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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108207 volte)
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« inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:56:17 am »

27/12/2007
 
Un governo per crescere
 
LUCA RICOLFI

 
La minaccia al premier è un classico di questa legislatura: se non fai come dico io non ti sostengo più, e se io non ti sostengo tu sei costretto a fare le valigie. Più o meno scopertamente l’hanno esercitata un po’ tutti, partiti, sindacati, ministri, sottosegretari, singoli politici della maggioranza. Che ora ci riprovi per l’ennesima volta Lamberto Dini non sarebbe una notizia, se non fosse che - con l’approvazione della Finanziaria - la minaccia è diventata improvvisamente credibile. Fino a ieri si scherzava, perché tutti avevano qualche motivo - talora buono, più spesso cattivo - per evitare il naufragio della Finanziaria.

E con essa della solita miriade di provvedimenti di spesa caldeggiati da partiti, correnti, gruppi, singoli parlamentari. Ma adesso non più, il carrozzone è ormai transitato e possiamo ricominciare finalmente a litigare sul serio. Dini, dopo aver ingoiato il rospo della Finanziaria, ha fatto la prima mossa del nuovo gioco, gli alleati gli sono subito volati contro, l’opposizione di centro-destra gongola. Forse Prodi cadrà e nel giro di qualche mese avremo un nuovo governo, nuove elezioni, o entrambe le cose. Anno nuovo governo nuovo. Sarebbe un bene per l’Italia?

Non è affatto detto, anche se è difficile immaginare un esecutivo ancora più dannoso e scomposto di quello che ci ha governati in questa legislatura. Se Prodi dovesse cadere lo scenario più probabile sarebbe quello di un governo che dimentica i (noiosi) problemi della gente comune - potere di acquisto, sicurezza, Stato sociale, infrastrutture - e si concentra sulle delizie dei professionisti della politica: riforme istituzionali, legge elettorale, regolamenti parlamentari. Insomma, un 2008 divertentissimo per loro e noiosissimo per noi. Perché è improbabile che un nuovo governo affronti i problemi che più stanno a cuore alla gente comune?

Una prima ragione è che i nostri politici si sono autoconvinti che se non riescono a decidere non è colpa loro, ma delle istituzioni. Si sentono come Schumacher alla guida di una Cinquecento. Non riuscendo a fare un solo metro di strada, aspettano che il Parlamento regali loro una Ferrari - ossia istituzioni nuove di zecca - per farci vedere di che cosa siano capaci. Ma c’è una ragione più seria che mi rende scettico sulle chance di un nuovo governo. Se Prodi cadrà, sarà per mano del «partito del rigore», anche se - verosimilmente - la colpa verrà addossata a Rifondazione comunista e ai suoi satelliti. Il nuovo esecutivo, di fatto, governerà contro Rifondazione e i sindacati, e proverà a fare quel che Prodi e Padoa-Schioppa hanno sempre promesso nei loro Dpef, senza però mai mantenere l’impegno a causa dell’opposizione della sinistra estrema: una politica tecnocratica, che punta a risanare i conti tenendo alta la pressione fiscale e tagliando la spesa corrente. È facile prevedere che una simile politica, anche ammesso che sia ragionevole, non avrebbe alcuna possibilità di passare in un Paese con i problemi dell’Italia di oggi. Ma è ragionevole una simile politica?

A mio parere no. La sinistra estrema ha torto a snobbare il problema del debito pubblico, a invocare ogni volta nuove spese senza mai concedere contropartite, a credere che le risorse che mancano si possano mettere sul piatto semplicemente evocando Robin Hood, ossia un trasferimento massiccio di quattrini dai ricchi ai poveri, dai profitti ai salari. Ma la sinistra estrema ha perfettamente ragione a ricordarci che il potere di acquisto delle famiglie è drammaticamente insufficiente e ha subito proprio quest’anno una serie di colpi gravissimi. Così come ha ragione a ricordarci che lo Stato sociale italiano è sì sprecone ma è anche incompleto: mancano asili nido, servizi agli anziani, ammortizzatori sociali, politiche contro la povertà, tutte cose che i difensori del rigore non amano sentirsi ripetere.

Il problema centrale che un nuovo governo dovrebbe affrontare, in altre parole, non è di liberarci finalmente dalla sinistra estrema, ma di prenderne sul serio i problemi senza sposarne le soluzioni.

Insomma, liberarci dal partito della spesa senza consegnarci a quello dei banchieri. Questa doppia liberazione richiederebbe, a mio parere, tre impegni fondamentali. Il primo è di non destinare i risultati della lotta all’evasione a nuove spese bensì ad azioni incisive di promozione della crescita, a partire da una vera riduzione delle imposte che gravano sulle attività produttive (il contrario di quel che si è fatto con le ultime due finanziarie), per poi passare a sgravi in favore delle famiglie. Il secondo impegno è quello di rafforzare lo Stato sociale esclusivamente mediante meccanismi virtuosi, come l’obbligo di copertura di qualsiasi nuova spesa mediante una quota rilevante - ad esempio il 70% - ricavata dall’eliminazione di sprechi. In concreto, un meccanismo abbastanza simile al cosiddetto cofinanziamento: il ministro X vuole spendere 100 per un nuovo servizio, il governo gli concede 30 ma solo dopo che il ministro ha già raccolto 70 eliminando sprechi in un servizio preesistente (secondo valutazioni prudenti, gli sprechi eliminabili senza ridurre i servizi erogati superano ampiamente i 50 miliardi di euro all’anno). Il terzo impegno è a non bruciare l’intero avanzo primario per la riduzione del debito, puntando invece sulla crescita e - fintantoché la crescita da sola non bastasse - su un piano oculato di dismissioni e privatizzazioni (a qualcuno sembrerà sorprendente, ma un misero 0.8% in più di crescita del Pil sarebbe bastato, negli ultimi dieci anni, ad abbattere il rapporto debito/Pil dell’Italia senza alcun sacrificio aggiuntivo).

Un programma del genere, allo stato attuale, non piace né alla destra né alla sinistra, perché non promette miracoli a nessuno. Esso ha però forse il vantaggio di salvare le ragioni che hanno condotto tanti italiani a sperare nel centro-sinistra, e al tempo stesso di non ignorare le ragioni che portano oggi tre italiani su quattro a voltare le spalle al governo Prodi.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 09:18:01 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 10, 2008, 07:58:00 pm »

10/2/2008
 
Incantesimo finito
 
LUCA RICOLFI
 
Nessuno sa ancora con certezza che cosa troveremo sulla scheda elettorale.

Può darsi che il Partito democratico (Pd) si presenti in perfetta solitudine.


O alleato con un piccolo numero di partiti satelliti, come l’Italia dei Valori, i Socialisti, i Radicali. Può darsi che il nuovo partito di Berlusconi e Fini (Pdl) si presenti da solo, o alleato con un numero più o meno grande di partiti piccoli e piccolissimi, come la Lega, l’Udc, il Partito di Mastella, quello di Storace, e così via. Può darsi che la politica di domani si riveli un po’ migliore di quella di oggi, come può darsi che - dopo le elezioni - tutto torni come prima. E tuttavia c’è un punto sul quale, comunque vadano le cose, non possiamo non essere grati a Veltroni, quali che siano le nostre idee. La mossa di Veltroni (ma sarebbe più giusto dire: la mossa di Veltroni e Rutelli, che per primo ebbe il coraggio di parlare di «alleanze di nuovo conio»), ha mostrato qualcosa che fino a poche settimane fa nessuno voleva vedere, e cioè che la legge elettorale era un falso problema, per non dire un alibi della classe politica. Sì, avevamo e abbiamo una cattiva legge elettorale, ma il cuore del problema italiano non è la legge elettorale bensì l’immobilismo della sua classe politica. È bastato che un singolo uomo politico, investito della responsabilità di guidare il maggiore partito della sinistra, trovasse il coraggio di fare un gesto chiaro e forte, che tutto si è rimesso improvvisamente in movimento.

Il nostro vituperato «bipolarismo muscolare», di cui quasi tutti incolpavano la legge elettorale, si è rivelato per quello che è: lo specchio delle paure della nostra classe politica, incapace di assumere dei veri rischi, lanciare delle vere sfide, compiere delle scelte chiare. Dopo il gesto di Veltroni, gli elettori hanno la prova tangibile che la vera origine dei nostri mali non sono le regole (che possono solo aggravarli) ma sono gli uomini. Dopo Veltroni, nessun leader degno di questo nome potrà dire, fatalisticamente: «vorremmo fare diverso, ma finché c’è questa legge elettorale non possiamo che fare così». No, cari uomini politici, il gesto di Veltroni vi ha ricordato che la politica la fate voi, e che l’impotenza della politica non era l’esito inevitabile di regole sbagliate, ma il frutto amaro delle vostre non scelte. È vero, la politica è l’arte del possibile, ma i confini fra ciò che è possibile e ciò che non lo è non sono dati una volta per tutte, perché dipendono in modo cruciale da quel che i politici osano immaginare.

Vista da questa angolatura, la sfida di Veltroni segna la fine di un incantesimo. Essa, che Veltroni lo voglia o no, permette all’elettore di sinistra di rivedere in una luce radicalmente nuova il film della legislatura che ora si chiude. Per due lunghi anni Prodi ci ha raccontato che erano i partiti a imporgli di moltiplicare i ministeri, erano i partiti a frenare l’azione del suo governo, erano i partiti a costringerlo a estenuanti mediazioni. Eppure quei medesimi partiti, dopo la crisi di un anno fa, avevano solennemente promesso che in casi di dissidi si sarebbero rimessi alla sua autorità. Perché Prodi non ha mai usato questa investitura, e ha preferito mettere in frigorifero tutte le questioni più spinose? Chissà, forse perché Prodi, a differenza di Veltroni, accetta che siano gli altri a stabilire i confini del possibile.

Ma la sfida di Veltroni rompe anche un altro incantesimo, quello dell’ineluttabilità dell’assetto storico del centro destra. È perfettamente possibile (e a mio parere anche probabile) che Berlusconi non abbia il medesimo coraggio di Veltroni, e che la nuova alleanza che si va definendo in questi giorni finisca per somigliare molto a quelle del 2001 e del 1994: i soliti quattro partiti, i soliti quattro leader, le solite parole d’ordine. Però anche in questo caso nulla sarebbe come prima. Il mero fatto che Berlusconi abbia dovuto prendere in considerazione l’eventualità di andare da solo, gli toglie automaticamente la giustificazione da tutti usata in questi anni: se gli altri fanno così noi non possiamo fare diverso, con questa legge elettorale non si possono evitare le grandi ammucchiate. Se Berlusconi riproporrà le solite alleanze, dovrà spiegare perché lo ha fatto e che cosa ci garantisce che i conflitti interni del 2001-2006 (ricordate il «subgoverno» di An e Udc?) non si ripetano nella prossima legislatura.

D’ora in poi, qualsiasi cosa facciano Veltroni e Berlusconi, sarà ad essi che gli elettori potranno e dovranno chiedere conto. E anzi, da questo punto di vista il fatto che la legge elettorale non permetta agli elettori di scegliere i candidati, renderà ancora più significative le scelte dei maggiori leader. Se Berlusconi candiderà Mastella e Storace, sarà difficile credergli quando prometterà di eliminare gli sprechi della Sanità. E se Veltroni accoglierà nelle sue liste politici rinviati a giudizio o condannati, sarà difficile credergli quando proverà a incantarci con la «bella politica». Naturalmente, quello di Veltroni è solo un primo passo, ma è un passo importante. Esso ha mostrato a tutti che l’impotenza della politica non dipende dal «sistema» ma dalla politica stessa. Speriamo che questa scoperta aiuti i cittadini a diventare meno scettici e i politici a diventare meno irresponsabili.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Agosto 03, 2008, 12:18:52 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 19, 2008, 12:20:34 am »

18/2/2008
 
Elezioni e promesse dei leader
 
LUCA RICOLFI

 
Veltroni ha presentato sabato le promesse del Partito democratico (Pd), fra una settimana circa Berlusconi presenterà quelle del Popolo della libertà (Pdl). È probabile che, al netto delle parole in cui saranno avvolte, le promesse finiscano per rivelarsi affini. Più sicurezza, meno tasse, sostegno ai redditi bassi, aiuti alla famiglia, contenimento della spesa pubblica, misure per la competitività, alleggerimenti fiscali sugli straordinari: chi avrà il coraggio di non ripetere le solite promesse?

Il punto dunque non è che cosa Pd e Pdl ci promettono, ma che garanzie offrono di mantenere le promesse. Di solito chi solleva questo problema aggiunge che ogni promessa costosa (come la soppressione dell’Ici sulla prima casa, o il bonus per i nuovi nati) dovrebbe essere accompagnata da un'indicazione precisa delle relative «coperture», ossia dei soggetti su cui verrebbe fatto gravare il peso finanziario della promessa. Giustissimo, ma da sempre i politici hanno escogitato un modo sicuro per aggirare la domanda. Alla richiesta di indicare le coperture rispondono: a) recupero di evasione fiscale; b) riduzione degli sprechi nella pubblica amministrazione; c) maggiore crescita. E il discorso finisce lì.

Andrà così anche in questa campagna elettorale, e quindi non proviamo nemmeno a scongiurare i politici di rivelarci «dove prenderanno i soldi» per fare le meravigliose cose che ci promettono. Non ce l’hanno mai detto, non ce lo diranno mai. Perciò siamo e resteremo indifesi di fronte al fiume in piena delle promesse. C'è una cosa, tuttavia, che può aiutarci a capire se un programma è credibile oppure non lo è: la sincerità con cui ci racconta il nostro passato e il nostro presente.

Non possiamo sapere che cosa Veltroni o Berlusconi ci riservano per il futuro, ma possiamo capire se ci trattano come bambini ingenui o come persone mature. Se si prendono gioco di noi oppure ci rispettano. Come ha scritto recentemente sul Sole - 24 Ore Franco Debenedetti, il punto di partenza di una stagione politica finalmente costruttiva è la condivisione dei «giudizi che si danno sul passato». Probabilmente non riusciremo a metterci d'accordo sul futuro, ma almeno mettiamoci d’accordo sul passato.

Prendiamo Berlusconi. Nei giorni scorsi gli abbiamo sentito dire in tv che il suo governo aveva realizzato l'85% del programma del 2001 - il famoso contratto con gli italiani - e che il «pezzettino» non realizzato (appena il 15%) era rimasto sulla carta per colpa degli alleati. Bene, allora è forse il caso di ricordargli che le due promesse principali del suo programma sono state clamorosamente disattese: l’aliquota Irpef massima non è stata ridotta al 33%, i delitti anziché diminuire sono aumentati. Per non parlare delle grandi opere, anch’esse realizzate in misura ben inferiore alle promesse. Perché raccontarci di aver onorato il «contratto» all’85% se non è vero? Gli italiani non sono ciechi, e se nel 2006 hanno tolto la fiducia a Berlusconi è anche perché si sono accorti che il contratto non era stato rispettato.

Per Veltroni il passato da indorare è quello di Prodi. Ma un conto è sorvolare signorilmente su qualche scivolone o su qualche punto marginale, un conto è capovolgere la trama della storia economico-sociale recente. Veltroni dice: ridurre le tasse e aumentare i salari si può, e si può proprio perché il governo Prodi ha condotto una lotta vittoriosa contro l’evasione fiscale (almeno 20 miliardi di gettito recuperati, secondo il governo uscente). Peccato che questa ricostruzione del nostro passato recente non sia compatibile con quel che si sa dell’andamento dell’economia negli ultimi due anni. Vediamo perché.

Lotta all’evasione. La cifra di (almeno) 20 miliardi recuperati è altamente controversa, ed è stata messa in dubbio da vari analisti e centri di studio indipendenti. Per il 2006, unico anno per il quale si dispone già di dati completi, non è nemmeno certo che esista un effetto-Visco (la mia miglior stima fornisce un recupero di evasione di appena 1,7 miliardi). Quel che in compenso è certo è che il governo Prodi ha sempre tenuto basse le previsioni sulle entrate fiscali, e proprio grazie a questo artificio contabile ha fatto emergere i vari «tesoretti».

Uso dell’extragettito. Quale che sia l’origine del cosiddetto extragettito (gettito non previsto dal governo), è incontrovertibile che i contribuenti non hanno visto sgravi fiscali per 20 miliardi di euro (la lotta all’evasione fiscale non doveva servire a ridurre le tasse ai contribuenti onesti?). Essi hanno invece assistito, nel corso del 2007, a una sistematica opera di dissipazione del gettito non previsto. Visco metteva i soldini nel salvadanaio, i «ministri di spesa» lo rompevano tutte le volte che si accorgevano che era pieno (Dl 81, Dl 159, Finanziaria 2008).

Situazione attuale. Nessuno, nemmeno il ministro dell’Economia, sa dire ancora con certezza se esiste un ulteriore gettito non previsto del 2007 (gli ultimi dati ufficiali dell’Agenzia delle entrate sono fermi al 30 novembre scorso). Quel che si può dire con certezza, invece, è che ci sono 7-8 miliardi di spese prevedibili ma non messe a bilancio, che l'andamento del gettito delle imposte indirette (il più sensibile all'andamento dell’economia) è in costante calo dal gennaio del 2007, e che a partire dallo scorso ottobre il gettito cresce meno del reddito nominale. In concreto questo vuol dire che, se l’economia dovesse continuare ad andare male, il gettito 2008 potrebbe risultare minore del previsto, anziché maggiore come è stato negli ultimi due anni.

Morale. Il governo Prodi consegna all’Italia una situazione nella quale non c’è più alcun extragettito da spendere e, se anche qualche risorsa dovesse mai spuntar fuori, verrebbe immediatamente bruciata per coprire i 7-8 miliardi di spese non messi a bilancio dalla Finanziaria 2008. Capisco che Veltroni sia così gentile da non voler vedere questa triste eredità, ma se si vuol essere nuovi bisogna esserlo anche sulle cose che contano: non basta mettere i giovani in lista, occorre anche cominciare a dire la verità.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 02, 2008, 09:21:32 am »

1/3/2008
 
Promesse e ancora promesse
 
LUCA RICOLFI

 
Non erano passate ventiquattro ore dall’invito di Montezemolo a «dire la verità» sulla situazione dell’Italia che già i due leader del centro-destra e del centro-sinistra si lanciavano in ogni sorta di promesse. Fra le più mirabolanti di ieri, la promessa berlusconiana di portare la pressione fiscale al di sotto del 40% in 5 anni (attualmente è al 43,3%) e la promessa veltroniana di una sorta di ritorno dell'età dell'oro, curiosamente identificata con l'era del primo centro-sinistra, quello degli Anni 60 (i meno giovani ricorderanno che quell'era prese avvio con la crisi economica del 1963, che segnava la fine del «miracolo economico» e non certo l'inizio di un’epoca felice).

Non provo nemmeno a fare la lista delle decine e decine di benefici che i due programmi promettono a famiglie e imprese: li ascolteremo e riascolteremo ogni giorno per un mese e mezzo. Ciò su cui vorrei attirare l'attenzione, invece, sono quelle che scherzosamente si potrebbero definire le «minacce» implicite in entrambi i programmi. È vero che sia il Pdl sia il Pd (ma dovevano proprio scegliere due sigle così simili?) auspicano di finanziare parte delle promesse con maggiore crescita e misure di contrasto all’evasione fiscale.

Ma è anche vero che sia il Pdl sia il Pd paiono rendersi conto che quei tipi di misure (pro-crescita e anti-evasione) non basteranno, e occorrerà quindi fare parecchie scelte dolorose. Entrambi prevedono dismissioni del patrimonio pubblico, entrambi prevedono riduzioni della spesa corrente. Nel programma di Berlusconi, ad esempio, si parla di un «grande e libero patto» fra Stato e governi locali per attuare il federalismo fiscale e vendere parte del patrimonio pubblico, facendo capire che saranno soprattutto questi ultimi - Regioni, Province e Comuni - a doversene fare carico. Nel programma di Veltroni si parla di un taglio della spesa corrente primaria di circa 40 miliardi di euro (2.5 punti di Pil) nel breve volgere di tre anni.

Quel che resta nell'ombra, tuttavia, è la situazione di partenza dell'Italia, che invece è l'elemento che più di ogni altro ci permette di farci un'idea di quel che ci aspetta. Giusto ieri l'Istat ha certificato che nel 2007 il deficit pubblico è andato meglio del previsto (1.9% anziché 2.4% del Pil), ma l'economia è cresciuta meno delle attese e la pressione fiscale ha toccato il livello record del 43.3%. Quanto al 2008 gli organismi internazionali pronosticano un allargamento della forbice fra il nostro tasso di crescita e quello dell'Eurozona (da -0.7 a -1.1). Nel frattempo il cambio fra euro e dollaro ha sfondato quota 1.5, mentre il prezzo del petrolio ha oltrepassato la barriera dei 100 dollari a barile. In queste condizioni lo scenario più realistico, almeno a breve, non è quello di un «rilancio dello sviluppo», ma quello di un peggioramento del rapporto deficit/Pil, dovuto sia alla minore crescita sia ai circa 7 miliardi di spesa pubblica preventivati ma ancora privi di copertura.

Se più o meno questa è la situazione, diventa molto più importante guardare alle minacce che alle promesse dei programmi elettorali. Non potendo contare su una rapida ripresa dell'economia, sia Berlusconi sia Veltroni, dopo aver concesso qualcosa alle rispettive basi sociali (abolizione dell'Ici sulla prima casa, salario minimo per i precari), dovranno mettere mano alla parte dolorosa del loro programma: vendita del patrimonio pubblico e contenimento della spesa pubblica corrente.

Nel caso delle dismissioni il problema sarà superare le resistenze dei governi locali, che negli ultimi anni - come si ricorda nel programma del Popolo della libertà - sembrano aver imboccato prevalentemente la strada opposta (pubblicizzare anziché privatizzare). Nel caso dei tagli di spesa il non detto di entrambi i programmi è che, se si faranno sul serio, colpiranno soprattutto le regioni del Mezzogiorno, nelle quali gli sprechi (e l'evasione) sono molto più diffusi che nel resto del paese.

Comunque, tranquillizziamoci: di questo piccolo particolare geografico non si parla né nel programma del Pd, né in quello del Pdl. Quindi lo scenario più verosimile è il solito: di lotta agli sprechi si parlerà in generale, molto in generale. E al momento buono - quando si tratterà di recuperare effettivamente gettito - pioverà sul bagnato, ossia sui soliti «contribuenti onesti». Come è accaduto sempre e, temo, accadrà ancora a lungo.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 23, 2008, 12:11:25 pm »

23/3/2008
 
I partiti, gli sprechi e il '68
 
 
LUCA RICOLFI
 
Letti e riletti i programmi del Partito democratico e del Popolo della Libertà, mi sono convinto anch'io che sono abbastanza simili. Entrambi, come di consueto, si preoccupano più delle famiglie che delle imprese.

Entrambi promettono ogni sorta di interventi a favore di innumerevoli categorie di soggetti. Entrambi, infine, pensano di finanziare le promesse con il consueto cocktail a tre ingredienti: dismissioni del patrimonio pubblico (che piacciono soprattutto al Pdl), contrasto all'evasione fiscale (che piace soprattutto al Pd), lotta agli sprechi della Pubblica Amministrazione (che piace a entrambi).

Sfortunatamente, i primi due ingredienti sono molto difficili da maneggiare. Tremonti pensa di spostare sugli Enti locali la patata bollente del debito pubblico, ma anche se ci riuscisse (cosa di cui dubito, se non altro perché la maggioranza di essi è governata dalla sinistra), impiegherebbe comunque anni di estenuanti trattative e schermaglie prima di concludere il «grande e libero patto» che consentirebbe di alienare parte del Patrimonio pubblico di Regioni, Province e Comuni. Veltroni pensa, grazie alla «lotta all'evasione fiscale», di mantenere il ritmo tendenziale di aumento delle entrate del 30-40% al di sopra del ritmo di crescita del Pil, illudendosi che anche gli anni a venire, nonostante la crisi e a dispetto dell'iper-salasso del 2006-2007, possano riservarci un flusso costante di extragettiti.

Resta il terzo ingrediente, la lotta agli sprechi nella Pubblica Amministrazione. Stante la difficoltà di percorrere le prime due vie, è proprio qui - sui tagli alla spesa pubblica - che chi governerà sarà costretto a giocare le sue carte. Vediamole, allora, queste carte. Il Partito democratico pensa a una cura shock, con un contenimento della spesa corrente primaria di almeno 40 miliardi di euro nei primi 3 anni. Il Popolo della libertà, invece, pensa a un intervento decisamente più leggero, pari a 20-30 miliardi spalmati su 5 anni. Diciamo, giusto per dare un'idea, che nei primi tre anni di legislatura i «risparmi» (eufemismo per tagli) potrebbero essere pari a 15 miliardi l'anno se vince Veltroni, e pari a 5 miliardi l'anno se vince Berlusconi.

Così stando le cose, ci si poteva aspettare che i mezzi per tagliare la spesa pubblica immaginati dal Pd fossero molto più drastici di quelli immaginati dal Pdl. E invece - sorpresa! - sembrerebbe proprio il contrario, almeno a giudicare dalle spiegazioni fornite dagli estensori dei programmi del Pdl (Giulio Tremonti) e del Pd (Enrico Morando). Tremonti, che vorrebbe tagliare la spesa di «solo» 5 miliardi l'anno, dichiara che si tratta di un'operazione inconcepibile senza una battaglia culturale che renda possibile «abrogare il risultato del '68 attraverso leggi che ricostituiscano le catene di comando, di controllo e di responsabilità dentro la Pubblica Amministrazione, riportando d'attualità la figura centrale del capoufficio». Morando, che vorrebbe tagliarla al formidabile ritmo di 15 miliardi l'anno, si limita a fare degli esempi di risparmi di spesa, a quanto pare senza avvertire l'enormità del compito.

Curioso. A giudicare dagli obiettivi dei due schieramenti mi sarei aspettato esattamente l'opposto: che il centro-destra si limitasse ai soliti esempi (informatizzazione degli uffici, acquisti centralizzati, accorpamento di enti, premi di produttività), visto che non promette sfracelli; e che il centro-sinistra giocasse l'arma totale dei licenziamenti, o quantomeno della mobilità non contrattata con i sindacati, vista l'ampiezza dei risparmi di spesa che promette (o minaccia).

Ma soprattutto mi sarei aspettato una maggiore attenzione alla complessità tecnica e politica di un'operazione di contenimento della spesa pubblica. Le stime più prudenti degli sprechi nella Pubblica Amministrazione suggeriscono che, a parità di servizi erogati, i risparmi possibili si aggirano intorno agli 80 miliardi di euro l'anno: un risultato che indubbiamente dà qualche sostegno alla vena efficientista di Veltroni. Per risparmi possibili, però, si intende quelli che si otterrebbero se tutti i territori si adeguassero alle pratiche organizzative dei territori più virtuosi. Di qui il problema: come si fa a «costringere» un territorio inefficiente a spendere di meno senza ridurre i servizi? Se accettiamo la domanda, è difficile non rispondere alla Tremonti: obiettivi di risparmio territoriali (ossia diversi da luogo a luogo) implicano valutazione dei dirigenti pubblici sulla base dei risultati, ma anche piena libertà - per i dirigenti stessi - di riorganizzare alla radice il lavoro dei dipendenti.

Tutto ciò, è inutile nasconderlo, significa mobilità non contrattata, premi individuali, ridimensionamento del potere sindacale. E naturalmente significa concentrare la maggior parte dei tagli sulle regioni meridionali, visto che il grosso degli sprechi è concentrato lì. Sono pronti gli italiani per un simile passo?

Berlusconi e Tremonti sembrano pensare di no, e si apprestano quindi ad agire in modo graduale, anche se geograficamente selettivo: penalizzare i territori spreconi, però poco per volta. Veltroni, invece, sembra pensare di sì (yes, we can...), ma forse non ha fatto bene i suoi conti. Se tagliasse 15 miliardi di spesa pubblica l'anno in modo equo, ossia colpendo principalmente il Sud, si troverebbe a fronteggiare i blocchi stradali (come capitò a Berlusconi con i forestali della Calabria). Se tagliasse 15 miliardi l'anno in modo iniquo, ossia colpendo indiscriminatamente regioni virtuose e regioni sprecone, ridarebbe fiato alle spinte separatiste delle regioni del Nord. Insomma, la mia impressione è che «abrogare il ’68» nella Pubblica Amministrazione sia (forse) fin troppo se ci accontentiamo di risparmiare 5 miliardi l'anno, ma sia il minimo necessario se ne vogliamo risparmiare 15. Altrimenti, il rischio è che i territori cui vengono imposti i tagli più severi, anziché riorganizzarsi per spendere di meno, non trovino di meglio che ridurre i servizi erogati. Il che sarebbe il colmo, visto il basso livello di partenza di molti di tali servizi e l'incompletezza del nostro Stato sociale.

Anche se la vittoria del Pd è improbabile, forse un chiarimento su questo punto non guasterebbe. Così, giusto per avere un'idea più concreta di quel che ci aspetta.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 17, 2008, 02:16:33 pm »

17/4/2008
 
Sondaggi e "partiti maledetti"
 
LUCA RICOLFI

 
Il risultato elettorale ha preso alla sprovvista un po’ tutti, ma fra i cosiddetti osservatori - giornalisti, commentatori, studiosi, sondaggisti - lo sgomento è particolarmente acuto. Possibile che nessuno avesse intuito che cosa bolliva nella pentola della società italiana? Come mai, a due soli anni dalla catastrofe del 2006, la maggior parte degli exit-poll e dei sondaggi non sono riusciti a prevedere il risultato finale?

Ma soprattutto: perché, nelle previsioni, la sinistra è spesso sopravvalutata e la destra sottovalutata? Nel 2006 i sondaggi prevedevano una comoda vittoria di Prodi, mentre il risultato è stato un pareggio quasi perfetto. Nel 2008 i sondaggi degli ultimi giorni prevedevano una vittoria risicata di Berlusconi, o addirittura un pareggio, mentre il risultato finale è stato un trionfo della destra. Perché?

La risposta più onesta è che non lo sappiamo, e possiamo solo fare delle congetture. Fra le molte ragioni che possono aver determinato questi due scacchi consecutivi, tuttavia, ve n’è una che a me pare più importante delle altre. Gli psicologi sociali la chiamano «desiderabilità sociale», Marcello Veneziani parecchi anni fa parlò - più crudamente - di «razzismo etico». In breve si tratta di questo: quando una persona viene intervistata le sue risposte non sono influenzate solo da quel che l’intervistato pensa, ma anche da quel che l’ambiente intorno a lui gli suggerisce di pensare. Proprio così. La società, il gruppo di riferimento, i media definiscono continuamente ciò che è bene, ciò che è appropriato, ciò che è corretto, ciò che è «in». Simmetricamente definiscono ciò che è male, ciò che è inappropriato, ciò che è scorretto, ciò che è «out». Se in una società le istituzioni richiamano continuamente determinati valori (ad esempio la solidarietà) e stigmatizzano sistematicamente determinati atteggiamenti (ad esempio l’ostilità verso gli immigrati), una parte degli intervistati preferisce non rivelare le proprie preferenze se esse sembrano confliggere con ciò che è considerato socialmente desiderabile.

Che centra tutto questo con il voto di domenica? C’entra, ma bisogna far intervenire nel discorso il razzismo etico. Una parte della società italiana è afflitta da razzismo etico, nel senso che considera moralmente inferiore chi vota per forze politiche cui essa - la parte sana del Paese - non riconosce piena legittimità democratica. Specie fra coloro che esercitano professioni artistiche o intellettuali dichiararsi di destra, o peggio votare un partito come la Lega, o Forza Italia, o la Destra provoca imbarazzo, sdegno, costernazione, incredulità. Di fronte a certe persone, confessare di aver insidiato una bambina è meno imbarazzante che confessare di aver votato per il partito di Calderoli.

Questo sentimento di disapprovazione non è quasi mai esplicito, ma genera un clima che definirei di intimidazione dolce. Tutti possono dire e fare quel che vogliono, ma sanno anche che - in molti contesti - saranno giudicati severamente se confesseranno di aver votato determinati partiti. In breve, c’è una parte del Paese che si sente nella posizione di giudicare gli altri, e c’è una parte del Paese che - proprio per questo - si sente permanentemente sotto esame. In questo diabolico meccanismo è caduto persino Veltroni, che pure aveva fatto del rispetto dell’avversario una delle novità fondamentali della sua campagna elettorale: qualche giorno prima del voto, sfidando Berlusconi a sottoscrivere quattro principi di «lealtà repubblicana», si è posto nella posizione di chi, in quanto depositario del bene, si sente autorizzato a fornire patenti di legittimità democratica all’avversario politico (da questo punto di vista le posizioni girotondine appaiono molto più coerenti, o meno insincere: chi pensa che Bossi e Berlusconi siano due pericoli mortali per la democrazia, giustamente considera un errore politico la linea del pieno rispetto dell’avversario).

Può sembrare incredibile, ma le ricerche degli studiosi dimostrano che - quando è intervistata - la gente si vergogna di un sacco di cose, comprese le più innocenti (ad esempio guardare parecchia televisione). Del resto ce l’aveva già spiegato Altan molti anni fa, con la famosa vignetta in cui il militante di sinistra confessa a se stesso: «A volte mi vengono delle idee che non condivido». Se le cose stanno così, il fallimento dei sondaggi diventa meno inspiegabile. Nella cultura italiana i luoghi comuni della sinistra «politicamente corretta» sono diffusi in modo leggero ma capillare. Per molti cittadini progressisti o illuminati se voti Forza Italia come minimo sei un affarista, un mafioso, o un abbindolato. Se voti Lega sei una persona rozza, egoista e intollerante. Se voti i post-fascisti non hai diritto di sedere al desco dei veri democratici. Se sei di sinistra e ti capita di comprare il Giornale ti guardano come se avessi acquistato un rotocalco pornografico (è successo a me).

Insomma, non è sempre e ovunque così ma lo è spesso, specie nei luoghi che contano. Molti elettori di destra se ne infischiano, ma una parte non trascurabile di essi preferisce tenere coperte le proprie carte. Sul lavoro, nelle cene, al bar, ma anche nei sondaggi. Se pensi di votare un partito «democratico» o pienamente sdoganato non hai seri timori a rivelare la tua scelta, ma se hai in animo di votare un «partito maledetto» - ossia un partito di cui i «sinceri democratici» dicono tutto il male possibile - puoi essere tentato di non scoprirti, magari dichiarandoti indeciso, o astensionista, o sostenitore di un partito né carne né pesce (è per questo che, in passato, i Verdi erano sempre sopravvalutati nei sondaggi). Qualche anno fa mi è capitato di scrivere, anche sulla base di una analisi degli atteggiamenti dell’elettorato italiano, che il «complesso dei migliori» era una delle grandi malattie della cultura di sinistra. Il fatto che ancor oggi tante persone preferiscano non rivelare il loro voto quando esso si indirizza verso i «partiti maledetti» mi fa pensare che, nonostante Veltroni (o grazie a lui?), da quella malattia l’Italia non sia ancora uscita.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:12:31 pm »

25/4/2008
 
Pd, macchè rimonta
 
LUCA RICOLFI

 
Se fra uno o due anni si tornasse a votare, non mi stupirei che l’Udc sparisse, la sinistra estrema tornasse in Parlamento, e il Pd perdesse fra il 5 e il 10% dei suoi consensi attuali. Sto scherzando, naturalmente, perché chissà quante cose saranno successe nel frattempo. Ma queste tre finte profezie mi aiutano a dire che cosa, secondo me, si nasconde negli ultimi risultati elettorali. L’Udc, è vero, è riuscita a restare in Parlamento, ma nel valutare il suo risultato si dimentica che - lista di Giuliano Ferrara a parte - votare Udc era l’unico modo che i cattolici avevano a disposizione per esprimersi: nel 2006 c’erano anche l’Udeur, la Dc di Rotondi, la Margherita.

Già oggi gli elettori che hanno votato Udc sia nel 2006 sia nel 2008 sono meno del 4% dei votanti, cui si aggiunge un 2% scarso di transfughi da altri partiti, cattolici e non: se il bipolarismo Pd-Pdl dovesse rafforzarsi, e inoltre l’Udc dovesse risultare tagliata fuori dai giochi di governo, è verosimile che molti elettori cattolici tornino a scegliere fra i due poli principali, per non disperdere il proprio voto. Diversa è la situazione dell’estrema sinistra. A mio parere essa finirà per restare fuori del Parlamento, ma solo perché è guidata da persone del tutto prive di senso comune, e non perché gli elettori di sinistra siano scomparsi come i dinosauri. Già oggi la sinistra estrema - sommando Sinistra Arcobaleno e formazioni minori - raccoglie oltre il 4% dei voti, mentre un altro 2% o 3% potrebbe tornare all’ovile, dopo essere stato inutilmente sacrificato sull’altare del Pd per «sconfiggere Berlusconi».

In breve: se restasse tutta unita, e fosse guidata da una persona normale (non satura di ideologia), la sinistra estrema potrebbe tornare in Parlamento e - aggiungo io - farebbe anche del bene alla nostra democrazia.

Resta il Pd. Capisco che i suoi dirigenti non possano che ripetere quel che ripetono: il Pd ha suscitato entusiasmo e speranze, la nostra rimonta è stata formidabile, il risultato finale è buono, in così poco tempo non si poteva fare di più, eccetera eccetera (curioso, comunque, dopo mesi di slogan come «yes we can», o «si può fare»). Però ora abbiamo i dati delle elezioni politiche, i risultati di alcune consultazioni amministrative, le stime dei flussi elettorali. Ebbene, se analizzati con cura quei dati tracciano un quadro un po’ diverso da quello ottimistico che molti vi hanno voluto vedere (eccezione importante, un articolo di Roberto Gualtieri sul Riformista). Primo. L’arretramento della sinistra nel suo insieme è drammatico. Il distacco fra destra e sinistra, che era pari a zero nel 2006, in soli due anni è salito a quasi 11 punti, ed è oggi molto maggiore di quello del 2001, quando Berlusconi stravinse le elezioni (allora il distacco era dell’ordine di 2-5 punti, a seconda del metodo di calcolo). Tanti elettori di sinistra hanno votato a destra, pochi elettori di destra hanno votato a sinistra.

Secondo. Della famosa super-rimonta di Veltroni non c’è traccia nei sondaggi della campagna elettorale, che talora segnalano un piccolo recupero, talaltra segnalano addirittura un lieve arretramento. Terzo. Secondo le analisi di flusso, che misurano gli spostamenti effettivi (fra 2006 e 2008), il Pd è riuscito ad attirare da destra a sinistra solo l’1,5% dei voti, per lo più sottraendoli ad An, mentre è parzialmente riuscito nell’opera di «cannibalizzazione» delle altre formazioni di sinistra, estrema e non. Quarto. Se si tiene conto che il Pd, oltre a Ds e Margherita, ha incorporato sotto il proprio simbolo i radicali, i voti del Pd nel 2008 sono di pochi decimali al di sopra di quelli del 2006. Quinto. Sottraendo i voti presi in prestito alla Sinistra Arcobaleno, il risultato del Pd nel 2008 risulta decisamente peggiore di quello del 2006 (-2,8), e ciò vale sia al Nord, sia al Centro, sia al Sud: al netto del «soccorso rosso», il «valore aggiunto» del Pd pare dunque negativo (con tre eccezioni: la circoscrizione Lazio 1, la Basilicata, la Puglia). Ecco perché penso che, se si votasse oggi, il Pd perderebbe colpi e si attesterebbe intorno al 30% (il valore storico del vecchio Pci), mentre la Sinistra Arcobaleno potrebbe anche tornare in Parlamento: per determinare questo esito, infatti, basterebbe che la metà di quanti hanno prestato il loro voto per «fermare Berlusconi» ritirassero il prestito, e decidessero di impiegarlo per garantire la sopravvivenza di una lista di estrema sinistra.

Si potrebbe concludere che la vittoria di Berlusconi è stata un trionfo, e che il «buon risultato» di Veltroni in realtà nasconde una disfatta. C’è una piccola complicazione, però. I sondaggi degli ultimi mesi segnalano piuttosto chiaramente che la fiducia dell’elettorato di centro-destra in Berlusconi è sempre rimasta decisamente bassa, più o meno ai livelli cui era scesa alla fine del quinquennio 2001-2006. Ciò significa che il repentino e massiccio «spostamento a destra» che appare dai risultati elettorali (oltre 10 punti rispetto al 2006) non è il frutto dell’ennesimo innamoramento degli italiani per Berlusconi, bensì del fatto che il messaggio di Veltroni è risultato ancora meno credibile di quello del suo «principale competitore». Ci sarà tutto il tempo per capire come mai un popolo non certo entusiasta di Berlusconi ha preferito affidarsi per la terza volta a lui piuttosto che mettersi nelle mani di Veltroni. Per riuscire nell’intento, tuttavia, occorrerà dismettere del tutto la retorica dell’autoconsolazione, e cominciare a guardare in faccia i due dati fondamentali del voto del 13 aprile: il risultato della sinistra è stato un disastro, il «valore aggiunto del Pd» resta un teorema in attesa di dimostrazione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:38:21 pm »

30/4/2008
 
Il loft e il Paese
 

 
LUCA RICOLFI
 
La cosa che più colpisce, in questi giorni, non è quel che si dice sulle cause della doppia disfatta Veltroni-Rutelli, ma lo stupore con cui se ne parla. Non si può dire che la sconfitta fosse perfettamente prevedibile, ma sembra che le sue dimensioni abbiano preso un po’ tutti alla sprovvista, come se politici, giornalisti, commentatori, studiosi non si fossero accorti di quel che passava per la testa della gente.

Tale stato d’animo degli osservatori rischia di portare fuori strada nella ricerca delle ragioni di questo improvviso ribaltamento degli orientamenti politici dei cittadini. Chi è stupito va a caccia di cause nascoste, sottili, difficilmente visibili a occhio nudo. C’è chi dice che Veltroni avrebbe copiato Berlusconi, inducendo gli elettori a snobbare la copia e preferire l’originale. C’è chi dice che Rutelli avrebbe strizzato l’occhio ai preti, e troppo disdegnato i temi laici: il consiglio è di fare come Zapatero. C’è chi invoca l’effetto band wagon: da sempre gli italiani hanno il vizio di saltare sul carro del vincitore. C’è chi, in modo vagamente tautologico, invoca un generico «vento di destra»: l’Italia va a destra perché così soffia il vento. C’è chi, infine, si rammarica che solo Berlusconi sappia «interpretare la pancia del Paese»: a quanto pare quando vince la destra è la pancia che parla, quando vince la sinistra è la testa che ragiona.

Ma forse, più semplicemente, abbiamo trascurato due fatti macroscopici, che non hanno attirato su di sé l’attenzione proprio per la loro ovvietà ed evidenza. Il primo fatto macroscopico è il discredito del governo Prodi, legato all’indulto, all’esplosione della criminalità, agli aggravi fiscali e burocratici, al drammatico aumento delle famiglie in difficoltà (+57% negli ultimi 12 mesi). A quanto pare i dirigenti del Pd non si sono resi conto di quel che la gente ha passato negli ultimi due anni. Naturalmente gli sbagli del governo non sono l’unica causa delle sofferenze e delle paure degli italiani, ma ignorarne la portata è stato una imperdonabile leggerezza politica. Giusto o sbagliato che fosse, dopo due anni di governo dell’Unione gli italiani sentivano il bisogno di voltar pagina: come si poteva pensare che si affidassero a chi instancabilmente ripeteva che quel governo aveva ben operato?

Il secondo fatto macroscopico è in realtà un non fatto, ovvero una clamorosa omissione. La sinistra italiana, a differenza della sinistra inglese a metà degli Anni 90, non ha ancora voluto compiere la sua rivoluzione antisnob, ossia quel percorso di rottura con il mondo dei salotti che - secondo Klaus Davi - fu una delle carte vincenti con cui Tony Blair riuscì a resuscitare il consunto Labour Party, riavvicinandolo alla gente comune e riportandolo al governo del Paese dopo il lungo regno della Thatcher (Di’ qualcosa di sinistra, Marsilio, 2004). Omissione curiosa, visto che - sul piano comunicativo - il primo problema della sinistra italiana è la sua immagine elitaria e anti-popolare, il suo presentarsi come una squadra di autocrati illuminati, di seriosi e impermeabili custodi del bene.

Di questa drammatica distanza dalla sensibilità popolare, di questo deficit di radici sociali, Veltroni è parso del tutto ignaro. Cercando di conciliare tutto e tutti, nascondendo sistematicamente le difficoltà in cui il governo uscente aveva cacciato il Paese, pensando di maneggiare con semplici esercizi verbali la protesta delle regioni più operose, Veltroni ha mostrato di non aver capito né quanto profondamente il governo Prodi avesse diviso l’Italia, né quanto i simboli del Palazzo e della politica romana siano invisi alla gente comune (era proprio il caso di chiamare Loft la nuova sede del Partito democratico? E di chiamare «caminetti» le riunioni dei dirigenti che contano?).

Con l’immagine salottiera e poco ruspante che la sinistra post-berlingueriana si ritrova addosso, con la sua mancanza di radicamento nel territorio, con la sua distanza culturale dalle regioni del Nord, presentarsi alle elezioni con un candidato premier che è la quintessenza del bel mondo di Roma, delle sue terrazze e dei suoi salotti, era già un azzardo notevole. Non rendersi conto dell’azzardo, e non prendere alcuna contromisura compensatrice, è stata un’incomprensibile follia.

Qualcuno, già me lo sento, dirà che la politica seria è un’altra cosa, e che è da qualunquisti rimproverare a Bertinotti le frequentazioni mondane, o ai dirigenti del Pd di riunirsi davanti a un caminetto, in un appartamento che amano chiamare il Loft. È vero, quel che conta è capire la realtà, e se ti riesce meglio davanti a un caminetto non c’è niente di male. Il punto, però, è che questi signori il contatto con la realtà sembrano averlo perso completamente. A forza di parlarsi tra loro non sanno più in che Paese vivono. Se la gente li vede come una casta, non è tanto per i loro privilegi, ma perché i loro simboli sono quelli di un mondo inarrivabile e separato, lontano mille miglia dal mondo di tutti noi.
 
DA lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 29, 2008, 05:10:36 pm »

29/5/2008
 
Un lungo cammino
 
 
LUCA RICOLFI

 
Non è certo nuovo il quadro che l’Istat traccia nel suo Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2007. Non è nuova, in particolare, l’analisi che denuncia le difficoltà economiche delle famiglie, il cui tenore di vita è sicuramente peggiorato in relazione a quello medio europeo, ma probabilmente anche in assoluto: un trend, quello del deterioramento del potere di acquisto, che le statistiche dell’inflazione rendono invisibile ma è invece decisivo per capire la gravità della sofferenza economica delle famiglie italiane (come mai le statistiche sottostimino l’inflazione lo aveva spiegato diversi anni fa il professor Campiglio, purtroppo inascoltato).

Quel che rende interessante il Rapporto, però, è soprattutto il momento in cui esce, ovvero all’inizio di una nuova legislatura, con un governo appena insediato e che probabilmente resterà in sella per cinque anni. Discutere dello stato dell’Italia in questo momento, in altre parole, significa chiedersi da che lato il nuovo esecutivo vorrà e potrà affrontare i problemi che da anni ci affliggono. Ho detto vorrà e «potrà» perché l’esperienza insegna che l’azione effettiva di un governo dipende sia dalla sua determinazione sia dalle resistenze e aspettative che incontra.

E ho l’impressione che, di resistenze e aspettative, questo governo ne incontrerà parecchie.

Ci sono, tanto per cominciare, le organizzazioni sindacali e i lavoratori da esse rappresentati. Qui si annuncia burrasca, perché due anni di fantasie su extra-gettito, tesoretto, risorse da distribuire hanno convinto molti che ci siano i margini per un aumento generalizzato di salari, stipendi e pensioni. Purtroppo non è così, i conti pubblici del 2008 non sono molto migliori di quelli del 2006 e anzi potrebbero peggiorare ulteriormente quando il gettito fiscale comincerà a risentire del rallentamento dell’economia, e inoltre il governo dovrà reperire i 6-7 miliardi necessari per coprire le spese aggiuntive «dimenticate» nell’ultima Finanziaria. A quel punto qualsiasi cosa desideri fare il governo (contratto degli statali, investimenti pubblici, detassazioni) le risorse dovrà cercarle eliminando inefficienze e sprechi della Pubblica amministrazione, con conseguenti levate di scudi dei dipendenti toccati da razionalizzazioni e tagli (una prima avvisaglia l’abbiamo avuta ieri stesso, con la decisione della Cgil e di un sindacato di base di disertare l’incontro con il ministro Brunetta).

Ma ci sono anche le imprese e le loro organizzazioni. Qui il problema non sono le resistenze delle categorie, ma semmai le loro aspettative sbagliate. Una lunga storia fatta di rapporti privilegiati con il potere politico le ha rese più inclini a puntare su benefici particolaristici che su regole e incentivi di tipo universalistico. Salvataggi, cassa integrazione, mobilità lunga, rottamazioni, agevolazioni settoriali, commesse pubbliche sono entrate nella forma mentis di molti imprenditori, mentre la battaglia semplice e limpida per un fisco meno oppressivo è stata combattuta più nelle ovattate sale degli uffici studi e delle conferenze stampa che nell’arena, aspra e difficile, della contrattazione con il governo e le parti sociali. Un’attitudine, quella di contrattare sui benefici settoriali più che sulle regole, che ha sempre trovato una sponda nella vocazione assistenziale dei governi di ogni colore politico e ha finito per danneggiare gravemente soprattutto il sistema delle piccole imprese. Ci sono, infine, i giovani e le loro famiglie, cui nessun politico pare intenzionato a rivelare che se la produttività del nostro Paese cresce tanto più lentamente di quella degli altri Paesi europei è anche perché lo stato dell’istruzione effettiva in Italia è drammatico: siamo agli ultimi posti nella percentuale di diplomati e laureati, ma siamo agli ultimi posti anche nei risultati ai test «Pisa», dove i nostri studenti vengono sistematicamente scavalcati dai loro coetanei europei. La distruzione della scuola e dell’università, durata trent’ anni ma portata a una perfezione mirabile nell’ultimo decennio, ci ha consegnato un handicap da cui è impensabile liberarci in meno di una generazione.

Vedremo come il governo saprà muoversi di fronte a questo intrico di ritardi, di storture e - perché no - anche di abitudini mentali dei cittadini. Ma credo che la condizione senza la quale non faremo un passo sia di renderci conto che di passi ne dovremo fare davvero molti, e che nessuno di essi potrà essere un salto, né potrà dare risultati immediati. Ha fatto bene il governo a intervenire sui mutui e sugli straordinari, ma ha fatto ancora meglio a non presentare tali provvedimenti (sicuramente più utili di quello sull’Ici) come portatori di cambiamenti decisivi nella vita delle famiglie. Fa male, anzi malissimo, chiunque fomenta l’idea che vi siano risorse nascoste o facilmente scongelabili, e che il tenore di vita degli italiani possa cambiare significativamente in meno di un decennio. Dopo anni di dissipazione, superficialità e incoscienza, quel che abbiamo di fronte è un cammino decisamente lungo, in cui dovremo fare qualche sacrificio, abbandonare qualche abitudine, esporci a qualche rischio. Meglio rendersene conto subito che cullarci (e lasciarci cullare) nell’ennesima illusione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 30, 2008, 11:26:33 pm »

29/5/2008
 
Un lungo cammino
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Non è certo nuovo il quadro che l’Istat traccia nel suo Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2007. Non è nuova, in particolare, l’analisi che denuncia le difficoltà economiche delle famiglie, il cui tenore di vita è sicuramente peggiorato in relazione a quello medio europeo, ma probabilmente anche in assoluto: un trend, quello del deterioramento del potere di acquisto, che le statistiche dell’inflazione rendono invisibile ma è invece decisivo per capire la gravità della sofferenza economica delle famiglie italiane (come mai le statistiche sottostimino l’inflazione lo aveva spiegato diversi anni fa il professor Campiglio, purtroppo inascoltato).

Quel che rende interessante il Rapporto, però, è soprattutto il momento in cui esce, ovvero all’inizio di una nuova legislatura, con un governo appena insediato e che probabilmente resterà in sella per cinque anni. Discutere dello stato dell’Italia in questo momento, in altre parole, significa chiedersi da che lato il nuovo esecutivo vorrà e potrà affrontare i problemi che da anni ci affliggono. Ho detto vorrà e «potrà» perché l’esperienza insegna che l’azione effettiva di un governo dipende sia dalla sua determinazione sia dalle resistenze e aspettative che incontra.

E ho l’impressione che, di resistenze e aspettative, questo governo ne incontrerà parecchie.

Ci sono, tanto per cominciare, le organizzazioni sindacali e i lavoratori da esse rappresentati. Qui si annuncia burrasca, perché due anni di fantasie su extra-gettito, tesoretto, risorse da distribuire hanno convinto molti che ci siano i margini per un aumento generalizzato di salari, stipendi e pensioni. Purtroppo non è così, i conti pubblici del 2008 non sono molto migliori di quelli del 2006 e anzi potrebbero peggiorare ulteriormente quando il gettito fiscale comincerà a risentire del rallentamento dell’economia, e inoltre il governo dovrà reperire i 6-7 miliardi necessari per coprire le spese aggiuntive «dimenticate» nell’ultima Finanziaria. A quel punto qualsiasi cosa desideri fare il governo (contratto degli statali, investimenti pubblici, detassazioni) le risorse dovrà cercarle eliminando inefficienze e sprechi della Pubblica amministrazione, con conseguenti levate di scudi dei dipendenti toccati da razionalizzazioni e tagli (una prima avvisaglia l’abbiamo avuta ieri stesso, con la decisione della Cgil e di un sindacato di base di disertare l’incontro con il ministro Brunetta).

Ma ci sono anche le imprese e le loro organizzazioni. Qui il problema non sono le resistenze delle categorie, ma semmai le loro aspettative sbagliate. Una lunga storia fatta di rapporti privilegiati con il potere politico le ha rese più inclini a puntare su benefici particolaristici che su regole e incentivi di tipo universalistico. Salvataggi, cassa integrazione, mobilità lunga, rottamazioni, agevolazioni settoriali, commesse pubbliche sono entrate nella forma mentis di molti imprenditori, mentre la battaglia semplice e limpida per un fisco meno oppressivo è stata combattuta più nelle ovattate sale degli uffici studi e delle conferenze stampa che nell’arena, aspra e difficile, della contrattazione con il governo e le parti sociali. Un’attitudine, quella di contrattare sui benefici settoriali più che sulle regole, che ha sempre trovato una sponda nella vocazione assistenziale dei governi di ogni colore politico e ha finito per danneggiare gravemente soprattutto il sistema delle piccole imprese. Ci sono, infine, i giovani e le loro famiglie, cui nessun politico pare intenzionato a rivelare che se la produttività del nostro Paese cresce tanto più lentamente di quella degli altri Paesi europei è anche perché lo stato dell’istruzione effettiva in Italia è drammatico: siamo agli ultimi posti nella percentuale di diplomati e laureati, ma siamo agli ultimi posti anche nei risultati ai test «Pisa», dove i nostri studenti vengono sistematicamente scavalcati dai loro coetanei europei. La distruzione della scuola e dell’università, durata trent’ anni ma portata a una perfezione mirabile nell’ultimo decennio, ci ha consegnato un handicap da cui è impensabile liberarci in meno di una generazione.

Vedremo come il governo saprà muoversi di fronte a questo intrico di ritardi, di storture e - perché no - anche di abitudini mentali dei cittadini. Ma credo che la condizione senza la quale non faremo un passo sia di renderci conto che di passi ne dovremo fare davvero molti, e che nessuno di essi potrà essere un salto, né potrà dare risultati immediati. Ha fatto bene il governo a intervenire sui mutui e sugli straordinari, ma ha fatto ancora meglio a non presentare tali provvedimenti (sicuramente più utili di quello sull’Ici) come portatori di cambiamenti decisivi nella vita delle famiglie. Fa male, anzi malissimo, chiunque fomenta l’idea che vi siano risorse nascoste o facilmente scongelabili, e che il tenore di vita degli italiani possa cambiare significativamente in meno di un decennio. Dopo anni di dissipazione, superficialità e incoscienza, quel che abbiamo di fronte è un cammino decisamente lungo, in cui dovremo fare qualche sacrificio, abbandonare qualche abitudine, esporci a qualche rischio. Meglio rendersene conto subito che cullarci (e lasciarci cullare) nell’ennesima illusione.

 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 03, 2008, 06:41:48 pm »

3/7/2008
 
Non solo veline
 
 
LUCA RICOLFI
 

La luna di miele fra l’Italia e il governo sta volgendo al termine. Non c’è bisogno di fare sondaggi per accorgersene: chi ha votato a sinistra pensa di aver fatto l’unica cosa possibile, mentre molti elettori di destra non nascondono la loro delusione e i loro dubbi. Eletto per occuparsi di noi, Berlusconi sembra preoccuparsi solo di sé: prima Rete 4, poi le intercettazioni, poi il processo Mills, poi il disegno di legge salva-premier, poi di nuovo le intercettazioni, i giornalisti, i magistrati.

Però non è così. Mentre noi ci godiamo il calcio e il reality delle attricette raccomandate il governo sta lavorando alacremente, e quel che sta facendo in questo periodo avrà conseguenze durature sulla nostra vita. Il governo ha approvato un decreto sulla sicurezza e un decreto fiscale, ha presentato il Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef), si appresta a varare anticipatamente la legge finanziaria. Inoltre ha deciso che questa volta la manovra non riguarderà solo l’anno a venire (2009), ma inciderà direttamente anche sugli anni successivi.

Che cosa ci riservano tutte queste iniziative? Spero di sbagliarmi, ma a occhio e croce direi che il governo sta silenziosamente tradendo le speranze di chi l’ha votato. Non tanto perché si appresta a varare l’ennesimo pacchetto di leggi ad personam (questo, colpevolmente, interessa poco gli italiani, e pochissimo gli elettori di centro-destra), ma perché più o meno esplicitamente sta facendo marcia indietro sui tre fronti che - appena tre mesi fa - lo avevano visto vincere la sfida con il centro-sinistra.

Il primo fronte sono le tasse. Ho letto attentamente il Dpef e con grande sorpresa ho scoperto che la pressione fiscale non diminuirà nemmeno entro il 2013, e sarà allora più o meno la medesima di oggi, appena ereditata da Prodi (circa il 43% del pil). In poche parole per i prossimi cinque anni le tasse non scenderanno, mentre in campagna elettorale il centro-destra aveva promesso di ridurle progressivamente al di sotto del 40% del Pil (almeno 50 miliardi di euro di tasse in meno, ai prezzi attuali). Coerentemente, il tasso di crescita dell’Italia previsto per i prossimi anni è modestissimo (meno dell’ 1,5%), e resta ampiamente al di sotto di quello dell’Eurozona. In materia di tasse l’unica luce che si intravede all’orizzonte è la semplificazione degli adempimenti fiscali, che speriamo possa procedere senza intoppi e produrre qualche effetto benefico.

Il secondo fronte è la sicurezza. Qui spiace fare la Cassandra, ma per cancellare il mio pessimismo qualcuno dovrebbe spiegarmi come si fa ad avere più giustizia e meno criminalità finché: a) si riducono le risorse alle forze dell’ordine; b) non si fanno investimenti massicci nell’edilizia carceraria; c) si limitano le intercettazioni senza conferire risorse economiche sostitutive; d) si vara una sospensione dei processi che diminuirà l’efficienza della giustizia (un punto rilevato da molti, ma magistralmente spiegato nei dettagli da Bruno Tinti qualche giorno fa su questo giornale).

L’ultimo fronte è la lotta agli sprechi. Non ho dubbi che ministri come Renato Brunetta (Funzione pubblica) e Mariastella Gelmini (Istruzione e università) siano armati delle migliori intenzioni, ma vorrei ricordare che il problema degli sprechi della Pubblica Amministrazione è concentrato in determinati territori (spesso al Sud, ma non solo), e che il ministro Tremonti aveva preso l’impegno di fissare obiettivi di risparmio geograficamente differenziati. Mi auguro di essere smentito, ma mi pare che finora il riferimento alle differenze regionali sia rimasto un po’ generico (si parla di una grande discussione d’autunno sul federalismo fiscale), e che anzi qualche volta si sia riaffacciato lo spettro del «metodo Gordon Brown», ossia di tagli generalizzati o proporzionali alla spesa storica.

Niente diminuzione delle tasse. Improbabile aumento della sicurezza. Scarsa riduzione degli sprechi. Questo mi sembra quel che rischiamo nei prossimi anni. E tutto perché, mentre su questo si decideva, eravamo concentrati tutti quanti su un solo sia pure importantissimo nodo politico: la 374esima puntata della serie tv «Io, le veline e i magistrati».

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 20, 2008, 09:27:16 am »

20/7/2008
 
Guerra agli sprechi
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Tagli alla sanità. Tagli alla scuola. Tagli all’università. Tagli alla giustizia. Tagli alle forze dell’ordine. Tagli agli enti locali. La manovra per il triennio 2009-2011 che il governo sta completando in questi giorni sembra un bollettino di guerra. E come una guerra, infatti, la vivono gli interessi colpiti: le università protestano, medici e magistrati minacciano scioperi, i governatori litigano con il ministro dell’Economia, i sindaci si arrabbiano, i poliziotti manifestano contro il governo. Per le opposizioni è una pacchia: finalmente tutti in piazza. Alla manifestazione delle forze di polizia persino Di Pietro e Veltroni - giusto freschi di divorzio - si ritrovano di nuovo insieme, o «uniti nella lotta» come si diceva una volta.

Però c’è qualcosa che non torna. Prima delle elezioni Veltroni aveva promesso (o minacciato...) di ridurre la spesa pubblica a un ritmo di 15 miliardi l’anno, oggi il governo sta intervenendo a un ritmo un po’ più lento. In poche parole, il governo di centro-destra sta facendo meno di quel che il Partito democratico aveva intenzione di fare se avesse vinto le elezioni. Piacerebbe sapere se il Pd ha cambiato idea sui conti pubblici. O se Veltroni protesta perché - secondo lui - bisognerebbe tagliare ancora di più (ma allora perché manifesta con chi si oppone ai tagli?).

Si potrebbe obiettare che, in realtà, il Partito democratico non è contrario ai tagli in sé, ma vorrebbe che andassero a colpire gli sprechi e solo gli sprechi, lasciando invariati i servizi ai cittadini. Benissimo, ma allora non capisco perché, anziché indicare con precisione i settori su cui intervenire e gli strumenti per farlo, si preferisce cavalcare la protesta delle categorie colpite. Perché l’opposizione non dà battaglia sulla struttura dei tagli, anziché fomentare la naturale resistenza delle corporazioni toccate dalla manovra?

Dico questo perché, purtroppo, da questo punto di vista la manovra del governo di limiti ne ha molti. Andando all’osso, direi che il difetto di fondo della manovra è che inizia la guerra contro gli sprechi senza aver predisposto i mezzi per vincerla. Quindi, probabilmente, finirà per perderla, con vantaggio (immediato) per le opposizioni, e danno permanente per il futuro dell’Italia.

Per capire che cosa manca all’azione di governo bisogna prima fare un passo indietro e dire qualcosa sull’entità e la distribuzione degli sprechi. Una valutazione molto prudente degli sprechi della Pubblica Amministrazione suggerisce che essi siano pari ad almeno 80 miliardi di euro l’anno, ossia circa dieci volte i tagli previsti per il 2009 in tutti i ministeri. Tali sprechi, tuttavia, non sono distribuiti in modo uniforme né per funzione né - soprattutto - per territorio.

Non solo ci sono territori virtuosi e territori inefficienti, ma la graduatoria di efficienza cambia da settore a settore. Nella regione in cui abito (il Piemonte), ad esempio, ci sono pochi sprechi nella scuola, pochissime pensioni a falsi invalidi, ma grandi sprechi nella sanità. In altre regioni (ad esempio la Lombardia) gli sprechi sono al minimo in quasi tutti i settori. In altre ancora (ad esempio la Calabria) sono enormi un po’ in tutti i settori. Conclusione: le differenze fondamentali sono di natura territoriale, specie fra Centro-Nord e Mezzogiorno, ma a seconda degli ambiti la graduatoria degli sprechi può variare sensibilmente. Per aggredire le inefficienze della Pubblica Amministrazione occorrono dati di sfondo analitici e condivisi, e obiettivi di riduzione degli sprechi differenziati almeno per settore e per territorio. Sulla sanità, ad esempio, è perfettamente ragionevole che le regioni che hanno meglio amministrato pretendano premi (più risorse per investimenti) e non abbiano alcuna intenzione di pagare per i disastri delle regioni in dissesto.

Ma non basta. Anche se il governo avesse la capacità di localizzare con esattezza i punti di massimo spreco, resterebbe il problema di dare agli amministratori periferici - siano essi il governatore di una regione, il direttore di una Asl o il preside di una scuola - gli strumenti politici, amministrativi e giuridici per rimettere le cose a posto in un tempo ragionevole. Per fare un esempio: va bene imporre risparmi alle Università, magari non rimpiazzando tutti i professori che vanno in pensione, ma è iniquo imporre una regola uniforme su tutto il territorio, visto che ci sono università (relativamente) virtuose e università che hanno irresponsabilmente dilapidato le risorse pubbliche.

Queste cose molti ministri le sanno perfettamente, e le hanno spesso ripetute. Fu Tremonti, in campagna elettorale, a parlare di obiettivi di risparmio differenziati territorialmente. Ed è stato il medesimo Tremonti, pochi giorni fa alla Camera, a dire a proposito del futuro assetto federale: «Non partiamo dalla spesa storica, che contiene le distorsioni storiche». Così come si potrebbero citare innumerevoli interventi di Brunetta, Sacconi, Gelmini, Calderoli, che vanno nella medesima direzione. Il problema, però, è che un conto sono i principi, un conto è la loro traduzione concreta in leggi, norme, regolamenti, circolari. È su questo secondo piano che la manovra mi pare insoddisfacente, per non dire improvvisata.

Senza obiettivi di risparmio disaggregati per territorio e per settore, senza nuovi strumenti di governo della Pubblica Amministrazione, i tagli - specie quando intervengono sui consumi intermedi, dalle stampanti per i tribunali alla benzina per le volanti della polizia - rischiano di mettere altra sabbia negli ingranaggi di una macchina già fin troppo arrugginita e logora. Né si dica che, tanto, in autunno è in arrivo il federalismo: il problema è precisamente il raccordo (anche tecnico) fra manovra centrale e federalismo, sempre che quest’ultimo non si areni nelle secche delle discussioni parlamentari. La manovra c’è ma il suo impianto resta prevalentemente macro-economico, il federalismo le affiancherà micro-meccanismi territoriali (si spera) virtuosi, ma non è ancora nato.

Spero di sbagliarmi, ma la mia impressione è che - nonostante l’introduzione di alcuni incentivi e disincentivi, ad esempio in materia di sanità e di costi della politica - i tagli restino poco selettivi e i premi alle amministrazioni virtuose decisamente inadeguati, se non altro perché spesso non sono premi ma «sconti di pena» (minori tagli). Può sembrare soltanto una questione di «giustizia territoriale», ma non è così. Esaurite quasi del tutto le armi della politica monetaria e della politica fiscale, per far ripartire l’Italia ci resta una sola carta importante: rendere molto più efficiente la Pubblica Amministrazione, eliminando gli sprechi e solo gli sprechi. Solo così sarà possibile ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, solo così sarà possibile completare lo stato sociale, dagli asili nido agli ammortizzatori sociali. E poiché gli sprechi variano enormemente da territorio a territorio, un po’ di «giustizia territoriale» è precisamente quel che ci serve.

da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 27, 2008, 10:56:33 am »

27/7/2008 - SENZA OPPOSIZIONE
 
I democratici e la sindrome del rospo
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Forse è colpa del clima vacanziero, ma l’impressione è che stiamo diventando un Paese senza opposizione.
Nel giro di soli due mesi il governo è riuscito a intervenire sulla giustizia (lodo Alfano, sospendi-processi), sull’immigrazione e la sicurezza (impronte digitali, poteri ai sindaci, stato di emergenza), sulle tasse (Robin tax, soppressione dell’Ici), sulla spesa pubblica (manovra finanziaria). E, ora si scopre, anche sul precariato. In autunno si ripromette di intervenire sulle intercettazioni, sulla magistratura, sul federalismo, sui servizi pubblici locali, sullo Stato sociale (è di ieri la pubblicazione del Libro verde sulla «vita buona» del ministro Sacconi). Berlusconi si è liberato dei magistrati e, con i suoi ministri più attivi, sta per rivoltare l’Italia come un calzino. E il principale partito di opposizione che fa? Il Partito democratico sembra affetto dalla sindrome del rospo. Avete presente il rospo, che resta fermo e immobile mentre il bimbo lo prende a sassate? E più viene colpito più si pietrifica, tentando (invano) di rendersi invisibile?

Non c’è atto del governo che non susciti il dissenso o la preoccupazione del partito di Veltroni, ma ciononostante il massimo di opposizione che il Pd riesce a immaginare è una «grande manifestazione» in autunno, quando tutti i buoi saranno scappati dalle stalle. Nel frattempo, non passa giorno senza che qualche esponente del partito di Di Pietro, dei girotondi, della «società civile» o di qualche minoranza interna dello stesso Pd non riversi la sua ira e la sua amarezza sulla non conduzione politica del nuovo (?) partito. La gente di sinistra si chiede dove la stia portando Veltroni, e la risposta che si sente ripetere è la solita: noi non siamo giustizialisti, né moralisti, né massimalisti, noi siamo riformisti e la nostra opposizione è seria e responsabile. Ma è davvero così?

Secondo me no, l’opposizione del Pd non è seria bensì inesistente. Se fosse seria dovremmo osservare cose che invece non accadono, e non dovrebbero accadere cose che invece osserviamo. Fra le cose che ci piacerebbe osservare c’è, ad esempio, la costruzione di un partito davvero nuovo. E’ mai possibile che, dopo aver affermato di non volere i voti della mafia, dopo avere invocato fino alla noia l’esigenza di rinnovare la politica, di restituirle moralità e purezza di intenti (ricordate i discorsi alati sulla «bella politica»?), Veltroni non abbia mai pensato di cominciare a fare un po’ di repulisti in casa propria? Non voglio togliere a Marco Travaglio il suo mestiere, e quindi non elencherò le decine e decine di casi, individuali e collettivi, nei quali esponenti di Ds e Margherita sono tristemente coinvolti in brutte storie di corruzione, affarismo, clientelismo, mala sanità, pessima amministrazione. Mi limito a poche e semplici domande: possibile che il nuovo partito non senta anche sulla propria pelle il bruciore della questione morale? O basta a consolarlo il fatto che i partiti di centro-destra abbiano ancora più inquisiti e condannati ? E’ mai possibile che, anziché prendere solennemente le distanze dalle molte storie di cattiva politica che coinvolgono il Pd, si stia discutendo se salvare Bassolino dai suoi guai giudiziari con un seggio al Parlamento europeo? Possibile che non ci si renda conto che la magistratura tende a esondare dai suoi limiti anche perché la politica non fa nulla per autocorreggersi?

Ma supponiamo per un attimo che queste siano domande ingenue, dettate da moralismo o «dipietrismo latente». Veniamo alla politica vera, quella che si occupa di riforme, economia, Stato sociale, sicurezza. Qui, più che le omissioni, è quel che osserviamo che lascia interdetti. Il Partito democratico per ora non vuole scendere in piazza, ma in compenso non manca di dare la sua solidarietà a tutte le categorie in lotta contro la manovra finanziaria, un po’ come Alleanza nazionale due anni fa, quando aizzava i taxisti contro il ministro Bersani. La critica principale del governo ombra alla manovra è che ci sono troppi tagli, mentre non c’è nulla per salari, stipendi, pensioni, quando proprio la crisi economica suggerirebbe politiche anticicliche, di sostegno ai redditi delle famiglie.

Incredibile. Il partito di Veltroni, che pure aveva provato a prendere le distanze dal governo Prodi, finge irresponsabilmente che due anni di centro-sinistra abbiano lasciato al governo entrante un margine (extragettito, o tesoretto) per aumentare i redditi fissi, e così alimenta le illusioni di famiglie e sindacati. Critica la manovra non per la struttura dei tagli alla spesa pubblica, ma per la loro entità, sorvolando sul fatto che in campagna elettorale il Pd aveva promesso tagli ancora più pesanti. Sostiene che le riforme vadano fatte con le categorie interessate, ma dimentica che, se una parte delle resistenze al cambiamento è guidata da preoccupazioni del tutto ragionevoli, un’altra parte è puramente corporativa, ossia dettata dalla difesa di abusi, storture e privilegi.

E dire che di critiche riformiste e costruttive alla linea del governo vi sarebbe un immenso bisogno. Non solo sul versante delle mancate o troppo timide liberalizzazioni, ma sul terreno fondamentale della riduzione e ricomposizione della spesa pubblica. Qui il problema vero è che i tagli finora varati dal governo non sono abbastanza selettivi: nonostante alcune lodevoli eccezioni, molti di essi colpiranno troppo le amministrazioni più virtuose e non colpiranno abbastanza quelle più dissennate. Un vero partito riformista non cavalcherebbe demagogicamente la protesta delle categorie, ma premerebbe sull’esecutivo per rendere i tagli più profondi e più giusti, nonché per usare al meglio le risorse così liberate: abbiamo un disperato bisogno di asili nido, ammortizzatori sociali, politiche contro la povertà.

Ma una linea del genere richiederebbe forse una dose eccessiva di onestà intellettuale: al partito nuovo spetterebbe anche riconoscere di aver sbagliato negli anni scorsi quando, per tenere in piedi un governo paralizzato dai suoi contrasti interni, i dirigenti di Ds e Margherita permisero a Prodi e Padoa-Schioppa di sprecare l’unica vera occasione - la congiuntura favorevole del 2006-2007 - per incidere davvero sulla voragine della spesa pubblica. Se lo si fosse fatto allora, oggi il deficit sarebbe più vicino a zero che al limite del 3%, e l’invocazione di misure a sostegno delle famiglie suonerebbe meno ipocrita.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 03, 2008, 12:18:28 pm »

3/8/2008
 
Le anatre zoppe
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
E’ stata, quest’ultima, la settimana del dialogo, o meglio del tentato dialogo. Fermamente caldeggiato dal Presidente della Repubblica, ripetutamente auspicato dai presidenti di Camera e Senato, preparato da incontri-colloqui-colazioni con i principali leader dell’opposizione, il dialogo sulle riforme sta tenendo banco nonostante lo scetticismo più volte manifestato da Silvio Berlusconi. Molti parlano di Legislatura costituente, qualcuno - come Emanuele Macaluso su questo giornale - propone addirittura di eleggere un’Assemblea («costituente» anch’essa) con il compito di riscrivere le regole fondamentali della Repubblica.

Il ragionamento dei «costituenti» è perfettamente logico, e si può riassumere così. Le regole del gioco non funzionano più, perciò dobbiamo cambiarle. Per riuscire a farlo senza lacerazioni deve esserci un larghissimo consenso. Ma mentre sui contenuti, ossia sulle politiche, è perfettamente naturale che la destra e la sinistra abbiano idee molto diverse su quel che andrebbe fatto per rilanciare l’Italia, sulle regole è invece indispensabile un accordo il più ampio possibile fra maggioranza e opposizione.

Insomma: una volta fissate le regole, ognuno faccia il suo gioco, ma nessuno pretenda di cambiare le regole senza il consenso dell’avversario.
Come tutti i ragionamenti logici, quello dei costituenti non fa una grinza. Anch’io penso che le regole non funzionino più, e che per farle funzionare decentemente dovremmo toccare almeno sei nodi nevralgici: bicameralismo, tipo di assetto federale, legge elettorale, regolamenti parlamentari, potere dell’esecutivo, rapporti fra magistratura e politica. A differenza dei costituenti, tuttavia, ho un sospetto da cui non riesco a liberarmi, e cioè che - nella situazione presente - per maggioranza e opposizione sarebbe molto più facile (o meno difficile) convergere sui contenuti del gioco che sulle sue regole. Fuor di metafora: sarebbe molto più facile cooperare sulle riforme economico-sociali che sulla riforma delle istituzioni.

Una parte del mio scetticismo deriva, lo ammetto, dal fatto che sono troppo vecchio per non sentire un brivido alla schiena tutte le volte che sento ripetere con baldanza «questa sarà una legislatura costituente!»: l’ho ascoltata troppe volte quella frase, specie negli ultimi vent’anni, per non provare incredulità e fastidio ogni volta che la risento pronunciare con solennità, e senza alcun imbarazzo retrospettivo. Una parte dei miei dubbi, tuttavia, deriva da considerazioni meno emotive. Ad esempio dal fatto che è proprio sulle regole che i due schieramenti hanno oggi il massimo di divergenze difficilmente componibili, o componibili in modo discutibile. Esempi?

Rafforzamento dell’esecutivo e regolamenti parlamentari più snelli: in astratto la sinistra è d’accordo, ma come potrà accettarli all’inizio di una legislatura in cui lamenta le tendenze neo-autoritarie, la dittatura della maggioranza, il «golpe finanziario», l’esproprio del Parlamento, il «presidenzialismo strisciante», insomma l’eccesso di potere del premier?
Riforma della giustizia e del Csm: Berlusconi è deciso a ridurre il potere e la discrezionalità dei magistrati, ma Veltroni avrebbe il coraggio di dire apertamente quel che molti nel Pd pensano, e cioè che i magistrati e le loro organizzazioni sono corresponsabili del cattivo funzionamento della giustizia?

Legge elettorale: qui, almeno rispetto alle imminenti elezioni europee, un accordo più o meno segreto fra Pdl e Pd pare esserci, quello di mettere uno sbarramento al 4-5% in modo da impedire l’elezione di rappresentanti di Rifondazione comunista e degli altri partiti piccoli e piccolissimi. Ma siamo sicuri che sarebbe un bene?

Resterebbe il federalismo, ma in questo caso il problema delle riforme istituzionali è indissolubilmente intrecciato a quello delle riforme economico-sociali. E la ragione è molto semplice: con una crescita vicino a zero e una pressione fiscale al 43% l’unico vero margine di manovra del governo è ridurre la spesa pubblica corrente, e il federalismo - se ben disegnato - è oggi l’unico strumento che potrebbe raggiungere quel risultato.
Perché governo e opposizione dovrebbero trovare un’intesa su federalismo e riforme economico-sociali, visto che è già tanto difficile mettersi d’accordo sulle regole del gioco?
Tutto sta a intendersi su quel «dovrebbero». Se devo azzardare una previsione, confesso che mi aspetto ben poco: il governo cercherà prima di tutto di restare in sella, e l’opposizione di sfruttare le debolezze del governo per vincere le elezioni del 2013. Se però, per un momento, proviamo a prendere in parola Pd e Pdl e confrontiamo i loro comportamenti attuali con le promesse di pochi mesi fa, non possiamo non notare che entrambi si stanno muovendo come anatre zoppe, ossia in un modo che tradisce gli elettori e alla lunga non produce consenso, ma semmai lo erode progressivamente. Ancora ieri sera Berlusconi ha spiegato perché dobbiamo tirare la cinghia (i conti pubblici sono ancora in rosso…), ma finora il governo non è stato in grado di prospettare al paese qualche contropartita tangibile e relativamente vicina nel tempo, salvo la cosiddetta social card di Tremonti (500 euro l’anno per un milione di bisognosi). Il Partito democratico ha annunciato battaglia sui tagli alla spesa pubblica, ma non ha spiegato né perché ha improvvisamente deciso di osteggiarli (pochi mesi fa, in campagna elettorale, aveva promesso la bellezza di 15 miliardi di tagli l’anno) né che cosa di veramente diverso si potrebbe fare oggi senza mettere a repentaglio l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2011.

Destra e sinistra, in altre parole, stanno mettendo in atto solo negazioni (i tagli) e negazioni della negazione (l’opposizione ai tagli), senza tuttavia riuscire a trasmettere ai cittadini-elettori nessuna idea positiva del futuro che ci preparano. Eppure basterebbe rileggere i programmi dei due schieramenti per scoprire che le azioni positive c’erano, e spesso erano del tutto simili. Il denominatore comune dei programmi del Pd e del Pdl era e resta la scommessa sulla responsabilità e sul merito, ossia precisamente quella stella polare che finora risulta poco visibile sia nell’azione di governo sia nelle critiche dell’opposizione. In entrambi i programmi c’era l’idea di risparmiare risorse tagliando gli sprechi, ma in entrambi i programmi c’erano anche tre idee fondamentali: che i tagli non dovessero colpire le amministrazioni virtuose, che i meritevoli dovessero ricevere premi, che lo Stato sociale dovesse essere completato con ammortizzatori sociali, asili nido, politiche contro la povertà, misure per i non autosufficienti.

Detto in termini macroeconomici: va bene che una parte dei risparmi di spesa vada a riduzione del debito pubblico, ma una parte non irrisoria di essi dovrebbe andare a beneficio di chi si è comportato in modo virtuoso o è in condizioni di assoluto bisogno. Se aumentano le tasse universitarie, devono aumentare le borse di studio per i giovani senza mezzi ma capaci e meritevoli. Se si tagliano le risorse alle Regioni con la sanità in rosso, si devono sostenere gli investimenti di quelle che hanno messo in atto le «migliori pratiche». Se si aumenta la flessibilità sul mercato del lavoro, bisogna completare la legge Biagi con quegli ammortizzatori sociali sempre promessi e mai attuati. Se si riducono i posti di lavoro nella scuola e nell’università, non lo si può fare con meccanismi di rallentamento del turnover uguali per tutti. Se si puniscono i fannulloni, bisogna trovare meccanismi efficaci e visibili per premiare i meritevoli, possibilmente subito e non solo «in prospettiva».

Su tutte queste cose i margini per dialogare e convergere ci sono, a patto che destra e sinistra non rinneghino quel che hanno detto in campagna elettorale, e tornino a guardare alla loro comune stella polare: la promozione della responsabilità e del merito. E chissà che, cominciando a capirsi sulle cose che interessano la gente (le riforme economico-sociali), alla fine non si finisca per capirsi di più anche su quelle che appassionano i politici di professione, le famose «regole del gioco».


da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 22, 2008, 10:44:27 pm »

22/8/2008
 
Tre missioni per l'Italia federale
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Quando si parla di federalismo, siamo portati a pensare che - in buona sostanza - il problema sia di mettere in riga il Mezzogiorno. Le regioni del Sud spendono e sprecano troppe risorse, che sono sottratte alla crescita e al benessere delle regioni del Nord. Né si può dire che il «sacrificio» del Nord sia compensato da una sia pure lenta riduzione del cosiddetto «divario Nord-Sud»: gli squilibri di oggi sono più o meno gli stessi di sempre. In questo senso, una maggiore responsabilizzazione del Mezzogiorno non andrebbe vista come la punizione di un territorio felicemente seduto sulla ricchezza e sul lavoro altrui, bensì come una preziosa occasione di rimontare finalmente la china.

Ma le cose stanno così? In parte sì, perché effettivamente non vi è una sola regione del Mezzogiorno che produca di più di quello che riceve. Tutte sono in rosso, nel senso che ricevono - sotto forma di spesa pubblica - più di quello che danno sotto forma di tasse (in termini tecnici: hanno un «residuo fiscale» negativo). È vero inoltre che in quasi tutti i campi - sanità, istruzione, assistenza, giustizia - le regioni meridionali sprecano una quota considerevole delle risorse che ricevono (per sprecare intendo: usano più persone e risorse di quante sarebbero necessarie per produrre i medesimi servizi). Però il discorso si ferma qui: lo schema manicheo Nord-Sud non funziona più secondo le attese non appena proviamo a guardare le cose con un po’ più di dettaglio.

Intanto occorre notare che, in fatto di sprechi, le grandi differenze non sono solo fra Centro-Nord e Sud, ma sono interne alle due aree. Nel Centro-Nord la differenza fondamentale è fra il Lombardo-Veneto (l’area più virtuosa del Paese) e tutto il resto, regioni rosse comprese. Nel Sud la differenza fondamentale è fra le tre regioni ad alta intensità mafiosa (l’area meno efficiente del Paese) e tutto il resto del Mezzogiorno. In diversi campi ci sono alcune regioni del Sud (per esempio la Puglia) che - tenuto conto delle risorse di cui dispongono - risultano più efficienti di alcune regioni del Nord (per esempio la Liguria).

C’è poi la complicazione delle risorse pro-capite disponibili in ogni territorio. Qui, con qualche imbarazzo, i fautori del federalismo anti-meridionale si stanno rendendo conto che le prime regioni che dovrebbero pagare salato se si instaurasse un federalismo equo sono le regioni a Statuto speciale del Nord, che dispongono di risorse molto maggiori di quelle delle altre regioni del Centro-Nord. La Valle d’Aosta brucia ogni anno circa 22.000 euro pro-capite, il Trentino Alto Adige 17.000, il Friuli Venezia Giulia 16.000, contro i 13.000 delle tre grandi regioni del Nord (Piemonte, Lombardia e Veneto) e i poco più di 9.000 della Campania e della Puglia. Certo i servizi pubblici delle piccole regioni autonome sono decisamente migliori di quelli delle regioni del Sud, ma è tutto da dimostrare che siano anche più efficienti, ossia non solo di buona qualità ma di livello adeguato rispetto alle risorse di cui dispongono: che cosa sarebbe la Puglia se lo Stato e gli enti locali spendessero il doppio di quel che spendono, ossia non 9.000 euro pro-capite ma 17 mila euro come la Valle d’Aosta?

La realtà è che le missioni del federalismo sono almeno tre, e sono piuttosto diverse fra loro. La prima è di ridurre l’enorme evasione fiscale del Mezzogiorno, facendo sì che la cosiddetta perequazione fiscale (o solidarietà dei territori ricchi verso quelli poveri) si trovi a dover correggere solo gli squilibri nei poteri di acquisto, e non - come accade oggi - anche quelli connessi a furbizia, lavoro nero, economia criminale: il successo di questa missione inevitabilmente costituirà un costo per i cittadini del Mezzogiorno (speriamo compensato da un buon uso delle tasse finalmente riscosse e parzialmente trattenute in loco). La seconda missione è di mettere a disposizione di tutte le regioni - del Nord e del Sud, a statuto ordinario e speciale - uno zoccolo minimo di risorse relativamente uniforme, e comunque ancorato alle caratteristiche oggettive di ogni territorio (per esempio la percentuale di anziani): il successo di questa missione favorirà il Sud, che oggi riceve troppo poco, e danneggerà le regioni a statuto speciale del Nord, che oggi ricevono troppo. La terza missione è di aumentare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, riducendo gli sprechi e creando un meccanismo capace di punire i cattivi amministratori e premiare quelli che fanno bene il loro mestiere: il successo di quest’ultima missione gioverà a tutte le regioni, aiuterà l’Italia a tenere in ordine i conti pubblici, e danneggerà soltanto i cattivi politici.

Può darsi che il federalismo abortisca, perché le tre missioni sono facili da enunciare, ma difficili da mettere in pratica. Però l’eventuale successo del federalismo non sarebbe una vittoria del Lombardo-Veneto contro le regioni meridionali, ma semmai un successo storico di queste ultime. Perché la «missione delle missioni» non è di restituire al Lombardo-Veneto il maltolto, bensì di aiutare tutti i territori ad avvicinarsi un po’ di più all’area più ricca ed efficiente del Paese. Se avesse successo, il federalismo potrebbe regalare all’Italia quel che sessant’anni di intervento pubblico nel Mezzogiorno non sono riusciti a realizzare: il graduale superamento della «questione meridionale».
 
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