LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108197 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Aprile 12, 2013, 11:10:56 pm »

Editoriali
12/04/2013

Ma l’”inciucio” può avere delle virtù

Luca Ricolfi


Sono quasi due mesi che si è votato, e ancora non abbiamo un governo. Perché? 

 

Qualcuno dà la colpa a Grillo, ma a mio parere Grillo non c’entra. Grillo è stato sempre molto chiaro, sia prima del voto sia dopo: a questi politici che ci hanno portato al disastro la fiducia non la voteremo mai, ma se faranno proposte che condividiamo non avremo nessun problema a votarle. Perché non credergli? Perché fingere che anche lui, come gli altri partiti, sia pronto a dire una cosa in campagna elettorale e a fare tutto il contrario dopo aver incassato i voti? Perché attendere un ripensamento? 

 

Il Movimento Cinque Stelle la sua vocazione antisistema (anti «questo» sistema, ovvero questi partiti, questi politici) l’ha sempre dichiarata apertamente. Chiedergli di cambiare rotta ora è come chiedere a Papa Francesco di essere per le nozze gay.

 

Invece Bersani non solo vuole le nozze, ma vuole farle con la sposa recalcitrante Movimento Cinque Stelle. Di qui un corteggiamento che non sembra arrendersi di fronte a nulla, e la sensazione universale che la politica - la vecchia politica - stia perdendo tempo. 

 

Ai signori del Palazzo piace un sacco incontrarsi, telefonarsi, confabulare in Transatlantico, twittare, riunirsi, allearsi, mediare, riflettere, mandare segnali, decodificare i segnali altrui, rilasciare interviste, parlare alla radio, infestare telegiornali e talk show da mane a sera. Intanto i problemi reali dell’Italia, che sono innanzitutto di tipo economico-sociale, continuano a marcire in attesa di un governo che governi. 

 

E’ dunque Bersani il problema?

 

Sì e no. L’aspirazione di Bersani a fare il presidente del Consiglio non è irragionevole, visto che la sua coalizione è il maggiore raggruppamento presente in Parlamento, visto che nessun governo può avere la maggioranza alla Camera senza i voti del Pd, e visto che il Pdl ha detto di non avere riserve o pregiudiziali contro di lui. 

Il problema non è la persona di Bersani, ma è la sua linea politica. Bersani vorrebbe governare da solo, ma con i voti degli altri. Bersani vorrebbe i voti del Pdl o della Lega (quelli di Grillo ha finalmente capito che non li avrà), ma senza fare un governo con ministri del centro-destra. Se, per una volta, usasse le sue famigerate metafore per parlare di se stesso, direbbe: voglio la botte piena (ministeri e poltrone) e la moglie ubriaca (Berlusconi che lo lascia fare). 

 

Questa posizione è chiaramente irragionevole, non solo dal punto di vista del Pdl (perché gli «impresentabili» dovrebbero regalare i loro voti a chi così profondamente li disprezza?), ma anche dal punto di vista del Pd. Come possono pensare, i dirigenti di questo partito, di avviare una stagione «di cambiamento» con un governo di minoranza, che in ogni momento può essere condizionato, ricattato e affondato dai suoi sostenitori esterni? Come può pensare il Pd di governare l’Italia nella tempesta della crisi economica e sociale se la sopravvivenza del governo dipende fin dall’inizio dalla condiscendenza di altri, che non lo amano e possono in ogni momento staccargli la spina?

 

Eppure questo è stato fin dall’inizio, e resta tuttora, l’irragionevole schema politico di Bersani: costituire un governo di minoranza, o mediante un atto di sfida ai grillini (vengo in Parlamento, e vediamo se avete il coraggio di negarmi la fiducia) o mediante un accordo più o meno tecnico con Berlusconi (astensione, uscita dall’aula, non sfiducia, etc.).

 

Bersani, a quanto pare, ha paura dell’unica soluzione che potrebbe darci un governo non effimero: un accordo serio fra destra e sinistra. Non è difficile indovinare i motivi di tale paura. Se nascesse un governo sostenuto dal Pd e dal Pdl, l’accordo sarebbe immediatamente bollato come un «inciucio», parola di cui nessuno pare conoscere il significato esatto ma che da una ventina d’anni viene usata per descrivere quanto di più torbido la politica è capace di fare: accordi sottobanco, scambi di favori e di poltrone, patti inconfessabili. Non mi sento di escludere che questo, o qualcosa del genere, succederebbe alla fine. E tuttavia mi restano alcune domande.

Possibile che la politica italiana – e per politica intendo partiti, opinione pubblica, giornalisti – abbia di se stessa un’opinione così negativa da dare per scontato che ciò che all’estero ha funzionato (ad esempio in Germania una decina d’anni fa) da noi possa solo trasformarsi in un mostruoso patto di potere?

 

Perché alla sola idea di un governo bipartisan la parola «inciucio» scatta automaticamente, prima di avere visto le carte, ossia i programmi e le intenzioni?

 

Perché si riescono a immaginare solo compromessi al ribasso, quando quello di cui avremmo bisogno è, semmai, di selezionare le idee migliori dei due schieramenti, idee che pure esistono?

 

Siamo sicuri di avere tutto questo tempo? Siamo sicuri che imprese, sindacati, lavoratori e famiglie, di fronte al dramma occupazionale che sta affondando l’Italia, abbiano voglia di essere richiamati a votare per l’ennesima volta? Siamo sicuri che le «discriminanti» su cui Bersani e i suoi stanno respingendo le offerte del nemico siano anche le priorità dei cittadini? 

 

Ma soprattutto: siamo sicuri che, per il Pd, gli unici due modi di riconquistare la credibilità perduta siano guadagnare (umilmente) la benevolenza di Grillo e sottrarsi (con sdegno) all’abbraccio mortale del Pdl?

In fondo i cittadini-elettori il loro messaggio l’hanno già mandato, ed è un messaggio chiaro: cari politici, così non potete andare avanti, o vi ritirate o cambiate registro. Ma il momento di cambiare è adesso, non all’ennesimo bagno elettorale. Rivotare è solo un segno di resa della politica. Significa dire agli elettori: voi ci avete mandato un segnale, ma noi non siamo capaci di raccoglierlo. Noi siamo quelli di sempre, prigionieri delle nostre piccole beghe, incapaci di guardare un po’ più in là.

da - http://lastampa.it/2013/04/12/cultura/opinioni/editoriali/ma-l-inciucio-puo-avere-delle-virtu-E3gn67ejxPovAErwqkPCmJ/pagina.html

 
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« Risposta #181 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:03:39 pm »

Editoriali
26/04/2013

Il vantaggio del “velo d’ignoranza”

Luca Ricolfi


Non sappiamo se Enrico Letta riuscirà a formare un governo, né se il nuovo governo sarà messo in condizione di governare. Ma facciamo per una volta gli ottimisti, e immaginiamo che tutto vada per il meglio, e che il futuro governo non sia paralizzato dalle forze politiche che lo sostengono. 

 

Che cosa sarebbe ragionevole aspettarsi dal nuovo governo?

 

Credo che la maggioranza degli italiani risponderebbe: che affronti l’emergenza economico-sociale, a partire dal dramma occupazionale. Dopo tutto, è per questo che ci stiamo negando il lusso di tornare immediatamente al voto. 

 

Anch’io la vedo così, e non da oggi. E tuttavia penso che, in questo preciso momento, ci siano anche due altre priorità, non strettamente economiche ma vitali per il futuro dell’Italia. La prima è ovvia: il nuovo governo, se vuole partire con il piede giusto, deve abolire il finanziamento pubblico dei partiti, e deve farlo senza se e senza ma (o meglio, con un unico «ma»: la completa defiscalizzazione delle donazioni private). So benissimo che c’è anche un po’ di semplicismo e di demagogia in questa richiesta, ma ci sono anche due argomenti fortissimi a suo favore. Primo: l’abolizione del finanziamento pubblico è già stata decisa venti anni fa con un referendum popolare, dunque si tratta solo di rispettarne l’esito. Secondo: comunque sia, i partiti hanno dimostrato ampiamente di non saper usare in modo corretto il fiume di denaro che, aggirando il risultato referendario, si sono continuati ad autoattribuire per due decenni. Detto in altri termini: si possono nutrire le opinioni più diverse sulla giustezza del finanziamento pubblico considerato in astratto, ma arrivati a questo punto – dopo un referendum disatteso e venti anni di cattivo uso del denaro pubblico – non c’è più alcuna scelta.

 

C’è però anche un secondo tema che meriterebbe di essere affrontato subito, in parallelo rispetto ai temi economico-sociali: il cambiamento delle regole del gioco, a partire dalla legge elettorale. Questo tema non è solo importante in sé (perché le regole attuali non funzionano), è anche assolutamente urgente. E lo è per una ragione elementare: questo è il momento migliore per cambiare le regole, anzi è l’unico momento per farlo con qualche speranza di riuscita. Passato questo momento, potremmo non farcela più.

 

Perché?

 

Perché adesso, solo adesso e per poco tempo ancora, le forze politiche si trovano relativamente prossime a quella condizione ideale che, quasi mezzo secolo fa, nella sua «Teoria della giustizia», John Rawls descrisse con l’espressione «velo d’ignoranza». In che senso l’ignoranza può aiutare a prendere decisioni giuste? Nel senso che, per scegliere una regola in modo disinteressato, e quindi equo, è bene che tu non sappia in anticipo se, per la posizione che potrai trovarti ad occupare domani, quella regola ti avvantaggerà o ti danneggerà. Ignorare le convenienze future aiuta a fissare le regole del gioco nel modo più equo e bilanciato possibile, proprio perché ognuno tenderà a proteggersi dal rischio di un sistema di regole che, a posteriori, potrebbe risultare dannoso o catastrofico per lui stesso. 

 

È questa, oggi, la situazione dei partiti. I partiti possono anche credere di sapere quali regole li avvantaggerebbero e quali no, e proprio per questo non riuscire a trovare un accordo fra loro (è precisamente quanto è successo durante il governo Monti). Ma, se non riescono a lasciar perdere i calcoli egoistici neppure oggi, non ci riusciranno mai. Perché oggi la possibilità di fare calcoli e previsioni è al minimo storico, probabilmente ancora più giù di quanto fosse scesa nel 1992-1994, durante le convulsioni della prima Repubblica. Oggi infatti, oltre a non sapere quando si voterà, nemmeno si sa quali forze politiche saranno in campo alle prossime elezioni. E non mi sto riferendo alle forze minori, che come in un caleidoscopio cambiano da elezione ad elezione, ma alle forze maggiori, ivi comprese quelle che siamo abituati a considerare punti fermi e stabili del panorama politico.

 

Ci sarà ancora il Pd alle prossime elezioni? O ci saranno due Pd, uno guidato da Renzi, l’altro guidato da Barca? O addirittura ce ne saranno tre, uno fatto dalla vecchia nomenklatura, l’altro diviso fra i «nuovi di sinistra» e i «nuovi di destra»?

 

Ci sarà ancora Berlusconi alla guida del Pdl? Che faranno Monti e Casini? Si decideranno a creare un secondo raggruppamento moderato, in concorrenza con quello berlusconiano, o persevereranno nel tentativo di fare l’ago della bilancia?

 

E Grillo? Che ne sarà del movimento di Grillo ora che la sua natura «di sinistra» (una strana sinistra, per la verità) è risultata evidente?

 

Le previsioni ragionevoli oscillano fra il 5 e il 55% dei voti. Se a Grillo riuscisse la cosiddetta OPA sul Pd (siete morti! i veri progressisti siamo noi!), il suo movimento potrebbe puntare al 30-35% dei voti, ovvero la quota che dal 1948 tocca alla sinistra in questo paese. Difficile, perché anche l’autolesionismo del Pd ha (forse) un limite, e prima di arrendersi D’Alema e compagni venderanno cara la pelle. 

 

Se il governo Letta fallisse, e i partiti maggiori rimandassero in scena il mortificante spettacolo di questi anni, Grillo potrebbe anche puntare al 51%, naturalmente dopo essersi trasformato in un partito di governo, con un programma e una squadra credibili. Se invece il governo Letta dovesse avere successo, e il Pd trovasse il modo di restare sulla scena (magari con due partiti), al movimento di Grillo potrebbe toccare un destino non molto migliore di quello dell’Uomo Qualunque, una meteora improvvisamente apparsa nel cielo della politica italiana e poi inabissatasi per sempre.

 

Insomma, come direbbe il presidente Mao: «grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente». No, la situazione non è eccellente in nessun campo, ma forse per cambiare le regole del gioco lo è davvero.

da - http://lastampa.it/2013/04/26/cultura/opinioni/editoriali/il-vantaggio-del-velo-d-ignoranza-siVXDK9b0S3DQCp2YfxcxI/pagina.html
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« Risposta #182 inserito:: Maggio 18, 2013, 05:20:24 pm »

Editoriali
17/05/2013

Per il Fisco servono scelte da statisti

Luca Ricolfi


Come era facile prevedere, gran parte del dibattito sulle tasse si sta concentrando sull’Imu. Per mettere un po’ d’ordine, credo sia bene tenere ben distinte due questioni: che cosa è successo dopo il passaggio dall’Ici all’Imu, che cosa conviene fare ora. 

Sul «che cosa è successo» mi pare che i dati elaborati dalla Fondazione David Hume e pubblicati nei giorni scorsi su La Stampa lascino pochi dubbi.
Nel passaggio dal 2011 al 2012 il settore edilizio ha ricevuto il classico colpo di grazia: crollo della produzione, crollo delle compravendite, distruzione di posti di lavoro e – soprattutto – perdita di valore del patrimonio immobiliare. E’ importante sottolineare che non si è trattato della mera continuazione di un trend negativo in atto da alcuni anni, ma di un vero e proprio «scalino» che ha trascinato improvvisamente verso il basso tutti gli indicatori del mercato edilizio. In soli 12 mesi, fra la fine del 2011 (insediamento del governo Monti) e la fine del 2012 il prezzo medio delle abitazioni esistenti è calato di circa l’8%: in concreto vuol dire che, per raccogliere 15 miliardi di tasse per sé stessa, la Pubblica amministrazione ha bruciato almeno 400 miliardi di ricchezza dei cittadini.

 

Si potrebbe pensare che questo sacrificio richiesto agli italiani sia stato distribuito in modo relativamente equo, e che a pagare di più siano stati i «ricchi», spesso possessori di più di una casa. Ma non è affatto così. Il conto dell’Imu è stato pagato innanzitutto dalle fasce più deboli della popolazione: operai edili (spesso immigrati), che hanno perso circa 100 mila posti di lavoro, e possessori di abitazioni periferiche o di scarso pregio, il cui valore si è ridotto ben più dell’8% (come noto quando i prezzi medi scendono, quelli delle abitazioni di pregio subiscono piccole limature, mentre quelli delle abitazioni popolari crollano). Di qui uno stato di incertezza e preoccupazione per il futuro, particolarmente grave per le famiglie che avevano acquistato la casa con un mutuo, che si sono trovate a pagare una super-tassa su un bene non ancora pienamente posseduto. Di qui un effetto negativo sui consumi, che non dipendono solo dal reddito ma anche dalla ricchezza. Di qui, soprattutto, un cambiamento epocale della percezione del «bene casa»: oggi chi possiede una casa non solo non può più pensare di aver messo i soldi al sicuro (perché i prezzi scenderanno ancora), ma deve pensare che il mero possesso di un immobile ha un costo fisso, una sorta di «affitto», di cui non è più in alcun modo possibile ignorare l’incidenza. 

 

Ne valeva la pena? Se il problema era non cadere nel baratro del collasso finanziario, non era meglio (meno peggio) un prelievo straordinario, tipo quello che fece Giuliano Amato nel 1992? 

In una recente trasmissione televisiva, a Lilli Gruber che gli domandava se c’era almeno qualcosa che pensava di aver sbagliato, un errore che oggi non ripeterebbe, Mario Monti ebbe a rispondere che no, per quanto si sforzasse proprio non gli veniva in mente nulla che non rifarebbe. Nulla sugli esodati, nulla sulla riforma del mercato del lavoro, nulla sui pagamenti della Pubblica Amministrazione, nulla sull’Imu. Nessun dubbio retrospettivo, insomma. Mi chiedo se, di fronte all’agonia del settore edilizio e ai dati che la documentano, oggi sarebbe ancora così certo della bontà del lavoro svolto.

 

Resterebbe il «che cosa fare», ora che i buoi sono scappati. Difficile dirlo, se non altro perché ormai è troppo tardi, e una crisi come quella in cui è precipitato il settore delle costruzioni non si ferma facilmente, neppure con l’abolizione per tutti dell’Imu sulla prima casa. L’unica cosa che mi sentirei di dire ai politici è di provare, per una volta, a essere chiari e coerenti.

Arrivati a questo punto, come ha osservato Alberto Mingardi nel suo intervento di qualche giorno fa, l’unico argomento solido per abolire I’Imu sulla prima casa è che tutti i maggiori partiti l’hanno promesso in campagna elettorale, sia pure in misura e con modalità diverse. Se si prescinde da questo argomento (tutt’altro che peregrino, comunque) il quadro cambia sensibilmente. 

 

A regime, il problema delle tasse sulla casa non è l’ammontare dell’imposta più odiata (i 4 miliardi del’Imu sulla prima casa) ma è il loro ammontare complessivo, che ormai supera i 50 miliardi di euro l’anno, pari all’1% del valore del patrimonio edilizio (circa 5000 miliardi): con un rendimento lordo degli immobili che oggi si attesta sul 2-3%, il fatto che quasi la metà del reddito se ne vada in tasse più o meno direttamente connesse all’abitazione non può che avere effetti negativi sul valore del patrimonio edilizio, ossia sulla principale fonte di sicurezza degli italiani.
Rendere più progressive le imposte sulla casa non risolve il problema, perché il crollo del mercato immobiliare non risparmia nessuno, e anzi colpisce più severamente i possessori di abitazioni di scarso pregio. 

 

Se invece il problema è quello di far ripartire la crescita, allora dovremmo avere il coraggio – in materia di Imu – di dare priorità assoluta
all’alleggerimento delle aliquote sui fabbricati connessi alla produzione: stabilimenti, capannoni, terreni agricoli. Dimezzare l’imposizione su questo genere di beni costerebbe più o meno come abolire l’Imu sulla prima casa ma, verosimilmente, avrebbe un effetto sulla crescita più significativo. 

 

Se infine, come si sente spesso affermare, il problema numero uno è l’occupazione, è possibile che le tasse su cui agire prioritariamente siano altre ancora. Alcune, come l’Ires, non si possono nemmeno nominare, perché sanno di aiuto ai «padroni», ancor oggi da molti percepiti più come sfruttatori che come creatori di posti di lavoro. Altre, come il complesso di prelievi che costituisce il «cuneo fiscale» (Irap sul costo del lavoro, contributi sociali), sono politicamente più abbordabili, perché permettono di dare un contentino sia alle organizzazioni del lavoratori sia a quelle dei datori di lavoro. Il dubbio, tuttavia, è che per rendere il lavoro davvero meno caro e le buste paga dei lavoratori davvero più pesanti, ci vogliano risorse così ingenti che nessun governo (italiano) troverà mai il coraggio di reperirle. Perché reperirle significherebbe, inevitabilmente, scatenare le proteste di associazioni, corporazioni, sindacati, forze sociali. Provate a toccare pensioni d’oro e costi della politica (si potrebbero risparmiare 3-4 miliardi di euro). Provate a combattere davvero le false pensioni di invalidità (8-10 miliardi di euro). Provate a portare l’Iva al 25% (come i lodatissimi Paesi scandinavi). Provate a cancellare sussidi e agevolazioni a imprese e settori. E vi accorgerete che la forza dell’esistente è enorme, mentre quella del cambiamento è molto modesta.

Insomma, comunque la si rigiri, si torna sempre al nodo di partenza: per cambiare qualcosa bisogna scontentare qualcuno, e un simile lusso possono permetterselo solo gli statisti, non certo i politici dei nostri giorni.

da - http://lastampa.it/2013/05/17/cultura/opinioni/editoriali/sul-fisco-servono-scelte-da-statisti-QxyNbI9kIWFwcPTttitl1M/pagina.html
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« Risposta #183 inserito:: Maggio 31, 2013, 11:19:36 pm »

EDITORIALI
31/05/2013

La fiammata dei Cinque Stelle

LUCA RICOLFI

Quando votano in pochi, come è successo alle recenti amministrative, c’è sempre il rischio di sovrainterpretare, di vedere nel voto più di quello che contiene. A me i segnali chiari sembrano solo due: gli elettori di sinistra che avevano votato Grillo stanno cominciando a tornare a casa, il movimento di Grillo ha subito un tracollo d’immagine. Gli italiani saranno pure ingovernabili, come pensava Mussolini e ora ripete il commissario europeo Günther Oettinger, ma non sono ciechi.
 
Se per qualche motivo le cose precipitano, come è successo in vari passaggi della storia nazionale, può succedere che una parte dell’elettorato improvvisamente divenga pronta a votare una forza politica nuova, che promette un cambiamento radicale, o anche semplicemente rappresenta un modo d’essere diverso, una qualche rottura con il passato o con il presente. Ma altrettanto improvvisamente i medesimi elettori che hanno scommesso sul nuovo o sul diverso sono pronti a ritirare il loro consenso. Nella storia elettorale italiana degli ultimi 70 anni è già successo due volte, con il movimento dell’Uomo Qualunque (fra il 1946 e il 1948) e con la mai veramente nata Alleanza democratica, che subito prima della discesa in campo di Berlusconi era arrivata (nei sondaggi) a sfiorare il 20% dei consensi. Vedremo presto se il caso del Movimento Cinque Stelle somiglierà più a quello dei movimenti-fiammata (come Uomo Qualunque e Alleanza democratica), o a quello dei movimenti-incendio, che nascono all’improvviso ma durano nel tempo, come sono stati la Lega e Forza Italia. 
 
Personalmente propendo più per la prima ipotesi, quella di un raffreddamento del consenso al Movimento di Grillo, e questo non tanto per la batosta elettorale dei giorni scorsi, quanto per i comportamenti e gli equivoci che l’hanno preceduta e per molti versi preparata.
 
Primo equivoco. Beppe Grillo pare non aver capito che la maggior parte degli elettori non sono né fanatici, né militanti. Sono sì disgustati dalla politica, vorrebbero sì mandare a casa una classe dirigente che li ha profondamente delusi, ma al tempo stesso vorrebbero che un governo ci fosse. E che fosse un governo decente. Non è evidente, o almeno non lo è ancora, o non lo è alla maggioranza dei cittadini, che il governo Letta-Alfano sia un governo indecente. Mentre è del tutto evidente che il Movimento Cinque Stelle ha ostacolato in ogni modo la nascita di un governo compatibile con il risultato elettorale.
 
Secondo equivoco. Il Movimento Cinque Stelle pare non aver capito che molti elettori danno una notevole importanza a due virtù: la competenza e lo stile. Molti elettori (la maggioranza, a mio parere) non si accontentano affatto di essere governati da gente «semplice e onesta», ma vorrebbero anche che i politici che li rappresentano fossero competenti, esperti, e persino educati. Soprattutto quest’ultima cosa. Gli elettori possono anche perdonare la volgarità del capo, che può mascherarsi dietro l’alibi della satira, ma apprezzano molto di meno la volgarità dei sottoposti, sia quando si manifesta come amore per il vil denaro (vedi il surreale dibattito sugli scontrini e gli emolumenti dei parlamentari) sia quando si manifesta con le offese e il turpiloquio (giusto ieri le parole «merda» e «stronzo» erano al centro delle profonde riflessioni politiche di due grillini molto in vista, la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi e l’uomo-streaming del movimento Salvo Mandarà; per non parlare delle offese di Grillo a Stefano Rodotà).
 
Terzo (e fatale) equivoco. Il Movimento Cinque Stelle pare non aver compreso né la natura della Rete né la natura della democrazia. La Rete, che qui scrivo in maiuscolo perché qualcuno la considera una divinità, è uno strumento comodissimo e utilissimo (posta elettronica, Wikipedia, migliaia di servizi gratuiti, velocizzazione delle comunicazioni, ecc. ecc.), ma è anche fonte di innumerevoli effetti collaterali negativi. Grazie alla Rete può risultare più facile violare la privacy, umiliare le persone, indurre al suicidio un ragazzo o una ragazza, mettere in circolazione informazioni false o pericolose, truffare il prossimo, dare voce agli incompetenti, permettere l’espressione dei peggiori sentimenti, o anche semplicemente sottrarre tempo a chi potrebbe usarlo assai meglio. Il Movimento Cinque Stelle non solo deifica la Rete, ma sogna un mondo in cui tutti possano partecipare a un innumerevole insieme di decisioni grazie al voto elettronico. Un mondo in cui la democrazia diretta, che qualche volta ha funzionato in piccole comunità, trionfa sulla democrazia rappresentativa, inventata per governare comunità grandi e complesse.
 
E’ una sciocchezza, se non altro perché la maggior parte di noi non vuole affatto mettere becco nell’innumerevole giungla di leggi e norme che vengono emanate ogni giorno da ogni sorta di consesso, ma preferirebbe potersi dedicare alle cose che ama con la serenità che deriva dal fatto di avere dei decenti rappresentanti in parlamento e nelle istituzioni. E’ a questo che serve la democrazia rappresentativa. Ed è questo il motivo per cui, nelle democrazie che funzionano, a votare vanno in pochi, non in molti: perché sanno che, chiunque vinca, non sarà una catastrofe.
 
da - http://www.lastampa.it/2013/05/31/cultura/opinioni/editoriali/la-fiammata-dei-cinque-stelle-WZ7ZCikyPrkYsnUU8EJuQL/pagina.html
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« Risposta #184 inserito:: Giugno 03, 2013, 04:44:01 pm »

Editoriali
03/06/2013

Soldi ai partiti e significato delle parole

Luca Ricolfi


Sul finanziamento pubblico dei partiti si possono avere le idee più diverse. Oggi, come vent’anni fa, è molto popolare l’idea che debba essere abolito integralmente. Ma anche l’idea opposta, e cioè che qualche forma di finanziamento pubblico debba esserci, è tutt’altro che priva di buone ragioni.

Qui vorrei non entrare nel merito della questione, perché tanto ognuno resta della propria idea. 

 

E quale sia la mia opinione personale è del tutto irrilevante. Quello che però vorrei dire con forza è che, come cittadino, ho trovato offensiva – per non dire beffarda – l’impostazione del disegno di legge appena proposto dal governo. Provo a spiegare perché.

 

Il primo articolo del disegno di legge recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». Nella lingua italiana la parola «abolito», in assenza di ulteriori qualificazioni, significa soppresso, tolto, eliminato, azzerato.

 

Inoltre, per il cittadino italiano medio, la parola «finanziamento pubblico dei partiti» designa l’insieme di risorse pubbliche che affluiscono ai partiti: rimborsi elettorali, finanziamento dei gruppi politici a livello centrale e locale, agevolazioni fiscali e tariffarie, contributi alla stampa di partito. Dunque, il cittadino pensa: i partiti non avranno più soldi pubblici, e se vorranno essere finanziati i soldi dovranno chiederceli direttamente.

 

Leggendo il Disegno di legge, invece, si scopre che le cose non stanno così. Nel 2013 non cambia nulla. Nel 2014, se il Disegno di legge sarà approvato entro quest’anno, i rimborsi elettorali attuali cominceranno ad essere limati un po’, e spariranno del tutto solo nel 2017 (nel 2018 se il Disegno di legge dovesse essere approvato solo nel 2014). In compenso, fin dal 2014 scatteranno agevolazioni fiscali alle donazioni private, nonché finanziamenti ai partiti attraverso un meccanismo di «destinazione volontaria del 2 per mille dell’imposta sul reddito». Non solo: lo Stato assicurerà alle forze politiche la disponibilità di locali e spazi televisivi.

 

Non è necessario entrare nei dettagli del disegno di legge per rendersi conto di almeno quattro cose.

Primo. Il disegno di legge non tocca né il finanziamento dei gruppi parlamentari, né il finanziamento dei gruppi dei Consigli regionali, due voci molto consistenti del finanziamento pubblico ai partiti.

 

Secondo. Lo Stato continuerà a sostenere dei costi per il finanziamento dei partiti, sia in forma diretta, sia in forma indiretta (le detrazioni fiscali, l’uso di immobili, gli spazi televisivi hanno un costo). 

 

Terzo. Nel triennio transitorio (2014-2016), nulla assicura che la decurtazione dei rimborsi elettorali non venga compensata, o addirittura più che compensata, dal meccanismo del 2 per mille.

 

Quarto. Anche a regime (dal 2017 o dal 2018), nulla esclude che il finanziamento possa essere uguale o superiore a quello previsto dalla legislazione attuale, dovuta al governo Monti (l’articolo 4, anziché fissare un tetto preciso all’uso del 2 per mille, dice che la spesa non potrà superare «XXX», una cifra indeterminata che potrebbe persino essere maggior di quella attuale).

 

Ecco perché dicevo all’inizio che ho trovato offensivo l’articolo 1 che recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». 

 

No. Questo disegno di legge prova a ridisegnare una parte del finanziamento pubblico dei partiti secondo nuovi principi (proprio come aveva auspicato Bersani in campagna elettorale), ma non lo abolisce affatto. Berlusconi e Renzi, a parole paladini dell’abolizione totale, devono farsene una ragione. Può anche darsi che alla fine i partiti costino al contribuente un po’ di meno di oggi, ma nulla fa pensare che costeranno molto di meno o che costeranno nulla. 

 

Perciò, una sola preghiera. Cari politici, che quando ci aumentate le tasse vi rifugiate codardamente dietro il verbo «rimodulare», ora che state effettivamente rimodulando il finanziamento dei partiti abbiate almeno il coraggio di non usare il verbo «abolire». Perché abolire vuol dire abolire, abolire, abolire (direbbe Gertrude Stein), e se voi dite «abolire» quando non state abolendo affatto, noi ci sentiamo presi in giro. Insomma, se proprio non riuscite ad avere rispetto per noi, abbiatene almeno per la lingua italiana.

da - http://lastampa.it/2013/06/03/cultura/opinioni/editoriali/soldi-ai-partiti-e-significato-delle-parole-rl1KjYKAGo4mduYwdAmzzN/pagina.html
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« Risposta #185 inserito:: Giugno 22, 2013, 05:48:40 pm »

Editoriali
21/06/2013

Invincibili nell’arte di non scegliere

Luca Ricolfi


Sul governo Letta le valutazioni possono essere molto diverse. Molti elettori, ad esempio, hanno apprezzato il mero fatto che - finalmente - l’Italia fosse riuscita a darsi un governo, dopo due mesi di balletti inconcludenti. Altri ne apprezzano lo stile pragmatico, l’attitudine al dialogo, la politica dei piccoli passi. Altri ancora, invece, sono profondamente delusi: specie le basi del Pdl e del Pd non hanno gradito quelli che possono apparire elementi di continuità con il governo Monti, come la deferenza verso l’Europa e un certo attendismo sulle scelte cruciali.

Ma come stanno le cose?

A me pare che, a due mesi dal suo insediamento, il governo Letta abbia già mostrato piuttosto chiaramente il suo volto. Nato dalla assenza di alternative, esso aveva di fronte due strade. Prima strada: governare cercando il massimo comun divisore fra le idee della destra e della sinistra, ovvero varare il maggior numero di provvedimenti capaci di mettere d’accordo destra e sinistra (a proposito: il massimo comun divisore fra 8 e 6 è 2).

Seconda strada: governare cercando il minimo comune multiplo fra le idee della destra e della sinistra, ovvero tentare di metterne in atto le idee più incisive (a proposito: il minimo comune multiplo fra 8 e 6 è 24). 

Fra le due strade il nuovo governo ha scelto molto nettamente la prima, che poi è la cifra fondamentale di tutti i governi della seconda Repubblica, ivi compreso il governo Monti, specie nella parte finale della sua parabola. Governo del «fare», indubbiamente, ma inteso come fare pochino, rimandando al futuro tutte le scelte cruciali, quelle difficili e che possono creare conflitti. Prima del voto tutte le maggiori forze politiche in campo avevano dichiarato di saper come «reperire» svariati miliardi di «risorse», chi per abbattere l’Imu (più o meno integralmente), chi per rilanciare gli investimenti pubblici, chi addirittura per restituire l’Imu dell’anno scorso.

Ora che si ritrovano tutte insieme nel medesimo governo, ora che appaiono miracolosamente d’accordo su alcune priorità (ad esempio bloccare l’aumento del l’Iva), ora che non possono accusare l’avversario politico di intralciare l’azione del governo, improvvisamente scoprono di non saper più come trovare quelle medesime risorse che in campagna elettorale consideravano a portata di mano. Con 400 miliardi di spesa pubblica extra-pensionistica e 150 miliardi di evasione fiscale, i nostri governanti ci dicono candidamente di non saper proprio come fare a recuperarne anche solo 4, quanti sarebbero necessari per evitare l’aumento dell’Iva.

Ed ecco allora la soluzione: chiedere all’Europa di fare più deficit, l’unico vero punto di contatto importante fra destra e sinistra. Era chiaro fin dai programmi elettorali di Pd e Pdl, è chiaro da come si stanno muovendo sullo scenario europeo i loro leader. L’unica vera differenza è che i dirigenti di centro-sinistra vogliono salvare le apparenze, negoziando con le autorità europee il permesso di sforare su determinate voci (investimenti pubblici, pagamenti della Pubblica Amministrazione), mentre Berlusconi ha meno peli sulla lingua e ogni tanto si lascia scappare quello che molti pensano, anche a sinistra: e cioè che un po’ di deficit fa bene, certo non lo si può annunciare spudoratamente e programmaticamente, e però sì, lo sappiamo perfettamente che l’anno prossimo, a conti fatti, ci troveremo con diversi decimali di deficit pubblico in più. Di qui un permanente navigare a vista, con molta retorica ma senza grandi progetti, con un campionario di buone intenzioni ma senza nessuna scelta forte.

Si poteva, si potrebbe fare diverso?

Verrebbe da rispondere: forse no, i nostri politici sono quello che sono, e dopotutto siamo italiani. 

Ma, forse, si dovrebbe anche aggiungere: se non ora quando?

Detto in altre parole: a che serve un governo di Grosse Koalition, con destra e sinistra unite nel medesimo esecutivo, se non a fare, finalmente, quelle scelte difficili che da almeno venti anni vengono rimandate? Non è questo che ha fatto la Germania quando era lei il «malato d’Europa»? E non è forse per non aver fatto quelle scelte che ora il grande malato d’Europa siamo proprio noi, con la nostra attitudine a nascondere la testa sotto la sabbia, a rimandare le decisioni, a conservare tutto il conservabile? Perché continuiamo a cercare le cause dei nostri mali solo all’infuori di noi, nella Merkel, nell’Europa, nella speculazione? Perché la politica non vuole riconoscere che è la sua incapacità di decidere che ha portato il Paese al disastro? Perché non vogliamo capire che il nostro futuro dipende innanzitutto da noi stessi? 

La risposta a questi dubbi, purtroppo, pare essere una sola. L’unica arte in cui i nostri politici non hanno rivali è l’arte del non governo. Neppure in un momento come questo, in cui la principale forza di opposizione, il movimento di Beppe Grillo, si sta autodistruggendo, destra e sinistra trovano in sé stesse la forza per sposare fino in fondo le proprie idee più audaci, facendo quello che una Grosse Koalition dovrebbe e potrebbe fare: aggredire sia l’evasione fiscale sia gli sprechi della Pubblica amministrazione, in una logica di «minimo comune multiplo», che dalla destra e dalla sinistra cerca di estrarre il meglio di ciascuna, anziché il meno peggio di entrambe. 

Il fatto che, di fronte all’esigenza di scovare pochi miliardi per contenere le aliquote Imu o Iva i nostri governanti ci confessino che non hanno la minima idea di dove e come trovare i soldi, e che se li trovassero si tratterebbe di interventi «di estrema severità», ci dà la piena misura di quanto volino basso, di quanto poche cose pensino di poter fare anche in futuro, e tutto sommato anche di quanto poco siano attrezzati per guidare l’Italia.
Una politica seria, dopo decenni di analisi, di studi, di ricerche, di denunce sull’evasione e sugli sprechi dovrebbe avere i cassetti pieni di soluzioni, di piani dettagliati, di progetti operativi, e non si farebbe prendere alla sprovvista appena ha l’opportunità di governare.

Peccato, perché questa era un’occasione straordinaria. Probabilmente irripetibile, e quasi certamente l’ultima.

da - http://lastampa.it/2013/06/21/cultura/opinioni/editoriali/invincibili-nellarte-di-non-scegliere-BcWRI4GJAkrreCa0mRDURO/pagina.html
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« Risposta #186 inserito:: Luglio 07, 2013, 11:29:11 am »

Editoriali
07/07/2013

La trappola dell’austerità all’italiana

Luca Ricolfi

Dopo il Consiglio Europeo della settimana scorsa il clima politico è cambiato, almeno sui principali mezzi di informazione italiani. Il cambiamento si manifesta essenzialmente attraverso la ripetizione, in mille forme e varianti, di un racconto base che suona più o meno così: l’Italia ha fatto bene i «compiti a casa», ora siamo rientrati nel club dei paesi virtuosi, l’Europa ci loda e ci premia concedendoci qualche margine di flessibilità, finalmente si può tornare a investire e a spendere, sia pure con la dovuta prudenza. L’era dell’austerità, finalmente, volge al tramonto.

Questo racconto non è del tutto sbagliato, ma è altamente fuorviante. Esso induce a pensare che il peggio sia passato, che i rischi finanziari siano finiti, e che con la politica dei piccoli passi l’Italia possa finalmente tornare a crescere. 

Spero di sbagliarmi, ma credo che le cose non stiano affatto così. Anzi, credo che l’indulgente ottimismo dei media sia corresponsabile dello stallo italiano. Esso induce a un sillogismo del tipo: l’austerità non ha funzionato, dunque la strada da battere è quella di allentare poco per volta i vincoli che l’austerità stessa ha imposto al paese.

Il problema, però, sta nella premessa. Quella che abbiamo avuto con il governo Monti non è la politica dell’austerità, ma una delle due possibili varianti di una politica di austerità. Contrariamente a quanto molti credono, la parola «austerità» non designa una politica economica, ma il fine che essa vuole raggiungere. 

Un Paese entra in regime di austerità nel momento in cui chiede ai suoi cittadini dei sacrifici per correggere uno squilibrio, tipicamente un deficit dei conti pubblici, dei conti con l’estero o di entrambi. Dire che si sta facendo una politica di austerità significa solo che si cerca di effettuare tale correzione, indipendentemente dai mezzi che si intendono usare per ottenere il pareggio di bilancio. E’ solo quando si specificano i mezzi adottati per raggiungere quel fine che l’austerità diventa anche una politica economica. 

Ed eccoci al punto cruciale. Della politica di austerità esistono due varianti fondamentali: la variante «statalista» basata sull’aumento delle tasse e l’introduzione di ulteriori controlli nell’economia, la variante «liberale», basata sulla riduzione della spesa pubblica e le liberalizzazioni del mercato del lavoro e dei mercati dei prodotti e dei servizi. 

Nessuna politica economica reale adotta mai una di queste varianti allo stato puro, ma la politica del governo Monti si è molto avvicinata alla variante statalista. La variante liberale, strenuamente difesa da Alberto Alesina sia nei suoi articoli sia nei suoi lavori econometrici, è stata parzialmente adottata dalla Germania a partire dal 2003, ma in Italia non è mai stata sperimentata da nessun governo.

Ecco perché dire che la politica di austerità ha fallito è una mezza verità. Noi abbiamo avuto solo la variante-Monti, che effettivamente ha messo in ginocchio il Paese, ma non abbiamo mai sperimentato la variante-Alesina. Dunque la vera questione oggi non è austerità-sì, austerità-no, ma è con quale politica l’Italia possa tornare a crescere. Qui sta il nodo, e qui si affrontano due visioni nessuna delle quali è di mera austerità, perché la situazione dei conti pubblici italiani non è più drammatica come negli anni scorsi, anche se resta molto grave sul versante del debito. 

Secondo la prima visione è inutile illudersi che l’economia possa ripartire senza una riduzione delle aliquote immediata, drastica e permanente, da finanziare con un mix di impegni riformistici (liberalizzazioni e sburocratizzazione), riduzioni progressive della spesa pubblica, dismissioni del patrimonio dello Stato. Secondo l’altra visione, invece, si può procedere come al solito, navigando a vista, con misure a tempo (sgravi che scadono nel giro di 6,12 o 18 mesi), piccoli aggiustamenti di bilancio, senza un drastico scambio fra spesa pubblica e tasse.

Personalmente, penso che la visione drammatizzante della cultura liberale sia esatta ma generi politiche inattuabili, se non altro perché siamo un popolo molto conservatore, a destra come (se non di più) a sinistra. E che la versione tranquillizzante della cultura di governo sia attuabilissima, ma generi politiche che non appaiono disastrose solo perché, in Italia, il disastro si presenta in dosi omeopatiche, sotto forma di un declino tanto lento quanto inesorabile. Questa, temo, è la trappola logico-politica in cui siamo impigliati.

DA - http://lastampa.it/2013/07/07/cultura/opinioni/editoriali/la-trappola-dellausterit-allitaliana-U42tBNlPpn4e6roHrL789L/pagina.html
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« Risposta #187 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:48:05 am »

Editoriali
28/07/2013

La sinistra che nega la realtà

Luca Ricolfi

Una ventina di anni fa, all’indomani della prima vittoria elettorale di Berlusconi (1994), lo storico Giovanni Belardelli pubblicò sulla rivista «il Mulino» un saggio fulminante, significativamente intitolato «Se alla sinistra non piacciono gli italiani».

 

Fu proprio in quell’epoca, infatti, che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l’appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l’accecamento ideologico.

 

Oggi questa storia, una storia di incomprensione e di arroganza etica, fa però un decisivo passo in avanti. Oggi che un politico di sinistra come Stefano Fassina viene crocifisso dai suoi perché ha osato dire che esiste anche un’evasione fiscale «da sopravvivenza» (una cosa che qualsiasi persona senza pregiudizi vede ad occhio nudo) quella diagnosi di Belardelli ci appare fin troppo ottimistica, generosa, o benevola verso la cultura di sinistra. No, il problema della sinistra non è, o non è soltanto, che non le piacciono gli italiani: il problema è che non le piace la realtà. 

 

Quando i fatti mettono a repentaglio l’ideologia, il riflesso meccanico della cultura di sinistra non è correggere o adattare l’ideologia alla realtà, ma correggere la realtà negando i fatti. Dove correggere può voler dire, e ha voluto dire per almeno mezzo secolo, cercare di raddrizzare il «legno storto» dell’italianità, rieducando e civilizzando gli italiani secondo la concezione del bene comune propria della cultura di sinistra (una vicenda puntualmente narrata nell’ultimo libro di Giovanni Orsina: I l berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio 2013). Ma può voler dire anche, più letteralmente, correggere i dati della realtà, fino al punto di negarli. 

E’ successo mille volte, talora con risvolti tragici (il partito comunista che nel 1956 si rifiuta di vedere i fatti d’Ungheria), talora con risvolti meno drammatici ma non per questo privi di conseguenze (ad esempio con la negazione di dati socio-economici scomodi), talora, infine, con risvolti decisamente comici, come nel caso di Stefano Fassina sommerso di critiche per aver constatato un fatto – l’evasione da sopravvivenza – tanto evidente quanto indigesto al suo partito.

 

Da che cosa deriva questa refrattarietà ai fatti, fino al negazionismo più buffo?

Certamente, e in una misura non trascurabile, dall’eredità dello stalinismo, con il suo totale disprezzo per la verità, o meglio con la sua identificazione della verità con ciò che risulta utile alla causa, sia essa il Socialismo, la Rivoluzione, il Partito o lo Stato. Come sociologo, ne ho avuto esperienza diretta innumerevoli volte: quando scoprivo qualcosa che non faceva gioco alla sinistra i «compagni» mi dicevano che sì, poteva essere tutto vero, ma non era il momento di dirlo, la situazione era grave e c’era il rischio di «strumentalizzazioni da parte della destra». Poi però il momento di dirlo non arrivava mai, perché la situazione era sempre «delicata» e la posta in gioco invariabilmente «importantissima».

 

Ma forse non andrebbe trascurato anche un altro elemento, un meccanismo – anche psicologico – che ci tocca un po’ tutti, ma affligge in modo patologico la politica, a sinistra come a destra. Con lo psicologo sociale Leon Festinger, che ebbe a scoprirlo negli Anni 50, potremmo definirlo l’incapacità di tollerare le dissonanze. E risalendo ancora più indietro, al filosofo David Hume, potremmo definirlo la tendenza umana a saltare dai fatti ai valori, dal piano descrittivo al piano normativo. Specie chi ha ferme convinzioni etiche, morali o politiche, ha difficoltà a riconoscere, talora addirittura a «vedere», i fatti che potrebbero insidiarle. Se mi batto per i diritti degli immigrati, mi è molto difficile accettare una statistica che dimostri che il loro tasso di criminalità è più alto di quello degli italiani. Se sono un fervente meridionalista, mi è molto difficile accettare un’indagine in cui si mostra che evasione e falsi invalidi sono concentrati in alcune regioni del Sud. Se sono un nemico giurato dell’evasione fiscale non riesco ad accettare che esista l’evasione per sopravvivenza: che è appunto la trappola in cui è caduto Stefano Fassina, un politico forse troppo giovane per aver interiorizzato completamente lo stalinismo e la concezione utilitaristico-strumentale della verità.

 

Ma è un errore logico. Il piano dei valori e quello dei fatti sono separati. Si può restare difensori dei diritti umani, meridionalisti, o amanti della tasse (viste come «cosa bellissima», secondo l’audace definizione di Tommaso Padoa Schioppa) anche in presenza di fatti che rendono più complessa la difesa dei nostri valori. Anzi, dovremmo renderci conto che – proprio per promuovere i nostri ideali – ci serve sapere come stanno le cose. Conoscere per deliberare, diceva Einaudi, ma forse oggi dovremmo dire, più precisamente, non aver paura di conoscere se si vuole cambiare la realtà. Altrimenti quello in cui si cade è una sindrome molto pericolosa, quella di negare l’esistenza di ciò che non si sa come affrontare, o semplicemente non si ha il coraggio di combattere.

 

C’è stato un tempo in cui una parte del mondo politico aveva la spudoratezza di dire che «la mafia non esiste». Oggi non succede più, ma in compenso c’è chi si permette di negare l’evasione per sopravvivenza. Potrà sembrare strano, ma questi due tipi di negazioni hanno almeno un elemento in comune: la consapevolezza che quella cosa in realtà esiste, ha una sua solidissima ragion d’essere, ma, proprio perché non si ha la forza o la volontà di combatterla, non può essere detta.

 

E’ questa, purtroppo, la realtà dei sindacati e dei politici in Italia. I luoghi in cui si evade spudoratamente, talora per sopravvivenza talora per ingordigia, sono perfettamente noti a tutti perché coinvolgono milioni di persone, si vedono a occhio nudo, sono stati raccontati da innumerevoli inchieste giornalistiche, descritti minuziosamente da decine di studi scientifici: affitti di seconde case completamente in nero, operai dell’edilizia reclutati con il sistema del caporalato, immigrati spremuti come limoni nelle campagne e nell’industria dei trasporti, lavoranti a domicilio nelle civilissime regioni del Centro Italia, ragazzi che lavorano senza contratto nei negozi di Roma. Eppure non si fa nulla. Non si fa nulla perché se si facesse si creerebbero conflitti sociali immani, chiuderebbero centinaia di migliaia di attività, si perderebbero milioni di posti di lavoro. Meglio, molto meglio e molto più facile, tuonare contro gli evasori e fingere che l’evasione fiscale sia solo quella dei grandi imprenditori, dei gioiellieri, dei ricchi, degli speculatori, dei professionisti. Se i sindacati dovessero occuparsi anche di quel che succede nei negozi, nelle boite, nei campi, in edilizia, nella miriade di aziende di trasporto illegali, il loro lavoro diventerebbe immensamente più difficile, più complicato, spesso più rischioso. No, meglio fingere che tutto questo non esista, meglio andare per convegni, partecipare ai talk show in tv, sedersi ai tavoli in cui si discute con il governo e con la Confindustria delle crisi dei grandi gruppi. E quando a un politico, per di più uno dei «nostri», uno molto di sinistra, scappa detta la verità, una verità che tutti conoscono e vedono, emettere la scomunica: il suo è stato «un clamoroso errore politico».

Così disse l’ayatollah Susanna Camusso. Amen, e avanti così.

da - http://lastampa.it/2013/07/28/cultura/opinioni/editoriali/la-sinistra-che-nega-la-realt-LuWHdIL1HpIxDQsk0BDcIO/pagina.html
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« Risposta #188 inserito:: Agosto 04, 2013, 11:44:14 am »

Editoriali
04/08/2013

Una marcia dei 40 milioni

Luca Ricolfi

è già successo 21 anni fa, con Mani pulite e la fine della prima Repubblica, sta risuccedendo ora, con la sentenza della Cassazione su Berlusconi e la fine della seconda Repubblica. La storia, in Italia, la scrive la magistratura, mentre la politica la subisce. In molti pensano, non senza qualche buona ragione, che sia la magistratura ad aver esondato nel la politica. 

Ma la realtà è che è innanzitutto la politica ad essersi esposta all’alluvione giudiziaria, che ora la sta sommergendo per la seconda volta. 

Ai politici non piace sentirselo dire, ma la causa fondamentale dello strapotere della magistratura è proprio la politica. E lo è in tutte le sue forme ed espressioni. E’ la politica (tutta la politica) che non ha saputo riformarsi, né dopo tangentopoli (1992), né dopo il referendum radicale che aveva tentato di cancellare il finanziamento pubblico dei partiti (1993), né dopo il trionfo del Movimento Cinque Stelle alle ultime elezioni. E’ la politica (in questo caso quella della destra) che ha continuamente modificato le regole del gioco per salvare Berlusconi dai suoi processi. E’ la politica (in questo caso quella della sinistra) che ha rinunciato a battere elettoralmente Berlusconi al solo scopo di favorire un candidato premier debole (Bersani) a scapito di un candidato premier forte (Renzi). Ed è la politica, infine, che ha così poco e male governato l’Italia, lasciando che i problemi veri, occupazione, tasse, Stato sociale, fossero sommersi dai problemi finti, le questioni altamente ideologiche che appassionano il ceto politico, e purtroppo anche tanta parte dei mass media.

Se oggi siamo a questo punto non è perché la magistratura non ha permesso alla politica di governare, ma perché l’incapacità di un intero ceto politico di governare e di decidere ha dato alle vicende giudiziarie uno spazio abnorme nella nostra storia. C’è una differenza importante, però, rispetto al 1992. Allora il sentimento dominante dell’opinione pubblica era una generalizzata ansia di cambiamento, e infatti l’elettorato si divise fra i semi-nuovi partiti di centro-sinistra, mai stati al governo e guidati dal Pds, e i nuovissimi partiti di centro-destra, guidati da Forza Italia. I nostalgici del passato, o forse sarebbe meglio dire i moderati spaventati dal radicalismo della destra e della sinistra, erano una minoranza, che trovò un approdo nelle formazioni postdemocristiane di Segni e Martinazzoli.

Oggi la situazione è profondamente diversa. Gli elettori sono molto più disincantati, il discredito e la delusione coinvolgono più o meno pesantemente tutti i partiti (compreso il Movimento Cinque Stelle), nessuno si illude che un Berlusconi, un Epifani o un Grillo sappiano non dico come affrontare i problemi del Paese, ma quanto meno quali essi siano. Alle prese con un’economia in ginocchio e uno Stato asfissiante in tutte le sue articolazioni, la maggior parte degli italiani non crede a nessuno degli imbonitori che cercano di eccitarne gli animi, né pensa che nuove elezioni risolverebbero i nostri problemi. Per qualcuno è difficile rendersene conto, o farsene una ragione, ma la realtà è che la maggior parte di noi non è né indignata per le malefatte di Berlusconi, né disperata per il destino cinico e baro che l’Italia gli sta riservando. La maggior parte di noi è solo stanca, sfinita, esausta. Non ha nessun desiderio di rivedere, per altri dieci o venti anni, il film che è stata costretta a vedere finora. Vorrebbe che questo clima da guerra civile fredda finisse una volta per sempre, e che si mettesse mano una buona volta ai problemi del Paese. Se un paragone storico si può azzardare, forse il momento che più somiglia a quello attuale non è il 1992 ma il 1980, quando la «marcia dei quarantamila» pose fine bruscamente al decennio più drammatico e conflittuale della nostra storia repubblicana. Con la differenza che oggi, a giudicare dai sondaggi, non siamo 40 mila ma semmai 40 milioni. Quaranta milioni di italiani che potranno avere le opinioni più diverse su Berlusconi, il ruolo dei giudici, la destra e la sinistra, ma che da una cosa sono accomunati: non hanno la minima intenzione di passare i prossimi decenni a discutere e recriminare sulla «guerra dei vent’anni» fra Berlusconi e la magistratura. 

Non perché siano indifferenti, o superiori, o annoiati, ma semplicemente perché non se lo possono permettere, e hanno capito che quella guerra ha fatto danni immensi che paghiamo tutti. La situazione economico-sociale del Paese è molto più seria di quanto viene spesso rappresentata. Quando, come avviene da qualche settimana, si parla di segnali di ripresa, si dovrebbero sempre ricordare due cose. La prima è che la cosiddetta ripresa è tale rispetto al tonfo del 2012, un tonfo che in 12 mesi ha raddoppiato il numero delle famiglie in difficoltà: siamo come una pallina da tennis che è caduta in un pozzo di 10 metri di profondità e si compiace di essere rimbalzata di 30 centimetri sul fondo del pozzo. La seconda cosa da ricordare è che, nonostante lo spread sia sotto quota 300, il rating del debito pubblico dell’Italia è di nuovo a un passo dal baratro, dove il baratro è il punto nel quale i buoni del tesoro vengono classificati come spazzatura (junk bonds) e gli investitori istituzionali sono obbligati a venderli in massa, con conseguente rischio di un default dell’Italia. Alcuni osservatori paiono non rendersi conto che il fatto che le agenzie di rating abbiano sbagliato in passato non implica logicamente né che stiano sbagliando di nuovo, né che il loro giudizio sull’Italia – giusto o sbagliato che sia – sia destinato ad essere ignorato dai mercati, dagli operatori esteri e dai fondi pensione.

Per questo guardo con molta preoccupazione ad entrambi i copioni che la politica sta recitando. I fautori dello scontro permanente non sembrano rendersi conto che la seconda Repubblica è finita il 1° agosto 2013 e costruire la terza con lo sguardo rivolto al passato significa non uscire mai dal brutto incantesimo in cui siamo vissuti in questi venti anni. I fautori del governo ad ogni costo, primo fra tutti il presidente Letta, paiono non rendersi conto che la mera sussistenza dell’esecutivo, con la garanzia di stabilità politica che questo implica, non solo è molto di meno di ciò di cui l’Italia ha bisogno, ma è un obiettivo irraggiungibile. Il secondo governo Prodi, quello del 2006-2008, vivacchiò e alla fine cadde anche perché Prodi si ingegnò a farlo sopravvivere solo con l’arte democristiana del troncare, sopire, mediare, rimandare, anziché assumersi risolutamente la responsabilità e il rischio di decidere. Oggi per Enrico Letta è ancora più difficile, perché mediare fra un partito ferito come il Pdl e un partito maramaldeggiante e autoreferenziale come il Pd è sicuramente più arduo che gestire la dialettica fra D’Alema e Bertinotti. Temo che, se vuole sopravvivere (e farci sopravvivere) alla bufera di questi giorni Letta dovrà farsi forza, e rinunciare almeno a un po’ della sua democristianità. O forse, più semplicemente, pensare un po’ di meno ai suoi 40 irrequieti ministri, viceministri e sottosegretari, e un po’ di più ai 40 milioni di elettori che non credono nel potere salvifico delle urne e già sarebbero molto felici se solo avessero un governo che governi.

da - http://lastampa.it/2013/08/04/cultura/opinioni/editoriali/una-marcia-dei-milioni-hQPPNXGvcA1Zg4hsjAjTxN/pagina.html
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« Risposta #189 inserito:: Agosto 16, 2013, 09:28:30 am »

Editoriali
25/07/2013

Finanziamento ai partiti: una commedia

Luca Ricolfi


Da tanti anni seguo la politica, ma mai mi era capitato di assistere a una commedia come quella che, sotto i nostri occhi distratti, si sta svolgendo in questi ultimi giorni di luglio. Breve riassunto della commedia. 

 

La posta in gioco, innanzitutto. C’è un disegno di legge governativo che non abolisce affatto il finanziamento pubblico dei partiti, ma si limita a ridurne progressivamente l’entità (mantenendolo in piedi fino al 2017) e ad affiancarlo già a partire dal 2015 sia con un nuovo meccanismo, il cosiddetto 2 per mille (il contribuente può decidere di destinare a un partito una parte delle tasse che paga), sia con una serie di agevolazioni (detrazioni sulle donazioni) e benefici «in natura» (spazi in tv, locali, etc.). 

Difficile prevedere, finché non saranno noti tutti i dettagli, se il nuovo meccanismo porterà ai partiti più o meno risorse di oggi (probabilmente qualcosa di meno), ma tutto si può dire tranne che la legge preveda l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, visto che questi ultimi continueranno ad assorbire considerevoli risorse pubbliche, anche se in forme diverse che in passato. 

 

Ed ecco le parti in commedia. Il governo, abbastanza spudoratamente, finge che il suo disegno di legge abolisca il finanziamento pubblico dei partiti (il primo articolo del disegno di legge recita proprio così: «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti»). Nonostante il disegno di legge sia molto «comprensivo» verso le esigenze di cassa dei partiti, questi ultimi non ci stanno e si mettono di traverso, inondando il Parlamento di emendamenti per lo più rivolti a meglio tutelare le esigenze di sopravvivenza dei partiti stessi, e che per ora hanno già ottenuto l’effetto di far saltare il percorso parlamentare previsto (notizia di queste ore). Ma anche i partiti, e in particolar modo i rispettivi tesorieri, recitano la loro parte in commedia: secondo loro gli emendamenti non servirebbero a difendere i privilegi dei partiti, bensì a salvare la democrazia (nientemeno!). 

Ed ecco il colpo di scena: il disegno di legge governativo, che fino a ieri pareva fin troppo generoso con i partiti, diventa improvvisamente un baluardo anti-partitocratico, e il presidente del Consiglio Enrico Letta, con i suoi appelli (pardon: tweet) a non ritardare l’approvazione del disegno di legge, può ergersi come una sorta di Quintino Sella, austero e rigoroso difensore della cosa pubblica.

 

Non è tutto, però. Nel marasma si inseriscono le parti in commedia minori. C’è chi, non pago che i partiti abbiano ancora almeno quattro anni di introiti generosi e garantiti, ha il coraggio di proporre la cassa integrazione per i dipendenti dei partiti, in un Paese in cui i lavoratori che non possono ricorrervi sono milioni e milioni. C’è chi, dentro Pd e Pdl, sembra essere davvero per l’abolizione (anziché per la riduzione) del finanziamento pubblico dei partiti, ma non osa fare una battaglia vera, a viso aperto e a muso duro, contro l’apparato del suo partito. E c’è chi, come il neo-segretario della Lega Maroni, rinuncia al finanziamento pubblico, ma non ora, se ne riparlerà nel 2014. 

 

Insomma, nessuno fa quello che dice, e nessuno dice quello che fa. Con una sola eccezione, a quel che vedo: gli estremisti, anzi gli «opposti estremismi» dei talebani della partitocrazia e dei suoi nemici irriducibili. Solo loro non parlano con lingua biforcuta. Talebani della partitocrazia sono innanzitutto i tesorieri dei partiti, che hanno le idee chiarissime e difendono a spada tratta, senza imbarazzo e senza vergogna, sia il principio del finanziamento pubblico, sia l’idea che non debba essere solo simbolico. Nemici irriducibili della partitocrazia sono il movimento Cinque Stelle e i Radicali, che il finanziamento pubblico hanno dimostrato di volerlo abolire sul serio, non solo a parole. Il movimento Cinque Stelle ha già restituito 42 milioni di rimborsi elettorali, i radicali hanno già promosso due referendum (l’ultimo vinto nel 1993, ma aggirato dai partiti con il trucco dei «rimborsi»), e quanto al terzo stanno raccogliendo le firme. 

 

Il lettore che mi ha seguito fin qui potrebbe pensare che io sia contrario al finanziamento pubblico dei partiti e sia per la sua piena e totale abolizione. In realtà, per quel poco che può interessare quel che penso io, la mia posizione è un po’ diversa, e si potrebbe riassumere in tre punti.

 

Primo. Quello cui sono fermamente contrario non è il finanziamento pubblico, ma è lo stravolgimento della lingua italiana. Ho il massimo rispetto per tutte le posizioni, ma preferirei che venissero presentate per quello che sono, anziché essere mascherate dietro formule verbali volte a occultarne la sostanza. Il disegno di legge del governo è difendibilissimo, salvo il primo articolo, che io riformulerei così: anziché «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti», scriverei «E’ mantenuto il finanziamento pubblico dei partiti, ma ne vengono modificati importi e meccanismi di erogazione».

 

Secondo. Mi piacerebbe che chi appartiene a Pd e Pdl (i due partiti da cui dipende la sorte del governo) e dice di essere contrario al finanziamento pubblico, facesse una battaglia vera entro il suo partito, e dicesse in modo chiaro che non condivide il disegno di legge governativo. Mi incuriosisce, in particolare, la posizione di Matteo Renzi e dei suoi: avevo capito che fossero per una vera abolizione del finanziamento pubblico (un punto importante di dissenso con Bersani), ora pare invece che non siano contrari al disegno di legge governativo, e che si accontenterebbero di alcuni ritocchi, previsti in appositi emendamenti. Che cosa dobbiamo pensare? Renzi ha cambiato idea? O anche lui, semplicemente, non vuole disturbare il manovratore? 

 

Infine, ultimo punto. Io sarei favorevole a un (modesto) finanziamento pubblico ai partiti. Ma non a questi partiti, e non in spregio a un referendum. Perciò avrei fatto l’esatto contrario del governo Letta. Anziché mantenere il finanziamento per qualche anno, promettendo una sua più o meno nebulosa rimodulazione futura, avrei invertito i tempi: azzeramento subito, ed eventuale reintroduzione se e quando avremo dei partiti decenti, e i cittadini avranno avuto modo di cambiare il loro giudizio su di essi, magari certificandolo con un nuovo referendum. Perché è vero che il finanziamento pubblico esiste in (quasi) tutta Europa, ma è anche vero che in nessun Paese europeo che si rispetti i partiti sono corrotti e clientelari come qui. Va bene essere europei, ma non va bene esserlo solo a metà.

da - http://www.lastampa.it/2013/07/25/cultura/opinioni/editoriali/finanziamento-ai-partiti-una-commedia-pMQbh3eyR0mWslDD3eB1KL/pagina.html
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« Risposta #190 inserito:: Ottobre 14, 2013, 04:34:16 pm »

Editoriali
14/10/2013

Il Paese dove non cambia mai nulla

Luca Ricolfi

E’ un po’ che non scrivo, è vero. La ragione più importante è che scrivere di politica, economia e società, come è mia abitudine, mi sembra sempre meno utile. O forse sarebbe meglio dire: è sempre stato abbastanza inutile, ma ora tale inutilità mi è ancor più chiara di prima. 

Da dove viene questo sentimento?

Fondamentalmente da una constatazione: da vent’anni, in questo Paese «non muove foglia». Tutto è immobile e congelato. O forse sarebbe meglio dire: tutto cambia, ma gattopardescamente. Cambiano i governi, cambiano le mode, cambiano i palinsesti della tv, ma tutto avviene in modo che nulla di essenziale cambi davvero. Siamo il Paese più conservatore del mondo, o perlomeno così appaiamo ai miei occhi.

 

Anche la crisi, ormai entrata nel settimo anno, pare non averci insegnato nulla. La gente aspetta, come sotto un bombardamento, che passi la buriana. La classe politica si trastulla nella speranza di «agganciare la ripresa». 

Il governo e i suoi ministri, da cui ci aspetteremmo parole chiare e decisioni coraggiose, si muovono come se fossero impegnati in una caccia al tesoro: «cerchiamo le coperture», «individueremo le risorse», «troveremo i soldi». Mai una vera scelta. Mai un discorso non retorico al Paese. Parole, parole, parole, direbbe Mina. 

Ecco perché non mi viene di scrivere l’ennesimo articolo. La sensazione è che scrivere non sia nient’altro che dar credito al nulla. Prendere sul serio l’eterna ammuina della politica e della società italiane.

Prendiamo il «dibattito» interno al Pdl. Che cosa c’è di nuovo? C’è una sola idea che non sia l’ennesima rifrittura delle formule vuote con cui ci hanno bombardato negli ultimi anni? 

 

Eppure, come molto giustamente ha notato Franco Bruni qualche tempo fa su questo giornale, il vero problema dell’Italia, quello che rende pericolose eventuali elezioni anticipate, è che non si vede all’orizzonte nessuna nuova offerta politica, nessuna volontà di prendere congedo da quella che potremmo chiamare la «colonna sonora» della seconda Repubblica: un impasto di slogan, di formule, di siparietti e di riti che hanno completamente congelato il Paese. 

 

Si potrebbe pensare, e sperare, che qualcosa di nuovo possa venir fuori dalle convulsioni del berlusconismo e dall’assalto di Renzi all’establishment di sinistra. Ma è prudente dubitarne, a giudicare dai segnali di queste settimane. Su entrambi i versanti dello schieramento politico l’attenzione si concentra, come limatura di ferro attirata da una calamita, sulle questioni che creano identificazione, dibattito, indignazione, visibilità sui media: legge elettorale, immigrazione, carceri, diritti dei gay e delle donne. E rifugge invece dai nodi di politica economica e sociale, assai meno interessanti sul piano emotivo, ma molto più influenti sul futuro del Paese. 

Eppure anche le grandi questioni di civiltà sono assai più difficili da affrontare in un Paese che, anno dopo anno, diventa sempre più povero. Senza tornare a crescere e a produrre ricchezza non avremo mai le risorse per affrontare i gravissimi problemi sociali dell’Italia: disoccupazione, sottoccupazione, povertà, illegalità diffusa, ignoranza (vedi gli ultimi dati Ocse, pubblicati pochi giorni fa).

 

Su tutto questo destra e sinistra sono sostanzialmente mute. Non perché non abbiano le loro ricette, ma perché sono le ricette di sempre, che né l’una né l’altra sono state in grado di applicare con successo né nelle loro legislature lunghe (1996-2001 e 2001-2006), né nelle loro legislature corte (1994-1996 e 2006-2008). La sinistra non sa come combattere l’evasione fiscale senza soffocare l’economia. La destra non sa come abbassare le tasse senza fare nuovo deficit pubblico. Entrambe parlano di lotta agli sprechi ma, ogni volta che i sindacati chiedono risorse per stabilizzare i precari, retribuire gli esodati, o prolungare la cassa integrazione, non trovano il coraggio di dire l’unica cosa che si dovrebbe dire in questi casi: «cari sindacati, i miliardi di cui avete bisogno cerchiamoli insieme nell’immensa giungla degli sprechi, visto che sul fatto che gli sprechi ci siano sembriamo tutti d’accordo».

 

E invece no. I politici di destra si guardano bene dall’attaccare le pensioni d’oro o dal denunciare le sanatorie in campo edilizio. Ma Renzi non dice una parola sulle false pensioni di invalidità o sui finti poveri che non pagano il ticket, e ha molta cura di non farsi vedere in giro con Pietro Ichino (che pure aveva contribuito al suo programma). E tutti, indistintamente, tacciono quando – come è successo giusto un mese fa – un governo locale (Napoli) concede le case agli occupanti abusivi, spesso entrati con l’aiuto violento della camorra, sottraendole a chi ne avrebbe diritto: un fatto prontamente denunciato da Antonio Polito sul «Corriere della Sera», ma ignorato dalla stragrande maggioranza dei politici, sempre pronti a dichiarare su tutto e su tutti, ma del tutto refrattari a parlare dei temi che scottano.

 

Ecco perché dico che questo è un Paese immobile, come congelato. Un grande freddo sembra avvolgere tutto e tutti. Nemmeno lontano dalle elezioni si ha il coraggio di parlare delle cose da cui dipende il nostro futuro, e in fondo anche l’opinione pubblica si diverte ad assistere ai combattimenti di galli che, ogni sera, ci offrono i vari Floris, Santoro e Vespa. Questa, in fondo, è l’unica vera attenuante dei nostri politici: se sono quello che sono è anche perché noi facciamo ben poco per cambiarli.

E così, rieccomi a scrivere. Ad aggiungere, anch’io, parole. Forse perché la speranza è l’ultima a morire. O forse perché anch’io, come tutti, non sono capace di cambiare.

da - http://lastampa.it/2013/10/14/cultura/opinioni/editoriali/il-paese-dove-non-cambia-mai-nulla-Ka9toxvOAP5y8wqPcFZx0M/pagina.html
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« Risposta #191 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:25:59 pm »

Editoriali
09/11/2013

Tasse e spese: alternatevi al comando

Luca Ricolfi

La politica economica dei governi italiani è come l’edilizia universitaria in una città come Torino. Come ha funzionato, fino a non molti anni fa, l’edilizia universitaria?

Più o meno così. Quasi tutte le Facoltà avevano bisogno di spazi, ma non c’era un piano preciso che permettesse a ogni Facoltà di sapere con ragionevole precisione se, quando e dove avrebbe avuto gli spazi di cui aveva bisogno. Conseguenza: ogni volta che si liberava un edificio, una palazzina, una ex scuola, tutte le Facoltà in sofferenza si precipitavano a rivendicarne l’uso. Non volendo scontentare nessuno, le Autorità non sceglievano a chi dare i nuovi spazi, ma li lottizzavano fra le Facoltà postulanti. Con la conseguenza di dare a tutti qualche piccolo contentino, ma senza risolvere il problema di nessuno, e al prezzo di un notevole disordine organizzativo. 

Così è la politica economica in questo Paese. Non appena i governanti annunciano di aver trovato delle risorse (ma come fanno a «trovarle»? non si tratta piuttosto di «decidere» dove tagliare, o dove tassare?) tutti si precipitano a rivendicarne l’uso. C’è chi vuole ridurre una tassa, c’è chi ne vuole ridurre un’altra.

C’è chi vuole introdurre degli sgravi per la categoria A, chi per la categoria B. C’è chi considera assolutamente prioritaria la spesa X, chi la spesa Y. La confusione che ne deriva alimenta incertezza e sfiducia, provocando danni all’economia e alla crescita.
 
Ma il bello è che questo meccanismo di frammentazione agisce non solo fra ipotesi largamente eterogenee, come possono esserlo la proroga della cassa integrazione e la riduzione dell’Irap, ma anche all’interno di una scelta apparentemente omogenea. Il governo medita di abbassare l’Irpef? Non fa a tempo di far trapelare l’intenzione, che si scatena una guerra per stabilire su quali scaglioni di reddito si dovrà agire. Il governo annuncia l’intenzione di abbassare il cuneo fiscale? Si scatena la medesima guerra: bisogna beneficiare di più le imprese o i lavoratori dipendenti? E fra le imprese, quali imprese? E fra i lavoratori, quali lavoratori? 

Insomma, tutti vogliono tirare la coperta delle cosiddette risorse dalla propria parte, con il risultato che – per accontentare il maggior numero possibile di votanti – il governo finisce per spalmare il suo intervento su così tanti soggetti che nessun beneficiario si accorge di alcun beneficio. Come un paziente operato in anestesia totale.

 

Proprio perché questa logica mi pare leggermente demenziale, e in ultima analisi autolesionistica per il governo stesso, ho provato un timido moto di sollievo quando, nei giorni scorsi, ho cominciato a sentir parlare di concentrare le risorse, ad esempio erogando lo sgravio del cuneo fiscale in una sola tranche di 150-200 euro (almeno te ne accorgi) anziché diluito in 15 euro al mese (mezzo caffè al giorno). Ma anche quando, giusto due giorni fa, il premier Letta ha ipotizzato di procrastinare la riduzione del cuneo fiscale e convogliare la maggior parte delle risorse a beneficio dei ceti più poveri. 

Naturalmente immagino che dietro questa piroetta ci siano motivi contingenti (beghe nella maggioranza?), e non mi stupirei che alla fine prevalga la solita logica di dare un contentino un po’ a tutti. Però l’occasione è buona per sollevare un dubbio di fondo, che si porta dietro anche una proposta bipartisan. 

Il dubbio è questo: non è molto inefficiente varare misure spezzatino? E non è da stolti dividersi sempre su ogni singola misura? 

Forse, sarebbe il caso di prendere in considerazione una strada diversa. E cioè che, visto che (per ora) sono condannate a governare insieme, la destra e la sinistra la smettano di varare misure-inciucio, che sedano le liti ma producono effetti modestissimi, e abbiano invece il coraggio di varare misure di parte ma che almeno siano efficaci. Una volta a te, una volta a me. Una volta in base ai più ragionevoli fra i principi della destra (alleggerire la pressione fiscale sui produttori), un’altra in base ai più ragionevoli fra quelli della sinistra (aiutare gli ultimi, ossia i veramente poveri). E che i cittadini finalmente si accorgano di qualcosa.

Faccio due esempi. La sinistra ha il chiodo dell’aumento «esponenziale» delle diseguaglianze? La destra ha il chiodo dell’oppressione fiscale? 

Benissimo, visto che il governo afferma di disporre di x miliardi per varare delle politiche, se ne mettano la metà a disposizione della destra e l’altra metà a disposizione della sinistra, e vediamo che cosa riescono a combinare.

Se vuole spendere, ed è preoccupata dei poveri, la sinistra li metta pure, anche tutti, sulla social card, almeno aiuta veramente i deboli, che con gli sgravi fiscali non avrebbero invece alcun beneficio (perché sono «incapienti», ossia privi di redditi tassabili). Quanto alla destra, riduca le tasse che vuole. Se è fissata sulla prima casa, metta pure lì le sue risorse (se il valore delle case è precipitato, una bella responsabilità ce l’hanno le troppe tasse sulla casa). Se invece la preoccupa di più il soffocamento dell’economia, usi pure tutto il suo gruzzolo per alleggerire le tasse sui produttori, a partire dall’Irap, una tassa assurda perché si paga anche quando si è in perdita. 

In entrambi gli scenari, quello di una politica risolutamente rivolta agli ultimi e quello di una politica di sgravi fiscali incisivi, vi sarebbero effetti percepibili, e i vantaggi sarebbero apprezzati anche dagli «altri»: più soldi ai poveri significa sostenere la domanda di consumo (gli ultrapoveri non possono permettersi di risparmiare), meno tasse sulle imprese significa sostenere l’occupazione (un’impresa in perdita costretta a pagare l’Irap non assume proprio nessuno).

 

Gli esempi possono piacere più o meno, e certamente se ne possono fare di migliori, o più interessanti. Ma il punto che mi preme sottolineare è, per così dire, di metodo. Mi piacerebbe che destra e sinistra la smettessero di combattersi stravolgendo e svuotando le proposte altrui, e cominciassero a pensare che c’è un modo migliore di essere sé stessi: quello di alternarsi al comando. Mi piacerebbe che la sinistra varasse il provvedimento migliore che riesce a concepire, senza bastoni fra le ruote dalla destra. E viceversa.

Non sarebbe un dramma, ed eviteremmo il solito scaricabarile: la mia idea era buona, ma non ha funzionato perché tu me l’hai svuotata, annacquata, stravolta. E forse avremmo anche politiche più efficaci di quelle attuali. 

Del resto, non ci vuole molto.

Da - http://lastampa.it/cultura/opinioni/editoriali
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« Risposta #192 inserito:: Dicembre 14, 2013, 10:32:42 am »

Editoriali
13/12/2013

L’impervia strada di Matteo

Luca Ricolfi

Che Renzi abbia vinto le primarie del Pd e ne sia diventato il segretario è un fatto positivo. Renzi, infatti, è l’unico leader dal quale è ragionevole aspettarsi due risultati: primo, la fine della stagione immobilista del governo Letta, finora colpevolmente tollerata da Pd e Pdl; secondo, la rinuncia a percorrere scorciatoie anti-istituzionali, che sono invece la perenne tentazione di Berlusconi, Grillo e Lega, ossia di circa metà del Parlamento.

Questo è importante, perché ci toglie dal dilemma di questi otto mesi: meglio tenersi il timido Letta, o rischiare il ritorno alle urne senza una nuova offerta politica? Con Renzi chi vuole un vero cambiamento sa che potrebbe anche ottenerlo, perché il ragazzo è determinato. Ma sa anche che, se il cambiamento non si materializza, si può andare alle urne senza porcellum, e con qualche proposta politica nuova.

Fin qui tutto bene. Questa è la faccia migliore della luna. C’è anche una seconda faccia, tuttavia, e tanto vale parlarne subito: non è detto che Renzi abbia coraggio a sufficienza. E se Renzi si rivelasse un bluff, la luna della politica potrebbe riservarci il suo lato peggiore. Con effetti catastrofici, temo.

Vediamo perché. 

Per capirlo occorre partire da due recentissime prese di posizione pubbliche, due specie di lettere aperte rivolte l’una a Enrico Letta (a firma Giavazzi e Alesina, sul Corriere della Sera), l’altra a Matteo Renzi (a firma Pietro Ichino, dal suo sito). L’elemento comune a questi due interventi è il perentorio, o accorato, invito a uscire dal generico. La richiesta di rispondere su una quindicina di punti fondamentali, su cui non solo il governo ma anche Renzi non hanno preso posizioni chiare o, nel caso di Letta, hanno fatto annunci senza passare dal dire al fare. 

Il tratto distintivo dei punti toccati da Alesina, Giavazzi e Ichino, tuttavia, è la loro prosaicità. Pochi voli pindarici sull’obbrobrio del porcellum, sugli scandalosi stipendi dei manager, sulla politica ladra e corrotta, sulla necessità di «dare una speranza», ma una ben più corposa lista di decisioni da assumere sul deficit pubblico, sull’entità dei tagli di spesa, sulle assunzioni nella scuola, sulle imprese pubbliche decotte, sulle privatizzazioni, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla giustizia, sul mercato del lavoro (inclusa l’incandescente disciplina dei licenziamenti). Quasi tutti punti su cui non solo il prudente Letta ma anche lo scanzonato Renzi hanno finora detto ben poco, o per lo meno ben poco di preciso nei modi, nei tempi e nelle cifre.

 

Il perché della reticenza di Letta è chiaro. Democristianità a parte, è soprattutto l’assenza di un accordo programmatico ben definito (come quello Merkel-socialdemocratici) che lo costringe a prendere «impegni vaghi», un atteggiamento che giustamente Alesina e Giavazzi considerano una colpa, in quanto danneggia il paese. Il perché della reticenza di Renzi lo spiega benissimo Pietro Ichino quando nota (e dimostra) che il Pd «è il più conservatore fra i partiti italiani». Questa circostanza spiega perfettamente la metamorfosi di Renzi: audace e tutto sommato abbastanza chiaro fin che doveva sfidare Bersani (primarie dell’anno scorso), è diventato sempre più guardingo, sfuggente e astuto quando, in questi ultimi mesi, gli si è presentata la possibilità reale di conquistare la cittadella del Pd, l’unico vero apparato di partito rimasto sul terreno di gioco. Renzi sa benissimo che, in qualsiasi sede, incontro, festival o grigliata democratica, Susanna Camusso prende più applausi di Pietro Ichino, e a questo dato di fatto ha deciso di attenersi, mettendo la sordina su tutti i temi, dal mercato del lavoro al rispetto degli elettori di Berlusconi, che lo avevano reso indigeribile al popolo di sinistra. Una strategia comunicativa perseguita con coerenza e lucidità, e ingenuamente confessata da quello che pare essere divenuto il principale consulente di Renzi in materia economico-sociale, Yoram Gutgeld, di cui è appena uscito il libro-manifesto Più uguali, più ricchi (Rizzoli). Nelle pagine iniziali del libro, Gutgeld esalta l’equità e la meritocrazia (che creano sviluppo economico), e critica l’eguaglianza e l’egualitarismo (che frenano lo sviluppo), salvo poi spiegare che non se l’è sentita di intitolare il libro «Più equi, più ricchi», perché la parola «equità» e ancor più l’aggettivo «equo» sono termini «freddi». Meglio il titolo «Più uguali, più ricchi», che alimenta l’equivoco, fa credere l’esatto contrario di quel che si vuol dire, ma almeno scalda i cuori degli elettori di sinistra.

Ha fatto bene Renzi ad adottare una simile strategia di «dissimulazione onesta»?

Chi crede fermamente in lui, giura di sì. L’importante era ed è vincere, e per vincere le prossime elezioni bisognava dare al popolo quel che il popolo chiede: tanta polemica anti-casta, tanta voglia di facce nuove, tanta retorica del ricambio generazionale, il tutto condito con un pizzico di polemica con l’Europa e i suoi vincoli paralizzanti. Un ragionamento che, a quel che sento in giro, coinvolge anche i più riformisti fra i renziani: per fare le cose che Matteo predica, bisogna prima conquistare il Pd e il Governo, e solo poi preoccuparsi dei contenuti più difficili da far accettare all’elettorato di sinistra, e presumibilmente anche al resto del paese.

Questo ordine di pensieri, più o meno spregiudicati e machiavellici, sono certamente congeniali a una parte dell’elettorato di sinistra, e specialmente alla sua parte più anziana, spesso di matrice comunista, da sempre abituata alla doppia verità e convinta che il fine, quando è buono, giustifichi i mezzi, anche quelli cattivi. Ma proprio il fatto che la cultura comunista, le sue abitudini mentali, i suoi riflessi condizionati, siano ancora così radicati nell’elettorato di sinistra, dovrebbe forse suggerire anche un diverso genere di riflessione. Se Renzi, come pensano i suoi detrattori, ambisce solo a sedersi sullo scranno di palazzo Chigi, nessun problema: potrebbe anche farcela. Se però, come molti di noi si augurano, il Davide della politica italiana, dopo aver vinto il gigante Golia dell’apparato di partito, nutrisse anche l’ambizione di provarci, a cambiare questo sciagurato paese, forse farebbe bene a non trascurare un altro tratto della cultura di sinistra, e non solo di essa: il gregarismo, il conformismo, l’attitudine a fiutare l’aria per poi correre tutti nella medesima direzione. Il plebiscito che ha sbalzato Bersani e incoronato Renzi è stato troppo repentino per non evocare altri cambiamenti di umore degli italiani, da fascisti ad antifascisti (nel 1943-45), da clientes dei partiti di governo a giustizialisti duri e puri (nel 1992-94).

La realtà è che Renzi, per ora, non ha affatto cambiato il Pd, come vent’anni fa aveva invece fatto Tony Blair con il Labour Party, attraverso una lunga battaglia a viso aperto. Semmai, è l’elettorato del Pd che ha cambiato Renzi, o lo ha indotto a crittare il suo messaggio originario. Si tratta ora di capire se sarà l’elettorato del Pd a usare Renzi per conquistare quella vittoria che Bersani non è stato capace di regalargli, o sarà Renzi a cominciare, pazientemente, quell’opera di trasformazione delle coscienze che è la premessa di ogni vero cambiamento.

Da - http://lastampa.it/2013/12/13/cultura/opinioni/editoriali/limpervia-strada-di-matteo-rvuRDkDG7F8FCcQnojCmcK/pagina.html
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« Risposta #193 inserito:: Gennaio 26, 2014, 11:33:06 pm »

Editoriali
26/01/2014

Con Renzi la nebbia è finita
Luca Ricolfi

La prova cruciale, quella in cui si capirà di che stoffa è fatto Matteo Renzi, non è quella di questi giorni. Il test vero, per il sindaco di Firenze, arriverà quando dovrà affrontare in campo aperto i sindacati (soprattutto la Cgil) e l’ostinato conservatorismo dei suoi compagni di partito in materia di mercato del lavoro, tasse, spesa sociale. 

Ossia sulle cose che il 70% dei cittadini giudicano altrettanto o più importanti del cambiamento delle regole del gioco politico (sondaggio Ipsos pubblicato ieri dal «Corriere della Sera»). Vedremo allora se la cautela fin qui mostrata da Renzi, in particolare al momento della presentazione del «Jobs Act», cederà il passo a un atteggiamento più risoluto. Lo speriamo, perché la prima cosa che gli italiani si aspettano dalla politica non è una nuova legge elettorale, ma la possibilità di creare e trovare lavoro.

Detto questo, però, come non godersi lo spettacolo di questi giorni?

Sul cambiamento delle regole, Renzi ha fatto in 3 giorni più di quello che i politici politicanti hanno fatto in 31 anni, ossia dall’insediamento della commissione Bozzi sulle riforme istituzionali (1983). Ma soprattutto lo ha fatto in un modo che, per la sinistra, è del tutto nuovo. Con Renzi la sinistra si è riappropriata del linguaggio naturale, e con questa sola mossa ha cancellato un handicap formidabile che l’ha sempre condizionata nel confronto con la destra. Fino a ieri l’intero establishment di sinistra ha sempre parlato in codice, usando concetti astratti, formule vuote, espressioni allusive, perfettamente comprensibili agli addetti ai lavori ma drammaticamente lontane dalla vita e dalla sensibilità delle persone comuni. Per capirli, per capire che cosa veramente avessero inteso dire, per capire che cosa effettivamente fossero intenzionati a fare, ci voleva l’interprete. E per interagire con loro si doveva conoscere le buone maniere del linguaggio politico, quel dire e non dire, accennare e far intendere, lusingare e velatamente minacciare, ma sempre educatamente, sempre con il dovuto sussiego, sempre con il necessario bon ton intra-casta. Parole di nebbia, le aveva chiamate Natalia Ginzburg fin dai primi Anni 80. Parole che rendevano i politici di sinistra dei veri marziani agli occhi della gente comune.

E’ anche per questo che, quando Berlusconi scese in campo nel 1994, per i politici di sinistra (e non solo per loro) fu un vero shock. Berlusconi parlava in linguaggio naturale. Si poteva ascoltare senza l’interprete. Esattamente come Renzi oggi. Renzi non parla in codice, non conosce le buone maniere del dibattito politico, se ne infischia dei balletti e dei cerimoniali dei suoi compagni di partito. Si lascia scappare battutacce, usa l’ironia e qualche volta il sarcasmo, è del tutto privo di quella sorta di omertà, o patto di non aggressione, che vige fra i professionisti della politica. Come se lui facesse un altro mestiere, e quindi non si sentisse in alcun modo vincolato alle regole di deferenza che derivano dall’affinità. I politici del Pd, offesi da Renzi, sembrano nobildonne ingioiellate che incontrano sulla loro strada il tamarro di turno: come in un film di Checco Zalone, loro porgono languidamente la mano per il baciamano, lui risponde con una pacca sulle spalle e passa allegramente oltre.

 

Tutto questo è tremendamente spiazzante per i vecchi mandarini del suo partito, ma anche per molti quarantenni. Addestrati a parlare e agire in codice, abituati a tradurre ogni parola, a interpretare ogni comportamento, non sanno che pesci pigliare quando uno come Renzi la smette di menare il can per l’aia. Ma soprattutto sono imbarazzati, politicamente imbarazzati. Dal momento che Renzi comunica come Berlusconi, e per vent’anni i dirigenti della sinistra si erano vantati di non parlare come lui, ed erano persino arrivati a bollare il modo di comunicare di Berlusconi come segno inequivocabile di rozzezza-demagogia-populismo, diventa un bel problema ritrovarsi con un leader che, almeno in questo, assomiglia al loro peggiore nemico. Non avendo voluto capire a suo tempo che alcuni difetti di Berlusconi, come il parlar chiaro e la vocazione decisionista, potevano anche essere delle virtù, sono ora in difficoltà ad accettarle quando si ripresentano in uno dei loro, il neo-eletto segretario del Pd.

Si potrebbe supporre che tutto ciò sia un guaio per i politici di lungo corso del Pd, e non per Renzi, che dopotutto tra frizzi, lazzi e fuochi d’artificio si trova perfettamente a proprio agio. E tuttavia la conclusione sarebbe affrettata, e troppo ottimistica, a mio parere. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, l’oscurità del linguaggio, per la sinistra, non è affatto un optional. Specialmente negli ultimi venticinque anni, dopo la svolta della Bolognina di Occhetto (1989), ossia da quando la sinistra ha provato a diventare riformista, un certo grado di ambiguità e furberia nella lingua è stato lo strumento con cui gli eredi del comunismo hanno cercato di preservare la propria unità e, talora, di allargare il proprio consenso. E’ solo in virtù di tale uso spregiudicato della lingua che, per oltre vent’anni, è stato possibile nascondere, dissimulare, attenuare le profonde differenze fra le varie anime della sinistra. Le 281 pagine di programma di Prodi nel 2006, così come i confusissimi 11 punti di Bersani nel 2013, non erano figli di modesti consulenti, o di pessimi uffici studi. No, quelle «parole di nebbia», come le avrebbe definite Natalia Ginzburg, erano il mezzo più idoneo per restare uniti nonostante i dissensi, l’unico modo di tenere insieme Prodi e Bertinotti, Veltroni e Vendola, Mastella e Padoa-Schioppa. Da questo punto di vista, è molto riduttivo sostenere – come usano fare i riformisti-doc – che l’unico collante della sinistra in questi venti anni sia stato l’antiberlusconismo: no, cari riformisti, la sinistra di collanti ne ha avuti due, uno era l’antiberlusconismo, l’altro il parlare per concetti vaghi, quella malattia della lingua che Raffaele La Capria ha definito «concettualismo degradato di massa».

Ecco perché, per Renzi, la strada potrebbe essere in salita. Se Renzi parlerà chiaro su tutto, e non solo sulla legge elettorale, le divisioni dentro il Pd non saranno più occultabili con la nebbia della lingua, e il partito potrebbe spaccarsi. Specialmente sul mercato del lavoro, il conflitto fra sinistra conservatrice e sinistra modernizzatrice non potrà che venire allo scoperto. Credo sia questo il motivo per cui, un paio di settimane fa, sul Codice semplificato del lavoro di Ichino la sua risposta alla mia domanda (perché non vararlo subito?) sia stata così debole, così elusiva. Suppongo che Renzi non abbia troppa fretta sul mercato del lavoro perché vuole aspettare di aver il partito in mano prima di iniziare le battaglie politicamente più difficili (creare posti di lavoro è più difficile, ancora più difficile, che cambiare le regole del gioco). 

E’ una cosa che capisco benissimo. Purché non si perda di vista il nodo fondamentale: dopo 7 anni di crisi, con milioni di posti di lavoro perduti, gli italiani non si accontenteranno di un cambiamento delle regole del gioco.

Da - http://www.lastampa.it/2014/01/26/cultura/opinioni/editoriali/con-renzi-la-nebbia-finita-6ZQwoRX6TsptZPfoTuwWYM/pagina.html
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« Risposta #194 inserito:: Febbraio 16, 2014, 10:58:13 pm »

Editoriali
16/02/2014

L’obbligo di mirare in alto
Luca Ricolfi

Il giudizio della storia sui condottieri, siano essi generali, leader politici o militanti rivoluzionari, non dipende quasi mai dal modo, più o meno sbrigativo, in cui conquistano il potere, ma dall’uso che ne fanno una volta saliti al comando. Così sarà per Matteo Renzi, che giusto in queste ore sta assumendo la guida del Paese. Se fallirà, tutti lo rimprovereranno: sei stato spregiudicato, hai tradito l’amico Letta, ti sei autoproclamato premier, sei venuto meno alla promessa di non scalare il potere senza una vittoria elettorale alle spalle. Se avrà successo, anche gli indignati di oggi finiranno per perdonarlo.

Istintivamente, mi sento più fra i perplessi che fra gli entusiasti. E tuttavia c’è una ragione che mi induce a sorvolare sulla evidente scorrettezza, o se preferite irritualità, del comportamento di Renzi. Questa ragione è puramente negativa, ma ha una sua forza. La riassumerei così: nessun rimpianto per quel che ci lasciamo alle spalle.

Può darsi che Renzi alla fine non combini nulla di buono, può darsi che provi a cambiare l’Italia e non ci riesca.

Può darsi – speriamo di no – che commetta degli errori. Però basta ripercorrere con un po’ di lucidità e di disincanto l’esperienza degli ultimi due anni per rendersi conto che è dalla primavera del 2012 che, nonostante la buona volontà di Monti e di Letta, l’Italia non ha un governo all’altezza dei suoi problemi. L’ultimo tentativo di governare il Paese (non entro qui nel merito se bene o male) risale ai primi 4-5 mesi del governo Monti, più o meno dal novembre del 2011 ad aprile 2012. In quel periodo venne varata la riforma delle pensioni (con il grave effetto collaterale dei cosiddetti esodati) e, dopo alti e bassi, venne fermata in qualche modo la corsa dello spread Italia-Germania, che nel marzo del 2012 tocca il minimo dell’anno. Dopo di allora è stata tutta una navigazione a vista, con alcune cose apprezzabili sia da parte di Monti sia da parte di Letta, ma senza una chiara direzione di marcia e soprattutto senza alcuna vera intenzione di mettere mano ai problemi più difficili. Dove per problemi più difficili non intendo le pur importantissime riforme delle regole (legge elettorale, bicameralismo, titolo V, regolamenti parlamentari) bensì i grandi nodi dell’ultimo quarto di secolo: mercato del lavoro, pressione fiscale sui produttori, ipertrofia burocratica e normativa, spreco di risorse pubbliche, parassitismo di intere porzioni di territorio.

E infatti, dalla primavera del 2012 ad oggi, ossia da quasi due anni, la condizione economico-sociale del Paese è enormemente peggiorata. Certo, ci raccontano che la ripresa è alle porte (la «vedeva» già Monti due anni fa), che lo spread con la Germania è migliorato, che la fiducia sta tornando. Ma è un racconto altamente fuorviante. Nei primi drammatici anni della crisi, fra il dicembre del 2008 e il dicembre 2011, l’Italia perdeva 76 mila posti di lavoro all’anno. Nel solo 2012 le perdite annue erano salite a 248 mila posti. E nel 2013, dopo la cura Monti e sotto lo sguardo pacato di Letta, hanno raggiunto la stratosferica cifra di 433 mila posti di lavoro distrutti in un solo anno. E mentre i nostri governanti si affannavano a convincere l’Europa che stavano facendo i compiti a casa, il giudizio dei mercati su di noi non ha fatto che peggiorare. Per rendersene conto basta usare il termine di paragone appropriato, che non è la Germania, ma sono i Paesi sottoposti a sorveglianza, ossia gli altri quattro PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). Nella primavera del 2012 (alla fine della «luna di miele» del governo Monti) il vantaggio dei nostri titoli di Stato nei confronti di quelli dei PIGS era di circa 6 punti, oggi è ridotto a circa 1 punto. E il peggioramento, si noti bene, riguarda ciascuno dei quattro Paesi che stanno tentando di autoriformarsi: nel giro di appena 2 anni abbiamo perso circa 15 punti di vantaggio rispetto alla Grecia, 5 punti rispetto al Portogallo, 2 punti rispetto all’Irlanda, mezzo punto rispetto alla Spagna. Lo stesso discorso vale per l’andamento del Pil: anche noi, come tutti i Paesi europei, stiamo faticosamente uscendo dalla recessione (di qui la cautissima benevolenza di Moody’s sull’Italia), ma sfortunatamente siamo fra i Paesi che in questi 7 anni hanno perso più posizioni in termini di reddito, di ricchezza, di posti di lavoro. 

Insomma, a mio parere il rimprovero di aver fatto poco, che così spesso viene mosso a Letta e a Monti (o meglio al secondo Monti, quello del dopo-emergenza), è fin troppo generoso: con i governi di unità nazionale, o di larghe intese, il Paese non è stato semplicemente fermo, bensì è andato indietro sui due terreni fondamentali, quello dell’occupazione e quello delle prospettive di crescita. Si tratta ora di provare, finalmente, ad andare avanti, ed è precisamente su questo che si giocherà la partita di Renzi.

Ma avanti in che direzione?
Qui intravedo due possibilità, o meglio due scenari. Nel primo, chiamiamolo scenario A, Renzi cerca di usare il consenso di cui gode per varare le riforme dolorose di cui il Paese avrebbe bisogno. Conseguenze: centralità della politica economico-sociale, disco verde a Cottarelli sulla spending review, meno tasse sui produttori, drastica riduzione degli adempimenti delle imprese, riforma radicale del mercato del lavoro (meno sussidi e più politiche attive), molte personalità esperte e indipendenti nei ministeri che contano.

Nel secondo, chiamiamolo scenario B, Renzi cerca soprattutto di massimizzare il suo consenso nel Paese e il suo controllo sul governo. Conseguenze: molta attenzione alla partita delle regole, varo di alcune misure anti-casta sacrosante, ma poco incisive sul piano dei conti pubblici, negoziato con l’Europa per ottenere flessibilità sui conti pubblici, cautela sul mercato del lavoro, un paio di sindacalisti nel governo, giovani ministre e ministri di sicura fede renziana nei dicasteri chiave.

Inutile dire quale dei due scenari sia più utile all’Italia. Quanto a Renzi, non so se avrà il coraggio di scegliere lo scenario giusto, ma ho l’impressione che mirare in alto, a un vero cambiamento del Paese, sia l’unica strada per farsi perdonare lo strappo che l’ha portato al potere.

Da - http://lastampa.it/2014/02/16/cultura/opinioni/editoriali/lobbligo-di-mirare-in-alto-HI0z6Lpz8vZYGvcAc3Ua2H/pagina.html
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