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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108359 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Agosto 02, 2010, 09:39:42 am »

2/8/2010

Il federalismo è la vera posta in gioco
   
LUCA RICOLFI


E adesso? Nessuno oggi è in grado di prevedere quali conseguenze avrà la rottura del rapporto fra Berlusconi e Fini. Alcuni pensano che alla fine Berlusconi riuscirà a racimolare i voti necessari per governare, un po’ attingendo al centro, fra i parlamentari legati a Casini e Rutelli, un po’ recuperando qualche finiano indeciso. Altri pensano che Berlusconi non ce la farà, e torneremo alle urne abbastanza presto, forse già in autunno o al più tardi in primavera (durante i festeggiamenti dell’Unità d’Italia?!). Altri ancora pensano che Berlusconi abbia rotto con Fini proprio per tornare alle urne, e che i voti di deputati e senatori fingerà di cercarli, ma in realtà sarà ben contento - alla prima occasione - di cadere per colpa del «traditore» Fini.

Personalmente trovo che quest’ultima lettura sia più plausibile delle altre, per almeno tre motivi. Il primo è che se si votasse nel 2013 Berlusconi affronterebbe la campagna elettorale in condizioni peggiori di quelle attuali. In assenza di risultati tangibili, il consenso per il governo è destinato a declinare da qui al 2012, secondo una parabola ben nota agli studiosi del ciclo elettorale. E poiché è molto difficile che tali risultati possano essere ottenuti in appena due anni, con una maggioranza parlamentare risicata, e con l’economia che non consente né la riduzione delle tasse né un avvio dolce del federalismo, è ragionevole pensare che il tempo giochi contro Berlusconi, e che Berlusconi voglia perciò «fermare il tempo» della legislatura tornando al voto.

Si potrebbe obiettare che votando a metà legislatura Berlusconi sancirebbe il fallimento della sua esperienza di governo, come abbiamo sentito ripetere più volte nell’ultimo anno. Qui però entra in campo un secondo motivo di accelerazione: Fini fino a ieri era una spina nel fianco ma, se il governo dovesse cadere per il «tradimento» dei finiani, potrebbe trasformarsi in un utilissimo capro espiatorio. Berlusconi direbbe di avere fatto molto, e che tutto quel che non è riuscito a fare è per colpa dell’alleato infedele, che non ha perso occasione per metterlo in difficoltà. Insomma, Berlusconi potrebbe rivolgersi al corpo elettorale chiedendo di restituirgli i voti che i finiani traditori gli hanno proditoriamente sottratto.

Una strategia comunicativa del genere può sembrare rozza e infantile, ma lo è solo fino a un certo punto. La posizione di Fini, e questo è il terzo motivo che spinge alle urne, è ragionevole di fronte agli elettori moderati e a quelli progressisti, ma non lo è affatto fra i sostenitori del governo. Le ragioni di Fini, infatti, o riguardano cose che avrebbe dovuto sapere al momento di cofondare il Pdl insieme a Berlusconi, o riguardano questioni su cui Fini e i finiani avevano già vinto e stravinto. Fra le prime - le cose risapute - rientrano la concezione berlusconiana della democrazia, l’ostilità nei confronti della magistratura, la leggerezza nell’imbarcare inquisiti, rinviati a giudizio e condannati: possibile che Fini e i suoi le abbiano scoperte solo ora?

Fra le seconde - le questioni politiche - rientrano innanzitutto la legge sulle intercettazioni e il federalismo. Ebbene Fini e i suoi avevano vinto su entrambe, almeno stando al programma di governo sottoscritto all’inizio del 2008, in vista delle elezioni politiche. Basta rileggerselo, quel programma articolato in sette missioni, per scoprire che su entrambi i terreni - intercettazioni e federalismo - il programma è stato effettivamente tradito, ma andando nella direzione auspicata da Fini, non certo in quella auspicata da Berlusconi. La legge sulle intercettazioni delineata nel programma del centro-destra (missione 3) era molto più berlusconiana di quella poi uscita dalla commissione Giustizia, massacrata dagli emendamenti dei finiani e dell’opposizione (e infatti uno sconfortato Berlusconi aveva confessato la tentazione di ritirare il disegno di legge). Quanto al federalismo (missione 6), il programma del Popolo della libertà prevedeva di recepire la severa proposta di legge della Lombardia, mentre la legge poi effettivamente varata dal governo era molto più morbida proprio in quanto recepiva, di nuovo, le osservazioni dei finiani e dell’opposizione. In breve a me pare che, nel merito delle questioni che solleva, Fini possa avere tutte le ragioni di questo mondo, ma nel metodo seguito - fare il presidente della Camera e nello stesso tempo prendere sistematicamente le distanze dal governo - sia facilmente attaccabile di fronte al «popolo» di centrodestra.

Che a Berlusconi possa convenire andare al più presto al voto, naturalmente, non implica che le cose andranno effettivamente così. La partita vera, infatti, non si gioca certo sulla questione morale, sulla legge elettorale, sulle regole della democrazia, sulla riforma della giustizia, sulle intercettazioni. La partita vera si gioca sulla posta fondamentale della legislatura, ossia sul destino del federalismo. E sul federalismo gli attori in campo non sono solo Fini e Berlusconi, ma anche Bossi e Bersani.

Per Bossi andare al voto senza aver incassato i decreti delegati sul federalismo (il cui termine di emanazione ultimo è il 5 maggio 2011) sarebbe un rischio molto grave: potrebbe suonare come l’ennesimo insuccesso, o se preferite come l’ennesima vittoria di Pirro. Nel 2005 la Lega aveva ottenuto la devolution, poi cancellata dalla vittoria del centro-sinistra e dal referendum del 2006. Oggi la storia potrebbe ripetersi con la «legge Calderoli», approvata nel maggio del 2008 ma tuttora priva dei principali decreti attuativi. Se si tornasse a votare subito, il partito di Bossi sarebbe costretto a presentarsi senza il trofeo del federalismo fiscale, ma se si votasse fra un anno o due il rischio potrebbe essere persino maggiore: il federalismo non può dare grandi benefici subito, e più si avvicina la fine della legislatura più gli elettori pretendono di vedere fatti concreti.

Per Bersani e il Pd le scelte sono ancora più difficili. La tentazione di far cadere il governo è molto forte, ma - soprattutto nelle regioni settentrionali - altrettanto forte è il timore di affossare il federalismo, una riforma su cui molti nel Pd hanno puntato. Se il Pd vuole la caduta del governo non può che cercare un asse con i finiani e i centristi di Casini e Rutelli, forze politiche notoriamente ostili o critiche verso il federalismo. Ma se da tale asse dovesse nascere un’alleanza politica, il baricentro di questo vasto schieramento «moderato» non potrebbe che essere il Mezzogiorno, un’arena in cui da tempo si esercitano movimenti e forze politiche che, sia pure con accenti diversi, vagheggiano la nascita di un «partito del Sud». Se il Pd si ponesse alla testa di un tale schieramento, potrebbe (forse) vincere le elezioni, ma il prezzo sarebbe la morte del federalismo e la propria cancellazione dal Nord.

Così, al di là dell’euforia per la possibile caduta di Berlusconi, il futuro del Pd appare quanto mai incerto. Se non vuole sparire dal Nord deve tornare a guardare verso la Lega ma, se la Lega continua a puntare su Berlusconi, per il partito di Bersani sarà difficile evitare l’abbraccio con il nascente (e antifederalista) partito del Sud.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7668&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #91 inserito:: Agosto 06, 2010, 02:56:54 pm »

6/8/2010

Il tassello che manca al federalismo fiscale
   
LUCA RICOLFI

Apparentemente, il cammino del federalismo fiscale procede spedito. Sono già quattro i decreti delegati varati dal governo, ultimo quello sul «fedealismo municipale», in via di definizione in questi giorni. Altri decreti seguiranno a breve, a completamento di una riforma che è la ragion d'essere della Lega.

C'è un problema, però. Per quanto quasi tutti i politici si esercitino in giudizi (positivi per la maggioranza, negativi per l'opposizione), la realtà è che il cammino del federalismo fiscale è semplicemente N.C. (non classificabile), come certi allievi a fine quadrimestre, quando hanno un numero di interrogazioni e compiti in classe troppo esiguo per consentire all'insegnante di calcolare una media.

Perché è difficile formulare un giudizio?

Perché il federalismo va avanti per scatole vuote di numeri. La legge delega (5 maggio 2009) era naturalmente e giustamente una scatola vuota, perché conteneva solo principi generali, come si addice a una legge delega. Ma anche la Relazione sul Federalismo Fiscale presentata dal Governo il 30 giugno scorso, assolutamente meritoria per lo sforzo di dipanare in qualche modo la giungla della finanza pubblica, era tuttavia di nuovo una scatola sostanzialmente vuota, perché - pur piena zeppa di utilissime tabelle - non conteneva né costi standard né obiettivi di bilancio precisi per Regioni, Province e Comuni, bensì solo vaghe indicazioni di metodo, nonché la specificazione di quali Enti dovranno in futuro fare i calcoli.

In questo caso la mancanza di indicazioni quantitative precise era assai meno giustificata. Il grave, però, è venuto con i primi decreti delegati, anch'essi vuoti di numeri e pieni di rimandi a passaggi successivi. Qui l'assenza di cifre precise e di regole stringenti non era prevista e non è giustificata, anche se non è difficile comprenderne le ragioni: quasi nessuno, fra i politici, sembra aver capito in tempo che per decollare sul serio il federalismo fiscale avrebbe dovuto essere studiato nei minimi dettagli per almeno 2-3 anni.

Stante questa assenza di indicazioni quantitative non me la sento di dare alcuna valutazione sull'ultimo decreto delegato, quello relativo al fisco municipale, che dovrebbe dettare le regole di finanziamento delle spese dei comuni, ma in realtà ancora una volta rinuncia a mettere dei numeri precisi nelle caselle chiave. Eppure è quello che avrebbe dovuto fare. Se non fossimo terribilmente indietro, leggendo il decreto delegato sul fisco municipale il cittadino di ogni singolo comune dovrebbe venire a conoscenza di almeno due cifre: quanto il comune è autorizzato a spendere (y), quante imposte dovrebbero versare i suoi cittadini (x). Queste due cifre non si sanno, e chissà quanti mesi o anni dovranno passare prima che si conoscano.

Ma non è tutto. Se il federalismo fosse oggi qualcosa di più che una manifestazione di intenti, i decreti delegati avrebbero già sciolto i due nodi fondamentali della sua applicazione, che chiamerò nodo della perequazione e nodo della chiusura.

Nodo della perequazione. E' ragionevole che i territori più poveri, avendo un gettito potenziale minore, ricevano una sorta di contributo di solidarietà da un fondo perequativo, alimentato dal gettito dei territori più ricchi. Ma non è mai stato chiarito in modo esplicito se la perequazione dovrà colmare la capacità fiscale mancante, dovuta al fatto che il territorio debole ha redditi più bassi, o dovrà colmare invece il gettito mancante, che spesso dipende anche, in misura tutt'altro che trascurabile, dalla maggiore evasione fiscale.

Esempio: il comune X ha un fabbisogno standard di 100, una capacità fiscale di 70, un gettito di 40 (perché l'evasione fiscale è molto alta). Il fondo perequativo gli assegna solo 30 (100-70=30) o gli assegna 60 (100-40=60) ? Nel primo caso si crea un incentivo a combattere l'evasione fiscale, nel secondo caso l'evasione fiscale è premiata. Il primo meccanismo è virtuoso, ma difficile da mettere a punto perché presuppone la conoscenza della capacità fiscale di un territorio relativamente a uno specifico gruppo di imposte (quelle immobiliari, nel caso dei comuni). Il secondo meccanismo è vizioso, ma facile da applicare perché il gettito, a differenza della capacità fiscale, è perfettamente noto. Il rischio è che si vada verso una soluzione ibrida, in cui il meccanismo vizioso (basato sul solo gettito) viene corretto con un meccanismo premiale, che dà qualche contentino ai comuni che riescono a dimostrare di aver contribuito alla lotta all’evasione fiscale. Sarebbe una vera sciagura, se non altro perché la determinazione delle cifre spettanti a ogni comune - anziché essere automatica - avrebbe una componente negoziale molto rilevante, con conseguente aumento dell'arbitrarietà e dell'incertezza legate ai capricci della politica.

Nodo della chiusura. Contrariamente al governo, non penso che il difetto principale della "finanza derivata", ossia del sistema che è stato in vigore in Italia negli ultimi 40 anni, sia il peso eccessivo dei trasferimenti statali rispetto alle entrate proprie delle amministrazioni locali. E conseguentemente non penso che, riducendo i trasferimenti dal centro e aumentando i tributi locali, Regioni, Province e Comuni si metteranno in quadro. Il vero difetto del vecchio sistema, che potrebbe benissimo riprodursi nel nuovo, è la mancanza di un meccanismo automatico - fissato da una norma perentoria e inaggirabile - che specifichi come si chiudono i conti. Un meccanismo che escluda l'intervento salvifico dello stato centrale e obblighi l'amministratore locale responsabile del deficit a far pagare ai suoi cittadini un'imposta specifica, esplicitamente collegata al deficit stesso. Una sorta di "imposta di ripiano" (IdR), che scatta immediatamente e inesorabilmente dopo la pubblicazione del bilancio consuntivo di ogni anno. Un'imposta che potrebbe anche, in caso di avanzo di bilancio, capovolgersi in un'imposta negativa, ossia in un assegno (beneficio) staccato a ogni cittadino a certificazione del buon governo.

Conclusione ?

Nessuna, per ora. Solo la convinzione che senza numeri precisi, senza meccanismi automatici - primo fra tutti l'imposta di ripiano - la nostra fiducia nei benefici del federalismo fiscale resta un puro atto di fede.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7685&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #92 inserito:: Agosto 18, 2010, 08:06:37 am »

18/8/2010 - LE IDEE

Internet e il prezzo delle libertà

LUCA RICOLFI

Da circa una settimana il mondo di Internet è in allarme. Un articolo uscito sul Washington Post, firmato dagli amministratori delegati di Google e Verizon, due colossi delle comunicazioni che insieme fatturano più di 100 miliardi di dollari, ha cautamente lanciato l’idea di mantenere il «principio di neutralità» solo sulla rete fissa (che collega fra di loro i computer via cavo telefonico) e di abbandonarlo sulla rete mobile (che collega cellulari e computer via etere, o «senza fili»). Ma che cosa significa che una rete è «neutrale»?
L’interpretazione prevalente del concetto di neutralità è che tutti i pacchetti di dati vengono trasmessi al loro destinatario senza discriminazioni.

Ossia senza assegnare priorità ad alcuni di essi a scapito di altri. Né il contenuto di un pacchetto di dati né il prezzo eventualmente pagato per l’accesso alla rete sono in grado di accelerare o rallentare la trasmissione. Ora tutto ciò pare destinato a tramontare, almeno sulla rete mobile. La proposta di Google e Verizon, infatti, è di conservare intatta la neutralità sulla rete fissa, ma di sospenderla sulla rete mobile. Se la proposta dovesse essere accolta dalle autorità che sovrintendono al funzionamento della rete, domani potremmo avere due Internet: Internet 1, che funzionerebbe come oggi (sulla rete fissa), e Internet 2, in cui i gestori della rete mobile potrebbero governare il traffico, ad esempio in funzione della natura dei servizi offerti e delle tariffe pagate dagli utenti. Di qui l’idea che l’era di Internet come l’abbiamo conosciuta fin qui - ossia libera, democratica e gratuita - stia inesorabilmente finendo, con grave danno per molti.

Questa ricostruzione dei termini del problema, pur non essendo del tutto sbagliata, a mio parere è altamente fuorviante. Essa si basa su una mitizzazione di Internet come è oggi, per lo più visto come un mondo aperto, magico e buono. Eppure non è così. Già oggi, prima di ogni eventuale futuro sconvolgimento delle regole della rete, Internet non è né gratuita, né democratica, e tantomeno libera.

Internet non è gratuita per almeno due motivi fondamentali. Primo, la connessione si paga, e si paga tanto più cara quanto più si desidera velocità e affidabilità. Quindi anche ammesso che i governatori del traffico, i cosiddetti provider, non discriminino fra pacchetti (come secondo alcuni già fanno, violando la neutralità), la velocità di trasmissione/ricezione dipende già oggi dalla qualità del collegamento, quindi anche da quanto si paga. Secondo, una volta pagata la connessione, molti servizi si pagano a parte, specie se sono pregiati (provate ad accedere all’archivio di un quotidiano).

Internet non è nemmeno democratica. Di democratico c’è solo il fatto che, una volta pagato (o scroccato) il collegamento, chiunque può navigare e dire la propria senza censure. Attenzione, però, perché anche qui - senza accorgercene - paghiamo, sia pure in natura anziché in denaro. In che modo la rete ci fa pagare? Innanzitutto imponendoci la pubblicità, spesso fastidiosa e ineliminabile. Poi chiedendoci di registrarci quando cerchiamo di visitare determinati siti, il che equivale a regalare i nostri dati personali a soggetti che per lo più li venderanno o ne faranno un uso commerciale. E infine mediante la cosiddetta attivtà di profiling da parte dei motori di ricerca come Google, una sorta di schedatura di massa con cui vengono registrate tutte le nostre abitudini di navigatori: quali siti visitiamo, quali servizi acquistiamo, con quali utenti ci colleghiamo, che musica ascoltiamo, che film scarichiamo. Tutte queste informazioni, spesso raccolte a nostra insaputa e in violazione della privacy, possono essere vendute o trasmesse ai grandi apparati - multinazionali, governi, servizi segreti - senza alcun controllo da parte degli utenti che le forniscono (su questo si veda l’eccellente inchiesta di Fabio Tonacci e Marco Mensurati, uscita venerdì scorso su Repubblica).

Ma almeno possiamo dire che Internet è libera?

Nemmeno questo si può dire, secondo me. Libertà, certo, significa poter andare dove si vuole, collegarsi con chiunque, far circolare le proprie idee senza censure, accedere alla immensa massa di informazioni gratuite disseminate nella rete. Ma la «libertà di», o libertà positiva, come ci ha insegnato Isaiah Berlin, non è l’unica libertà, e forse non è neppure la più importante. Esiste anche la «libertà da», la libertà negativa. Libertà dalle molestie e dalle imposture, ad esempio. Libertà di sceglierci gli interlocutori. Libertà di non essere sistematicamente interrotti. Libertà, in una parola, di disporre del nostro tempo senza essere invasi.

Questo secondo tipo di libertà, la «libertà da», la stiamo inesorabilmente perdendo. La vita e il lavoro sono sempre più infestati, quotidianamente, ora per ora, da una selva di contatti indesiderati ma inevitabili, di notizie false ma incontrollabili, di informazioni inaccurate ma indistinguibili da quelle esatte. Perché quella che va in scena ogni giorno su Internet, come ha brillantemente spiegato Marco Niada, è una guerra permanente di tutti contro tutti per la conquista dell’attenzione (Il tempo breve, Garzanti 2010). Una guerra in cui un tempo sproporzionato viene allocato per interagire, spesso con soggetti che mai avremmo cercato autonomamente, e pochissimo tempo resta per fare, creare, pensare, riposare, stare in disparte.

Dobbiamo concluderne che Internet è un male?

Assolutamente no. I benefici restano ancora largamente superiori agli inconvenienti, specialmente agli estremi della scala sociale, ossia per la classe dirigente, per cui la connessione è arma irrinunciabile del comando, e per i soggetti più marginali, per cui la connessione è strumento di socialità e di informazione (e non solo «sfogatoio» delle frustrazioni, come amano pensare i nemici di Internet). Quello su cui forse dovremmo riflettere, semmai, è il nesso nascosto che collega «libertà di» e «libertà da». Se la nostra «libertà da» sta riducendosi pericolosamente, è anche perché la nostra «libertà di» è andata troppo avanti. Sia l’intasamento della Rete, sia l’estrema difficoltà di isolare le informazioni affidabili, sono una conseguenza, ben nota agli studiosi di signalling theory, dell’assenza di barriere all’entrata e di filtri alla circolazione: la probabilità di incorrere in contatti irrilevanti o informazioni inaccurate esplode quando i costi di produzione e contraffazione dei segnali si abbassano troppo, facendo così cadere un potentissimo meccanismo che inibisce l’emissione di segnali irrilevanti o falsi.

Vista da questa angolatura, la proposta di Google e Verizon, per quanto certamente dettata da interessi commerciali, andrebbe guardata con grande attenzione. Oggi noi tendiamo, istintivamente, a vederla solo come un attentato alla libertà di Internet, o come una cospirazione delle multinazionali contro gli inermi cittadini, ma forse sarebbe più accurato vederla anche come un primo, cauto, tentativo di mantenere intatti i benefici di Internet senza subirne gli effetti collaterali più dannosi. Insomma una riscossa della «liberta da», dopo due decenni di espansione della «libertà di».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7720&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #93 inserito:: Agosto 22, 2010, 09:08:55 pm »

22/8/2010

Il partito che non c'è

LUCA RICOLFI

Al momento è difficile capire se, alla fine, il dissidio tra Fini e Berlusconi ci porterà ad elezioni anticipate oppure no. Se a questo esito si dovesse arrivare con l’offerta politica attuale, per molti cittadini non sarebbe semplice scegliere da che parte stare. Alla fine molti andrebbero comunque a votare, ma solo per minimizzare i danni, visto che - nonostante tutto - sono ancora parecchie le persone che credono di sapere quale sarebbe il peggior male possibile, quella che in teoria dei giochi si chiama l’alternativa da evitare: Berlusconi, la Lega, i post-comunisti, i post-fascisti, i neo-democristiani, il clericalismo, il laicismo, eccetera eccetera.

Rispetto alle contese elettorali passate, però, c’è secondo me un elemento nuovo. Oggi, forse anche perché ci stiamo avvicinando al centocinquantenario dell’Unità d’Italia, la posta in gioco fondamentale è l’idea di unità nazionale. E, rispetto a questa posta, la confusione e l’ambiguità dell’offerta politica stanno toccando il loro massimo. La ragione è semplice: continuiamo a parlare come se lo scontro fosse fra destra e sinistra, mentre ormai le linee di divisione fondamentali sono altre.

Una linea di divisione va in scena tutti i giorni sui media, e riguarda il modo di concepire la legalità, le istituzioni, la democrazia. Su questa barricata, che appassiona le élite politico-intellettuali ma secondo tutti i sondaggi lascia sostanzialmente indifferenti gli elettori, si scontrano la visione plebiscitaria e populista di Bossi-Berlusconi e il conservatorismo costituzionale di quasi tutti gli altri.

Una seconda linea di divisione, meno visibile ma politicamente importantissima, riguarda il federalismo e il ruolo della Lega. Su questa barricata ci sono due sole posizioni chiare, e in un certo senso estreme: quella della Lega, che vede il federalismo innanzitutto come difesa degli interessi del Nord, e quella del nascente polo di centro, i cui esponenti hanno invece sempre diffidato del federalismo, visto come un castigo del Mezzogiorno e quindi come una minaccia all’unità nazionale. Una linea di pensiero cui più volte (anche nei giorni scorsi) ha dato manforte la Chiesa, con esternazioni tanto accorate quanto prive di concretezza. In mezzo, fra il nordismo della Lega e il sudismo dei moderati, si collocano i due partiti nazionali, il Pdl e il Pd, che su questo asse della politica italiana sono il vero centro, il vero elemento equilibratore, i soli che hanno tentato - ciascuno a modo suo, e forse entrambi senza riuscirvi - di tenere conto sia degli interessi del Nord sia di quelli del Sud. Il Pdl frenando la Lega ma riconoscendone le buone ragioni, il Pd oscillando fra condivisione e diffidenza nei confronti del progetto federalista. Ora però questa loro funzione nazionale è posta di fronte a sfide difficili, che nascono sia dal lato dell’offerta politica che dal lato della domanda.

Sul versante dell’offerta, è probabile che alle prossime elezioni troveremo sulla scheda anche una terza coalizione, o Terzo polo, per la quale il nemico da battere sarà la Lega e la stella polare saranno gli interessi del Mezzogiorno. Una coalizione che si presenterà come «garante dell’unità nazionale», ma di fatto interpreterà la sua missione innanzitutto come difesa del Sud dai guasti del federalismo. È chiaro che una coalizione del genere avrebbe la Lega come nemico numero uno, e chiunque volesse averne i voti in Parlamento dovrebbe rompere con il partito di Bossi. Dunque un rischio per il Pdl, che difficilmente potrebbe rinunciare all’alleanza con la Lega, una tentazione per il Pd, in cui l’anima antifederalista potrebbe prendere il sopravvento, attratta dall’idea di mandare a casa Berlusconi grazie alla santa alleanza di tutti i suoi nemici.

Sul versante della domanda, invece, le novità e le sfide vengono tutte dal Nord. Mentre al Sud la nascita di un Terzo polo fortemente caratterizzato in senso meridionalista determinerà un eccesso di offerta politica, con Pd, Pdl e Terzo polo ferocemente impegnati a contendersi i voti, al Nord avremo il problema opposto, ossia un deficit di offerta politica, con conseguente quasi-monopolio dei consensi da parte della Lega (il che spiega l’impazienza di Bossi di andare ad elezioni). Con uno scontro politico polarizzato sull’asse Nord-Sud, è possibile che il cittadino di destra si senta più garantito dalla Lega che dal Pdl, mentre quello di sinistra rischia di non sentirsi garantito da nessuno. È sorprendente che i dirigenti romani del Pd non se ne rendano conto, ma la realtà è che al Nord anche la base del Pd è convintamente federalista, e persino sull’immigrazione e sulla sicurezza spesso si ritrova più nella linea dura della Lega che nel buonismo ideologico della cultura di sinistra. L’elettore di sinistra non ama le guasconate della Lega, detesta la volgarità di alcuni suoi esponenti, è rimasto scandalizzato dalla vicenda delle quote latte, vorrebbe piena eguaglianza fra italiani e immigrati regolari, trova indegno lo stato delle nostre carceri e dei nostri centri di raccolta dei clandestini. Però, specie in Lombardia e nel Nord-Est, sui due punti fondamentali della Lega, sul nucleo duro della sua visione del mondo, è sostanzialmente d’accordo: l’immigrazione irregolare va contrastata con fermezza, il Nord non può continuare a mantenere il Sud tollerando sprechi ed evasione fiscale.

Così l’analisi della domanda e dell’offerta politica ci restituisce un problema. Questo tipo di cittadini del Nord, ma ve ne sono molti anche al Centro e al Sud, non hanno un partito che li rappresenti. Alcuni, forse la maggioranza, non andranno a votare. Altri voteranno Pd per disperazione antiberlusconiana. Altri salteranno il fosso e voteranno Lega, obtorto collo e fra mille riserve e distinguo (turandosi il naso, avrebbe detto Montanelli). Eppure, essi come tanti altri, voterebbero ben volentieri un partito che, come la gloriosa rivista liberal-democratica di politica e cultura fondata da Francesco Compagna a Napoli nel 1954, si chiamasse «Nord e Sud», e avesse il federalismo - un federalismo fatto bene - come sua prima missione. Un partito critico con la Lega, ma non ostile al federalismo. Un partito di uomini del Nord e uomini del Sud, che riconoscesse che la vera frattura, oggi, non è fra Nord e Sud, e nemmeno fra destra e sinistra, ma fra i tanti produttori, che lavorano duro e rispettano la legge, e i troppi parassiti, che dissipano le risorse comuni e disprezzano le regole del gioco.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7733&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #94 inserito:: Settembre 06, 2010, 05:56:27 pm »

5/9/2010 (7:55)  - OPPOSIZIONE. LA RECENSIONE

La sfida di Chiamparino al Pd "Non possiamo vivere in difesa"

Nel libro-intervista del sindaco di Torino un ultimo messaggio al Pd e (forse) un'autocandidatura al comando del centro-sinistra

LUCA RICOLFI

Un ultimo, accorato, messaggio al Pd, e forse un’autocandidatura al comando del centro-sinistra. Così definirei «La sfida» di Sergio Chiamparino, il libro che Einaudi manda in libreria nei prossimi giorni.

Un libro-intervista bello, incisivo, pieno di idee politicamente scorrette enunciate in un linguaggio politicamente corretto. Vediamole, queste idee politicamente scorrette (ma secondo me del tutto ragionevoli) che il sindaco di Torino ha esposto nel suo libro, rispondendo a una raffica di domande di Paolo Griseri. L’idea più importante mi sembra questa: «La sinistra, almeno in Italia, è credibile per difendere l’esistente, assai meno come agente di cambiamento. È paradossale ma è così. Proviamo. La difesa della Costituzione, la difesa della magistratura, la difesa dei diritti, la difesa dello Stato sociale, la difesa della scuola e via difendendo. Tutto (o quasi) giusto, tutto necessario, ma può essere credibile un partito che si propone sostanzialmente di lasciare le cose come stanno, perché questo alla fine è il messaggio che passa?».

I due snodi
Al centro di questa difesa dell’esistente si trova, naturalmente, lo Stato sociale, quello che Chiamparino chiama «il giardino del welfare». Un giardino in cui sono ammessi i garantiti, i cosiddetti insider: dipendenti pubblici, pensionati, addetti delle grandi e medie imprese. E da cui sono più o meno esclusi i non garantiti, i cosiddetti outsider: giovani, donne, operai e impiegati delle piccole aziende, lavoratori autonomi, partite Iva.

Di qui due problemi cruciali. Da quando la crescita si è bloccata, la difesa dei diritti dei garantiti non può che avvenire a scapito dei non garantiti. E poiché il Pd - il partito di Chiamparino - è il partito in cui sono confluite le forze politiche che hanno costruito il giardino, ossia il Pci e la Dc, il Pd è naturalmente, geneticamente mi verrebbe da dire, un partito conservatore. Un partito il cui istinto è salvare il giardino e i suoi occupanti, che infatti hanno capito l’antifona e lo votano proprio per questo.

Da questa diagnosi di fondo, che nel libro si focalizza sull’Italia ma in realtà si potrebbe estendere a buona parte della sinistra in Europa, si dipanano varie conseguenze. La più importante, difficile da digerire per il pubblico di sinistra, è che oggi la destra è l’unica forza del cambiamento. Un cambiamento in parte illusorio, in parte non condivisibile, ma comunque un cambiamento. Il problema del Pd, secondo il sindaco di Torino, sarebbe quello di offrire un’altra idea di cambiamento, altre soluzioni, altre priorità, abbandonando il ruolo di guardiano dell’esistente che, in nome della guerra a Berlusconi, esso si è ritagliato in questi anni. Il nucleo forte di questa idea alternativa di cambiamento, per come l’ho capita io, è una sorta di ossimoro politico: un comunitarismo aperto, o se preferite un leghismo educato. Accettare le buone ragioni della Lega, ma depurandole completamente dei loro accenti xenofobi, intolleranti, difensivi. Fare sul serio e bene il federalismo, dismettere il buonismo in materia di criminalità e immigrazione; ma al tempo stesso non temere il mondo esterno, favorire al massimo l’integrazione degli stranieri, dalla cui voglia di lavoro e di riscatto dipende il nostro stesso futuro. Stranieri su cui Chiamparino ha parole piene di stima e di ammirazione, per non dire di rimpianto: «L’immigrato è quasi sempre una persona che vuole migliorare la sua condizione di partenza, che si porta addosso l’energia e quella tensione verso il cambiamento che molti italiani non hanno più».

La scossa esterna
Ma come si fa a cambiare il Dna della sinistra? Come si fa a cambiare il Pd?
La formula del libro, enunciata fin dall’introduzione, è «oltre il Pd per ritrovare il Pd», forse l’unica seria concessione al politichese in un libro che non sembra scritto da un politico. Proviamo a tradurre, prendendo spunto da alcuni passaggi dell’intervista. Per il sindaco di Torino l’ideale sarebbe una scossa esterna, che costringesse il partito a guardarsi allo specchio. Ma poiché le ripetute sconfitte elettorali non hanno fornito tale scossa, e anzi Bersani mette tutto il suo impegno nel nascondere la realtà, nel produrre miti di autoconsolazione, l’unica via è che - in vista delle prossime elezioni, non importa quanto anticipate - parta un confronto aspro e a tutto campo nello schieramento di sinistra. Un confronto aperto all’esterno, con idee forti, candidature vere, leader credibili, perché il primo problema della sinistra oggi è la credibilità della sua classe dirigente: «oggi si votano le facce e le persone», e «io non credo che oggi si possa sfuggire al problema di avere una figura di riferimento che ti rappresenta». Perché negli ultimi venti anni è la politica ad essere cambiata e i partiti sono ormai solo «i magazzini degli attrezzi che servono all’elaborazione politica per le facce e le persone che si candidano». Una verità che Berlusconi capì subito, e che la sinistra stenta ad accettare ancora adesso.

Insomma, tornando al Pd e al suo destino, «non ci mancano le proposte concrete ma la credibilità per avanzarle. Dobbiamo trovare al nostro interno qualcuno in grado di interpretare questa esigenza di rottura nella società italiana, qualcuno capace di condurre la battaglia contro le gabbie che bloccano il nostro sistema sociale e contro l’italietta che sull’esistenza di quelle gabbie ha costruito la sua fortuna».

Il vento nuovo
Sul fatto che Sergio Chiamparino abbia la credibilità e le idee necessarie per questa battaglia non ho molti dubbi. È sul suo partito che sono scettico. E lo sono proprio perché la diagnosi di Chiamparino è convincente: non si può richiedere agli eredi del Pci e della Dc di andare oltre il giardino del welfare, perché sono essi stessi i giardinieri che l’hanno creato. Ma soprattutto non si può chiedere a un apparato di potere, com’è il Pd e come sono tutti i partiti, di mettersi al servizio di un leader che non ne è l’artefice, e semmai ne è la cattiva coscienza. Abbiamo visto che fine i «compagni» hanno fatto fare a Prodi, una prima volta nel 1998 e una seconda nel 2008. E sappiamo tutti qual è il destino che l’apparato del Pd ha riservato a Veltroni, che pure era stato chiamato come salvatore della patria.

In breve, la mia impressione è che l’occasione che l’Italia di oggi offre ai politici che la pensano come Chiamparino non sia quella di gestire il declino del Pd, ma quella di contribuire alla nascita del «partito che non c’è»: un partito aperto e tollerante, che non demonizzi la Lega e la destra, ma offra soluzioni migliori ai problemi che esse hanno sollevato in questi anni. Se si vuole un cambiamento vero, non ci sono scorciatoie. Quando ha voluto scendere in campo, Berlusconi si è preso i suoi rischi e ha creato Forza Italia, senza cercare investiture dai partiti esistenti. Una lezione che resta valida ancora oggi, almeno per chi in politica vuole portare un vento nuovo.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58243girata.asp
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« Risposta #95 inserito:: Settembre 08, 2010, 09:08:40 am »

8/9/2010

Non ci sono abbastanza liberali

LUCA RICOLFI

Mai dire mai. Chi lo sa, potrebbe anche succedere. E se succedesse sarei il primo a rallegrarmene. Parlo della nascita, in Italia, di un «partito liberale di massa». Un partito anti-assistenziale, fiducioso nel libero mercato, determinato a modernizzare il Paese. E che, nonostante la sua vocazione a cambiare l’Italia, avesse un seguito elettorale largo. Un partito, per intenderci, che non fosse la riedizione dei suoi progenitori liberali, repubblicani, radicali, i quali - anche considerati tutti assieme - non arrivarono mai al 10% dei consensi.

E tuttavia, ora che quel sogno viene disseppellito da più parti, ora che tutte le novità politiche si autodipingono come liberali, mi si permetta di esternare un po’ di scetticismo. Si autoproclamano liberali i centristi di Casini e di Rutelli, impegnati (con Montezemolo?) a costruire il «Partito della nazione». Si autoproclamano liberali gli uomini di Fini, che si accingono a costituire il nuovo partito Futuro e libertà. Ed è sostanzialmente un progetto liberale quello con cui Chiamparino ha lanciato la sua Opa, la sua «Offerta pubblica di acquisto» sul Partito democratico, accuratamente argomentata nel suo libro-intervista appena uscito (La sfida, Einaudi).

Ma sono credibili queste sfide? Siamo sicuri che gli osservatori e gli studiosi che danno tanto credito a questi progetti non confondano i propri sogni con la realtà? Siano sicuri che quello del «partito liberale di massa» non sia essenzialmente un mito degli intellettuali, una proiezione dei loro desideri più che una possibilità concreta?

Insomma io sono perplesso, pur facendo parte della schiera di quanti pensano che l’Italia avrebbe solo da guadagnare dalla nascita di una simile creatura politica. Sono perplesso, innanzitutto, dal lato dell’offerta politica. Non ho mai creduto, ad esempio, che da due partiti illiberali, come il Pci e la Dc, potesse nascere un partito che avesse il liberalismo nel suo Dna; o, se preferite, che da due chiese potesse nascere una non-chiesa. Per questo penso che l’Opa di Chiamparino non potrà funzionare: il corpaccione del Partito democratico è troppo intossicato dal passato ideologico dei suoi fondatori, post-comunisti e post-democristiani, per reggere l’urto laico del sindaco di Torino (dove per me laicità non significa anticlericalismo, bensì libertà mentale). Allo stesso modo non penso che un partito di ispirazione genuinamente liberale possa nascere dagli eredi centristi della Dc, o dagli eredi post-fascisti dell’Msi. Non perché gli esponenti di questi partiti non lo vogliano, ma perché a frapporsi al progetto sono la loro storia, il loro insediamento prevalente nelle regioni assistite, la rete delle loro clientele nel Centro-Sud.

Non per nulla tutte le componenti del nascente Terzo polo (Udc, Api, Fli, Mpa) sono risolutamente antifederaliste, una circostanza che dovrebbe suscitare qualche interrogativo visto che, al momento, il federalismo è l’unico progetto politico organico di razionalizzazione della spesa pubblica e di contenimento della pressione fiscale, i due capisaldi di qualsiasi politica economica liberale.

La mia impressione è che, in questi giorni, si stia consumando un grande equivoco: chi sogna una destra europea, rispettosa delle istituzioni, aperta al dissenso, conservatrice ma non populista, tende a vedere il nuovo partito di Fini come la possibile incarnazione di una tale destra, ma al tempo stesso vuol credere che una tale destra - che io definirei semplicemente normale - sia destinata a evolvere in partito liberale di massa, come se l’essenza del liberalismo fosse solo lo «Stato di diritto» e non anche la difesa della concorrenza e la lotta senza quartiere al parassitismo economico. Detto altrimenti: è possibile che Fini dia vita (finalmente) a una destra classica, diversissima da quella di Berlusconi, ma questo non implica né che tale destra sia destinata ad assumere tratti liberali, né che sia capace di diventare di massa.

E qui veniamo alla seconda perplessità, questa volta dal lato della domanda politica. Su questo terreno, chiunque ci voglia provare - Fini, Chiamparino, Rutelli, Casini, Montezemolo - dovrà fare i conti con i numeri. E i numeri, basati su un’infinità di sondaggi e analisi delle preferenze elettorali, dicono una cosa piuttosto chiara: finché esistono un polo di destra e un polo di sinistra, lo spazio di un eventuale Terzo polo non può andare molto al di là del 20%, di cui solo la metà (circa il 10%) occupato da una eventuale formazione liberal-democratica. Lo dicono i sondaggi di questi mesi, lo rivelava già tre anni fa un esperimento condotto dalla rivista «Polena» per misurare il potenziale elettorale del centro cattolico e di un eventuale «partito di Montezemolo», di ispirazione liberaldemocratica.

Piaccia o no, in Italia i partiti di massa tendono a essere illiberali, e i partiti di ispirazione liberale tendono a non essere di massa. Ma soprattutto il problema è che i diversi ingredienti del liberalismo si trovano per così dire sparpagliati nel sistema politico, anziché riuniti in un unico partito. Se parliamo di immigrazione, di carceri, di diritti individuali, i più liberali sono i radicali, i seguaci di Vendola e i comunisti. Se parliamo di Stato di diritto, di separazione dei poteri, di senso delle istituzioni, i più liberali sono il Pd e il nascente partito di Fini. Se parliamo di politica economica, i più liberali (o i meno illiberali) sono i leghisti e i riformisti «coraggiosi» del Pd e del Pdl, da Ichino a Brunetta.

Insomma, la mia impressione è che lo spazio per un partito liberale di massa non ci sia. Ci provò Berlusconi nel 1994, e in quasi vent’anni non c’è riuscito nemmeno lontanamente, come ormai riconoscono anche i suoi. Ci provarono a modo loro, da sinistra, le menti più aperte del Partito democratico: Arturo Parisi, Michele Salvati, Walter Veltroni. Anche lì, niente da fare. L’idea piace, seduce, ma non passa. Forse è giunto il tempo di prenderne atto e darsi obiettivi più limitati. Quel che non è riuscito al Pd e al Pdl, difficilmente potrà nascere dalle schegge partitiche che, per le ragioni più diverse, non hanno voluto lasciarsi inglobare nei due partiti maggiori.

La domanda politica per un partito liberaldemocratico in Italia non manca, specie nel Centro-Nord. E sono convinto che esso farebbe bene al sistema politico italiano, che di iniezioni di liberalismo ha un disperato bisogno. Dunque qualcuno lo faccia, questo benedetto partito. Quello di cui non sono convinto è che a riuscire nell’impresa possano essere le forze politiche che attualmente si proclamano liberali, e tanto meno che il suo seguito possa essere di massa. Realisticamente, oggi in Italia lo spazio elettorale di una formazione compiutamente liberaldemocratica è quello di un partito medio, del 10-15%. E il suo ruolo possibile è il medesimo che esso svolge nella maggior parte dei sistemi politici in cui un tale partito esiste: quello di una forza che, alleata con la destra o con la sinistra, prova ad accelerare la modernizzazione economica e civile del Paese.

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« Risposta #96 inserito:: Settembre 10, 2010, 10:32:06 am »

10/9/2010

Ma la Lega è ancora federalista?

LUCA RICOLFI

E’ un po’ che me lo chiedo: la Lega è davvero interessata al federalismo?
I primi dubbi li ebbi un paio di anni fa, quando venne varata la legge sui servizi pubblici locali. Da un partito che vuole eliminare gli sprechi e le inefficienze nella pubblica amministrazione mi aspettavo scelte assai più radicali in materia di concorrenza, e invece la Lega frenò lasciando passare una legge piuttosto timida. Un parlamentare lombardo della Lega mi spiegò poi perché: è vero che facendo gare aperte si possono ottenere tariffe più basse per i cittadini, ma il rischio era che gli appalti li prendessero aziende straniere, con tanti saluti alle ditte e dittarelle locali. Per questo la Lega scelse di frenare.

Poi, quando si cominciò a parlare di manovra e di sacrifici, e qualcuno propose di abolire le «Province inutili» (uno degli impegni del centrodestra in campagna elettorale), fu di nuovo la Lega a frenare.

Se la proposta fosse passata, sarebbero state soppresse anche alcune Province del Nord, con tanti saluti alle poltrone di un buon numero di amministratori leghisti. Di qui lo stop: il provvedimento venne stralciato e messo in un binario morto.

Un altro dubbio mi venne la primavera scorsa, quando la sacrosanta protesta dei sindaci del Nord contro i vincoli del patto di stabilità ebbe ad incontrare la sorda ostilità dei dirigenti nazionali del Carroccio. Ma il dubbio più grande lo ebbi in occasione della recente manovra estiva, fondamentalmente basata su tagli «lineari» (eguali per tutti) a Regioni, Province e Comuni. Da un partito federalista mi sarei aspettato una dura battaglia per distribuire i tagli in modo da premiare i territori virtuosi e punire quelli spreconi, se non altro perché per un’amministrazione che ha già tagliato è molto più difficile continuare a farlo. Invece, nonostante qualche timido tentativo del governatore del Piemonte Roberto Cota, la Lega si defilò, lasciando passare un maxi-emendamento che permetterà ancora una volta di rimandare un intervento incisivo e selettivo sugli sprechi.

Negli ultimi giorni però i miei dubbi e le mie perplessità stanno diventando delle quasi-certezze. C’è una crisi di governo, l’eventualità di andare alle urne già in autunno è molto concreta. Contrariamente a quanto affermano diversi esponenti della Lega, il federalismo non è affatto al sicuro. Non tanto perché diversi decreti delegati devono ancora essere emanati, ma perché anche i decreti delegati sono impostati senza numeri, sono scatole vuote che indicano alcuni meccanismi e soggetti che dovranno attuare il federalismo, ma lasciano del tutto aperti i due punti centrali: quanto dovranno risparmiare le varie amministrazioni, quanta evasione fiscale andrà recuperata in ogni territorio. Detto brutalmente, i decreti delegati sono a loro volta più somiglianti a ulteriori leggi-delega che a norme dotate di un contenuto macroeconomico preciso e vincolante. E dal momento che la base tecnico-statistica per attuare il federalismo fiscale non esiste ancora (né potrebbe essere diversamente, perché una classe politica irresponsabile ha passato quindici anni a discutere di principi, e quasi nulla ha fatto per renderli concretamente attuabili), ci vorranno ancora almeno un paio di anni per far partire il federalismo e per cominciare a capire come esso verrà effettivamente attuato.

Ebbene, in questa situazione la Lega non si preoccupa di attuare il federalismo, ma di tornare al voto al più presto. E racconta ai suoi ingenui elettori che il federalismo è al sicuro, è «in cassaforte», perché nelle prossime settimane verranno approvati gli ultimi decreti delegati. Non è così. I decreti delegati, anche se riuscisse il miracolo di approvarli tutti prima dello scioglimento delle Camere, saranno inevitabilmente semi-vuoti, nel senso che toccherà ai prossimi esecutivi riempirli di contenuti, sempre ammesso che i prossimi governi vogliano insistere su una riforma già abortita tre volte. Ma nulla assicura che i nuovi equilibri parlamentari che usciranno dal voto saranno più favorevoli al federalismo di quelli attuali, e anzi molti indizi fanno pensare il contrario. Lo scenario più probabile prevede che Pdl e Lega conquistino il premio di maggioranza alla Camera, ma al Senato siano costretti a stringere alleanze con una parte della sinistra (Pd?) o con una parte del Terzo polo (Udc?).

Di qui il mio mega-dubbio: se il voto mette a repentaglio il federalismo, perché la Lega vuole le elezioni a tutti i costi, fino al punto di minacciare di far cadere il governo?
La risposta è semplice: perché nel gioco attuale della politica la situazione della Lega è win-win: la Lega vince comunque, perché se ci sarà una maggioranza Pdl-Lega anche in Senato Berlusconi e Bossi torneranno da trionfatori al governo, mentre se tale maggioranza non ci sarà la Lega potrà consolarsi con un aumento spettacolare del suo numero di seggi parlamentari, per lo più strappati al Pdl e al Pd del Nord. In breve il rischio del voto è enorme per Berlusconi, che comunque perderebbe seggi in Parlamento, e minimo per Bossi, che rischia «solo» di perdere il federalismo, nel caso fosse impossibile continuare con l’alleanza attuale.

Ma perché la Lega non teme di perdere il federalismo, proprio ora che è a un passo dalla meta?

L’unica risposta non ideologica che vedo è che per la Lega, ormai, il federalismo è diventato meno importante dell’allargamento della sua presenza nella pubblica amministrazione, dai Comuni alle Province, dalle Regioni al Parlamento, quella stessa amministrazione che la Lega delle origini voleva bonificare, e che ora sembra lentamente ma inesorabilmente trasformarsi in un terreno di pascolo, come accade a qualsiasi normale apparato di partito. Il federalismo all’inizio era prevalentemente un fine, ora sta diventando un mezzo, uno strumento di propaganda.
Non dobbiamo stupircene, perché succede in tutti i partiti, e la Lega non fa eccezione. La notizia è solo che, crescendo, la Lega sta diventando un partito come gli altri. Un vero peccato, perché il federalismo è (era?) una buona meta, e sono ancora tantissimi i politici e gli amministratori che - nella Lega come negli altri partiti - fanno il loro dovere con serietà e con passione.

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« Risposta #97 inserito:: Settembre 19, 2010, 06:19:56 pm »

19/9/2010

Federalismo, la partita si gioca al Sud
   
LUCA RICOLFI


Per capire la politica siciliana bisogna, come minimo, essere siciliani e fini conoscitori della realtà dell’isola. Perciò non proverò nemmeno ad azzardare un’interpretazione della complessa partita che lì si sta giocando in questi giorni, né a decodificare i segnali che il presidente del Consiglio - di passaggio a Taormina - ha lanciato ieri ai vari politici dell’isola.
Quel che però mi sembra di poter dire, dal nebbioso Nord in cui sono sempre vissuto, è che la partita siciliana è solo un episodio di una partita molto più generale, una partita che si gioca un po’ in tutte le regioni meridionali ma in realtà ci riguarda tutti. Questa partita si chiama «futuro del Sud», e alla lunga avrà ripercussioni sull’Italia intera, se non altro perché il destino del Centro-Nord dipenderà dal modo in cui - non in un lontano futuro, ma nei prossimi mesi - la classe politica imposterà la questione del Sud.

Perché nei prossimi mesi?
Perché nei prossimi mesi, se il governo non cadrà prima di Natale, saranno emanati tutti o la maggior parte dei decreti delegati della legge sul federalismo fiscale.
E anche se il governo dovesse cadere, sarà sul federalismo che si combatterà un’eventuale campagna elettorale. Vista da Roma, la crisi della maggioranza è una puntata della guerra Fini-Berlusconi, e la posta in gioco è lo scudo giudiziario per il presidente del Consiglio. Ma vista dalle rive del Po la crisi della maggioranza è soprattutto un passaggio cruciale nella vicenda del federalismo. Dalle convulsioni di questi giorni si può uscire con un rafforzamento delle forze che più o meno apertamente osteggiano il federalismo, oggi raggruppate sotto l’etichetta del Terzo polo, oppure con un successo delle forze che puntano su una sua applicazione rigorosa, non solo la Lega ma anche consistenti settori del Pdl e del Pd, specie al Nord.

Il problema politico, tuttavia, è che in questa partita il vero arbitro non è né il governo né il Parlamento, ma è l’elettorato meridionale. E questo non solo perché è al Mezzogiorno che il federalismo chiede i cambiamenti più radicali, ma perché da quando siamo entrati nella seconda Repubblica è sempre il Mezzogiorno che decide chi vince le elezioni: il Nord vota stabilmente a destra, le «regioni rosse» del Centro votano stabilmente a sinistra, il Sud oscilla e con il suo oscillare decide il vincitore. Al limite si potrebbe far votare solo gli elettori meridionali, tanto il voto del resto del Paese - sclerotizzato com’è - è sostanzialmente ininfluente.

Il problema è dunque: che cosa farà il Sud? O meglio: che cosa faranno le forze politiche per orientare il voto del Sud? O ancora: quale idea del futuro dell’Italia vincerà fra gli elettori del Sud? Accetteranno la sfida del federalismo o faranno resistenza passiva, cercando di mandare a monte i sogni della Lega?

Ecco perché è importante capire il gioco delle forze politiche, ma anche i sentimenti in campo nella società civile. E qui vorrei riferire una sensazione personale, basata sui contatti che ho avuto negli ultimi anni con persone del Sud, ma anche sui numeri e sulle statistiche. Ebbene, la mia impressione è che noi del Nord abbiamo una visione molto, troppo stereotipata della realtà meridionale. Una visione che sottovaluta le enormi differenze interne del Mezzogiorno. Differenze fra regioni ad alta e a bassa densità mafiosa, innanzitutto.
Ma anche differenze interne alle stesse regioni di mafia (Benevento non è Caserta). Quando il ministro Brunetta dice che alcuni territori sono «un cancro sociale e culturale», e che se essi si comportassero come il resto del Paese l’Italia sarebbe al livello dei più avanzati Paesi europei, non solo dice una cosa esatta, che studiosi avvertiti come Paolo Feltrin ripetono da anni, ma fa un’enorme apertura al resto del Mezzogiorno. Perché se Brunetta ha ragione, vuol dire che dentro il Sud ci sono realtà molto differenziate, alcune delle quali non lontane dagli standard medi nazionali. Prendiamo l’intensità dell’evasione fiscale: nei due territori indicati da Brunetta (la Calabria e la conurbazione Napoli-Caserta) è quasi il doppio della media nazionale, ma nelle cinque regioni a bassa densità mafiosa (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sardegna) è di poco superiore alla media italiana. Prendiamo le estorsioni, il più tipico reato connesso alla criminalità organizzata: fatta 100 la media nazionale, i territori-cancro di Brunetta sono a livello 273, le regioni del Sud a bassa intensità mafiosa sono a livello 116, appena al di sopra della media nazionale. Così per molti altri indicatori, che invariabilmente mostrano che l’enfatizzatissima distanza Nord-Sud è minore della distanza che, dentro il Sud, separa i territori normali dai territori «speciali».

Lo stesso discorso si potrebbe ripetere per l’efficienza delle amministrazioni locali, dove - accanto ai frequenti casi di dissipazione del denaro pubblico - non mancano esempi di amministrazioni virtuose. Così come sono sempre più numerosi i politici che, anziché demonizzare la Lega Nord, preferiscono raccoglierne la sfida, riconoscendo gli errori del passato e attrezzandosi a non ripeterli nel futuro. Insomma, voglio dire che una parte della classe politica meridionale ha capito che i quattrini sono finiti, che come prima non si può andare avanti, che il vittimismo non paga più, e che il federalismo può essere un’opportunità per il Sud. Di donne e uomini così negli ultimi tempi mi è capitato di conoscerne parecchi, ed è stata una sorpresa molto piacevole. Essi non chiedono di fermare il federalismo, ma pretendono che - se e quando il ceto politico meridionale saprà fare la sua parte - anche lo Stato centrale faccia la sua, a partire dalle infrastrutture e dagli investimenti pubblici, drammaticamente e colpevolmente dimenticati negli ultimi 10 anni.

Di fronte a questa realtà, come si pone la politica nazionale?
La mia impressione è che, proprio perché sarà il Sud a decidere le elezioni politiche, per i nostri due maggiori partiti e i loro leader non sarà facile far leva sulle forze migliori presenti nel Mezzogiorno. Berlusconi sa che per restare in sella deve concedere qualcosa agli uomini del Sud (parlamentari e cittadini), e il rischio che conceda le cose sbagliate è molto forte. Quanto a Bersani non ha nulla da concedere, ma può promettere molto, ad esempio che la santa alleanza fra sinistra e Terzo polo annacqui o congeli la riforma federalista.

Eppure quella di aiutare le energie migliori del Sud è l'unica strada. Se la politica non saprà fare questo - risparmi severi sulla spesa corrente, investimenti coraggiosi in infrastrutture - il Sud non ne verrà fuori. E, a quel punto, non ne verremo fuori neppure noi, perché un Mezzogiorno così com’è oggi è un lusso che il Nord non si può più permettere.

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« Risposta #98 inserito:: Settembre 24, 2010, 04:48:39 pm »

24/9/2010

L'Italia immaginaria della sinistra

LUCA RICOLFI

Una settimana fa Walter Veltroni ha scritto un manifesto, firmato da 75 parlamentari del Partito democratico, in cui analizza la società italiana, solleva severe critiche alla gestione Bersani del partito, indica una via alternativa per il futuro. Il documento ha provocato una grave lacerazione nel partito, che ieri la Direzione del Pd è riuscita in qualche modo a ricucire con uno dei soliti riti della vita interna dei partiti (voto a favore della relazione del segretario, con astensione delle minoranze dissidenti).

I giornali non hanno riportato gran che dei contenuti del documento, quindi sono andato a leggermelo su Internet (l’ho trovato subito con Google, ma ho faticato molto a «ripescarlo» dal sito del Pd, dove si trova, per così dire, un po’ acquattato). Lì ho scoperto che tra i firmatari del manifesto ci sono parecchie persone di cui ho la massima stima, come Pietro Ichino, Maria Leddi, Nicola Rossi, Enrico Morando. Una ragione di più per leggerlo attentamente.

Però alla fine, letto il documento e il corredo di interviste che l’ha circondato, ne sono uscito perplesso. Credo di aver capito, e persino di condividere, le preoccupazioni strettamente politiche del documento.

Anche se non lo dicono in modo esplicito, i veltroniani hanno due timori grossi come una casa, che riassumerei così. Primo timore: Bersani «gna fa», per dirla alla Funari. E non ce la può fare, a battere Berlusconi, non solo per mancanza di carisma, ma perché quel che il leader del Pd sembra avere in mente - un’alleanza che va da Vendola e Di Pietro fino a Casini - non potrebbe non rievocare la fallimentare esperienza del governo Prodi, che Veltroni vede (giustamente, secondo me) come il macigno che alle elezioni politiche del 2008 sbarrò la strada al «suo» Partito democratico. Secondo timore: la fine del bipolarismo, attraverso la nascita di un «centro» del 15-20%, il cosiddetto Terzo polo, arbitro dei giochi politici.

Quel che non mi convince, invece, è l’analisi della società italiana che il documento delinea. Un’analisi che, in molti passaggi, non è diversa da quella che abbiamo sentito in tutti questi anni, o quantomeno non ne prende a sufficienza le distanze. Perché, a mio parere, il problema di fondo del Pd non è che non riesce a proporre soluzioni convincenti alla crisi italiana, ma che ha un’idea errata, ovvero distorta e tendenziosa, della società italiana. Il problema, in breve, è innanzitutto la diagnosi, prima ancora della terapia.

Facciamo qualche esempio. Nel documento si dice che la disuguaglianza è «crescente», e che la frattura Nord-Sud «è tornata ad accentuarsi» (la tesi è decisamente audace, diversi indicatori suggeriscono il contrario, almeno dal 1998 a oggi). Si riconduce l’aumento del debito pubblico alla presenza del centro-destra al governo, come se il balzo degli ultimi anni non dipendesse essenzialmente dalla crisi economica internazionale. Si parla di riforme nel settore pubblico come se Brunetta - e Ichino! - non avessero fatto nulla.

Si parla della «battaglia per la legalità nel Mezzogiorno» come se fosse perduta, senza una parola per lo straordinario lavoro di questi anni contro la criminalità organizzata. Si fanno proposte di investimento e di spesa (in istruzione, ricerca, ammortizzatori sociali) che costerebbero miliardi e miliardi, come se ci fossero le risorse per portarle avanti, o come se trovare tali risorse non comportasse sacrifici enormi e di lunga durata.

Soprattutto non si esplicita il fatto che alcune idee dei veltroniani, solo accennate nel documento ma molto chiare in vari interventi pubblici, sono indigeribili per il centro-sinistra com’è oggi. Mi riferisco, ad esempio, al finanziamento selettivo degli atenei e delle scuole, con conseguente penalizzazione degli atenei inefficienti e dei docenti poco produttivi. O alla neutralizzazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i nuovi assunti, con l’istituzionalizzazione di forme di «flessibilità tutelata» (flexsecurity). Per tacere del federalismo, su cui il documento non spende nemmeno una parola ma che - se attuato seriamente - susciterebbe vivaci resistenze in una parte del Pd, specie nel Mezzogiorno.

Insomma, mi pare che il manifesto veltroniano, a dispetto del riformismo radicale di alcuni suoi firmatari, non ci fornisca una diagnosi dei mali del Paese poi tanto diversa da quella che - con malinconica monotonia - il centro-sinistra ripete dal 2001, e il Pd di Bersani continua meccanicamente a fare propria. Eppure, se quella diagnosi è giusta, se la maggior parte dei nostri mali discendono dalla disastrosa conduzione del governo da parte di Berlusconi e Tremonti, allora il problema numero uno dell’Italia è togliere il tappo del berlusconismo, e la linea sostanzialmente frontista di Bersani, alleanze le più larghe possibile per liberarci del tiranno, è la linea che logicamente ne consegue.

Ma se invece si ritiene che Bersani sbagli, allora forse bisogna avere il coraggio di riconoscere un’altra immagine dell’Italia, di esplicitare un’altra diagnosi dei nostri mali. Una diagnosi in cui, ad esempio, non si abbia timore di indicare i lussi che non possiamo più permetterci: andare in pensione a 60 anni, spendere 100 per servizi che potremmo produrre con 70, stabilizzare centinaia di migliaia di precari per mantenere il consenso politico ai governanti, di destra o di sinistra che siano. Il problema è che una diagnosi più realistica, che non riconducesse tutti i mali economico-sociali del Paese alla devastazione del berlusconismo, avrebbe sì il pregio di rendere evidente il semplicismo della linea attuale del Pd, ma renderebbe anche molto più difficile tenere unito il partito. Dopo vent’anni di analisi a senso unico, ci sono verità che al popolo di sinistra non si possono dire, e infatti non vengono dette. E ci sono terapie che si possono sussurrare nei seminari, nei convegni, nelle commissioni parlamentari, ma non si possono proporre nei comizi, nelle piazze, nelle feste di partito. Quali verità e quali terapie?

Ad esempio, che la spesa pubblica va ridotta ancora di più di quanto abbia fatto Tremonti, altrimenti non abbasseremo mai le tasse sui produttori. Che il lavoro che fanno Brunetta e Gelmini in materia di pubblico impiego può essere fatto meglio, forse molto meglio, ma comunque va fatto. Che il Mezzogiorno non può continuare ad assorbire risorse che non produce, se non altro perché i quattrini sono finiti. E che, sulla mafia, quel che ci auguriamo è che un futuro governo di centro-sinistra non faccia rimpiangere Maroni.

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« Risposta #99 inserito:: Ottobre 01, 2010, 03:53:07 pm »

1/10/2010

Nord, Sud e il rebus dei tre poli
   
LUCA RICOLFI


Incassata la fiducia anche al Senato, il governo Berlusconi ci riprova. Se i finiani lo lasceranno lavorare, tenterà di governare fino al 2013. Altrimenti si andrà al voto molto presto, presumibilmente già la primavera prossima.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Come è stato possibile che la più larga maggioranza conferita dagli italiani a un governo si sciogliesse come neve al sole? Apparentemente è successo per ragioni personali, per la rivalità fra i due cofondatori del Pdl, Berlusconi e Fini. Il primo incapace di sopportare il dissenso politico interno, il secondo preda di ripensamenti politico-morali sull’uomo Berlusconi, dipinto come leader autoritario, manovratore dei media, ostinato nel sottrarsi ai processi, irrispettoso della magistratura e delle istituzioni.

Quella delle rivalità personali, però, è una spiegazione molto parziale. Può darsi che Berlusconi e Fini non si siano mai stati simpatici. Ed è probabile che a far precipitare la situazione sia stata anche la percezione, da parte di Fini, che non sarebbe stato lui il successore di Berlusconi alla guida del centro-destra. E tuttavia, se ripercorriamo la storia di questi anni, è evidente che la rottura di oggi ha anche, se non soprattutto, genuine radici politiche.

Fra Berlusconi e Fini (ma si potrebbe allargare il discorso: fra il duo Berlusconi-Bossi e il duo Fini-Casini) c’è sempre stata una differenza nel modo di fare politica, di comunicare con gli elettori, di stare nelle istituzioni: populisti, scanzonati e irridenti Berlusconi e Bossi, tradizionali, ingessati e seriosi Fini e Casini. Con tutto quel che ne segue quanto al senso delle regole, al rispetto delle forme, ai rapporti con gli altri poteri, a partire da quelli del Presidente della Repubblica, del Parlamento, della Magistratura. Queste diversità, di stile ma anche di sostanza, sono sempre esistite, e non hanno mancato di creare tensioni, nonché alleanze inedite, anche in passato. Ricordate il sub-governo Fini-Casini-Follini alla fine della legislatura 2001-2006, quando Tremonti venne costretto alle dimissioni? E l’ipotesi (poi tramontata) di alleanza elettorale Casini-Fini alla fine del 2007, dopo essere stati messi davanti al fatto compiuto del nuovo partito di Berlusconi, con il famoso «discorso del predellino»? Per non dire delle più antiche tentazioni centriste e moderate di Fini, come la fallita alleanza con Mario Segni ai tempi dell’Elefantino (Europee del 1999).

Perché in passato queste differenze sono sempre state superate e ricomposte, mentre oggi tendono a esplodere, fino a delineare la nascita di un Terzo polo centrista? La ragione principale, a mio modo di vedere, è che ai vecchi motivi di attrito, legati essenzialmente a differenti concezioni della politica e delle istituzioni, se ne è aggiunto ora uno molto più concreto e tangibile: il federalismo. O meglio, il rischio che dalla fase delle enunciazioni di principio e dei discorsi alati su solidarietà e responsabilità, si passi alla bassa cucina dei decreti delegati, con tagli e sacrifici per tutti, tanto più grandi quanto più in passato si è speso, sprecato ed evaso. Un rischio che la crisi economica internazionale ha reso più acuto, e che potrebbe pesare soprattutto sul Sud, non già come risultato di una volontà politica anti-meridionale, ma come conseguenza aritmetico-contabile del fatto che lì, nelle regioni del Mezzogiorno, e segnatamente in quelle di mafia, si concentrano la maggior parte delle storture della Pubblica amministrazione. E poiché è nel Sud che i partiti del Terzo polo raccolgono la maggior parte dei loro voti, ecco che le frizioni fra il duo Berlusconi-Bossi, prevalentemente insediato al Nord, e il duo Fini-Casini, prevalentemente insediato al Sud, trovano una seconda, ben più corposa, sorgente di alimentazione: accanto alle antiche diversità nel modo di stare nelle istituzioni, le nuove diversità legate agli interessi e ai territori rappresentati. In questo senso il Terzo polo potrebbe diventare il collettore di due diversi segmenti elettorali: i moderati, à la Indro Montanelli, culturalmente di destra ma insofferenti del radicalismo anti-istituzionale di Berlusconi; e i nemici del federalismo, che molto si preoccupano della coesione nazionale ma ancor più temono la chiusura dei rubinetti della spesa pubblica nel Sud.

Se è innanzitutto la diffidenza per il federalismo ciò che ha fatto precipitare le cose, allora lo scenario che ci attende alle prossime elezioni è davvero del tutto inedito. Siamo abituati a pensare che lo scontro sia fra destra e sinistra, con il centro in mezzo. Ma se la posta in gioco cruciale sarà il federalismo, allora i due estremi dello spettro politico non potranno che essere la destra di Bossi e Berlusconi, insediata al Nord e custode del progetto federale, e il Terzo Polo di Fini-Casini (ma anche di Lombardo, e forse di Rutelli), insediato al Sud e nemico giurato della Lega. E la sinistra, insediata nelle regioni rosse dell’Italia centrale? Divisa com’è fra fautori e detrattori del federalismo, non potrà che stare in mezzo, fra il federalismo della destra nordista e l’antifederalismo dei centristi del Terzo polo.

Insomma un bel rebus. Perché nessuno dei tre poli avrebbe la maggioranza dei consensi (Pdl-Lega: 40%; Sinistra: 40%; Terzo polo: 20%). Perché chi conquista il premio di maggioranza alla Camera potrebbe benissimo non avere la maggioranza dei seggi anche al Senato. E, infine, nessuna delle tre super alleanze possibili fra i tre nuovi poli darebbe la benché minima garanzia di saper governare l’Italia.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7901&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #100 inserito:: Ottobre 10, 2010, 09:40:56 am »

10/10/2010 (7:13)  - LEGISLATURA AL GIRO DI BOA

Berlusconi a sorpresa: governo di destra, successi "di sinistra"

L'avvento della crisi ha cambiato l'agenda politica

LUCA RICOLFI
TORINO

La XVI legislatura è arrivata esattamente a metà del suo corso, e già si parla di elezioni anticipate. Ma qual è il bilancio a metà del guado? Lo vedremo dettagliatamente ogni giorno della prossima settimana. Passando allo scandaglio le sette “missioni” sulle quali – due anni e mezzo fa – Berlusconi chiese la fiducia degli italiani. Qui vorrei solo comunicare un paio di impressioni che, alla fine di un lungo lavoro di analisi, si sono per così dire depositate in me.

La prima è che tutto si possa dire del Governo, tranne che sia stato con le mani in mano: riforma della Pubblica amministrazione (Brunetta), riforma delle pensioni (Sacconi-Tremonti), riforme della scuola e dell’Università (Gelmini), federalismo (Calderoli-Bossi), riforma dei servizi pubblici locali. Comunque le si giudichi – e non mancano coloro che le giudicano negativamente – sono almeno sei le grandi riforme già varate o comunque in dirittura d’arrivo a metà legislatura. E questo nonostante il Parlamento e l’opinione pubblica siano stati impegnati per un tempo sproporzionato sui temi della giustizia, peraltro senza portare a casa né una decente riforma della giustizia stessa, né uno scudo giudiziario funzionante per il premier.

La seconda impressione è che, giudicato sulla base del programma e delle cose fatte e non fatte, questo sia stato uno strano governo.
Nella primavera del 2008 il centro-destra aveva basato la sua campagna elettorale sulle parole d’ordine consuete: meno sprechi, meno tasse, più carceri, linea dura su immigrazione e criminalità comune. Non è andata così, anche per colpa della crisi (che però, vorrei ricordarlo, durante la campagna elettorale del 2008 era già in corso da più di sei mesi). La riduzione degli sprechi attende l’avvio del federalismo (previsto per il 2013), le tasse che paghiamo sono più o meno quelle di prima, i posti in carcere sono aumentati in misura irrisoria, mentre i penitenziari straboccano di detenuti, spesso in condizioni non degne di un paese civile. I reati sono diminuiti, ma solo rispetto al picco post-indulto: rispetto al 2005, ultimo anno pre-indulto, i delitti totali sono leggermente aumentati.

Questo vuol dire che il centro-destra ha fallito? No. Alcune cose buone, anzi ottime, il centro-destra le ha fatte. Solo che sono cose di sinistra, cose di cui Prodi o Padoa-Schioppa menerebbero vanto, se le avessero fatte loro. Tanto per cominciare la stabilizzazione dei conti pubblici, fatta senza colpire la sanità e con il plauso di tutte le istituzioni sovranazionali. Non è vero che l’Italia esca dalla crisi meglio degli altri principali paesi europei, ma è vero che Tremonti ha contenuto il deficit pubblico abbastanza da evitare una crisi di fiducia dei mercati internazionali come quella che ha colpito gli altri “PIGS”, acronimo di Portogallo, Grecia, Irlanda, Spagna.

C’è poi il capitolo della lotta alla criminalità organizzata. Era stato Veltroni, nella campagna elettorale del 2008, a dire che i voti della mafia lui non li voleva, ed era stato prontamente accontentato: nel centro-sud i risultati elettorali peggiori la sinistra li ha ottenuti proprio in Calabria, Sicilia e Campania. E invece è stato sotto il ministro Maroni che mafia, camorra e ‘ndrangheta hanno ricevuto i colpi più duri.

Per non parlare degli ammortizzatori sociali. Certo il governo non ha avuto il coraggio di fare – in piena crisi – quella riforma organica degli ammortizzatori sociali che la sinistra invoca da anni (e che essa stessa si era ben guardata dal varare nei due anni del governo Prodi). Però cassa integrazione in deroga, estensione degli assegni di disoccupazione, social card, sussidi alle famiglie e ai non autosufficienti sono misure che hanno attenuato sensibilmente l’impatto della crisi, come mostra piuttosto inequivocabilmente la serie storica Isae delle famiglie in difficoltà, calate proprio nel momento più basso della congiuntura (fra la metà del 2008 e la metà del 2009). E infine la grande sanatoria delle badanti, chiamata pudicamente “regolarizzazione”: provvedimento ragionevole, pragmatico, ma che ti aspetteresti più da un governo di sinistra, buonista e aperto alle ragioni dell’integrazione, che non da uno di destra, cattivista e severo con i clandestini.

Che cosa concludere, dunque ? Direi questo.
A giudicare dai fatti, e solo dai fatti (quelli importanti), le persone di destra dovrebbero essere abbastanza arrabbiate, con questo governo. Quelle di sinistra dovrebbero essere moderatamente soddisfatte. Ma le persone che non ragionano in termini di destra e sinistra, quelle che vorrebbero solo che l’Italia tornasse a crescere e a sperare, non possono che essere alquanto deluse, da questo governo non meno che da quelli che l’hanno preceduto. I fattori fondamentali che frenano l’Italia sono essenzialmente tre: troppe tasse e adempimenti sui produttori, pochi investimenti in capitale umano, una giustizia civile al collasso. Su questo, ossia sulle determinanti della crescita, nessuno dei governi degli ultimi anni è riuscito a incidere in modo apprezzabile. Ed è un vero peccato, perché senza crescita quasi tutto il resto serve a poco, o è destinato a restare nel novero dei sogni.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201010articoli/59267girata.asp
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« Risposta #101 inserito:: Ottobre 18, 2010, 10:05:33 am »

18/10/2010

La stretta via per ridare fiato al paese

   
LUCA RICOLFI

La nostra inchiesta sulla prima metà della legislatura è terminata, speriamo che i dati e le analisi che per una settimana abbiamo pubblicato sulla Stampa abbiano aiutato il lettore a formarsi un’opinione fondata, non puramente impressionistica, su come le cose sono andate fin qui, sui meriti e sui demeriti del governo in carica.

A questo punto, però, il problema diventa il resto della legislatura: che cosa ci attende, che cosa ragionevolmente si può ancora fare, quali sono le priorità.

Che cosa ci attende, dunque? In parte non lo sappiamo e non possiamo saperlo. Non sappiamo se l’economia del pianeta si riprenderà in un tempo ragionevole.

Non sappiamo come finirà la guerra strisciante in atto fra le principali valute del mondo, e in particolare non sappiamo se l’euro si indebolirà, dando ossigeno all’export, o invece si rafforzerà ulteriormente, aggravando la crisi delle nostre imprese esportatrici.

Alcune cose invece le sappiamo. Sappiamo ad esempio che l’Europa, non paga della stretta sui conti pubblici imposta a primavera, ci chiederà ulteriori sacrifici, sotto forma di un piano pluriennale di riduzione del debito pubblico. Si parla di 40 miliardi l’anno, ma anche fossero «solo» 10 già sarebbe un problema non banale, se solo si pensa che dalla vendita delle frequenze del digitale terrestre (una misura miracolistica di cui molto si parla in questi giorni) non ci si aspetta di incassare più di 3 miliardi. Sappiamo anche che le amministrazioni pubbliche a tutti i livelli (Stato, Regioni, Province, Comuni) sono sommerse dai debiti e quindi ritardano sistematicamente i pagamenti, così mettendo in crisi i fornitori. Sappiamo anche che il ritardo nei pagamenti si propaga da impresa a impresa e che, combinato con la prudenza delle banche nel concedere credito, è una delle cause di molte crisi aziendali, con il loro triste seguito di cassa integrazione e licenziamenti. E sappiamo infine che il problema di fondo di molte aziende non è il costo del lavoro, ma è la debolezza degli ordinativi, che costringe a un sottoutilizzo della capacità produttiva, non di rado anticamera della chiusura definitiva. Insomma è il debito pubblico la nostra più grande palla al piede, ma è solo il ritorno alla crescita che può aiutarci a uscire dai nostri guai.

Che cosa può fare un governo in una situazione del genere?

Assai poco, a mio parere, e considero un segno di grave immaturità delle opposizioni aver fatto credere alla gente che esistessero alternative serie ai tagli di Tremonti: si può discutere a lungo della ripartizione dei tagli, ma quanto alla loro entità ci sarebbe semmai da chiedersi se possano bastare, e se alla prossima bufera finanziaria non si rischi di doverne fare di ancora maggiori.

Però, fortunatamente, ci sono anche alcune cose che si possono fare. Non solo le liberalizzazioni e semplificazioni normative, di cui molto si parla ma che, nonostante siano a costo zero, procedono a passo di lumaca chiunque sia al governo, e finora non hanno mai prodotto una riduzione significativa degli adempimenti delle imprese. Ma anche interventi più radicali, capaci di incidere rapidamente sulla crescita. Il primo è un drastico e generalizzato abbassamento delle imposte sui produttori, a partire da Irap e Ires, finanziato con un disboscamento della selva degli incentivi alle imprese, ivi compresi gli innumerevoli regimi fiscali agevolativi (una strategia spesso invocata da imprenditori e politici, e di recente ventilata dallo stesso ministro dell’Economia e che potrebbe evitare fughe di imprese all’estero come racconta l’inchiesta di Marco Alfieri che pubblichiamo alle pagine 4 e 5). È una cosa che si può fare subito, senza aspettare l’estenuante balletto di incontri, tavoli tecnici e negoziali, che inevitabilmente accompagnerà il sogno di Tremonti di ridisegnare il nostro fisco.

Il secondo intervento è un abbassamento, finanziato con parte dei proventi della lotta all’evasione fiscale, delle imposte che gravano sull’energia, che rendono proibitivo il prezzo del kilowattora italiano e pesano come un macigno sui conti delle piccole imprese, come più volte denunciato e documentato da Confartigianato (un’idea potrebbe essere quella di destinare a questo scopo una quota delle somme recuperate grazie alle nuove norme sulle compensazioni Iva).

Ma c’è anche un terzo intervento che potrebbe avere effetti benefici sulla crescita. Il governo potrebbe decidere, senza aspettare le tirate d’orecchi dell’Europa, di mandare un segnale di «virtuosità finanziaria» ai mercati internazionali, varando un piano ventennale di dismissioni del patrimonio pubblico (la quota collocabile sul mercato è di diverse centinaia di miliardi di euro). Privatizzazioni e dismissioni sono sostanzialmente ferme dal 2006, e questo a dispetto dell’impegno a farle ripartire sottoscritto nel programma elettorale del centro-destra. Rispettare quell’impegno renderebbe i conti pubblici dell’Italia meno vulnerabili alla speculazione internazionale, limitando i rischi di un innalzamento dei tassi di interesse sui nostri titoli pubblici. Ma avrebbe anche un potente effetto di rassicurazione all’interno, verso famiglie e imprese, ove fosse accompagnato dall’impegno solenne a interrompere la deriva attuale, in cui la tenuta dei conti pubblici è assicurata da tagli e dilazioni dei pagamenti, in buona sostanza dal soffocamento dell’economia.

È realistica questa via? È davvero possibile, contemporaneamente, dare ossigeno alle imprese e aggredire il debito pubblico?

Difficile dirlo, ma due riflessioni mi fanno pensare che possa esserlo. La prima è che il patrimonio pubblico è dello stesso ordine di grandezza del debito (1800 miliardi) e la parte di esso che è effettivamente collocabile sul mercato non è affatto trascurabile (almeno 400 miliardi di euro secondo le valutazioni degli specialisti). Venderne una parte non basterebbe a portarci al 60% del Pil, come vorrebbero le regole europee, ma scendere sotto il 100% sarebbe già un grande risultato. Senza considerare che un contributo non irrisorio alla riduzione del debito pubblico potrebbero darlo anche sequestri e confische dei patrimoni della criminalità organizzata, il cui ammontare è sconosciuto ma presumibilmente non inferiore a parecchie centinaia di miliardi.

Ma la riflessione più importante è un’altra. Le strade alternative per tornare a crescere, ossia investimenti in capitale umano e federalismo fiscale, sono entrambe fondamentali, ma potranno dare i loro frutti solo fra una decina d’anni. Noi tutto questo tempo non l’abbiamo, o meglio non l’abbiamo più. Il nostro declino, relativo e assoluto, è iniziato intorno al 2001, circa dieci anni fa: non possiamo aspettarne altrettanti per invertire la rotta.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7968&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #102 inserito:: Ottobre 23, 2010, 08:48:13 am »

23/10/2010

La differenza tra immunità e impunità
   
LUCA RICOLFI

In tutta Europa si parla di cose serie, di come gestire la crisi economica e possibilmente uscirne. Anche in Italia se ne parla molto, e con grande preoccupazione, sulla grande stampa non meno che fra la gente. Non così nei palazzi della politica, dove quotidianamente va in scena il conflitto fra Pdl e Fli, ovvero la disfida fra Berlusconi e Fini. Mi sono sempre occupato poco di queste beghe, convinto che i problemi più gravi dell’Italia, quelli da cui dipende la nostra vita di tutti i giorni, siano quelli economico-sociali, e che un governo vada giudicato innanzitutto per come affronta quel tipo di problemi. E proprio in questo spirito, nelle ultime due settimane La Stampa ha messo molte delle sue energie su un duplice obiettivo: un bilancio di metà legislatura delle cose fatte fin qui, e un inventario delle cose ancora da fare. Ora però è diverso. Le beghe fra Pdl e Fli sono arrivate a un punto tale da mettere a repentaglio qualsiasi speranza di veder affrontati i nostri veri problemi. E il patto che si va profilando fra Berlusconi e Fini va, a mio parere, oltre qualsiasi ragionevole soglia di decenza.

Provo a dire perché. Berlusconi, lo sappiamo tutti, ha avuto ed ha una serie di problemi giudiziari. La maggior parte li ha scansati come un'anguilla, per lo più attraverso varie leggi ad personam, ma altri restano in piedi, ed altri ancora si profilano all'orizzonte. Alcuni ritengono che dovrebbe affrontare i processi, ora e subito, anche se questo dovesse rendergli estremamente difficoltoso esercitare le sue funzioni di presidente del Consiglio. Altri pensano che una parte della magistratura perseguiti Berlusconi, e che questo lo autorizzi a sottrarsi ai processi vita natural durante. Fra queste due posizioni estreme, tuttavia, da tempo si è fatta strada una posizione intermedia, che chiamerei la «soluzione Sartori», perché fu appunto Giovanni Sartori ad enunciarla con la massima chiarezza in un editoriale del Corriere della Sera di qualche anno fa. Secondo questa posizione un politico eletto, che sta governando, di fronte a un rinvio a giudizio che lo costringerebbe ad affrontare un processo dovrebbe avere la facoltà di scegliere fra due alternative: affrontare il processo subito, oppure ottenerne la sospensione fino al termine del proprio mandato. La ratio di questa soluzione è duplice: da un lato tutela il potere politico rispetto al potere giudiziario, dall’altro tutela le scelte dell’elettorato, impedendo che un governo liberamente eletto possa divenire ostaggio delle iniziative di singoli magistrati.

Nello stesso tempo, prevedendo comunque l’obbligo per il politico di affrontare il processo al più tardi alla fine del proprio mandato, tutela il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Fino a qualche giorno fa sembrava questa la filosofia prevalente non solo in una parte dell’opposizione, segnatamente nel partito di Casini, ma anche fra i politici della maggioranza, non solo quelli di Futuro e libertà ma anche quelli del Pdl. Che infatti non si sono mai stancati di ripetere, in innumerevoli occasioni, che la richiesta di immunità per il premier non era una pretesa di impunità. Ora però non è più così. Nella commissione Affari costituzionali del Senato la maggioranza ha approvato, con il concorso degli uomini di Fini, una versione del cosiddetto lodo Alfano costituzionale che non solo prevede uno scudo per Berlusconi fino al termine del suo attuale mandato (2013), ma anche la reiterabilità dello scudo, ossia la possibilità di sospendere i processi più volte. In concreto significa che Berlusconi potrebbe sottrarsi ai suoi processi semplicemente facendosi rieleggere presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica, carica da cui decadrebbe nel 2020, alla veneranda età di 84 anni.

Non solo, ma una volta approvato il lodo nell’attuale forma, sarebbe la Costituzione stessa a prevedere la possibilità di usare l’accesso alle più alte cariche dello Stato come strumento per sfuggire ai processi. Una norma pensata per salvare un singolo uomo politico determinerebbe un cambiamento permanente del Dna della nostra Carta fondamentale. A me pare troppo. Pur non votando mai per lui, non sono mai stato fra i demonizzatori di Berlusconi. Spesso mi è capitato di scrivere, sulla base dei miei studi e delle mie ricerche empiriche, che i suoi governi avevano fatto molto meno di quanto aveva promesso, ma anche molto di più di quanto i suoi avversari fossero disposti a riconoscergli. Inoltre non amo il «conservatorismo costituzionale» di tanti miei amici e colleghi, perché la Costituzione del 1948 mi pare superata e, come dicevano i comunisti italiani a proposito dell'Unione Sovietica, non priva di «tratti illiberali». Però quel che è troppo è troppo.

Capisco che per i finiani di Futuro e libertà l'opportunità politica e le ambizioni di partito facciano aggio su qualsiasi considerazione di correttezza istituzionale, di giustizia, di ragionevolezza. Capisco che i politici di Fli preferiscano glissare sulla distinzione fra uno scudo a tempo (che Fini stesso aveva promesso a Berlusconi) e uno scudo eterno, che nessuno si era sognato di promettere a chicchessia. E capisco pure il ragionamento politico - svolto ieri dal Secolo d'Italia, quotidiano vicino a Fini - per cui pur di avere le mani libere domani si è disposti a pagare il «dazio» dello scudo per Berlusconi oggi. Ma per noi cittadini è diverso. Per noi, o almeno per quanti di noi vogliono continuare a credere nell’uguaglianza di tutti, politici e comuni mortali, di fronte alla legge, la distinzione fra immunità e impunità è chiarissima. Sull’immunità si può discutere, se non altro perché è un istituto presente anche in altre democrazie. Sull’impunità diventa difficile, molto difficile, anche con la migliore buona volontà. Almeno finché vogliamo vivere in uno Stato di diritto.

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« Risposta #103 inserito:: Ottobre 24, 2010, 03:40:41 pm »

23/10/2010

La differenza tra immunità e impunità
   
LUCA RICOLFI

In tutta Europa si parla di cose serie, di come gestire la crisi economica e possibilmente uscirne. Anche in Italia se ne parla molto, e con grande preoccupazione, sulla grande stampa non meno che fra la gente. Non così nei palazzi della politica, dove quotidianamente va in scena il conflitto fra Pdl e Fli, ovvero la disfida fra Berlusconi e Fini. Mi sono sempre occupato poco di queste beghe, convinto che i problemi più gravi dell’Italia, quelli da cui dipende la nostra vita di tutti i giorni, siano quelli economico-sociali, e che un governo vada giudicato innanzitutto per come affronta quel tipo di problemi. E proprio in questo spirito, nelle ultime due settimane La Stampa ha messo molte delle sue energie su un duplice obiettivo: un bilancio di metà legislatura delle cose fatte fin qui, e un inventario delle cose ancora da fare. Ora però è diverso. Le beghe fra Pdl e Fli sono arrivate a un punto tale da mettere a repentaglio qualsiasi speranza di veder affrontati i nostri veri problemi. E il patto che si va profilando fra Berlusconi e Fini va, a mio parere, oltre qualsiasi ragionevole soglia di decenza.

Provo a dire perché. Berlusconi, lo sappiamo tutti, ha avuto ed ha una serie di problemi giudiziari. La maggior parte li ha scansati come un'anguilla, per lo più attraverso varie leggi ad personam, ma altri restano in piedi, ed altri ancora si profilano all'orizzonte. Alcuni ritengono che dovrebbe affrontare i processi, ora e subito, anche se questo dovesse rendergli estremamente difficoltoso esercitare le sue funzioni di presidente del Consiglio. Altri pensano che una parte della magistratura perseguiti Berlusconi, e che questo lo autorizzi a sottrarsi ai processi vita natural durante. Fra queste due posizioni estreme, tuttavia, da tempo si è fatta strada una posizione intermedia, che chiamerei la «soluzione Sartori», perché fu appunto Giovanni Sartori ad enunciarla con la massima chiarezza in un editoriale del Corriere della Sera di qualche anno fa. Secondo questa posizione un politico eletto, che sta governando, di fronte a un rinvio a giudizio che lo costringerebbe ad affrontare un processo dovrebbe avere la facoltà di scegliere fra due alternative: affrontare il processo subito, oppure ottenerne la sospensione fino al termine del proprio mandato. La ratio di questa soluzione è duplice: da un lato tutela il potere politico rispetto al potere giudiziario, dall’altro tutela le scelte dell’elettorato, impedendo che un governo liberamente eletto possa divenire ostaggio delle iniziative di singoli magistrati.

Nello stesso tempo, prevedendo comunque l’obbligo per il politico di affrontare il processo al più tardi alla fine del proprio mandato, tutela il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Fino a qualche giorno fa sembrava questa la filosofia prevalente non solo in una parte dell’opposizione, segnatamente nel partito di Casini, ma anche fra i politici della maggioranza, non solo quelli di Futuro e libertà ma anche quelli del Pdl. Che infatti non si sono mai stancati di ripetere, in innumerevoli occasioni, che la richiesta di immunità per il premier non era una pretesa di impunità. Ora però non è più così. Nella commissione Affari costituzionali del Senato la maggioranza ha approvato, con il concorso degli uomini di Fini, una versione del cosiddetto lodo Alfano costituzionale che non solo prevede uno scudo per Berlusconi fino al termine del suo attuale mandato (2013), ma anche la reiterabilità dello scudo, ossia la possibilità di sospendere i processi più volte. In concreto significa che Berlusconi potrebbe sottrarsi ai suoi processi semplicemente facendosi rieleggere presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica, carica da cui decadrebbe nel 2020, alla veneranda età di 84 anni.

Non solo, ma una volta approvato il lodo nell’attuale forma, sarebbe la Costituzione stessa a prevedere la possibilità di usare l’accesso alle più alte cariche dello Stato come strumento per sfuggire ai processi. Una norma pensata per salvare un singolo uomo politico determinerebbe un cambiamento permanente del Dna della nostra Carta fondamentale. A me pare troppo. Pur non votando mai per lui, non sono mai stato fra i demonizzatori di Berlusconi. Spesso mi è capitato di scrivere, sulla base dei miei studi e delle mie ricerche empiriche, che i suoi governi avevano fatto molto meno di quanto aveva promesso, ma anche molto di più di quanto i suoi avversari fossero disposti a riconoscergli. Inoltre non amo il «conservatorismo costituzionale» di tanti miei amici e colleghi, perché la Costituzione del 1948 mi pare superata e, come dicevano i comunisti italiani a proposito dell'Unione Sovietica, non priva di «tratti illiberali». Però quel che è troppo è troppo.

Capisco che per i finiani di Futuro e libertà l'opportunità politica e le ambizioni di partito facciano aggio su qualsiasi considerazione di correttezza istituzionale, di giustizia, di ragionevolezza. Capisco che i politici di Fli preferiscano glissare sulla distinzione fra uno scudo a tempo (che Fini stesso aveva promesso a Berlusconi) e uno scudo eterno, che nessuno si era sognato di promettere a chicchessia. E capisco pure il ragionamento politico - svolto ieri dal Secolo d'Italia, quotidiano vicino a Fini - per cui pur di avere le mani libere domani si è disposti a pagare il «dazio» dello scudo per Berlusconi oggi. Ma per noi cittadini è diverso. Per noi, o almeno per quanti di noi vogliono continuare a credere nell’uguaglianza di tutti, politici e comuni mortali, di fronte alla legge, la distinzione fra immunità e impunità è chiarissima. Sull’immunità si può discutere, se non altro perché è un istituto presente anche in altre democrazie. Sull’impunità diventa difficile, molto difficile, anche con la migliore buona volontà. Almeno finché vogliamo vivere in uno Stato di diritto.

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« Risposta #104 inserito:: Novembre 01, 2010, 12:05:10 pm »

1/11/2010

Le ragioni del partito del Sud
   
LUCA RICOLFI


È passata relativamente in sordina, sui grandi quotidiani di ieri, la notizia della nascita di Forza del Sud, un nuovo partito che aspira a rappresentare la Sicilia ma anche a propagarsi e replicarsi nelle altre regioni del Mezzogiorno: potenzialmente una Lega Sud, una copia speculare della Lega Nord di Umberto Bossi. Il fondatore del partito, Gianfranco Miccichè, è anche membro dell’attuale governo, ed è il politico che nel 2001 regalò a Forza Italia la vittoria per 61 collegi a zero in Sicilia.

È possibile che l’esperimento fallisca, o serva soltanto al suo promotore a diventare governatore della Sicilia, quando nell’isola si tornerà a votare per eleggere l’Assemblea Regionale. Così dicono i nemici e i maligni. Però secondo me faremmo male a sottovalutare l’evento, sia sul piano strettamente politico sia sul piano più ampiamente culturale.
Sul piano politico, a dispetto dello sconcerto di alcuni uomini vicini al premier, che hanno visto l’iniziativa di Miccichè come un tradimento, Forza del Sud potrebbe rivelarsi l’asso nella manica del centro-destra alle prossime elezioni, la carta che scongiura lo scenario più temibile per Berlusconi.

Che Pdl e Lega si ripresentino alleati, senza tuttavia l’appoggio delle due componenti meridionaliste del centro-destra, ossia l’Udc di Casini e Futuro e libertà di Fini. Un’eventualità che toglierebbe credibilità al centro-destra nelle regioni meridionali, e che potrebbe sfociare in una catastrofe elettorale per Bossi e Berlusconi nel caso la rappresentanza del Mezzogiorno venisse monopolizzata dagli altri due probabili poli elettorali, ossia l’alleanza di sinistra Pd-Sel-Idv (Bersani-Vendola-Di Pietro) e l’alleanza di centro Udc-Fli-Api-Mpa (Casini-Fini-Rutelli-Lombardo). In questo scenario Pdl e Lega farebbero il pieno dei voti nel Nord ma perderebbero il Mezzogiorno, perché il Pdl non può presentarsi al Sud alleato con la Lega e al tempo stesso privo di una credibile gamba meridionale. Di qui l’utilità potenziale del partito di Miccichè per il centro-destra, e la sua pericolosità per il Terzo Polo e, indirettamente, per la sinistra stessa, attualmente impegnata in Sicilia in uno spettacolare esperimento trasformistico (governare con le forze anti-berlusconiane del centro-destra). Se Forza del Sud (Fds) crescesse in Sicilia e si espandesse in altre regioni meridionali, potrebbe fornire a Berlusconi la copertura di cui ha bisogno se desidera mantenere l’alleanza con la Lega e non sparire dal Sud. E la simpatia con cui alcuni illustri esponenti del governo, per esempio Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna (entrambe della Fondazione Liberamente), hanno guardato alla nascita di Forza del Sud fa pensare che l’ipotesi di un tridente Pdl-Lega-Fds alle prossime elezioni non sia del tutto campata per aria.

Ma non è tutto. Il partito di Miccichè andrebbe seguito con attenzione anche perché, a mio parere, alcuni tasselli della sua analisi dei problemi del Mezzogiorno non sono infondati. E più in generale perché, al di là di quello che Miccichè ha detto l’altro ieri a Palermo, è la cultura del Mezzogiorno in quanto tale, con le sue istanze e le sue analisi, che meriterebbe di essere presa più sul serio di quanto solitamente facciamo, specie qui al Nord. Ho passato un paio di anni a documentare il disastro delle regioni meridionali, e il processo di vera e propria spoliazione che il Nord subisce ogni anno da parte del resto d’Italia, ivi compreso il Mezzogiorno. Sono in tutto 50 (cinquanta) miliardi che ogni anno lasciano il Nord per foraggiare il resto del Paese. L’ho ribadito più volte, e l’ho documentato in un libro recente (Il sacco del Nord). E tuttavia questo fatto macroscopico, che riguarda la spesa corrente e a cui si dovrà prima o poi porre qualche rimedio, non deve farci dimenticare altri fatti, altrettanto importanti se si vogliono affrontare i problemi del Mezzogiorno in modo costruttivo, e soprattutto con spirito equanime, senza forzature campanilistiche.

Il primo fatto è che, per una parte della storia d’Italia, il vittimismo delle popolazioni meridionali è sostanzialmente giustificato. È vero, ad esempio, che buona parte del divario Nord-Sud non esisteva al momento dell’Unità d’Italia ma si è prodotto nei primi 90 anni, dal 1861 al 1951: così rivelano le ricostruzioni più recenti degli storici dell’economia. Quanto alla seconda parte della nostra storia, dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, è vero che la Cassa per il Mezzogiorno prima e la «Nuova programmazione» poi hanno invertito la tendenza, nonché largamente (e spesso malamente) risarcito il Mezzogiorno, ma è anche vero che negli ultimi anni, mentre la spesa pubblica corrente continuava a favorire il Sud, quella in conto capitale (che finanzia gli investimenti e le infrastrutture) lo ha invece gravemente penalizzato.

Il secondo fatto su cui riflettere riguarda la struttura degli squilibri territoriali, che contrappongono le regioni del Nord a quelle del Sud. Qui, contrariamente a quanto venti anni di propaganda anti-meridionale hanno indotto a credere, lo squilibrio fondamentale non consiste nella quantità di risorse pubbliche che affluiscono alle regioni meridionali, alcune delle quali sono anzi addirittura sotto-finanziate (così come, simmetricamente, al Nord sono sovra-finanziate tutte e tre le regioni a statuto speciale). I due squilibri fondamentali da rimuovere sono piuttosto l’evasione fiscale e lo spreco di risorse pubbliche, quest’ultimo sia sotto forma di sussidi indebiti (falsi invalidi, imprese fantasma, finti corsi di formazione), sia sotto forma di pessimi servizi pubblici, una delle più potenti cause di povertà ed emarginazione.

Ma c’è un ultimo ordine di fatti su cui vorrei attirare l’attenzione, perché ne sono stato testimone diretto parlando con politici, amministratori e comuni cittadini del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno non è tutto uguale, e soprattutto non è fermo. Esistono anche realtà ben amministrate (persino nelle regioni di mafia), ma soprattutto c’è una parte della classe dirigente meridionale che si rende perfettamente conto che i soldi sono finiti, che non si può andare avanti come in passato, e che il fallimento delle politiche per il Mezzogiorno è prima di tutto responsabilità del Mezzogiorno stesso, dei suoi politici, imprenditori, comuni cittadini. Questo pezzo di Sud non rifiuta affatto la sfida della Lega, il suo invito al buon governo e al rispetto delle leggi, ma pretende che anche lo Stato centrale torni a fare la sua parte, ad esempio sbloccando gli investimenti in infrastrutture. Una buona politica economica nel Mezzogiorno dovrebbe partire proprio da questi due pilastri: più e non meno rigore sulla spesa corrente, scommesse più generose in conto capitale, a partire dallo sblocco dei fondi europei.
Non so se Forza del Sud saprà essere tutto questo, un partito consapevole della forza del Mezzogiorno ma anche delle sue responsabilità e delle sue ragioni. Ancor meno so se un tale partito darebbe più fastidio all’attuale destra o all’attuale sinistra. Ma so che non saremmo in pochi, al Nord come nel resto del Paese, a guardarlo con simpatia e con speranza

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