrazia e la conseguente mancanza di fiducia che questa genera. La peggiocrazia non è solo mancanza di merito nelle nomine, ma anche mancanza di rigore logico e morale nelle scelte. I balzelli casuali (vedi tassa sui depositi del Governo Amato) o i condoni periodici alla Tremonti distruggono il rapporto fiduciario tra Governo e cittadini. La sola parvenza del conflitto di interessi mette in dubbio la legittimità delle scelte. Affinché noi italiani cominciamo a sentirci cittadini e non sudditi, le scelte del Governo devono essere giustificate, devono seguire un rigore logico e morale. Il seguirlo crea fiducia, aumenta il consenso, riduce l'incertezza, e aumenta il desiderio di investire in questo Paese.

Nel nominare Monti il presidente della Repubblica Napolitano ha dato inizio a questo processo di riforma culturale. Monti non è stato scelto per logiche politiche ma per competenza: non solo la sua conoscenza tecnica, ma il buon lavoro svolto da commissario europeo.

Inizialmente, Monti aveva proseguito su questa strada. Nel suo complesso la scelta dei ministri è stata basata sui principi di competenza e integrità. Il migliore esempio sono le donne ministro. Non nominate per soddisfare una quota rosa o per retribuire ex amanti, ma perché rappresentano il meglio che il Paese può offrire nei rispettivi campi. Vorrei che le imprese seguissero quest'esempio.

La riforma delle pensioni proposta dal ministro Fornero, un'autorità in materia e di gran lunga il miglior ministro, va nella stessa direzione. Al sistema retributivo, che premia le categorie più influenti politicamente, si sostituisce il principio contributivo, che eroga pensioni in proporzioni ai contributi versati. Non è solo una buona regola di finanza pubblica, è anche un buon principio morale.

Purtroppo dopo questo inizio promettente, il Governo Monti ha fatto alcuni passi falsi. Il primo è stata Finmeccanica. È vero, Guarguaglini si è dimesso. Ma ad essere revocato doveva essere l'intero consiglio che aveva rinominato Guarguaglini quando le notizie degli scandali già circolavano e che gli aveva offerto un paracadute milionario. Un nuovo consiglio avrebbe potuto impugnare senza timori il paracadute e far luce su tutte le dubbie vicende che circondano la società. Per cambiare la cultura di questo Paese è necessario estirpare il sottobosco politico. La crisi al vertice di Finmeccanica rappresentava un'opportunità per farlo, dato che il Governo controlla Finmeccanica. Monti ha sprecato questa opportunità.

Il secondo passo falso è stato il blocco dell'indicizzazione delle pensioni. Non bisogna essere Freud per capire che il pianto del ministro Fornero rifletteva il dolore per aver dovuto accettare una decisione ingiusta, contraria ai suoi principi. Si tratta della più iniqua delle imposte, che lascerà un segno nella mancanza di fiducia della gente.

Il terzo passo falso riguarda la partecipazione a un programma televisivo per presentare le sue riforme. È apprezzabile il desiderio di Monti di spiegare le sue proposte alla gente. Se ha bisogno di prime time, faccia - come tutti i presidenti del mondo - una conferenza stampa in diretta all'ora giusta. Presidente, sappia che è un errore andare da Vespa, non importa se prima o dopo essere andato in Parlamento.

Ma il più grosso passo falso è l'autorità che il decreto concede al Governo di garantire le emissioni obbligazionarie delle banche. È un potere enorme di cui si può facilmente abusare e che rischia di accollare sul contribuente italiano gli errori delle banche.

A questo punto il Governo Monti si trova a un bivio. Deve scegliere se essere il commissario dell Fondo monetario in Italia, che aggiusta solo i conti, o il salvatore della patria che riforma il Paese. Dopo i passi falsi, Monti ha tre opportunità per dimostrare le sue intenzioni.
La prima riguarda l'introduzione dell'Ici, che deve essere estesa anche agli immobili non di culto della Chiesa. Non si possono chiedere sacrifici agli italiani se non si trattano tutti nello stesso modo. Non farlo minerebbe l'autorità morale del Governo e del suo presidente.

La seconda riguarda la parte del decreto salva banche. Monti deve urgentemente emettere un regolamento in cui spiega come e a che condizioni queste garanzie saranno emesse.

Infine Monti deve essere più rigoroso sugli investimenti personali dei suoi ministri. Non dubito che tutti i ministri abbiano a cuore solo l'interesse del Paese. Ma negli Stati Uniti i ministri alla nomina devono vendere le azioni possedute e investire il ricavato in titoli di Stato, per evitare che le loro decisioni possano essere contaminate dal sospetto di voler beneficiare il loro portafoglio. Data la vocazione di Intesa Sanpaolo a banca di sistema, fino a che il ministro Passera non vende le azioni che detiene nella banca ci sarebbe sempre il sospetto che agisca per interesse personale. Per questo, Monti e i suoi ministri dovrebbero fare come quelli americani. Questo darebbe fiducia al mercato dei nostri titoli sovrani, ma ancor di più rimuoverebbe l'ombra del sospetto dall'azione del Governo.

In politica non bisogna solo essere onesti, occorre anche apparire tali. Le vere riforme culturali cominciano anche dai piccoli gesti.

Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (3 di 13 articoli)

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« Risposta #49 inserito:: Dicembre 28, 2011, 05:50:09 pm »

O via le caste o si muore

di Luigi Zingales

Tutti ce l'hanno con i partiti, che in effetti hanno molte colpe. Ma il Paese è pieno di gruppi chiusi, che mirano solo a perpetuare i propri privilegi e le proprie rendite di posizione. Danneggiando tutti gli altri, specie i giovani

(22 dicembre 2011)

Negli Stati Uniti la protesta ha scelto come obiettivo Wall Street, simbolo della finanza, il luogo dove lavora l'1 per cento più ricco della popolazione. Coloro che - secondo i manifestanti - avrebbero derubato il rimanente 99 per cento di un futuro migliore. L'Italia è messa molto peggio degli Stati Uniti. Quale dovrebbe essere l'obiettivo della protesta? Dove si annida l'1 per cento di privilegiati che impedisce il successo al rimanente 99 per cento? La risposta più naturale sarebbe Montecitorio, simbolo del potere politico. Non sono forse i politici che ci hanno ridotto in questa situazione? Ma è una risposta che oscura la vera fonte del problema. I politici li eleggiamo noi.

Riflettono gli interessi (le lobby) del nostro Paese. Negli Stati Uniti la lobby più potente è sicuramente quella finanziaria, da cui il luogo della protesta. Seguendo la stessa logica in Italia il luogo adeguato per la protesta dovrebbe essere la piazza centrale di ogni paese. Lì si annida la lobby più potente d'Italia: i notabili locali. A differenza dei ragazzini maleducati di Wall Street, si tratta di signori di buone maniere. Ma dietro la loro aria bonaria, non sono meno pericolosi. Molti di loro criticano i sindacati per la difesa corporativa del posto di lavoro, ma la loro difesa dei privilegi è più strenua di quella dei camalli del porto di Genova. Non lo fanno in piazza, ma nei corridoi dei palazzi, e proprio per questo hanno maggiore successo.

Chi sono i notabili della piazza centrale? C'è il farmacista, spesso figlio del farmacista del paese. Le farmacie godono di restrizioni imposte dallo Stato alla vendita dei medicinali. Queste restrizioni mantengono i prezzi elevati a danno dei consumatori. Anche le timide riforme di Bersani sono state affossate dal governo Monti. Il commissario europeo che ha osato sfidare Microsoft ha dovuto chinarsi di fronte alla lobby dei farmacisti. Sopra la farmacia in molti paesi c'è' l'ufficio del notaio, altra professione tramandata di padre in figlio e protetta dallo Stato, che limita il numero di notai e impone tariffe minime. Non è solo una tassa su tutte le attività produttive, ma anche uno spreco di cervelli. I guadagni gonfiati dai limiti alla concorrenza attirano nella professione molti giovani brillanti, che avrebbero potuto dedicarsi proficuamente ad attività più produttive.

A fianco del notaio nella piazza principale c'è l'ufficio dell'avvocato, un'altra professione spesso tramandata di padre in figlio, protetta da un ordine corporativo. Di fronte alla farmacia in molte piazze centrali c'è la sede di una banca. Una volta era una banca locale, oggi è parte di un gruppo nazionale. Ma anche qui i posti si tramandano di padre in figlio. Il motivo è che la banca non è gestita secondo criteri di efficienza, ma secondo criteri clientelari. Anche se perde, poco importa, tanto i principali azionisti non hanno messo i soldi loro, ma i soldi altrui. Anzi i soldi nostri, i soldi che appartenevano ai comuni e che oggi sono controllati da fondazioni gestite dai residui della prima Repubblica.

Il notaio, il farmacista, il bancario, l'avvocato e il presidente della fondazione si trovano tutti a prendere l'aperitivo al bar centrale, anche quello tramandato di padre in figlio. Questo settore, almeno, è competitivo. Ma anche il barista gode di un vantaggio: una certa tolleranza nell'applicazione delle leggi. La sua cucina non è proprio a norma e la cassiera non sempre emette lo scontrino fiscale. Ma con l'appoggio dei notabili clienti riesce a farla franca.

Ognuno difende strenuamente il proprio privilegio, non capendo che il privilegio mio è costo tuo. L'Italia si sta trasformando in una società per caste, dove i giovani non hanno futuro. La strenua difesa dei privilegi personali alla fine danneggia tutti. Ma nessuno è disposto a rinunciare da solo al suo privilegio. Se è l'unico a farlo, ci perde. Solo se tutti lo facciamo contemporaneamente, ci guadagniamo tutti. C'è bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinunciano a qualcosa, per guadagnarci tutti. Se Monti non è capace di farlo chi mai lo potrà fare?


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« Risposta #50 inserito:: Gennaio 15, 2012, 06:27:22 pm »

Politica

Forza Monti: sennò torna B.

di Luigi Zingales

L'attuale governo può piacere o meno, ma una cosa è certa: se non vince la battaglia del debito, il Cavaliere scatenerà una massiccia campagna demagogica anti-euro con cui può riprendere il potere l'anno prossimo
 
(13 gennaio 2012)

Dall'irlandese Cowen allo spagnolo Zapatero, dal portoghese Sócrates, al greco Papandreu, per finire a Berlusconi, la crisi del debito sovrano sta falcidiando i capi dei governi dei paesi coinvolti. Poco importa se di destra o di sinistra, chi governa quando arriva la crisi ne paga le conseguenze.

Uno studio empirico presentato lo scorso fine settimana ai meeting dell'American Economic Association ci dice che queste conseguenze erano facilmente prevedibili. Contrariamente all'opinione prevalente, le crisi finanziarie sono frequenti. Nel periodo 1975-2010 nei 70 principali paesi al mondo ci sono state 448 crisi bancarie e 488 crisi del debito: in media ogni paese ha una crisi bancaria ogni sei anni e una crisi del debito ogni sette. Gli autori sono stati in grado di isolare alcune interessanti regolarità sulle conseguenze politiche delle varie crisi.

Dopo una generica crisi finanziaria, il partito di maggioranza perde in media il 6 per cento dei consensi. A questa perdita si associa in genere una frammentazione del voto, sia nella coalizione di maggioranza sia in quella di minoranza, che rende i governi meno stabili e le riforme più difficili. In questo terremoto elettorale post crisi a perdere sono solitamente i partiti di centro, mentre guadagnano gli estremisti, sia di destra sia di sinistra. Questa radicalizzazione della politica, che vediamo sia negli Stati Uniti sia in Italia, rende più difficile qualsiasi riforma, proprio nel momento in cui un paese ha il maggior bisogno di riforme.

Ma l'effetto è molto diverso a seconda del tipo di crisi. Dopo le crisi bancarie ad aumentare è l'estremismo di destra, mentre dopo le crisi debitorie a guadagnare consensi è la sinistra radicale. Il motivo è molto semplice. Le crisi bancarie tendono a concludersi con una nazionalizzazione delle banche.

La reazione a questo interventismo fa aumentare consensi alla destra. Per contro, le crisi debitorie creano una forte domanda di remissione (almeno parziale) dei debiti, che trova maggiori consensi a sinistra. Molte delle crisi debitorie analizzate dagli autori, però, sono crisi di debito privato, come quello dei mutui americani e spagnoli, non del debito pubblico.

Un'insolvenza del pubblico è più assimilabile a un'esplosione dell'inflazione, perché entrambe implicano un esproprio forzoso di parte della ricchezza dei creditori.

Storicamente l'effetto politico di una crisi inflazionistica è un forte aumento dei voti dell'estrema destra, come successe nella Germania di Weimar dopo l'iperinflazione degli anni Venti. Se così è, qual è la lezione per l'Italia d'oggi?

Innanzitutto che la speranza che il governo Monti possa portare a termine riforme radicali è forse eccessiva. Nonostante la buona volontà, la radicalizzazione dell'elettorato e del parlamento rende qualsiasi riforma estremamente difficile. Questo aiuta a spiegare i problemi incontrati da Monti anche nei più timidi piani di riduzione dei costi.

La seconda lezione è che Berlusconi è stato molto furbo. Ha passato la patata bollente a Monti al momento giusto, quando ha capito che la risoluzione della crisi non dipendeva più dall'Italia ma dall'Europa e che i nostri partner europei non avevano la capacità (o peggio la volontà) di risolverla. Monti lo sta scoprendo a sue spese.

La sua manovra non è bastata a ridurre lo spread dei nostri titoli pubblici rispetto a quelli tedeschi. Questo rende precaria la posizione del suo governo che ha chiesto al paese enorme sacrifici per salvare l'Italia, ma non è in grado di mantenere la promessa fatta. Nel frattempo il paese, sulla spinta della contrazione fiscale e di quella creditizia, sta entrando in una pesante recessione.

Se la crisi del debito dovesse peggiorare, Berlusconi avrebbe gioco facile ad attaccare il governo da destra, scaricando su di esso la responsabilità della crisi. Posizionandosi come partito anti-europeo e anti-euro, sarebbe in grado di attirare il consenso di quanti sognano una svalutazione per far ripartire le esportazioni. Purtroppo la storia ci insegna che questa strategia riporterebbe Berlusconi al potere con una maggioranza schiacciante.


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« Risposta #51 inserito:: Febbraio 10, 2012, 12:02:46 am »

Opinione

Troppo scandalo sui soldi di Romney

di Luigi Zingales

In America cambia la percezione della ricchezza. E così il candidato repubblicano è al centro di polemiche anche se guadagnò rilanciando piccole imprese. Cosa si dirà allora di Passera se un domani dovesse entrare in politica?

(02 febbraio 2012)

Più spietato di Wall Street, arricchitosi alle spalle dei poveri lavoratori che ha licenziato". A descrivere così Mitt Romney, il favorito alla nomination repubblicana per le prossime elezioni presidenziali americane, non è la sinistra più estrema, ma Newt Gingrich, il suo rivale conservatore. Non stupisce tanto la spregiudicatezza di Gingrich (nella sua vita ha fatto di peggio) quanto il successo che questa strategia ha conseguito. Nella primaria del Sud Carolina Gingrich ha stravinto ribaltando i pronostici. Anche la base repubblicana, quindi, è sensibile ai toni populisti. La ricchezza di Mitt Romney, stimata tra i 190 e i 250 milioni di dollari, invece che un merito, si è trasformata in una colpa.

In Italia questo non sorprende. La tradizione cattolica ha sempre visto la ricchezza, anche quella accumulata onestamente, come un peccato. "E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago", recita il Vangelo di San Matteo, "che un ricco entri nel regno dei Cieli". Alla tradizione cattolica si somma quella marxista, per cui la ricchezza nasce sempre da una forma di sfruttamento.
In America, invece, la tradizione calvinista dominante ha sempre visto il successo economico come una manifestazione della predestinazione divina. Fino a poco fa la ricchezza (propriamente accumulata) era un titolo di merito. Che cosa è cambiato?

In parte questo è dovuto al modo in cui Romney si è arricchito. Pochi negli Stati Uniti obiettano alla ricchezza accumulata da innovatori come Steve Jobs, il rimpianto fondatore di Apple. Tutti conoscevano Steve Jobs perché creava beni di consumo. Ma chi sa cosa ha creato Mitt Romney, che lavorava nel "private equity"?
In genere i fondi di private equity acquistano, gestiscono e rivendono imprese. Molti in questa industria fanno i soldi in maniera opportunista, sfruttando le occasioni giuste per comprare e vendere, senza aggiungere alcun valore. Altri invece aggiungono valore. Mitt Romney fu tra questi. La sua idea geniale fu quella di applicare la consulenza aziendale al mondo delle piccole imprese in crescita.

I consulenti aziendali sono famosi per dare consigli agli altri, senza assumersi alcun rischio. Quando era manager di Bain Capital, Mitt Romney capì il valore aggiunto dalla consulenza aziendale. A questo scopo convinse i colleghi di Bain & Co di cimentarsi con le piccole imprese, non in cambio di parcelle astronomiche, ma in cambio di partecipazioni azionarie nelle imprese stesse. Se le idee funzionavano, il prezzo delle azioni saliva e i consulenti creavano profitto dai loro consigli. Se invece le idee non funzionavano, lavoravano di fatto gratis. L'idea ebbe immediato successo e fu poi copiata da tutti i rivali in private equity.

Questo rigetto di Romney, però, ha cause più profonde della mancanza di familiarità con il private equity. La prima causa è la perdita di fiducia in un benessere diffuso. In America la disuguaglianza di ricchezza veniva accettata perché era vista come un passo necessario per la crescita. Poco importa se alcuni diventano ricchi, purché anche gli altri beneficino della crescita. Purtroppo nell'ultimo decennio gran parte della crescita è finita ad arricchire la parte più ricca della popolazione. Il 50 per cento degli americani guadagna meno oggi in termini reali di quanto guadagnasse dieci anni fa.

La seconda causa di questo cambiamento di attitudini è che gli americani hanno perso fiducia nell'equità delle regole del gioco. Il salvataggio delle banche da parte del governo e gli scandali finanziari hanno minato la fiducia degli americani in un sistema capitalista dalle regole ben definite. Il sistema sembra taroccato e chiunque vinca in questo sistema è sospettato di aver barato.

Se questo accade nella patria del capitalismo, ci viene da domandarci cosa succederà in Italia. Potrà mai un ex banchiere come Corrado Passera, che non ha certo alle sue spalle il record di successi di Mitt Romney, entrare in politica? Se le scelte di investimento effettuate da Romney sono passate al setaccio, cosa ne sarebbe di quelle di Passera? Più si impegna in politica e più spazio ci sarà per i non meno pericolosi Gingrich di casa nostra.


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« Risposta #52 inserito:: Aprile 11, 2012, 07:09:08 pm »

Un problema sistemico

di Luigi Zingales

11 aprile 2012

Lo scandalo sull'uso personale dei fondi pubblici della Lega, che fa seguito a un simile scandalo riguardante l'ex tesoriere della Margherita, dimostra che la mala gestio e la corruzione non hanno barriere ideologiche: sono presenti in tutti i partiti. Senza togliere nulla alle colpe individuali, non si può ignorare la natura sistemica del problema.
Senza una riforma del sistema, gli errori si ripeteranno.

Purtroppo il dibattito politico sul come riformarlo oscilla tra la demagogia e il gattopardismo. È difficile pensare che dei politici, figli di questo sistema, abbiano le capacità di cambiarlo.
In questo senso, il governo tecnico fornisce un'opportunità unica. Non essendo composto da persone nate e cresciute in questo sistema, ha una vera chance di riformarlo. Per farlo, però, deve essere veramente tecnico, ovvero deve cominciare da uno studio sui pregi e difetti dei sistemi di finanziamento che esistono nelle varie parti del mondo. Ci permettiamo di offrire al governo una prima traccia di quest'analisi. Per cercare di essere il più asettici possibile, ci riferiremo ai dati americani, non perché gli Stati Uniti rappresentino un modello, ma perché sono il sistema più studiato.
Il punto di partenza, anche se impopolare, è che la politica costa. Nel 2008 la campagna presidenziale di Obama costò 760 milioni di dollari. Sembra un'enormità, ma non è molto se lo confrontiamo con le spese di pubblicità che le imprese sostengono per i prodotti più semplici.

Nel 1999 la campagna pubblicitaria per il nuovo rasoio della Gillette costò 300 milioni di dollari. Un presidente sarà più importante di un rasoio!
Il problema non è tanto di costo, ma di rapporto costi benefici. Se questi soldi aiutano i cittadini a selezionare dei rappresentanti migliori, sono soldi ben spesi (il costo di un cattivo governo è di molte volte superiore). Se invece favoriscono la sopravvivenza di un sottobosco di politici mediocri, anche pochi euro sono mal spesi. Quindi, entro limiti ragionevoli, non conta tanto la quantità di denaro spesa in campagne elettorali, quanto l'effetto che questo finanziamento ha sull'efficienza e la rappresentatività del nostro sistema politico.
Il secondo punto è che il finanziamento della politica non può venire lasciato interamente al mercato. Questa affermazione può sembrare strana venendo da chi crede nel mercato. Ma la regola numero uno per l'efficienza del libero mercato è che le scelte di un individuo non influenzino quelle altrui se non attraverso i prezzi. Se Bill Gates preferisce le cravatte rosse a quelle blu, il prezzo delle cravatte rosse probabilmente aumenterà, ma la nostra possibilità di comprare cravatte blu non cambia.

Questa condizione è violata nel mercato politico. La maggioranza impone delle scelte sulla minoranza. Quindi se Bill Gates decide di finanziare massicciamente un candidato, aumentandone la probabilità di vittoria, questo influisce sulla nostra libertà di scelta.
Il secondo motivo per cui il mercato non produce risultati ottimali è che in politica l'incentivo è di battere il rivale, non di eleggere il candidato migliore. Questo porta ad una escalation delle spese elettorali, così come nel calcio c'è stata una escalation degli stipendi dei giocatori.
Questa escalation è tanto più costosa quanto più influenza gli incentivi degli eletti. Oggigiorno il tipico politico americano partecipa a più di 500 fund raising events all'anno. È difficile immaginare che tutti questi eventi non influenzino i suoi voti in parlamento.

Il laissez faire quindi non funziona in politica. C'è la necessità di regole e c'è la necessità di un contributo pubblico. Il rischio, però, è che queste regole e questo contributo siano disegnati a protezione dei partiti esistenti, invece che a favore dell'efficienza ed equità del sistema elettorale nel suo complesso. La competizione elettorale rimane una forza importante. E vera competizione non esiste se non esista la possibilità per nuove formazioni di entrare nell'agone politico.
Per questo ci sentiamo di sottoscrivere la proposta avanzata dal famoso giurista americano Larry Lessig nel suo ultimo libro. Si tratta di un sistema di matching funds. Ogni individuo può donare fino a 100 dollari al suo candidato preferito. Lo Stato a sua volta raddoppierà la cifra raccolta.

Altre forme di finanziamento sono proibite. In questo modo si limita l'ammontare complessivo delle spese elettorali, senza limitare la competizione, anzi rendendola più intensa. Si limita l'influenza dei grossi gruppi sui candidati, ma si limita anche il potere dei partiti sui candidati. Proprio per questo è una proposta che difficilmente sarà sottoscritta dalla segreteria dei maggiori partiti. Ciononostante è una riforma che può trovare consenso in parlamento. Per attuarla negli Stati Uniti Lessig propone una convenzione costituzionale. A noi potrebbe bastare un governo tecnico.

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« Risposta #53 inserito:: Aprile 19, 2012, 05:02:34 pm »

Troppe Authority non aprono il mercato

di Luigi Zingales

19 aprile 2012


Il Governo Monti è giustamente impegnato in una riforma delle “authority”. Affinché questa riforma non si riduca ad un semplice (seppur sacrosanto) taglio della spesa, è giusto chiedersi quali sono le funzioni assolte da queste authority e come tali funzioni possano essere svolte più efficacemente in altro modo.

Il modello delle authority nasce nel 1887 negli Stati Uniti. All'epoca i piccoli coltivatori premevano politicamente per imporre limiti al potere delle società ferroviarie. Domandavano un prezzo «equo», che non avvantaggiasse i grandi coltivatori. Le imprese ferroviarie, inizialmente contrarie, abbracciarono l'idea: capirono che l'Interstate Commerce Commission (l'authority dei trasporti) li avrebbe aiutati a sostenere un cartello di prezzo. E così fu. Da strumento di protezione dei consumatori, l'Icc divenne strumento della loro oppressione, imponendo dei prezzi minimi e sostenendo i profitti delle imprese ferroviarie.

Quando i camion cominciarono a minacciare il monopolio delle ferrovie, il Congresso americano estese l'authority dell'Icc anche ai trasporti su gomma e poi anche agli aerei. Fu solo alla fine degli anni 70 che Carter liberalizzò il settore.
Nonostante il fallimento della prima authority, le agenzie di regolamentazione si moltiplicarono. Oggi negli Stati Uniti se ne contano più di cento. Il modello fu poi esportato in molti paesi, tra cui il nostro. La prima authority italiana fu la Consob nel 1975. Da allora ne sono nate più di 14. Perché? La dottrina ufficiale vuole che questo successo derivi dalla necessità di regolare settori molto specifici, che richiedono elevata competenza, limitando al tempo stesso un'eccessiva influenza dell'esecutivo.

Guardando alla realtà (sia americana che italiana) è difficile credere a questa versione. Salve nobili eccezioni, la competenza dei commissari è generalmente mediocre (basti pensare al macellaio Guazzaloca commissario dell'antitrust). E lungi dall'essere indipendenti dall'esecutivo, le authority spesso ne fanno i voleri, senza sopportare alcuna conseguenza politica. È forse una fortuita coincidenza che l'americana Sec iniziò la causa contro Goldman Sachs all'inizio del dibattito parlamentare sulla riforma finanziaria e la chiuse il giorno in cui la riforma fu approvata dal Senato?
Le authority non sono solo costose ed inutili: sono anche dannose. Invece che proteggere i consumatori, proteggono le imprese esistenti dalla concorrenza, bloccando i nuovi entranti. Quando la francese Groupama acquistò azioni in Premafin la Consob (a mio avviso giustamente) impose l'obbligo di Opa a cascata su tutte le sussidiarie. Groupama si ritirò. Ma oggi che la stessa offerta la fa Unipol, la Consob non si muove. Perché?

Il favoritismo verso le imprese regolate nasce dalla pressione ambientale in cui le authority operano. Se, per esempio, l'Isvap, che vigila sulle assicurazioni, impone regole troppo severe, le società interessate possono ricorrere al tribunale amministrativo, rendendo difficile la vita del presidente dell'ente. Ma se l'Isvap chiude un occhio sulla cattiva gestione di un'impresa assicurativa, chi protesta? Non certo gli assicurati, che non sono informati e, anche se lo fossero, non avrebbero un interesse economico sufficientemente grande da giustificare il costo di una causa. Lo stesso vale per i piccoli azionisti.

E qui sta il paradosso delle authority. Nacquero per proteggere i consumatori, che sono poco informati e troppo dispersi per difendere i propri interessi. Ma falliscono per lo stesso motivo: la scarsa capacità di pressione economica e politica dei consumatori dispersi e poco informati.

La soluzione non è eliminare tutta la regolamentazione, ma cambiare il meccanismo con cui questa regolamentazione viene fatta rispettare. Il motivo per cui gli standard di sicurezza effettivi in America sono così elevati non è dovuto a nessuna authority, ma al rischio di una causa legale. La class action (quella vera, non il simulacro italiano) ristabilisce i rapporti di forza tra i consumatori e i produttori. Un produttore è politicamente più influente perché solitamente ha molto da perdere. Ogni consumatore, invece, ha poco da perdere. Moltiplicata per il numero di consumatori, però, la perdita può essere notevole. La class action permette di aggregare questi casi individuali in un procedimento collettivo: una causa da un milione di euro diventa uguale a un milione di cause da un euro l'una.

Il vantaggio di regole fatte applicare dalle class action, invece che da un'authority, è che chi deve fare rispettare le regole non può essere facilmente “catturato” da interessi politici ed economici. Come è possibile mantenere la neutralità di un presidente di authority (non eletto) che può spostare centinaia di milioni di euro con le sue decisioni? Anche senza tangenti, i meccanismi di pressione non mancano. Se invece qualunque avvocato può fare causa a nome dei consumatori danneggiati, il rischio di cattura non esiste.

Ovviamente, affinché le regole possano essere fatte rispettare dalla class action e non dalle authority, occorre che le regole siano poche e ben chiare. Ma questo è un ulteriore beneficio del sistema alternativo. Oggi regolatori e regolati (per non parlare dei loro avvocati) sono tanto più contenti quanto più la regolamentazione è complicata, perché diventa una fonte di potere per i regolatori e una barriera all'entrata per i regolati. La regolamentazione ideale invece è limitata e semplice. Ma in quanto tale può essere approvata direttamente dal parlamento, che ne risponde all'elettorato. Oggi nessuno è politicamente responsabile di una miriade di regolamenti che pesano sulla nostra economia.
Forse questa riforma è troppo radicale per un governo tecnico. Ma Monti potrebbe almeno ridurre il numero delle authority e far sì che i loro presidenti siano nominati non dall'esecutivo, ma dal Presidente della Repubblica. L'imposizione di rigide norme temporali sulle assunzioni degli ex commissari nel settore privato ridurrebbe il rischio di cattura. Per finire, l'introduzione di una seria norma sulle class action potrebbe supplire alle scarse capacità di enforcement di queste authority. Anche questa riforma limitata sarebbe meglio dello status quo.

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« Risposta #54 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:59:12 am »

Grecia

Il disastro è dietro l'angolo

di Luigi Zingales

Se Atene fallisce l'Italia rischia un contagio economico ma soprattutto politico.

Aumenterebbero le spinte populiste a uscire dall'euro. Con conseguenze disastrose

(18 maggio 2012)

I bookmaker di Londra non accettano più scommesse sull'uscita della Grecia dall'euro: viene data pressoché per certa. A rendere questa scelta inevitabile non sono tanto ragioni economiche, ma ragioni politiche. Basta citare un breve dibattito che ho avuto con un ex consulente del Fondo monetario internazionale. Alla mia richiesta di cosa avrebbe fatto se gli fosse stato attribuito il potere assoluto in Grecia, mi ha risposto che avrebbe seguito fedelmente il piano di austerità e riforme strutturali delineato da Lucas Papademos, il primo ministro tecnico uscente.

Ma quando poi gli ho chiesto che reazione avrebbe avuto se la tensione sociale avesse minacciato il suo potere, ha risposto immediatamente: "Uscirei subito dall'euro". Qui sta il dilemma. Ammesso (e non concesso) che l'austerità funzioni, ha bisogno di tempo. E la gente non può più aspettare. Con il prodotto interno lordo che si è ridotto del 17 per cento dall'inizio della crisi (e continua a scendere), la disoccupazione che è salita al 22 per cento, e più di un giovane su due senza lavoro, i greci non ce la fanno più. Quando non si manifesta in piazza, questo scontento si riflette nelle urne. Dopo la disfatta elettorale dei partiti che hanno concordato il piano di austerità, nessun leader vuole suicidarsi politicamente sostenendolo. La stragrande maggioranza dei greci non vuole uscire dall'euro, ma non vuole neppure accettare il piano di austerità. D'altra parte, il Fmi e la Banca centrale europea non possono fare concessioni sui loro prestiti, per motivi reputazionali. Lo facessero, come potrebbero non garantirle a tutti gli altri Stati debitori in difficoltà? Rimane la possibilità di ulteriori aiuti da parte della Germania. Ma questo sarebbe un suicidio per la Merkel.

In questo contesto, governare la Grecia è come far quadrare il cerchio. Non è un caso se i tentativi di formare un governo si sono esauriti in pochi giorni e i partiti sono più desiderosi di tornare al voto che di assumersi la responsabilità di governo. La Grecia oggi ricorda l'Argentina del 2001, quando i presidenti si succedevano con lo stesso ritmo. Allora finì con il default e la rottura della parità tra il pesos argentino e il dollaro. Qui finirà nello stesso modo. E poi?


L'uscita della Grecia dall'euro implica necessariamente il default dello Stato greco sul suo debito. La Grecia non è in grado di pagare i suoi debiti oggi, tanto meno sarà in grado di farlo dopo aver reintrodotto la dracma, che si svaluterà fortemente rispetto all'euro. Come nel caso dell'Argentina il default sarebbe totale. Una volta pagato il costo politico di un default, allo Stato greco conviene non pagare più nulla. Questo comporterebbe il fallimento delle banche greche, che sono imbottite di titoli di Stato. Per permettere loro di funzionare lo Stato dovrebbe indebitarsi nuovamente per sostenerle. Visto che nessuno vorrà sottoscrivere il suo debito lo farà stampando moneta. Seguirà un'elevata inflazione. Per evitare la fuga di capitali, la Grecia dovrà introdurre controlli ai movimenti di capitale e, probabilmente, anche un congelamento di parte dei depositi bancari, come fece l'Argentina. Almeno all'inizio, però, la svalutazione della dracma ridarebbe competitività alla Grecia. Anche se Atene non ha un forte settore export, una svalutazione del 40-50 per cento può fare miracoli. E se i disordini di piazza si placano la Grecia può diventare la meta turistica d'Europa.

Dal punto di vista economico la Grecia non è un Paese rilevante e questi scenari catastrofici non dovrebbero influenzare direttamente l'economia italiana. L'esposizione del sistema bancario nazionale nei confronti della Grecia è di solo 1,5 miliardi di euro. Indirettamente, però, l'Italia rischia due tipi di contagio. Il primo è un contagio psicologico. Il giorno in cui vedremo i cittadini greci fare la coda per cercare di ritirare i risparmi dalle loro banche, il panico potrebbe diffondersi anche in Italia e in altri Paesi europei a rischio. Se tutti si precipitano in banca, la corsa agli sportelli si trasforma in una profezia autorealizzantesi: a meno di un aggressivo intervento della Bce, le banche non sarebbero in grado di farvi fronte da sole. Né potrebbero gli Stati sovrani, già fortemente indebitati, intervenire in soccorso. Anzi la crisi bancaria trascinerebbe in default anche gli Stati sovrani.

Ma il contagio più pericoloso è quello politico. Le elezioni greche dimostrano che la politica di austerità non paga dal punto di vista elettorale. Meglio cavalcare il populismo. I primi sentori li abbiamo già visti alle amministrative, dove il movimento di Beppe Grillo ha ottenuto importanti risultati invocando la nostra uscita dall'euro. Il suo successo spinge altri a seguirlo. La Lega si sta orientando sulla stessa posizione e anche il Pdl, uscito sconfitto dalle elezioni amministrative, potrebbe muoversi in quella direzione.

Il problema è che l'Italia non è la Grecia. Le nostre grandi imprese e le nostre grandi banche sono indebitate in euro sui mercati internazionali. Uno Stato sovrano ha il diritto di ridenominare tutti i contratti all'interno del suo Paese, ma non può farlo con quelli internazionali, come le obbligazioni emesse a Londra o a New York. Terna, ad esempio, ha più di 4 miliardi di obbligazioni in euro e la maggior parte sono soggette al diritto estero. Quindi se l'Italia uscisse dall'euro, i ricavi di Terna, che opera solo in Italia, sarebbero tutti trasformati ope legis in lire, mentre le sue passività rimarrebbero in euro. Siccome la lira si svaluterebbe del 30-40 per cento rispetto all'euro, questo equivarrebbe a un aumento effettivo del debito di Terna del 30-40 per cento. Per alcune società questo vorrebbe dire il fallimento, per altre una crisi profonda con tagli enormi degli investimenti. In entrambi i casi, sarebbe un costo molto elevato per il Paese.

Nei quattro anni successivi al default l'Argentina perse in totale il 40 per cento del Prodotto interno lordo.
Ma per l'Italia il vero costo di un'uscita dall'euro sarebbe nel lungo periodo. Senza un vincolo esterno, la lira sarebbe soggetta a pressioni inflazionistiche e a continue svalutazioni. Le svalutazioni sono come una droga: stimolano nel breve periodo, ma distruggono nel lungo. L'effetto stimolante della svalutazione svanisce presto, nella forma di prezzi più elevati. E come la droga, le svalutazioni alla lunga distruggono. Favoriscono le imprese meno innovative che competono sul prezzo e non sulla qualità. Se negli anni Settanta e Ottanta ci siamo specializzati in prodotti maturi, oggi soggetti alla competizione cinese, è anche perché le continue svalutazioni hanno favorito gli imprenditori in questi settori. E oggi ne paghiamo il costo in termini di competitività. Se vogliamo rimanere tra i Paesi avanzati, dobbiamo vincere sui mercati internazionali con la qualità, non con il prezzo più basso. Per fare questo abbiamo bisogno di cambiare le nostre istituzioni, non di svalutare. L'euro non è la causa dei nostri mali, ne è solo l'effetto. Aizzare la rabbia popolare contro l'euro serve solo a distrarre l'attenzione dai veri responsabili del nostro declino: la nostra classe politica.


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« Risposta #55 inserito:: Giugno 07, 2012, 10:38:01 pm »

Ecco perché è sbagliato criticare Mediobanca su Generali

di Luigi Zingales

7 giugno 2012


Ci sono poche persone, in Italia o all'estero, che hanno criticato e continuano a criticare la corporate governance italiana come me. E ci sono poche persone, in Italia e all'estero, che hanno criticato (e continuano a criticare) il sistema di potere che ruota intorno a Mediobanca come me. Eppure questa volta non capisco perché il Financial Times sia andato a testa bassa contro il cambio della guardia a Generali.
«Qualsiasi mossa di Mediobanca per espellere Perissinotto sarebbe considerata dal mercato un segnale terribile» scriveva con aria minacciosa l'FT sabato, citando un anonimo investitore, nonostante il titolo Generali fosse salito quando i rumor di un cambio di guardia si erano diffusi sul mercato. Dopo il fatto, l'FT calcava la dose scrivendo «il colpo che ha defenestrato Perissinotto ricorda ere passate del mondo societario italiano, quando decisioni importanti per imprese quotate erano prese a porte chiuse e gli azionisti di minoranza scoprivano il destino del loro investimento aprendo il giornale la mattina». A leggere l'FT sembra quasi che nel mondo societario anglosassone i Ceo siano scelti per referendum su internet.

Poi, a conferma delle minacce della vigilia, l'Ft cita un ex-ambasciatore Usa a Roma, Mel Sembler, che dichiara «L'iniziativa di rimuovere Perissinotto da Ceo di Generali è mal congegnata e trasmette un'immagine negativa dell'Italia al mondo». Certamente al "suo" mondo, visto che dall'Ina di Perissinotto aveva comprato l'ex-palazzo Massimo Colonna, da lui fatto ridenominare Palazzo Mel Sembler. Sarò il solito bastian contrario, ma a dispetto dell'Ft, penso che questa decisione rappresenti una svolta positiva nella corporate governance in Italia.

Che la gestione di Perissinotto lasciasse a desiderare non lo avevo scritto solo io qualche mese fa, ma l'avevo detto il fondatore di Luxottica Del Vecchio, uno che di management se ne intende e che in Generali ha messo i soldi suoi, non quegli altrui. Se a Mediobanca c'è da rimproverare qualcosa non è che si sia mossa, ma che si sia mossa troppo tardi, forse spinta solo dal timore del suo amministratore delegato che a prendere il posto potesse essere lui. Ma ben venga. Alcuni economisti chiamano le recessioni "cleansing" (che fanno pulizia), perché spingono le imprese ad eliminare inefficienze, incluse quelle ai vertice delle imprese.

L'FT non poteva avere maggiormente torto quando accusa che la decisione sia stata presa «dietro porte chiuse». Questa è una delle poche decisioni che è stata presa in consiglio con un voto controverso. È non solo naturale ma anche giusto che sia stata preceduta da una discussione tra gli azionisti, d'altra parte sono loro che ci mettono i soldi. Non so quale ruolo Mediobanca abbia avuto in queste discussioni, ma di certo non ha dettato legge. Senza i voti di Caltagirone, Scaroni, Pelliccioli, e di due indipendenti di minoranza, la mozione di sfiducia non sarebbe mai stata approvata. Vista la consuetata e deplorevole fuga di notizie, direi che non ci sia stata decisione più trasparente e meno "a porte chiuse" di questa. Il fatto stesso che i tre indipendenti di minoranza abbiano votato � a quanto risulta - in modo differenziato è dimostrazione dell'indipendenza di questa scelta: il dissenso è naturale quando la gente pensa con la propria testa.

Il nuovo manager poi non ha le caratteristiche tipiche del protetto di Mediobanca. Sembra un manager capace e indipendente che porta un po' di aria fresca a Trieste. L'università di Trieste ha ottime facoltà, ma possibile che tutti i manager del Leone dovessero venire da lì?

L'unico aspetto negativo della faccenda è stato il clamore mediatico sollevato da Perissinotto per cercare di salvare la propria posizione. Con una tenacia degna dei migliori politici democristiani, non ha esitato a trascinare in basso la sua società pur di rimanerne al vertice. Se c'era dubbio alcuno che non fosse più la persona giusta per guidare il Leone, il suo comportamento recente lo ha fugato.

Nei miei studi accademici mi sono occupato dell'importante ruolo che i giornali giocano nella corporate governance. Proprio perché importanti, anche i giornali sono spesso vittime delle pressioni delle parti in causa. Talora si tratta solo di un oculato spin, che le agenzie di public relation riescono a comunicare ai giornalisti. Per esempio, Bill Browder, manager del fondo Hermitage, era un mago nell'influenzare lo spin degli articoli pubblicati sulla stampa angloamericana riguardanti le imprese russe in cui aveva investito. Nel suo caso si trattava di esporre violazioni di corporate governance e conflitti di interesse, quindi era solo che positivo. Ma alcuni articoli assomigliavano un po' troppo alle presentazioni preparate dall'Hermitage fund, che in genere non veniva neppure citato come fonte.

Spesso la colpa è solo di alcuni giornalisti che per pigrizia si fanno "catturare" dalle loro fonti. La qualità e l'autorevolezza di un giornale consiste anche nel saper contrastare le sollecitazioni che ricevono dagli "spin doctor" e nel prevenire che i suoi giornalisti si facciano "catturare" dalle loro fonti.

Giustamente l'FT ha una ottima reputazione in questo campo. Ma proprio per questo, prima di criticare la governance in Italia, dovrebbe essere sicuro di presentare sempre un'analisi bilanciata dei fatti.
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 20, 2012, 11:20:32 pm »

Opinione

La crisi è colpa dei corrotti

di Luigi Zingales

Altro che articolo 18: in Italia l'economia non cresce a causa dei troppi ladri e dei furbetti, sia nella politica sia nelle imprese. Non è un'opinione, parlano i dati. E finché non ci sarà una rivoluzione morale, non ne usciremo

(12 giugno 2012)

Era il 1981 e in un'intervista su 'la Repubblica' Enrico Berlinguer, capo dell'allora Partito comunista, sollevava la 'questione morale' contro il sistema di potere democristiano. «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela - diceva Berlinguer - gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi». Sono passati più di trent'anni. La Democrazia cristiana non c'è più, il Partito comunista nemmeno. Ma la questione morale resta, anzi si è metastatizzata nel settore privato. Non si tratta più solo di politici che prendono soldi per finanziare illecitamente i loro partiti. Non ci si limita neanche ai politici che favoriscono gli amici, ricevendone in cambio vacanze, denaro, perfino case. Il cancro ha raggiunto ogni aspetto della società civile. I banchieri sono accusati di prendere mazzette per concedere credito, perfino i calciatori sono accusati di percepire tangenti per perdere le partite. Da tema solamente politico, la questione morale è diventata una questione economica: la causa ultima del mancato sviluppo dell'ultimo decennio. Se le nostre imprese non crescono, non è tanto per il famigerato articolo 18, ma per l'amoralità economica diffusa nel nostro paese.

NON E' SOLO LA MIA OPINIONE: sono i dati a dirlo. Nei paesi in cui c'è maggiore fiducia nell'onestà dei propri concittadini le imprese sono più grandi. Il motivo è che un proprietario delega i suoi poteri solo quando si fida del dipendente, perché tanto più delega, quanto più è il rischio che un dipendente infedele ne approfitti: rubando o arricchendosi alle sue spalle. L'impossibilità di delegare dovuta alla mancanza di fiducia forza le imprese a rimanere piccole. Per questo non si espandono, per questo non vogliono cedere il controllo, che vale nel nostro paese molto di più che negli altri. La mancanza di fiducia diffusa impedisce anche i meccanismi di selezione meritocratica. Se temo che il manager sia infedele, scelgo il nipote, il parente, l'amico anche quando costoro sono meno competenti. Per questo la qualità dei manager non è sempre delle migliori: in Italia la fedeltà fa premio sulla competenza. Perché in Italia non ci si può fidare? Perché un sondaggio tra i manager dei principali paesi europei colloca quelli italiani all'ultimo posto nella classifica dei colleghi di cui ci si può fidare? Perché in Italia prevale la cultura della furbizia invece che quella dell'onestà. In Italia il conflitto di interessi è così diffuso da non essere neppure percepito come un problema, se non per motivi politici contro Berlusconi.

UN EX MANAGER di una grande azienda italiana mi raccontava fiero come grazie al suo ingegno fosse nato uno dei fornitori dell'azienda stessa. Ma come, lavorando per un'azienda regalava opportunità di investimento a dei fornitori? E cosa riceveva in cambio? E' solo un caso che, licenziato dall'impresa per cui lavorava, quel manager sia finito a dirigere l'azienda fornitrice? La cosa più sorprendente era l'assenza di qualsiasi forma di rimorso nel suo racconto. Anzi c'era la fierezza di chi è stato più furbo. Nel lanciare la questione morale Berlinguer rivendicava la diversità del Partito comunista. La sua speranza era di cambiare l'Italia. Invece fu l'Italia a cambiare la diversità comunista. Lo stesso accadde dieci anni dopo con la Lega. Oggi ci riprova il MoVimento 5 Stelle. Fintantoché la questione morale rimane un pretesto per affermare la superiorità della propria parte politica, ogni riforma è destinata a fallire. Marce non sono solo le persone al potere, marcio è il sistema di valori. Ma è possibile cambiare un sistema di valori? Sì, se esiste una consapevolezza diffusa che questa amoralità non può più essere tollerata. In America le tensioni razziali degli anni Sessanta crearono la consapevolezza che il razzismo non poteva essere più tollerato. Ne seguì uno sforzo collettivo per sradicare questa malapianta. Oggi gli Stati Uniti hanno un presidente nero. Se la crisi economica che stiamo vivendo desse a tutti la consapevolezza che dobbiamo cambiare, questa crisi non sarebbe venuta invano

 
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 04, 2012, 09:50:20 am »

Crisi

Amo il mercato, ma non così

di Luigi Zingales

"Lo scandalo Libor dimostra che il capitalismo ha bisogno di regole giuste. E che le grandi banche non hanno alcun interesse a farsele imporre.
Quindi serve un controllo democratico. E lo dico da liberista"

(30 luglio 2012)

In apparenza sono tempi duri per chi, come me, crede nel mercato. Non passa giorno che non ci sia un nuovo scandalo: da top manager condannati per insider trading a banche che perdono cifre astronomiche. Ma lo scandalo di gran lunga più importante è senza dubbio quello che ha coinvolto il London Interbank Offer Rate, meglio noto come Libor. Il Libor è per il dollaro quello che l'Euribor è per l'area euro: il tasso di interesse di riferimento cui sono indicizzati i mutui immobiliari e i prestiti che le banche fanno alle imprese. In America a essere legati al Libor sono anche molti prodotti derivati. Per proteggersi contro variazioni dei tassi, banche e imprese entrano in contratti che pagano in funzione del livello del Libor a una data futura. Il totale di contratti derivati ancorati al Libor è stimato in 350.000 miliardi di dollari. Con queste cifre anche un punto base di differenza (ovvero un centesimo di punto percentuale) nel Libor si traduce in 35 miliardi di dollari l'anno.

C'è chi uccide per molto meno. Per tradizione il Libor viene fissato a Londra dall'Associazione bancaria britannica, che poco prima delle 11 raccoglie le quotazioni di un pool di 18 banche. Per eliminare deviazioni estreme (e ridurre la possibilità di manipolazioni), l'Abb elimina le tre quotazioni più basse e le tre più alte e calcola la media del resto. Questo è il tasso di riferimento. Da tempo giravano voci di possibili manipolazioni, ma erano sempre state smentite con sdegno dall'Abb. Quest'anno, però, un'indagine congiunta americana ed inglese ha messo in luce dei fatti scioccanti. Barclays ha falsato le sue quotazioni non solo durante la crisi finanziaria, ma anche nel biennio precedente. «Per favore vai ancora per un Libor a 5.36» si legge in un'e-mail del 2007 scritta da un trader di Barclays al collega che doveva riportare la quotazione -«è molto importante che il dato ufficiale sia il più alto possibile». Molte e-mail si susseguono. Barclays è stata la prima banca ad ammettere la colpa e pagare una sanzione. Altre seguiranno. Scandali di questo tipo minano la fiducia nel mercato. Soprattutto in momenti come questo, dove noi italiani viviamo sotto l'incubo dello spread. Non vediamo l'ora di poter accusare il nostro tiranno di essere manipolato. Purtroppo per noi lo scandalo del Libor dimostra il contrario: l'importanza di affidarsi a veri prezzi di mercato e non a opinioni, per quanto provenienti da esperti.

Perché il Libor non è un prezzo di mercato. E' la risposta delle banche alla domanda: "A che tasso potresti prendere a prestito se decidessi di farlo". Se il prezzo fosse corrisposto a una transazione effettiva, Barclays non avrebbe potuto tenere artificialmente basso il Libor senza la collaborazione di un'altra banca, e l'altra banca avrebbe dovuto pagare un costo (in rendimenti più bassi). Così invece mentire era più semplice e meno costoso. Il secondo problema del Libor è che, a differenza della maggior parte dei prezzi di mercato, viene calcolato sulla base di un numero molto ristretto di banche (18 contro le 43 dell'Euribor), la metà delle quali viene eliminata dalla procedura di calcolo. Questo dà troppo potere a ciascuna banca del panel. Il mercato funziona solo quando è composto da tanti trader indipendenti. Tanto più il mercato è concentrato, tanto peggio funziona. La vera domanda da porsi è perché un indicatore tanto importante è calcolato in modo così poco serio. La risposta è molto semplice: questioni di potere. L'Abb e i suoi associati vogliono mantenerne il controllo. Per questo hanno ostacolato qualsiasi cambiamento. Il mercato, con le regole giuste, funziona. Ma chi ha l'interesse che le regole siano giuste? Non le grandi banche, che guadagnano dalle inefficienze, né i regolatori, che hanno preferito ignorare il problema. Senza un sano controllo democratico il capitalismo diventa corrotto. Questa corruzione non si risolve sopprimendo il mercato, ma rendendo il mercato più trasparente, più competitivo, più... vero mercato.
 
 
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da - L'ESPRESSO
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« Risposta #58 inserito:: Agosto 27, 2012, 05:32:05 pm »

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Economia

Perché Facebook ha fatto flop

di Luigi Zingales

L'azienda di Zuckerberg è una buona impresa, ma nessuno sa quali saranno veramente i suoi incassi. Eppure l'hanno piazzata a Wall Street a un prezzo altissimo, non considerando il peso che ha sempre, in Borsa, l'incertezza

(27 agosto 2012)

Per capire il crollo di Borsa di Facebook bisogna realizzare che esiste una differenza tra un buon investimento e una buona impresa. Facebook è certamente una buona impresa. Con quasi un miliardo di utilizzatori, più di 3 miliardi di dollari di ricavi e un tasso di crescita del 33 per cento all'anno, Facebook rappresenta il sogno di ogni imprenditore. Il valore di Facebook non è solo che possiede l'accesso a un miliardo di consumatori, ma che di questi consumatori sa tutto: la loro passione per il vino, se hanno un cane, se viaggiano e dove viaggiano, se sono in cerca di un fidanzato, addirittura se sono tristi. Questi dati hanno un valore incredibile per chi fa marketing.

Il modo tradizionale di fare pubblicità sulla carta stampata e la televisione è molto inefficiente. Al lettore settantenne non interessano le pubblicità di biberon, come al lettore ventenne non interessano quelle sulle dentiere. In parte i pubblicitari cercano di segmentare il tipo di programma o giornale su cui comprano spazi. Se vogliono raggiungere i più giovani fanno pubblicità su Mtv, se invece vogliono raggiungere i consumatori più maturi sponsorizzano un programma con Pippo Baudo. Ma queste metodologie di marketing stanno alle potenzialità di Facebook, come i calcoli balistici stanno ai proiettili teleguidati con il laser. La pubblicità per i biberon non sarà diretta semplicemente "ai giovani", ma solo a coloro che hanno appena avuto un figlio. Non solo, in funzione del livello del reddito del neogenitore (che può venir facilmente desunto dalle sue abitudini di consumo visibili su Facebook) il tipo di biberon e di offerta promozionale saranno diversi. Per finire, seguendo i link utilizzati si può avere un feedback immediato sul successo della campagna pubblicitaria.

Come potete facilmente immaginare le potenzialità sono infinite. Non altrettanto i profitti. Altri protagonisti (da Linkedin a Google+) competono sullo stesso mercato ed altri entreranno. Allo stesso tempo un cambio della regolamentazione sulla privacy dei dati può ridurre molto i profitti futuri. Per questo è così difficile stabilire quanto valga Facebook. La Borsa valuta le imprese in base al valore scontato dei profitti attesi. Per un'impresa come At&T, con profitti stabili, è relativamente semplice prevedere i profitti futuri e quindi determinare un plausibile valore di Borsa. Per Facebook no.

Proprio per questo titoli come Facebook si prestano facilmente a speculazioni. E' come il titolo di una miniera d'oro di cui non si conosce l'entità, pronto tanto all'entusiasmo quanto al panico. Abbiamo già visto questo fenomeno alla fine degli anni Novanta, con la bolla Internet. A fronte di alcune imprese solide (come Amazon), ce n'erano tante con valutazioni iperboliche basate su improbabili profitti futuri, che poi sono miseramente fallite.

Aspettandosi un simile entusiasmo, Morgan Stanley, che ha quotato il titolo, ha alzato il prezzo al massimo. Quando un titolo è prezzato in base alle migliori previsioni, non può che deludere. A luglio il prezzo di Facebook è sceso del 10 per cento quando la società ha annunciato utili pari alle previsioni: paradossalmente tutti si aspettavano utili superiori alle attese. In aggiunta, la forte caduta di prezzo dalla data di quotazione (quasi il 50 per cento) ha innervosito i dipendenti e gli investitori iniziali. Si erano sentiti ricchi il giorno della quotazione e ora vedono questa ricchezza dimezzarsi. Memori di quello che è successo a molti degli imprenditori Internet, vogliono mettere del fieno in cascina. Se il vostro gruzzolo oggi vale un milione, ma può salire a 3 o scendere a 300 mila, siete disposti a rischiare? Molti non lo sono. Per questo vendono creando pressione al ribasso sul titolo. Da oggi a novembre 1,4 miliardi di azioni (sul totale di 2,7 miliardi in circolazione) saranno progressivamente liberate da vincoli contrattuali alla vendita. Questo rende probabili ulteriori cadute del titolo da qui a fine d'anno. Anche a un prezzo dimezzato rispetto alla quotazione Facebook non sembra oggi un buon investimento. Anche se è un'ottima impresa.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-facebook-ha-fatto-flop/2189515/18
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« Risposta #59 inserito:: Settembre 29, 2012, 10:54:44 am »

Opinione

Il vero rischio è la deflazione

di Luigi Zingales

Le immissioni di liquidità decise da Bce e Fed servono a evitare una caduta dei prezzi, più pericolosa dell'inflazione. E a ridurre i tassi sul debito pubblico. Ma in cambio Draghi impone ai governi condizioni pesanti. Ecco perché

(20 settembre 2012)

Il torchio - disse Grigori Sokolnikov, ministro delle Finanze di Lenin - è la mitragliatrice del proletariato, che spazza via le classi agiate». Eppure oggi a manovrare i torchi elettronici che battono moneta non sono i rivoluzionari bolscevichi, ma i più ortodossi banchieri centrali. Il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha promesso di stampare 40 miliardi di dollari al mese, mentre il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, si prepara a stampare "whatever it takes" (costi quel che costi) per calmierare i tassi di interesse dei paesi a rischio. Ma a gioire sono proprio i ricchi, da Wall Street a Piazza Affari, mentre l'uomo della strada teme l'inflazione. Che sta succedendo?

Innanzitutto, è necessario capire che la liquidità presente in un sistema economico non è rappresentata solo dalle banconote in circolazione (ed equivalenti elettronici) ma anche dai depositi bancari. Ogniqualvolta una banca apre una linea di credito a un cliente, aumenta la liquidità presente nel sistema. Il collasso di alcune banche e l'estrema fragilità di molte altre hanno ridotto il credito accordato, riducendo la liquidità aggregata. Questa riduzione spinge l'economia mondiale verso una pericolosa deflazione, ovvero una riduzione generalizzata dei prezzi. La deflazione è ancora più pericolosa dell'inflazione: con ricavi in diminuzione le imprese indebitate falliscono, mentre consumatori ed investitori, invece di spendere, ammassano liquidità, scommettendo che domani potranno comprare/investire a prezzi migliori.

PER CONTRASTARE il rischio di deflazione, le banche centrali hanno cercato di pompare più liquidità (leggi moneta) nel sistema. Purtroppo il canale tradizionale per farlo (ovvero il sistema bancario) è fortemente danneggiato. E' come innaffiare un giardino con una canna bucata: per quanta pressione si usi, il risultato lascia a desiderare. Per questo Ben Bernanke si è dovuto inventare nuove tecniche, tra cui il famigerato quantitative easing. Il nome esoterico nasconde la semplicità dell'idea: la banca centrale stampa moneta con cui compra titoli pubblici. In questo modo ottiene due obiettivi: aumenta la liquidità del sistema e riduce i tassi di interesse a lungo termine. Ai non addetti ai lavori questa manovra può sembrare folle, simile al finanziamento con moneta del deficit pubblico che in Italia portò l'inflazione al 20 per cento. In realtà, esiste una grossa differenza. La moneta emessa per finanziare il deficit non può essere facilmente ritirata dal sistema. Al contrario, se la moneta è emessa per comprare titoli, la banca centrale può ridurre la massa monetaria rivendendo i titoli che ha acquistato. Per questo la prima manovra genera necessariamente inflazione, mentre la seconda no. Ovviamente questa differenza sussiste solo nella misura in cui lo Stato sovrano non faccia default. Qualora i titoli pubblici non valessero più nulla, le due operazioni avrebbero esattamente lo stesso effetto.

SE QUESTA MANOVRA riesce nel suo intento, evita una caduta dei prezzi e riduce i tassi di interesse sul debito pubblico. Da un lato questo ha effetti benefici sul peso del debito (e quindi anche sul rischio di default). Dall'altro, riduce gli incentivi politici a contenere il deficit (e quindi il debito).

Per questo, Draghi ha promesso di intervenire solo a condizioni politicamente molto pesanti (un paese deve andare a Canossa e chiedere aiuto all'Europa). Queste condizioni, necessarie per evitare un abuso da parte dei governi europei, rischiano di svuotare l'effetto di liquidità desiderato. In America il quantitative easing (alla terza edizione) sembra essere stato abusato. Se dopo quattro anni dall'inizio della crisi, l'economia non si avvicina al pieno impiego, le cause non possono essere solo monetarie. Cercare di guarirle con il quantitative easing rischia di essere un errore. Ma in Europa il quantitative easing è stato sotto utilizzato. Con un'economia in recessione, il rischio di inflazione è molto remoto. Il vero rischio è quello della deflazione. Per combatterlo non basta promettere liquidità, bisogna immetterla nel sistema.


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