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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108395 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Aprile 04, 2010, 11:22:43 am »

4/4/2010

La sinistra e la paura di cambiare

LUCA RICOLFI

Ci sono voluti alcuni giorni, ma alla fine anche nel Partito democratico la verità comincia a farsi strada.
La sinistra è andata come era prevedibile (un po’ meglio che un anno fa, perché anche Berlusconi comincia a stancare), ma il Pd è andato decisamente male. Nonostante le difficoltà del centro-destra, nonostante le elezioni intermedie siano un’occasione d’oro per le opposizioni, il Pd non è stato in grado di approfittarne. Qualcuno dà la colpa a Bersani, ma molti dirigenti e militanti del partito si rendono conto che il vero problema non è il segretario, ma la mancanza di idee, e che senza idee non si andrà da nessuna parte.

Da che cosa deriva la mancanza di idee del Pd ?
Un po’ deriva, ovviamente, dalla cultura politica della sinistra, che spesso confonde gli slogan con le idee. Parole d’ordine come inclusione, solidarietà, integrazione, difesa dei deboli, non sono idee politicamente efficaci finché non si è capaci di tradurle in obiettivi chiari, convincenti, raggiungibili. Ma la vera origine della mancanza di idee del Pd, a mio parere, è soprattutto un’altra: è l’assenza di una diagnosi condivisa sulla società italiana. Senza una diagnosi medica, nessuna terapia. Senza una diagnosi politica, nessuna strategia. Questa assenza di una diagnosi, tuttavia, non è l’espressione di un vuoto, ma la risultante di due visioni dell’Italia che si elidono tra loro, e determinano la paralisi del partito (e con essa l’impotenza del centro-sinistra).

La prima visione si potrebbe definire dell’emergenza democratica. Secondo questo modo di vedere le cose, in Italia la democrazia è in pericolo, e lo è su tre fronti fondamentali: la libertà dell’informazione, l’autonomia della magistratura, l’assetto istituzionale.

I fautori di questa visione ritengono che Berlusconi stia scientemente e inesorabilmente erodendo le nostre libertà fondamentali, e che quindi nessun dialogo o accordo sia possibile con il Cavaliere. Quanto ai suoi alleati e partner principali, Bossi e Fini, i custodi della democrazia diffidano del primo (Bossi), perché detestano la sua xenofobia e il suo antimeridionalismo; e confidano nel secondo (Fini), perché trovano affascinanti le sue uscite eterodosse, ora a difesa degli immigrati, ora a difesa della Magistratura, ora a difesa del Mezzogiorno. La convinzione profonda di questa componente del Pd è che nulla di buono sia possibile finché c’è Berlusconi, e che quindi - fino alla sua definitiva uscita di scena - l’unica cosa da fare sia «resistere, resistere, resistere», secondo il celebre imperativo di Borrelli. Per chi sottoscrive questa visione del Paese le riforme più temibili sono quelle delle regole del gioco, e il vero pericolo è che le riforme si facciano, perché sarebbero inevitabilmente pro-Berlusconi.

La seconda visione si potrebbe definire della modernizzazione mancata. Secondo questo modo di vedere, il problema fondamentale dell’Italia è la sua incapacità di crescere, un’incapacità che dura da quasi un ventennio non per colpa del solo Berlusconi, bensì a causa della timidezza di tutto il ceto politico, di destra e di sinistra. Per i fautori di questa visione il federalismo fiscale è innanzitutto un’opportunità per tornare a crescere, e una sfida che la buona politica lancia alla cattiva. Quindi la Lega, più che come un nemico, è percepita come un interlocutore con cui dialogare e competere. Simmetricamente il «compagno Fini» viene visto come una sponda nei rari momenti in cui frena le pulsioni anti-istituzionali di Berlusconi, ma come un grave ostacolo sulla via della modernizzazione del Paese quando, in prima persona o attraverso i suoi fedelissimi eletti nel Sud, appare sensibile alle richieste del partito della spesa. Chi adotta questa seconda visione, attenta alle ragioni della crescita, punta soprattutto sulle riforme economico-sociali, e vede il federalismo come la più fondamentale di tutte le riforme.

Dopo le elezioni regionali, e il conseguente rafforzamento della Lega, la convivenza fra queste due visioni è diventata sempre più difficile. Chi sottoscrive la diagnosi dell’emergenza democratica non può che vedere con sospetto qualsiasi dialogo con un governo presieduto da Berlusconi; chi sottoscrive la diagnosi della modernizzazione mancata è naturalmente portato a prendere sul serio la scommessa del federalismo fiscale. Per i paladini della democrazia il pericolo è che Berlusconi passi dalle parole ai fatti, perché il loro incubo è il fascismo strisciante che avanza; per i paladini della crescita il rischio è che Berlusconi non passi dalla parole ai fatti, perché il loro incubo è la prosecuzione del declino, l’argentinizzazione lenta dell’Italia.

È probabile che la prima visione, quella dell’emergenza democratica, sia ancora egemone nel Pd. E tuttavia mi sembra che la seconda visione, più pragmatica e meno drammatizzante, stia guadagnando qualche posizione nel partito, specie fra gli amministratori locali. Recentemente mi è capitato di ascoltare le parole di tre sindaci del Pd, uno del Nord (Chiamparino, Torino), uno del Centro (Renzi, Firenze), uno del Sud (De Luca, Salerno). Tutti e tre si auguravano che il federalismo funzionasse davvero, e vedevano il progetto della Lega non come una minaccia ma come una sfida da raccogliere. Per loro la colpa più grande di Berlusconi non è di aver reso l’Italia meno democratica, ma di non aver mantenuto nessuna delle sue migliori promesse: più liberalizzazioni, più meritocrazia, più crescita, meno tasse, meno sprechi, meno burocrazia.

Hanno ragione, in tanti anni non abbiamo visto realizzata nessuna di queste cose. Eppure la promessa di una «rivoluzione liberale» risale al 1994. Nel 2013, quando torneremo a votare, saranno passati vent’anni (tanti quanti ne durò il fascismo), di cui gli ultimi dodici quasi interamente sotto la stella di Berlusconi. Forse è venuto il momento che il Partito democratico si ricordi delle ragioni per cui è nato, e anziché criticare Berlusconi qualsiasi cosa faccia, cominci a pretendere che le cose le faccia davvero. Almeno quelle - sacrosante - che non stanno solo nel programma originario di Forza Italia, ma sono nel Dna di un partito autenticamente riformista

da lastampa.it
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« Risposta #76 inserito:: Aprile 19, 2010, 09:39:33 am »

19/4/2010

Pd e Pdl due partiti nati vecchi
   
LUCA RICOLFI

Apparentemente nulla di nuovo. Anche nella legislatura 2001-2006 la destra al governo era dilaniata dai conflitti interni. Ricordate la defenestrazione del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, accusato di prevaricare gli altri ministri? E le continue punzecchiature di Marco Follini (allora segretario dell’Udc) nei confronti del premier Berlusconi? E poi, alla fine di quella legislatura, la campagna elettorale con l’attacco «a tre punte» (Berlusconi, Fini e Casini), un modo calcistico per dire a Berlusconi che non era l’unico leader, e che la corsa per la successione era iniziata?

Eppure oggi è diverso. Non so come andrà a finire la disfida tra Fini e Berlusconi, e non ho la minima idea delle motivazioni personali del presidente della Camera, che potrebbero spaziare dalla comprensibile irritazione per gli sgarbi di Bossi e Berlusconi verso la terza carica dello Stato, alla legittima aspirazione a divenire Presidente della Repubblica nel 2013, con il concorso dei voti delle opposizioni. Però sono convinto di una cosa: comunque vada a finire, nulla sarà come prima, né a destra né a sinistra.

Perché, con il trionfo della Lega alle Regionali di marzo, tutto è cambiato, non solo nei rapporti interni al centro-destra, ma nella struttura profonda del sistema politico italiano.

Se dovessi sintetizzare in una formula il cambiamento, direi: dopo il voto di marzo è diventato evidente che la posta in gioco fondamentale del conflitto politico non ha più nulla a che fare con la classica opposizione fra destra e sinistra. Oggi è molto più chiaro di ieri che nel sistema politico italiano si giocano due partite distinte, nessuna delle quali ha a che fare con destra e sinistra: la prima partita è quella del federalismo, divenuto improcrastinabile dopo il successo della Lega; la seconda è quella delle regole del gioco, ovvero riforma della giustizia, presidenzialismo, legge elettorale. Ora, il problema è che su questi due fondamentali terreni di gioco le varie forze politiche non si distinguono più sull’asse destra-sinistra; non solo, ma i due principali partiti, Pdl e Pd, risultano profondamente divisi al loro interno. Di qui le spinte scissioniste presenti in entrambi, non solo nel Popolo della libertà. Oggi parliamo di una possibile scissione all’interno del Pdl da parte dei nostalgici di An, guidati da Fini. Ma fino a pochi giorni fa parlavamo di una possibile scissione all’interno del Pd da parte dei sognatori di un «Partito democratico del Nord», guidati da Cacciari e Chiamparino.

Sembrano due cose diverse, ma è lo stesso processo. La vittoria della Lega, combinata con la prospettiva di tre anni (2010-2011-2012) sgombri da elezioni, ha improvvisamente riportato al centro del dibattito politico il federalismo, e questo semplice fatto sta costringendo i due maggiori partiti a fare due conti. Una parte del Pdl si rende conto che l’asse Bossi-Berlusconi porterà a un’emorragia di voti nel Sud: non per nulla i finiani chiedono innanzitutto «maggiore attenzione» per il Mezzogiorno. Simmetricamente una parte del Pd si rende conto che senza una svolta federalista il Pd stesso è destinato a scomparire dal Nord: ora che gli elettori del Centro-Nord stanno voltando le spalle al partito, non sono solo più Illy e Cacciari a rivendicare «maggiore attenzione», in questo caso alle istanze del Nord.

Se Pdl e Pd scricchiolano, dunque, non è solo perché i loro dirigenti sono litigiosi e irresponsabili. La ragione vera è che Pd e Pdl, per quanto appena nati, sono già due partiti vecchi. Credono di rappresentare la sinistra e la destra, in un momento in cui il conflitto centrale non è fra eguaglianza e libertà, ma molto più prosaicamente fra interessi dei territori produttivi (non tutti nel Nord) e interessi dei territori assistiti (non tutti nel Sud). Se Fini e Chiamparino facessero il grande passo, quello cui potremmo assistere è un pericoloso conflitto fra uno schieramento «nordista», formato da Lega, Pd del Nord e Pdl (senza i finiani), e uno schieramento «sudista», formato dalla resuscitata Alleanza nazionale, dall’Udc e dal Pd nazionale (privato della costola del Nord).

Non è tutto, però. A complicare il gioco c’è la seconda grande posta in palio, quella delle regole. Qui il conflitto fondamentale è fra le istanze decisioniste e populiste del premier, assecondate dalla Lega, e le preoccupazioni per l’equilibrio dei poteri, che accomunano la sinistra, il centro cattolico, i finiani di Alleanza nazionale. Il tutto ingarbugliato dal fatto che, nel campo degli oppositori di Berlusconi, alcuni hanno nostalgia della prima Repubblica e altri sognano la terza; alcuni sono intransigenti nella difesa della magistratura, altri sono critici verso di essa. Di qui la paralisi del Pd, indotto a vedere Fini come una sponda quando si parla di riforme istituzionali, e come un nemico delle istanze modernizzatrici del Centro-Nord quando si parla di federalismo.

Il rischio, a mio parere, è che questa incapacità di Pd e Pdl di rappresentare le effettive poste in gioco ci precipiti in un marasma mediatico e istituzionale, in cui per tre anni si combatteranno - probabilmente senza vincitori né vinti - due battaglie entrambe pericolose: quella fra Nord e Sud e quella fra picconatori e conservatori della Costituzione. Quando invece la battaglia decisiva è una sola, perché l’Italia ha bisogno di modernizzazione sia in campo economico-sociale (fare il federalismo) sia in campo istituzionale (cambiare la Costituzione). Purtroppo una forza politica che rappresenti compiutamente questa doppia esigenza non esiste. A sinistra prevale la paura di cambiare, perché le istanze del cambiamento sono rappresentate dalle pulsioni anti-meridionaliste della Lega e da quelle anti-istituzionali di Berlusconi, un cocktail sufficiente a paralizzare il partito di Bersani e a scatenare il conservatorismo di sinistra. A destra prevale la voglia di cambiare, ma il cambiamento assume spesso tratti inquietanti: la Lega vuole soprattutto più potere nelle amministrazioni locali, come si è subito capito dalle sparate di Bossi sulle banche («ci tocca anche una fetta di banche»); quanto al Pdl, è piuttosto chiaro che la madre di tutte le priorità è proteggere il premier dall’azione dei giudici. Così nulla cambia, e il nostro Paese, mestamente e inesorabilmente, prosegue nel sentiero di declino che ha imboccato da qualche anno.

da lastampa.it
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« Risposta #77 inserito:: Aprile 24, 2010, 11:29:04 pm »

24/4/2010

L'equivoco del centro

LUCA RICOLFI

Dopo le scene di guerra totale offerte da Fini e Berlusconi il quadro politico è di nuovo in movimento. Il premier dovrà trovare un modo per neutralizzare i finiani, che sono pochi ma sufficienti per gettare sabbia negli ingranaggi parlamentari. Il Partito democratico dovrà darsi una linea, decidendo se e quanto puntare sul «compagno Fini». E’ facile prevedere, infine, che si moltiplicheranno i tentativi di costituzione di un terzo polo, ovvero di un centro capace di interporsi fra la destra e la sinistra. Queste manovre, per la verità, sono già iniziate da tempo. I liberali di Zanone sono confluiti nella neonata Alleanza per l’Italia (Api) di Rutelli e Tabacci, che a sua volta dialoga con l’Udc di Casini, che a sua volta dialoga con Fini e i finiani, che a loro volta pare abbiano un asse con le forze che contano in Sicilia (l’Mpa di Lombardo, il Pdl-Sicilia di Miccichè).

Diverse fondazioni, da FareFuturo (Fini) a Italia futura (Montezemolo), sono anch’esse in movimento con documenti, convegni, dibattiti, articoli, interviste, prese di posizione. E giusto qualche giorno prima del duello finale tra Fini e Berlusconi, dai sondaggisti sono venute le prime valutazioni: se Fini (ri)facesse An prenderebbe il 7%, se si alleasse con Casini e Rutelli arriverebbe al 13%, se poi anche Montezemolo fosse della partita tutti insieme potrebbero puntare al 16%. In breve: il bacino elettorale del centro sarebbe quasi il triplo di quello dell’Udc, e un eventuale partito dei moderati potrebbe diventare il terzo partito, e forse persino contendere al Pd il ruolo di secondo partito. Una prospettiva come questa, per quanto oggi possa apparire fantapolitica, è tutt’altro che inverosimile, e avrebbe persino una sua logica. Se nel Pd dovesse prevalere la linea dell’emergenza democratica, secondo cui il supremo interesse dell’Italia è liberarsi da Berlusconi, non possiamo escludere lo «scenario Cln», del resto già evocato nei mesi scorsi: un Comitato di Liberazione Nazionale, questa volta non sotto forma di alleanza Pci-Dc, partiti estinti, bensì come patto fra i loro esausti eredi, il Pd di Bersani e un neonato o redivivo partito di centro, uniti dal comune interesse a cacciare l’occupante (nella visione emergenziale Berlusconi è come una potenza straniera, che ha occupato le istituzioni).

Il cemento di tale alleanza, oltre alla deposizione del tiranno, non potrebbe che essere la difesa delle istituzioni democratiche, a partire dall’autonomia della Magistratura, nonché una prudente rivalutazione della prima Repubblica, specie in materia di legge elettorale (ritorno al proporzionale, voto di preferenza). Per quanto tutt’altro che privo di un suo senso politico, e anche di una sua nobiltà di intenti - primo fra tutti quello di riportare un po’ di civiltà nel confronto politico - lo scenario Cln ha almeno due punti deboli. Il primo è che non è affatto detto che Berlusconi ne uscirebbe sconfitto, specie se si votasse già quest’anno. Il problema del Cln, infatti, è che non può pensare di vincere senza allargarsi a Di Pietro e all’estrema sinistra, ma più si allarga più evoca nell’elettorato lo spettro dell’armata Brancaleone, ossia del disastroso biennio dell’ultimo governo Prodi.

Non solo, ma in caso di voto anticipato le opposizioni non avrebbero buon gioco ad accusare Berlusconi di non aver fatto nulla, perché due anni sono troppo pochi per giudicare un governo, tanto più se fin dall’inizio ha dovuto navigare nelle acque procellose della peggiore crisi economica mondiale dal 1929. Il secondo punto debole dello scenario Cln si potrebbe definire l’equivoco del centro. L’idea di coalizzare la sinistra e il centro contro la destra sembra trascurare il fatto che, sotto il profilo dell’insediamento territoriale, e quindi inevitabilmente anche del programma, il centro di cui si sta parlando è soprattutto una manifestazione del «partito del Sud», per non dire del partito della spesa. Non a caso il nucleo politico duro del discorso di Fini è stato il nodo del Mezzogiorno, ovvero il timore che il federalismo prosciughi il fiume di risorse che alimentano la spesa pubblica nelle regioni meridionali, le stesse da cui Alleanza nazionale ha sempre ricavato il grosso dei propri consensi.

Non a caso i più preoccupati del conflitto fra Fini e Berlusconi sono i politici della Lega. E ancor meno a caso i consensi dell’Udc e dell’Api, come quelli di An, sono concentrati nel Sud: l’Udc è anche il partito di Totò Cuffaro, ex governatore della Sicilia condannato in appello a sette anni di reclusione (per favoreggiamento aggravato per aver agevolato Cosa Nostra); quanto al partito di Rutelli, non ha presentato liste in nessuna regione del Nord, e ha ottenuto consensi significativi solo in Basilicata e Campania. Visto da questa angolatura il progetto di una «terza forza centrista», nato per contrastare, mitigare o neutralizzare il federalismo, cozza con un altro segmento fondamentale del centro, inteso come l’insieme degli elettori che stentano a riconoscersi sia in questa destra sia in questa sinistra. Questo secondo segmento del centro è costituito da quanti rimproverano sia al Pd sia al Pdl di avere sostanzialmente tradito la promessa di una rivoluzione liberale, che trovi finalmente il coraggio di fare le riforme economico-sociali di cui l’Italia ha bisogno: meno burocrazia, meno tasse, meno sprechi, migliori servizi pubblici.

I sondaggi suggeriscono che questo secondo tipo di centro, di ispirazione liberista e liberale, sia maggiormente insediato nel Nord, e che guardi con simpatia il federalismo, visto (forse troppo ottimisticamente) come uno strumento per contenere il partito della spesa e far ripartire la crescita. Per questo tipo di elettorato, una parte del quale oggi vota ancora Pd, le riforme economico-sociali sono più importanti di quelle istituzionali, e il dialogo con la Lega di Bossi appare più utile di quello con il nascente partito di Fini. Insomma, il punto è che ci sono due centri. Il centro moderato, per cui la priorità è sconfiggere l’estremismo politico, incarnato innanzitutto da Bossi e Berlusconi, ma anche dal populismo di sinistra, da Di Pietro a Beppe Grillo. E il centro radicale, per cui la priorità è sconfiggere il moderatismo del non-fare in campo economico-sociale, scuotere dalla sua inerzia un ceto politico che da vent’anni promette di modernizzare il Paese senza riuscirci. L’incubo del centro moderato è che il federalismo si faccia, e che possa punire il Sud: non per nulla un anno fa l’Udc di Casini votò contro la legge Calderoli, per quanto ampiamente annacquata rispetto al testo originario.

L’incubo del centro radicale, al contrario, è che il federalismo non si faccia, o si faccia male, vanificando le speranze del Nord di essere liberato dal giogo della spesa improduttiva. I due centri sono incompatibili, perché hanno priorità opposte e insediamenti territoriali speculari. Possiamo preferire l’uno o l’altro, ma sarebbe già un grande passo avanti se smettessimo di confonderli.

da lastampa.it
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« Risposta #78 inserito:: Maggio 14, 2010, 11:01:39 pm »

14/5/2010

La medicina per i mali dell'Italia
   
LUCA RICOLFI

L’Europa ha deciso, per ora, di salvare la Grecia dal collasso finanziario. Dopo l'annuncio della costituzione di un maxifondo di garanzia di oltre 700 miliardi di euro, le Borse hanno reagito positivamente, i titoli del debito pubblico dei principali paesi a rischio hanno recuperato terreno, la speculazione sembra battere in ritirata. Il clima che si respira, insomma, è da scampato pericolo. E tuttavia il sospiro di sollievo che aleggia nei governi e nelle opinioni pubbliche europee è a sua volta una nuova fonte di rischi, se non la principale.

Passata la paura, infatti, si fa più probabile l'eventualità che, rincuorati dal successo dell'operazione di salvataggio della Grecia, i governi si comportino come se la causa delle nostre difficoltà fosse la speculazione, e concentrino tutti i loro sforzi sulla regolazione dei mercati finanziari (sicuramente opportuna), anziché sulla rimozione degli squilibri strutturali che forniscono alla speculazione le sue armi. Il rischio, in altre parole, è che ci si preoccupi molto di tenere bassa la febbre, e assai meno di curare la malattia.

Nel caso dell'Italia le malattie sono essenzialmente due: un difetto di competitività e una pubblica amministrazione ipertrofica e inefficiente. Le due malattie sono intimamente collegate: la scarsa competitività delle nostre imprese dipende anche, se non soprattutto, dall'enorme massa di risorse che una pubblica amministrazione inefficiente sottrae ai produttori, in particolare alle imprese dell'economia emersa, che stanno sul mercato, pagano le tasse e cercano di competere. A quanto ammonta questa enorme massa di risorse sottratte alla crescita?

Un calcolo di larga massima dà i seguenti risultati. Gli sprechi nella pubblica amministrazione, presenti ovunque ma particolarmente ampi nel Lazio e nelle regioni del Sud, ammontano ad almeno 80 miliardi di euro l'anno. L'evasione fiscale e contributiva, che induce i governi a tenere alte le aliquote, ammonta ad almeno 120 miliardi di euro. In tutto fa 200 miliardi di euro che, ogni anno, vengono sacrificati per mantenere il patto scellerato su cui è basato il nostro Stato assistenziale: io ti permetto di evadere le tasse, ma ti inondo di agevolazioni, incentivi e sussidi. Il costo per il Paese è altissimo, perché una burocrazia arrogante e inefficiente, una giustizia civile lentissima, un territorio parzialmente sottratto al controllo dello Stato scoraggiano gli investimenti (in particolare quelli esteri) e disincentivano il fare impresa. E un'evasione fiscale record - solo la Grecia ha un sommerso più ampio del nostro - impedisce di dare ossigeno alle imprese regolari, mediante tagli robusti alle imposte societarie (Ires e Irap) e al cuneo fiscale.

Naturalmente so bene che è impossibile (e forse anche inopportuno) azzerare l'evasione fiscale, come è impossibile che la pubblica amministrazione sia ovunque efficiente come nei territori più virtuosi. E tuttavia per mettere l'Italia in condizione di tornare a crescere basterebbe molto di meno. Se, nel giro di qualche anno, si recuperasse anche solo un terzo dell'evasione fiscale (40 miliardi su 120) ci sarebbero le condizioni per abbattere le imposte sulle imprese, a partire dall'Irap, e per rendere un po' più pesanti le buste paga, oggi saccheggiate da un cuneo fiscale fra i più alti d'Europa. E se, anche grazie al federalismo, si dimezzassero gli sprechi, avremmo altri 40 miliardi di euro, con i quali potremmo dedicarci a completare il nostro Stato sociale. Sì, perché il paradosso dell'Italia è che essa ha lo Stato sociale più costoso del mondo (in relazione al Pil) ma si è dimenticata di costruirne dei pezzi importanti: asili nido, ammortizzatori sociali automatici e generali (estesi alle piccole imprese e ai precari), strumenti di lotta alla povertà e di sostegno degli anziani non autosufficienti. E infine, come ha più volte ricordato il ministro Brunetta, si possono varare le riforme a costo zero, a partire da quella della Pubblica amministrazione e dalle liberalizzazioni.

Ma qui, sul terreno delle cose da fare per non finire come la Grecia, si annida forse il pericolo più grande. Il rischio è che qualcosa per raddrizzare i nostri conti si faccia ma, per mancanza del necessario consenso, questo qualcosa sia la solita minestra: qualche ritocco dell'imposizione fiscale per rimpinguare le entrate, qualche taglio ulteriore (ma poco selettivo) della spesa pubblica corrente, qualche annuncio di risparmi futuri legati al federalismo fiscale. Il rischio, insomma, è che all'Italia, come ad altri Paesi europei con i conti in disordine, venga (giustamente) impedito di continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi, ma in una spirale di deflazione anziché in un quadro di rilancio della crescita. In questo caso potremmo forse anche, fra qualche anno, ritrovarci con i conti pubblici in (relativa) sicurezza, con un deficit al 3% e un debito sotto il 100% del Pil, ma al prezzo della stagnazione. Uno scenario che può sembrare soltanto un brutto sogno, ma è semplicemente la prosecuzione delle tendenze degli ultimi anni. Fino al 2001 l'Italia cresceva meno del resto d'Europa, ma comunque cresceva, dal 2001 invece la crescita si è semplicemente bloccata. Da allora la produttività è ferma, e il Pil pro capite non aumenta più, e tutto ciò già nel periodo 2001-2008, ossia prima del grande tonfo del 2009. Questo è il problema, questa è la sfida che abbiamo davanti a noi.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7350&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #79 inserito:: Maggio 17, 2010, 06:49:46 pm »

17/5/2010
Quanto costa davvero la politica

LUCA RICOLFI

E’ un po’ di giorni che se ne parla: l’idea del ministro Calderoli di tagliare gli stipendi di ministri e parlamentari piace molto.
La gente semmai obietta che «tanto non lo faranno», e che gli emolumenti dei politici sono talmente scandalosi che bisognerebbe tagliare molto di più. Anch’io penso che l’idea di Calderoli sia da sottoscrivere.

C’è un aspetto, tuttavia, dei ragionamenti che circolano in questi giorni, che non mi convince affatto. Molti tendono a credere, o a far credere, che una misura del genere potrebbe avere effetti apprezzabili sui conti pubblici, contribuendo in misura rilevante alla manovra da 25 miliardi di euro (in 2 anni) che il governo sta mettendo a punto in queste settimane.

Ebbene bisogna dire risolutamente che questo non è assolutamente vero. Innanzitutto perché la proposta, anche se venisse estesa ai grandi dirigenti e funzionari pubblici riguarderebbe poche migliaia di persone. In secondo luogo perché andare al di là di questo è molto difficile, dal momento che proprio l'autonomia delle Regioni e degli enti locali rende praticamente impossibile far calare dall’alto (cioè dal centro) un provvedimento di contenimento di tutti gli emolumenti legati alla funzione politica. E infine, punto decisivo, perché anche se si riuscisse a colpire tutta la politica, e cioè amministratori locali, portaborse (ipotesi del tutto irrealistica), i risparmi sarebbero irrisori rispetto all'entità della manovra che ci attende.

Per capire come mai, basta riflettere sul fatto che il costo globale del ceto politico, anche inteso nella sua accezione più ampia (incluse le consulenze), non supera i 4 miliardi di euro all'anno, il che significa che un taglio del 5% frutterebbe 200 milioni di euro (sul punto si veda l'ottimo libro di Salvi e Villone, Il costo della democrazia, Mondadori, 2005).

Una bella cifra, direte voi. Sì, ma non sulla scala dei nostri problemi di aggiustamento dei conti pubblici. Duecento milioni sono 0,2 miliardi di euro, ossia meno dell'1% di quello che ci serve (25 miliardi di euro). Anche ammesso di cominciare subito, senza dilazioni e senza deroghe, colpendo tutti, ma proprio tutti, fino all'ultimo consigliere comunale, in 2 anni si potrebbero risparmiare circa 0,5 miliardi di euro, ossia il 2% di quel che ci serve per tenere i conti pubblici in (relativo) ordine.

E il restante 98%?

Il restante 98% per cento sarà richiesto soprattutto a noi cittadini comuni. E infatti si parla di intervenire soprattutto su stipendi pubblici e pensioni, un'eventualità che ha già messo in allarme i sindacati.

Se ne potrebbe concludere che la proposta di Calderoli è pura demagogia, e che non merita di esser presa sul serio. Ma sarebbe una conclusione sbagliata. La proposta Calderoli, a mio parere, dovrebbe essere sostenuta e semmai rafforzata, ma non per il suo impatto sui conti pubblici. Una riduzione degli emolumenti dei politici nazionali, specie se estesa agli alti dirigenti, sarebbe importante soprattutto per il suo significato simbolico, come un (minimo) segnale di serietà che la classe politica lancia al Paese. Un punto, questo, che è stato colto molto bene dal leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che ieri in un'intervista a questo giornale ha dichiarato la propria disponibilità a contribuire a «spegnere l'incendio della speculazione» e a «blindare i conti», purché il governo dia segnali chiari di voler intervenire sulle situazioni più scandalose. Ci sono politici e manager pubblici che hanno stipendi privi di qualsiasi ragionevolezza, non solo in relazione a quelli dei comuni cittadini ma innanzitutto in relazione a quelli dei politici e funzionari di pari livello degli altri Paesi. Dare una robusta sforbiciata a tali stipendi non permetterà mai di raddrizzare i conti pubblici, ma è la condizione minima per rivolgersi ai cittadini in un momento difficile come questo.

Quanto ai cittadini, forse sarebbe meglio che si levassero definitivamente dalla testa l'idea che i conti pubblici siano in disordine perché la politica costa troppo, e che basti affamare i politici per rimettere in sesto le finanze pubbliche. I veri costi della politica non sono quelli diretti, ossia l'ammontare degli stipendi della casta, ma i suoi costi indiretti, ossia lo spreco di risorse pubbliche che corruzione e malgoverno infliggono ogni anno al Paese. A fronte di 4 miliardi di costi diretti, la politica ci costa ogni anno qualcosa come 80 miliardi per la sua incapacità di spendere oculatamente il denaro pubblico, per non parlare di quel che ci costa la sua timidezza nel combattere l'evasione fiscale. Su questo Bonanni ha perfettamente ragione: è di qui che si deve partire.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7360&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #80 inserito:: Maggio 24, 2010, 03:46:27 pm »

24/5/2010

La posta in gioco
   
LUCA RICOLFI


Ci siamo. Oggi la commissione Giustizia del Senato dovrebbe completare la votazione degli emendamenti al disegno di legge sulle intercettazioni. Poi il testo approderà in aula, e la battaglia avrà inizio.

Ma battaglia su che cosa?

Il governo risponde: per la difesa della privacy. I giornalisti e gli editori ribattono: per la difesa del diritto all’informazione. Ma sono due letture unilaterali, perché nascondono troppe cose.

I difensori della legge non ci spiegano come mai, per tutelare il diritto alla privacy, non si sono limitati a proibire la pubblicazione dei testi delle intercettazioni, in particolare nei casi in cui sono penalmente irrilevanti o coinvolgono persone che nulla hanno a che fare con le inchieste. Se davvero questo - difendere la privacy dei comuni cittadini - fosse stato l’obiettivo della legge, essa non conterrebbe norme che addirittura impediscono di parlare delle inchieste, né sarebbe costellata da una miriade di ostacoli alle indagini, primo fra tutti l’impossibilità di intercettare per più di 75 giorni. Se davvero la tutela della privacy fosse il motivo ispiratore della legge, c’erano altri mezzi per assicurarne il rispetto, ad esempio la distruzione delle trascrizioni irrilevanti, come da più parti è stato ripetutamente suggerito.

Quanto ai critici della legge, in particolare i giornalisti, troppo spesso dimenticano che sono anche i loro comportamenti ad aver appiccato l’incendio che ora rischia di bruciare tutto e tutti. Quante volte abbiamo letto (o ascoltato alla radio, o visto in televisione) veri e propri processi di piazza? Quante volte presunti innocenti sono stati trattati come sicuri colpevoli? Quante volte abbiamo letto ricostruzioni tendenziose, accuse oblique, teoremi privi di solidi riscontri? Quante volte la vita di persone estranee alle indagini è stata sconvolta dalla pubblicazione delle intercettazioni? Su questo ha perfettamente ragione Piero Ostellino, che giusto ieri sul Corriere della Sera scriveva: «I processi, in uno Stato di diritto, si fanno in tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto».

Ma non occorre scomodare un liberale doc come Ostellino per riconoscere come sono andate finora le cose. Pochi giorni fa, intervistato dal «Fatto quotidiano», Giulio Anselmi, presidente dell’Ansa, dichiarava testualmente: «Ci sono alcuni comportamenti che noi non avremmo dovuto tenere e rispetto ai quali ora si manifestano timide ammissioni. Adesso si cominciano a sentire giornalisti che dicono: abbiamo pubblicato intercettazioni inutili, coinvolgendo persone estranee alle indagini, per storie pruriginose. Mi piacerebbe che noi fossimo capaci di autoregolamentazione, sarebbe la via preferibile. Però non ho molta fiducia né nella nostra capacità di darci codici cui attenerci, né nell’Ordine dei giornalisti. Con rammarico - lo dico perché vorrei che ce la cavassimo da soli - credo si debbano accettare forme di tutela legale della privacy».

Per parte mia vorrei aggiungere: i giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini - grazie all’onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti - sono correttamente informati, in cui un’opinione pubblica «avvertita e consapevole» è in grado di «esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori», come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell’opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni (Milena Gabanelli, per esempio), i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo? Anche su questo la penso come Giulio Anselmi, che nella medesima intervista mestamente riconosceva: «Il giornalismo italiano non è mai stato uno straordinario cane da guardia della democrazia».

Attenzione, però. Dalla indifendibilità della «retorica democratica» dei giornalisti, che confondono il destino della loro corporazione con quello della democrazia, non discende in alcun modo che quella sulle intercettazioni sia una buona legge. No, è una legge pessima, ma non solo perché limita il diritto di cronaca e pone barriere eccessive all’attività dei giornalisti. Il primo motivo per cui quella legge è pessima non è il fatto che limita ulteriormente il nostro diritto di sapere, peraltro già gravemente compromesso dalla cattiva qualità dell’informazione che attualmente riceviamo. Il primo motivo per cui la legge sulle intercettazioni è una legge pessima è che essa è meticolosamente costruita per ostacolare il lavoro della magistratura e della polizia giudiziaria, una preoccupazione questa espressa anche dal capo della polizia Antonio Manganelli. Se quella legge passerà, le intercettazioni, che a parole quasi tutti riconoscono come un insostituibile strumento di indagine, non verranno semplicemente ridimensionate un po’, come è ragionevole (ci sono stati abusi da parte dei magistrati) e come in parte sta già avvenendo spontaneamente (nel 2009 sono diminuite, dopo quasi vent’anni di crescita ininterrotta: vedi grafico a pag. 5), ma subiranno un vero e proprio tracollo, in quantità e in efficacia. Il limite dei 75 giorni, le condizioni restrittive per richiederle, l’iter necessario per ottenere le autorizzazioni e le proroghe, sono congegnati in modo tale da rendere la vita impossibile alle procure della Repubblica. Questa, e non la libertà dell’informazione, è la vera posta in gioco. Per eccesso di autoreferenzialità il mondo dell’informazione non pare capirlo. Sta conducendo una battaglia per la difesa di qualcosa che non esiste (un’informazione completa, corretta e imparziale), mentre non sembra accorgersi che i principali bersagli della legge non sono i giornalisti bensì i magistrati, cui sarà sempre più difficile scoprire i colpevoli, siano essi criminali comuni, mafiosi, o politici corrotti. Per vincere la battaglia sulla libertà dell’informazione, rischiamo di perdere la guerra più importante, quella per una giustizia messa nelle condizioni di perseguire il crimine.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7392&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #81 inserito:: Maggio 25, 2010, 12:16:08 am »

24/5/2010

La posta in gioco
   
LUCA RICOLFI


Ci siamo. Oggi la commissione Giustizia del Senato dovrebbe completare la votazione degli emendamenti al disegno di legge sulle intercettazioni. Poi il testo approderà in aula, e la battaglia avrà inizio.

Ma battaglia su che cosa?

Il governo risponde: per la difesa della privacy. I giornalisti e gli editori ribattono: per la difesa del diritto all’informazione. Ma sono due letture unilaterali, perché nascondono troppe cose.

I difensori della legge non ci spiegano come mai, per tutelare il diritto alla privacy, non si sono limitati a proibire la pubblicazione dei testi delle intercettazioni, in particolare nei casi in cui sono penalmente irrilevanti o coinvolgono persone che nulla hanno a che fare con le inchieste. Se davvero questo - difendere la privacy dei comuni cittadini - fosse stato l’obiettivo della legge, essa non conterrebbe norme che addirittura impediscono di parlare delle inchieste, né sarebbe costellata da una miriade di ostacoli alle indagini, primo fra tutti l’impossibilità di intercettare per più di 75 giorni. Se davvero la tutela della privacy fosse il motivo ispiratore della legge, c’erano altri mezzi per assicurarne il rispetto, ad esempio la distruzione delle trascrizioni irrilevanti, come da più parti è stato ripetutamente suggerito.

Quanto ai critici della legge, in particolare i giornalisti, troppo spesso dimenticano che sono anche i loro comportamenti ad aver appiccato l’incendio che ora rischia di bruciare tutto e tutti. Quante volte abbiamo letto (o ascoltato alla radio, o visto in televisione) veri e propri processi di piazza? Quante volte presunti innocenti sono stati trattati come sicuri colpevoli? Quante volte abbiamo letto ricostruzioni tendenziose, accuse oblique, teoremi privi di solidi riscontri? Quante volte la vita di persone estranee alle indagini è stata sconvolta dalla pubblicazione delle intercettazioni? Su questo ha perfettamente ragione Piero Ostellino, che giusto ieri sul Corriere della Sera scriveva: «I processi, in uno Stato di diritto, si fanno in tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto».

Ma non occorre scomodare un liberale doc come Ostellino per riconoscere come sono andate finora le cose. Pochi giorni fa, intervistato dal «Fatto quotidiano», Giulio Anselmi, presidente dell’Ansa, dichiarava testualmente: «Ci sono alcuni comportamenti che noi non avremmo dovuto tenere e rispetto ai quali ora si manifestano timide ammissioni. Adesso si cominciano a sentire giornalisti che dicono: abbiamo pubblicato intercettazioni inutili, coinvolgendo persone estranee alle indagini, per storie pruriginose. Mi piacerebbe che noi fossimo capaci di autoregolamentazione, sarebbe la via preferibile. Però non ho molta fiducia né nella nostra capacità di darci codici cui attenerci, né nell’Ordine dei giornalisti. Con rammarico - lo dico perché vorrei che ce la cavassimo da soli - credo si debbano accettare forme di tutela legale della privacy».

Per parte mia vorrei aggiungere: i giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini - grazie all’onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti - sono correttamente informati, in cui un’opinione pubblica «avvertita e consapevole» è in grado di «esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori», come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell’opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni (Milena Gabanelli, per esempio), i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo? Anche su questo la penso come Giulio Anselmi, che nella medesima intervista mestamente riconosceva: «Il giornalismo italiano non è mai stato uno straordinario cane da guardia della democrazia».

Attenzione, però. Dalla indifendibilità della «retorica democratica» dei giornalisti, che confondono il destino della loro corporazione con quello della democrazia, non discende in alcun modo che quella sulle intercettazioni sia una buona legge. No, è una legge pessima, ma non solo perché limita il diritto di cronaca e pone barriere eccessive all’attività dei giornalisti. Il primo motivo per cui quella legge è pessima non è il fatto che limita ulteriormente il nostro diritto di sapere, peraltro già gravemente compromesso dalla cattiva qualità dell’informazione che attualmente riceviamo. Il primo motivo per cui la legge sulle intercettazioni è una legge pessima è che essa è meticolosamente costruita per ostacolare il lavoro della magistratura e della polizia giudiziaria, una preoccupazione questa espressa anche dal capo della polizia Antonio Manganelli. Se quella legge passerà, le intercettazioni, che a parole quasi tutti riconoscono come un insostituibile strumento di indagine, non verranno semplicemente ridimensionate un po’, come è ragionevole (ci sono stati abusi da parte dei magistrati) e come in parte sta già avvenendo spontaneamente (nel 2009 sono diminuite, dopo quasi vent’anni di crescita ininterrotta: vedi grafico a pag. 5), ma subiranno un vero e proprio tracollo, in quantità e in efficacia. Il limite dei 75 giorni, le condizioni restrittive per richiederle, l’iter necessario per ottenere le autorizzazioni e le proroghe, sono congegnati in modo tale da rendere la vita impossibile alle procure della Repubblica. Questa, e non la libertà dell’informazione, è la vera posta in gioco. Per eccesso di autoreferenzialità il mondo dell’informazione non pare capirlo. Sta conducendo una battaglia per la difesa di qualcosa che non esiste (un’informazione completa, corretta e imparziale), mentre non sembra accorgersi che i principali bersagli della legge non sono i giornalisti bensì i magistrati, cui sarà sempre più difficile scoprire i colpevoli, siano essi criminali comuni, mafiosi, o politici corrotti. Per vincere la battaglia sulla libertà dell’informazione, rischiamo di perdere la guerra più importante, quella per una giustizia messa nelle condizioni di perseguire il crimine.

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« Risposta #82 inserito:: Maggio 31, 2010, 10:07:36 am »

31/5/2010

L'eterna attesa della Lega

LUCA RICOLFI

Sono giorni decisivi per il futuro della Lega. A nessun partito italiano, credo, è mai successo di vedere la propria ragion d’essere messa così a rischio. Alla Lega, invece, sta succedendo. Nei prossimi 12 mesi la Lega si gioca tutto. E la manovra di questi giorni è la prima, vera, prova del fuoco.

La ragione è semplice. Negli ultimi 10 anni la Lega è stata sempre al governo, eccetto la breve parentesi dell’esecutivo Prodi, rimasto in sella per meno di due anni. La Lega esiste per far passare il federalismo, ed ha già mancato l’obiettivo una volta, nel 2005, quando provò ad imporlo a colpi di maggioranza, salvo dovervi rinunciare appena un anno dopo, nel 2006, quando il referendum confermativo cancellò quella riforma. In questa legislatura è già riuscita a far passare la legge 42 del 2009, che contiene i principi generali del federalismo, ma è dannatamente indietro su tutto il resto: decreti delegati (c’è solo quello sul federalismo demaniale), riforma dei bilanci pubblici (mancano i decreti delegati), basi di dati aggiornate (siamo fermi al 2008), piani dettagliati di riduzione degli sprechi (manca quasi tutto).

Ora si mette di mezzo anche la manovra di aggiustamento dei conti pubblici, che di federalista sembra contenere ben poco.

Di qui l’imbarazzo della Lega, che non può permettersi un secondo fallimento. Questo imbarazzo, tuttavia, si manifesta in modi molto diversi ai vari livelli dell’organizzazione. I politici che hanno maggiori responsabilità, in particolare ministri e governatori neo-eletti, tentano di rassicurare gli elettori ma sono a corto di argomenti. Quando Calderoli, anziché provare a spiegare in che modo la manovra tutelerebbe le ragioni del Nord, si giustifica dicendo che «la Lega non avrebbe mai potuto votare una manovra economica che potesse in qualche modo mettere a rischio il federalismo», di fatto invoca una delega in bianco, una sorta di fiducia ad occhi chiusi. Posso testimoniare, perché proprio in questi giorni ho avuto occasione di incontrare molti politici e amministratori locali del Nord, spesso appartenenti o vicini alla Lega, che questa fiducia non c’è affatto, e c’è invece molta preoccupazione. Tutti capiscono che i massimi dirigenti della Lega non possono dire in pubblico tutta la verità, ma molti temono che, alla fine, il federalismo non si potrà fare o non funzionerà. Non a caso, negli ultimi giorni, gli unici politici che hanno denunciato in modo chiaro il rischio che il federalismo finisca in un vicolo cieco sono stati i governatori della Lombardia (Formigoni) e dell’Emilia Romagna (Errani), ossia due politici che guidano le regioni più vessate del Paese (secondo le mie stime il loro credito verso le altre regioni è di 40 miliardi di euro l’anno), ma soprattutto due uomini che non si sentono tenuti a «coprire» il governo centrale e la Lega (Formigoni è del Pdl, Errani è del Pd). È paradossale, ma i difensori più risoluti del federalismo stanno diventando i politici non leghisti del Nord, perché solo essi capiscono le buone ragioni della Lega e nello stesso tempo non sentono l’obbligo di difenderne l’operato.

Ma al di là del dramma che molti amministratori locali vivono, è la base leghista che in questo momento vive un passaggio cruciale. Il militante della Lega, è stato osservato da più parti, per diversi aspetti assomiglia al militante comunista dei tempi di Berlinguer. È onesto, appassionato, sacrifica il suo tempo e le sue energie alla causa in cui crede. E, come il militante del vecchio Pci, ha una stella polare, che qui si chiama federalismo, mentre là si chiamava socialismo. C’è una differenza fondamentale, tuttavia, su cui forse i dirigenti della Lega farebbero bene a meditare. I partiti socialisti e comunisti hanno potuto tenere i loro militanti incatenati ai loro sogni per più di un secolo perché, in attesa del «sol dell’avvenire», si erano mostrati capaci di guadagnare ai ceti subordinati una straordinaria sequenza di conquiste, sui diritti sindacali e politici, sull’orario di lavoro, sui salari, sulla previdenza, sulla sanità, sulla salute in fabbrica. Il militante comunista degli Anni 60 e 70 era spesso un idealista, ma nello stesso tempo toccava con mano robusti assaggi di ciò cui aspirava: una società più giusta, in cui il lavoro avesse piena dignità e rispetto.

Il militante leghista è meno fortunato. I suoi obiettivi ultimi non sono poi così diversi da quelli del tipico militante Pci, solo che lui, anziché essere un operaio, spesso è un artigiano, un lavoratore autonomo, una partita Iva, o semplicemente un ex operaio che si è messo in proprio. Anche chi vota Lega sogna una società più giusta, in cui il lavoro, la responsabilità e il sacrificio non siano mortificati ogni giorno. E tuttavia il sogno del simpatizzante della Lega non è né ultraterreno, né lontanissimo nel futuro, ma molto concreto, qualche volta fin troppo. Gli hanno fatto credere che il federalismo (a differenza del socialismo), si può ottenere in pochi anni, e che allora - quando il federalismo sarà realtà - i produttori potranno ritornare in possesso di quello cui hanno diritto, i frutti del loro lavoro saccheggiati dalle tasse e dagli sprechi. Nel frattempo, però, non gli hanno fornito né gloriose conquiste, né robusti premi di consolazione, ma solo una grande promessa, il federalismo come realizzazione di un ideale di giustizia territoriale.

Per questo, ora che il federalismo è in forse, anche il consenso alla Lega e al governo vacilla, come rivelano gli ultimi sondaggi di Renato Mannheimer. Proprio perché finora ha ottenuto ben poco, la pazienza dell’elettore della Lega non può essere (quasi) infinita come lo era quella dei vecchi, eroici, militanti del partito comunista. I leghisti sono persone concrete. Il dubbio è che i loro dirigenti non siano, a loro volta, abbastanza concreti per accorgersene.

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« Risposta #83 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:06:59 pm »

11/6/2010

La sinistra alla destra di Tremonti

LUCA RICOLFI

Vedremo alla fine, quando la manovra diventerà legge, quale sarà il suo contenuto effettivo: quali tagli, quali meccanismi per ripartirli, quante tasse in più.

Nessuno dubita, tuttavia, che il risultato finale non potrà essere molto diverso dal punto di partenza: alla fine, ossia nel 2012, la manovra provocherà un taglio della spesa pubblica di 15 miliardi di euro, e un aumento della pressione fiscale di 10 miliardi. Detto in altri termini, la riduzione di 25 miliardi del deficit pubblico è fatta per il 60% (15 miliardi su 25) di minori spese, per il 40% di maggiori entrate (10 miliardi su 25).

Molto è stato detto, finora, sull’iniquità della manovra, sulla sua incapacità di colpire davvero gli sprechi, nonché sulla sua intrinseca ingiustizia territoriale. Proprio in questi giorni sono state rese pubbliche le prime stime degli effetti della manovra, ed è divenuto evidente il paradosso che essa racchiude: giusto alle soglie del federalismo fiscale, il governo si appresta a varare misure incapaci di premiare i territori virtuosi, che poco sprecano e poco evadono le tasse, e di punire quelli viziosi, che molto sprecano e molto evadono le tasse. Vedremo nei giorni prossimi se a questi difetti della manovra il Parlamento sarà in grado di porre qualche rimedio.

Qui vorrei invece sollevare un altro ordine di interrogativi. Ammettiamo per un attimo che, alla fine, grazie a un qualche «miracolo politico», la manovra risulti perfettamente equa, e chiediamoci: può funzionare? 15 miliardi di spese in meno e 10 miliardi di tasse in più sono in grado di sortire gli effetti sperati? Esiste un’alternativa credibile alla manovra?

La prima risposta che mi viene è una parafrasi di quel che Giovanni Sartori ebbe a scrivere a proposito delle tesi un po’ estremistiche, e certamente politicamente scorrette, di Oriana Fallaci sull’Islam: «uditi i critici, ha ragione Oriana». Sì, uditi i critici di Oriana-Tremonti, mi viene da dare ragione al ministro dell’Economia. L’osservazione principale dei critici è che la manovra si preoccupa solo del risanamento dei conti pubblici, aumenta ulteriormente una pressione fiscale che è già vicina al massimo storico, e potrebbe avere effetti recessivi. Anche se spesso avvolta in parole meno crude, la sostanza del discorso è questa: caro Tremonti, tu vuoi abbassare il rapporto fra deficit e Pil riducendo il deficit, ma così facendo freni anche il Pil. Detto ancora più esplicitamente: da anni le tasse soffocano la crescita e la manovra non farà che peggiorare ulteriormente la situazione, perché i risultati della lotta all’evasione fiscale (8 miliardi) non saranno usati per ridurre le aliquote che gravano sull’economia regolare, e inoltre i tagli a Regioni, Province e Comuni costringeranno gli enti locali a «mettere le mani nelle tasche degli italiani». Insomma: più tasse e tariffe, meno deficit, ma anche meno crescita, quindi alla fine della fiera sacrifici inutili.

E’ sbagliata la diagnosi dei critici?

Nessuno può dirlo con sicurezza, ma a me pare non priva di fondamento. Il tasso di crescita del Pil dipende negativamente dalle tasse, in particolare dall’aliquota societaria (Ires + Irap) e dal cuneo fiscale. E’ inutile illudersi: finché non abbassiamo (sensibilmente) l’una e l’altro non torneremo a crescere a un ritmo sufficiente a ridurre il debito, per quante «riforme a costo zero» facciamo, tipo liberalizzazioni e deburocratizzazioni (che comunque sono utili e vanno fatte al più presto, anziché essere sempre annunciate e mai portate fino in fondo). E se non torneremo a crescere il cosiddetto risanamento si farà semplicemente facendo tirare la cinghia alla gente, in un Paese incamminato su un sentiero di dolce (perché lento) declino.

Dove i critici non mi convincono, e mi inducono (provocatoriamente) a dare ragione a Tremonti, è sulle alternative. Dopo un paio di anni passati a invocare «stimoli all’economia», quasi tutti si sono resi conto che, se Dio vuole, Tremonti non ha dato retta ai suoi critici, e che se lo avesse fatto saremmo nell’occhio del ciclone come la Grecia. Ora i medesimi critici dicono a Tremonti che il gettito sottratto agli evasori deve destinarlo alla riduzione delle aliquote, anziché riversarlo nel calderone della riduzione del deficit pubblico. Qualche giorno fa, a Ballarò, l’ha detto molto esplicitamente - in faccia al ministro dell’Economia - l’onorevole Enrico Morando, illustre esponente del Partito democratico. Tremonti gli ha risposto più o meno così: dunque volete tagliare la sanità, proprio voi di sinistra! Perché se i soldi della lotta all’evasione fiscale (8 miliardi) me li fate usare per ridurre le aliquote, allora devo trovarne altrettanti per ridurre il deficit, e quindi diventa inevitabile colpire anche la sanità, che noi (governo) abbiamo invece voluto salvare.

Ma ci rendiamo conto? Abbiamo un governo di centro-destra che difende lo Stato sociale, e un’opposizione di centro-sinistra che, almeno nella sua componente liberal, fa una critica «di destra» alla politica economica del governo, accusandola di soffocare la crescita, ma poi non ha il fegato di trarne le conseguenze: per poter abbassare le aliquote, la spesa pubblica va tagliata di più e non di meno di quello che il governo sta cercando di fare.

Ecco perché, alla fine, Oriana-Tremonti ha sempre ragione. La parola «crescita» è il mantra di tutti i critici. Molti di essi, da ultimi Carlo De Benedetti (proprietario di Repubblica) e Stefano Fassina (responsabile economia del Pd) l’accompagnano con la richiesta esplicita di abbassare le tasse sui produttori. Ma nessuno completa il discorso, perché completarlo significherebbe proporre sacrifici ancora più duri di quelli che il «cattivo» Tremonti sta imponendo agli italiani.

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« Risposta #84 inserito:: Giugno 15, 2010, 09:33:53 am »

15/6/2010
 
Una manovra che punisce i virtuosi
 
LUCA RICOLFI
 
Dopo che il governo centrale ha annunciato tagli alle Regioni per 10 miliardi di euro, molti presidenti di Regione hanno dichiarato che l’entità della manovra è insostenibile: costringerà ad aumentare le tasse e a ridurre quantità e qualità dei servizi pubblici. Fra i governatori, alcuni hanno criticato soprattutto le dimensioni della manovra, sostenendo che pesa troppo sulle Regioni, e troppo poco sullo Stato centrale. Altri, in particolare Formigoni, hanno anche sottolineato la sua iniquità, ossia il fatto che colpisce indiscriminatamente Regioni virtuose (specie le grandi Regioni del Centro-Nord) e Regioni viziose. Vista da questa angolatura, la manovra sarebbe la pietra tombale del federalismo, almeno finché per federalismo intendiamo un meccanismo capace di ridurre gli squilibri, punire lo sperpero del denaro pubblico, premiare i territori virtuosi.

Formigoni non ha ragione. Ha più che ragione. E vorrei provare a spiegare in dettaglio perché. Il motivo per cui il federalismo è una grande opportunità per l’Italia è, paradossalmente, proprio il fatto che nel nostro Paese esistono margini di parassitismo, di spreco e di evasione fiscale enormi.

La sola evasione fiscale si aggira intorno a 120 miliardi di euro, mentre gli sprechi nella Pubblica amministrazione superano gli 80. In tutto fa, come minimo, 200 miliardi. Recuperare anche solo un quarto di questa somma (50 miliardi), significherebbe mettere sul piatto risorse sufficienti ad abbattere le aliquote fiscali e irrobustire lo Stato sociale (che è ipertrofico nella spesa, ma largamente incompleto nei servizi erogati). Di qui deriverebbe una maggiore spinta alla crescita (oggi frenata da aliquote troppo alte) e un maggiore benessere per la popolazione, specie nel Mezzogiorno (la principale determinante della povertà sono i cattivi servizi pubblici).

C’è un problema, però. La manovra, per quel che se ne sa finora, chiede a tutti i territori un contributo analogo, mentre le riserve da cui attingere non sono distribuite uniformemente sul territorio nazionale. Ci sono Regioni che hanno enormi margini di recupero, proprio perché hanno livelli di parassitismo altissimi (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Sardegna, Sicilia) o perché hanno tassi di evasione spettacolari (Calabria, Sicilia, Campania) o perché hanno tassi di spreco scandalosi (Sardegna, Calabria, Sicilia, Basilicata). Ci sono invece Regioni che, proprio perché sono state bene amministrate per decenni, hanno margini di recupero minimi, per non dire irrisori: sono limoni spremuti. I loro amministratori, equamente divisi fra destra e sinistra, hanno già fatto (quasi) tutto il possibile, hanno già tagliato, razionalizzato, potato, ristrutturato. E’ il paradosso di questa manovra: assorbire i tagli di Tremonti è più arduo per le Regioni formica che per le Regioni cicala. Non è tanto una questione di giustizia territoriale, quanto innanzitutto di fattibilità: i territori più spremuti non solo non meritano altri prelievi di risorse, ma - semplicemente - sono meno in grado di sostenerli.

Fra le Regioni che molto hanno già dato, le più virtuose sono la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, seguite a una certa distanza da Piemonte, Toscana, Marche, Friuli-Venezia Giulia. Quello della Lombardia, però, è davvero un caso limite. In Lombardia sono ridotte all’osso, ossia minori che in qualsiasi altra Regione, l’intensità dell’evasione fiscale, le false pensioni di invalidità, la spesa pubblica discrezionale, gli sprechi nell’erogazione dei servizi. In concreto questo significa che non c’è più quasi niente da rosicchiare, a meno di voler azzoppare la locomotiva del Paese. E giusto per dare un ordine di grandezza degli squilibri: la Lombardia stacca già, ogni anno, un assegno di oltre 32 miliardi di euro a beneficio dei territori più deboli, contro un assegno di 10 miliardi del Veneto e uno di 8 miliardi dell’Emilia Romagna.

Personalmente, anziché stupirmi della protesta di Formigoni, trovo miracoloso che si limiti a chiedere un contenimento dei sacrifici chiesti ai cittadini lombardi, anziché pretendere che inizi la restituzione di almeno una parte delle risorse che ogni anno la Lombardia trasferisce ai territori meno produttivi. Quel che può stupire, semmai, è la prudenza dei governatori delle altre Regioni virtuose, apparentemente assai meno preoccupati dei sacrifici che saranno costretti a infliggere ai rispettivi cittadini. Ma a questi silenzi e a queste prudenze dovremo abituarci. Sono silenzi e prudenze politici. Due governatori sono della Lega, e non possono credere che sia la Lega stessa, dal centro, a sabotare il federalismo. Altri governatori sono del Partito democratico e, in nome di un (secondo me) malinteso principio di solidarietà verso i territori più deboli, tendono a procrastinare indefinitamente il giorno in cui le cicale dovranno rendere conto alle formiche.

Così nessuno sembra voler vedere ciò che Formigoni vede a occhio nudo: il federalismo sta evaporando prima ancora di nascere, e i cittadini della Lombardia rischiano, alla fine, di trovarsi a pagare il prezzo più alto.
 
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« Risposta #85 inserito:: Luglio 05, 2010, 05:32:06 pm »

5/7/2010

Il sogno federalista si allontana

LUCA RICOLFI

Ghe pensi mi, ci penso io, ha detto Berlusconi pensando alla settimana di fuoco che inizia oggi. E in effetti nelle prossime settimane si deciderà la sorte di due provvedimenti fondamentali, il disegno di legge sulle intercettazioni e la manovra economica, con i suoi possibili assaggi di federalismo (minori tagli alle Regioni virtuose).

Il momento è dei più rischiosi per il governo, perché su entrambi i testi di legge potrebbero esserci defezioni e proteste da parte di importanti settori della maggioranza. Il decreto sulle intercettazioni, specie dopo le osservazioni critiche del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, è osteggiato apertamente dai cosiddetti finiani (seguaci di Fini), che vedono in esso un pericolo per la legalità e per la lotta al crimine. Quanto alla manovra, le parole di Tremonti sulla «cialtroneria» della classe politica meridionale hanno scaldato ulteriormente gli animi dei governatori del Sud, già molto preoccupati per l’entità dei tagli che la manovra prevede per le Regioni. Quel che potrebbe accadere, in altre parole, è che nei prossimi giorni i due tipi di protesta - finiani e politici del Mezzogiorno - si saldino, magari in nome di qualche più o meno astratto principio di coesione nazionale.

E che tale saldatura, anziché risolversi in un voto parlamentare di sfiducia al governo, si concretizzi invece - molto italianamente - in qualche scambio e concessione reciproca. Fra tutti gli scambi possibili, il più perverso - a mio parere - sarebbe quello fra intercettazioni e federalismo. E cioè che i finiani accettassero un cattivo compromesso sulle intercettazioni, in cambio di un gesto di clemenza nei confronti delle Regioni meridionali in dissesto. In parole povere: noi diamo soddisfazione a Berlusconi sul terreno della giustizia (intercettazioni), lui mette un freno a Tremonti sul terreno dell’economia (manovra e federalismo fiscale). Una scena, del resto, già vista ai tempi del secondo governo Berlusconi, quando - nel giro di una notte - Tremonti fu costretto alle dimissioni da Fini.

Perché dico che questo scambio sarebbe perverso?
Per le conseguenze che produrrebbe su tutti noi. Se sulle intercettazioni dovesse prevalere la linea dei falchi governativi, e soccombere quella dei seguaci di Fini, avremmo sicuramente più privacy, ma anche più intralci alla magistratura, meno strumenti di lotta alla criminalità, in definitiva meno legalità e meno sicurezza. Da questo punto di vista considero un grave errore politico dell’opposizione (e della stampa) aver chiamato legge-bavaglio la legge sulle intercettazioni, come se l’informazione ne fosse la prima vittima. No, dovevano chiamarla legge-mordacchia, perché la prima vittima della legge sarebbe la capacità di mordere della magistratura, e con essa la sicurezza dei cittadini.

Quanto alla manovra, se dovesse prevalere ancora una volta la linea dello sconto alle Regioni in dissesto, patrocinata innanzitutto dai governatori di tali Regioni, ne sarebbe gravemente compromesso il cammino verso il federalismo. Anziché iniziare un percorso di risanamento e di responsabilizzazione, verrebbe reiterato e ripetuto il classico segnale che negli ultimi decenni ha distrutto i conti pubblici: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. È questo, in ultima analisi, che invocano gli amministratori degli enti in dissesto, quando si proclamano «non colpevoli» dei dissesti che hanno ereditato, e disquisiscono sulla distinzione fra amministrazioni viziose e comportamenti viziosi, come se un governatore che eredita un dissesto non fosse chiamato a farsene carico.

Su questo punto, invece, hanno sostanzialmente ragione Tremonti e il governo quando stabiliscono che un’amministrazione che dissipa risorse pubbliche ha solo due alternative, eliminare gli sprechi o alzare le tasse, e che l’alternativa di far pagare i territori-formica anche per gli sperperi dei territori-cicala non esiste. E questo per almeno tre buoni motivi.

Primo: gli sprechi di un territorio sono anche privilegi, sotto forma di posti di lavoro superflui, commesse e acquisti generosi con i fornitori, favori di ogni tipo agli amici degli amici; dunque gli aumenti di tasse imposti ai territori in dissesto compensano anni e anni di privilegi indebitamente goduti. Secondo: là dove ci sono meno sprechi, ci sono meno margini per fare tagli, là dove ci sono più sprechi ci sono più margini per riorganizzare, e semmai il punto è che chi è chiamato a farlo dovrebbe disporre di maggiori poteri. Terzo: quando Marchionne si è assunto il compito di rimettere in sesto la Fiat, si è ben guardato dal trincerarsi dietro la «pesante eredità» lasciatagli dai suoi predecessori; sarebbe bello che i governatori delle Regioni in dissesto affrontassero il loro mandato con il medesimo spirito, visto che è anche per rimettere i conti in sesto che hanno chiesto il voto.

Ma l’eventualità di una saldatura tra finiani e meridionalisti non è solo rischiosa per il governo (perché lo indebolirebbe), e pericolosa per il Paese (perché potrebbe finire in un compromesso perverso). È anche una mina vagante per l’opposizione, e in particolare per il Pd. La tentazione di allearsi con i finiani per scacciare il tiranno è molto forte, e si è già manifestata esplicitamente con la promessa di Franceschini di votare tutti gli emendamenti dei finiani al disegno di legge sulle intercettazioni. Il suo prezzo, però, potrebbe essere l’ennesimo rinvio del federalismo, che i finiani, il partito di Casini e una parte dello stesso Pd vedono come una minaccia alla coesione sociale, se non come un attentato all’unità nazionale.

Così il rebus di luglio è completo. Qualsiasi cosa facciano i finiani, il federalismo è in pericolo. Se cedono a Berlusconi sulle intercettazioni, è difficile non pretendano una contropartita, sotto forma di una robusta frenata al federalismo, con conseguente ridimensionamento di Tremonti e ampie concessioni ai governatori del Centro-Sud. Se accettano i voti dell’opposizione per cambiare la legge sulle intercettazioni, è difficile che il nuovo asse politico tra finiani, Pd e Udc non operi nella medesima direzione, quella di un freno al rigore antimeridionalista di Tremonti. Alla fine, chi rischia veramente è la Lega, cui il sogno federalista potrebbe sfuggire ancora una volta proprio sul filo di lana.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7557&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #86 inserito:: Luglio 08, 2010, 11:25:10 pm »

6/7/2010 (7:11)  - ANALISI

Il decentramento ha sfasciato i conti pubblici
   
L'albero storto della finanza

LUCA RICOLFI

Esattamente 40 anni fa, il 6 luglio del 1970, in Lombardia, si insediava il primo Consiglio regionale, dando così avvio alla stagione del decentramento amministrativo, prevista dai padri costituenti (art. 5, 114-133) ma rimandata per quasi un quarto di secolo. Oggi, su quella stagione e sui suoi esiti ci invita a riflettere la relazione del governo, presentata al Parlamento una settimana fa, secondo i tempi dettati dalla legge sul federalismo fiscale (Legge 42, 5 maggio 2009). Perché la nascita delle Regioni e il decentramento amministrativo hanno contribuito a sfasciare i conti pubblici? E perché mai il federalismo dovrebbe essere capace di invertire la tendenza? Questi sono i due grandi interrogativi cui la relazione governativa prova a rispondere, in modo più o meno completo e convincente. La ragione di fondo per cui il decentramento amministrativo ha messo in crisi i conti pubblici è che l’aumento delle competenze degli Enti territoriali - Regioni, Province, Comuni - non si è accompagnato a un parallelo aumento della loro autonomia fiscale, sicché ogni Ente si è trovato a poter incrementare le spese senza dover pagare alcun prezzo politico in termini di inasprimento delle tasse locali. Di qui si sarebbe sviluppato «l’albero storto» della finanza pubblica italiana, con alcuni passaggi decisivi: la riforma tributaria del 1971/73, i decreti Stammati (1977/78), le cosiddette leggi Bassanini (1997/99), la riforma del titolo V della Costituzione (2001), imposta dal centro-sinistra.

Una ricostruzione questa sostanzialmente corretta nelle sue linee generali, ma alquanto omissiva nei passaggi intermedi: ci sono stati anche importanti movimenti in senso contrario (come l’introduzione dell’Ici e dell’Irap negli Anni 90), né si può dimenticare che allo squilibrio fra competenze (in materia di spesa) e tributi propri ha recentemente contribuito l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, iniziata con il governo Prodi e completata dal presente governo. Possiamo pensare che il federalismo invertirà la tendenza? Secondo il governo sì, perché il federalismo prevede un aumento dell’autonomia impositiva degli enti territoriali, e quindi una loro maggiore responsabilizzazione. La tesi è plausibile, ma anche qui occorrerebbe forse aggiungere qualche caveat. Il primo è che per rendere gli enti territoriali veramente responsabili occorrerebbe un rafforzamento ben più radicale della loro autonomia tributaria, con una drastica limitazione non solo dei trasferimenti statali ma anche delle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali e dei meccanismi perequativi, che rischiano di riprodurre - sotto un’etichetta nuova - i vecchi trasferimenti statali. Il secondo caveat riguarda la devoluzione di ulteriori funzioni agli Enti territoriali. Una delle cause dell’esplosione della spesa nei decenni passati è stata la duplicazione dei costi, ossia il fatto che al passaggio di competenze dallo Stato agli Enti territoriali non si è accompagnata la integrale cancellazione delle corrispondenti spese centrali, con relativa chiusura di uffici e trasferimenti di personale: un rischio che si ripresenterà non appena il federalismo, oltre a razionalizzare spesa ed entrate, si occuperà anche di assegnare nuove competenze a Regioni, Province e Comuni. Infine, un ultimo dubbio riguarda la volontà politica di fare sul serio, senza deroghe, senza sconti, senza dilazioni, senza estenuanti negoziati.

Nessun governo, finora, si è sottratto alla tentazione (o alla necessità) dei ripiani dei deficit, con operazioni a carico della fiscalità generale. Dissesti come quelli di Catania, di Palermo, o della sanità del Lazio, della Campania, della Sicilia finora sono stati coperti in misura cospicua con fondi nazionali, ossia a spese di tutti i contribuenti. Sarò pessimista, ma qualcosa mi dice che di operazioni di questo genere ne vedremo ancora parecchie. E più ne vedremo, più diventerà lecito chiedersi: a che serve il federalismo?

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201007articoli/56489girata.asp
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« Risposta #87 inserito:: Luglio 16, 2010, 05:18:27 pm »

16/7/2010

La fine di una stagione

LUCA RICOLFI

Come ampiamente previsto, ieri la manovra economica ha ottenuto la fiducia in Senato e, salvo sorprese molto improbabili, entro fine mese otterrà la fiducia anche alla Camera.

È una buona manovra?

Dipende dai punti di vista. Sul piano macroeconomico era una manovra necessaria, e se una critica si può avanzare è semmai che è stata troppo leggera: si poteva tagliare di più la spesa pubblica corrente, e fare qualcosa di incisivo per la crescita, ad esempio più investimenti in istruzione e meno tasse sui produttori.

Se però andiamo ai dettagli della manovra, e in particolare alla distribuzione dei risparmi di spesa, il bilancio si fa decisamente negativo. Dico questo non dal mio personale punto di vista, che è di nessuna rilevanza, bensì dal punto di vista del governo stesso, o meglio della cultura politica di cui il centro-destra ha provato in questi anni a farsi interprete. Secondo questa visione, la missione centrale di questo governo era di introdurre nel Paese massicce dosi di meritocrazia, di premialità, di responsabilità, di equità, a partire dalla scuola, dall’università, dai bilanci degli enti locali.

Ebbene, rispetto a questo ideale, per cui non pochi ministri si sono coraggiosamente battuti in questi anni, le manovre degli ultimi anni rappresentano un mortificante salto all’indietro.

Nelle università i tagli sono stati sostanzialmente lineari, senza alcun riguardo alle enormi differenze di efficienza fra i diversi atenei e le diverse facoltà. Nella scuola, la promessa di destinare il 30% delle risorse risparmiate con i tagli della prima manovra (estate 2008) ad un premio per gli insegnanti più meritevoli è stata sospesa per salvare gli scatti stipendiali automatici del corpo insegnante. Quanto alle Regioni, il governo si è ben guardato dallo specificare in che modo i tagli dovranno risparmiare le Regioni più virtuose (l’art. 14 è un capolavoro di vaghezza). Per non parlare dei ripiani più o meno parziali dei debiti degli enti locali, che hanno visto via via graziati Catania, Palermo, Roma. O della possibilità, concessa solo alle Regioni a statuto speciale (notoriamente più sprecone delle altre), e in particolare alla Sicilia, di prorogare i contratti a tempo determinato. E infine, dulcis in fundo: la dilazione del pagamento delle multe per le quote latte, un favore a un manipolo di allevatori del Nord che mortifica tutti i produttori onesti, che hanno rispettato le quote.

Si può obiettare, naturalmente, che la politica è l’arte del possibile, e che per presentarsi in Europa con i conti in ordine e salvare la pace sociale il governo ha dovuto fare qualche concessione alle lobby e alle forze politico-sindacali che lo tengono sotto scacco. Può darsi, ma il punto è che così facendo il governo ha purtroppo contribuito con le proprie stesse mani a segnare la fine di una stagione, anzi di quella che doveva essere la «sua» stagione. I segnali iniqui e antimeritocratici contenuti nelle tre grandi manovre che si sono succedute in questi primi due anni e mezzo sono così intensi che ben difficilmente il governo potrà, su questo terreno, riguadagnare la credibilità perduta. Se è bastato il fronte delle Regioni a impedire tagli selettivi, sarà ben difficile che quel che non è stato possibile oggi - premiare i territori virtuosi - divenga possibile domani in conferenza Stato-Regioni, o con i decreti attuativi del federalismo. Se la decisione già presa di premiare gli insegnanti migliori ha dovuto essere sospesa per salvare gli automatismi di carriera, non si vede quando mai sarà possibile introdurre un po’ di meritocrazia nella scuola. E se poche decine di allevatori sponsorizzati dalla Lega sono stati sufficienti a introdurre una norma iniqua come quella sulle quote latte, non si vede come sarà possibile agire domani, quando si dovranno colpire interessi ben più estesi e organizzati.

Ma forse la verità che sta dietro tutte queste vicende è che - nonostante i benefici di un’opposizione imbarazzante nella sua pochezza - il governo è debole, molto più debole che qualche mese fa. Così debole che basta la fronda dei finiani a costringerlo a una raffica di dimissioni (Scajola, Brancher, Cosentino), che ancora poche settimane fa venivano sdegnosamente escluse. Così debole che ogni alzata d’ingegno della Lega, dalla difesa delle Province alla tutela corporativa degli allevatori, è in grado di condizionare la politica economica. Così debole che non riesce a introdurre tagli veramente selettivi nelle università, nelle Regioni, negli enti locali. Così debole da prendere in seria considerazione sia l’ipotesi di allargare la maggioranza all’Udc, sia l’ipotesi di riportare il Paese al voto nonostante una maggioranza parlamentare senza precedenti.

Chi è abituato a ragionare in termini ideologici o di schieramento potrà rallegrarsi che il governo Berlusconi sia entrato in una fase di stallo, se non di crisi aperta. Chi sogna il «grande centro» o governi di «responsabilità nazionale» potrà pensare che l’ora delle terze forze è finalmente arrivata. Io sono molto più scettico e penso invece che la triste parabola del governo Berlusconi confermi solo che il rebus italiano non ha soluzioni, come la quadratura del cerchio. Il centrodestra non ha la forza per fare le riforme che mille volte ha promesso al Paese, prime fra tutte la riduzione delle tasse, il federalismo, la riforma meritocratica della Pubblica amministrazione. Un governo più largo, di responsabilità nazionale, avrebbe forse la forza di parlare al Paese ma sarebbe paralizzato dalle divisioni interne e dai veti incrociati. Quanto alla sinistra, basta il ricordo del governo Prodi per toglierci ogni illusione. Così quel che ci resta è solo una montagna di parole, e la stanchezza di constatare che sono sempre le stesse.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7602&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #88 inserito:: Luglio 25, 2010, 12:21:37 pm »

25/7/2010

Meno ascoltati, ma meno sicuri
   
LUCA RICOLFI

Dopo un iter durato due anni il disegno di legge sulle intercettazioni sembra arrivato in dirittura finale (la Camera dovrebbe iniziare la discussione già la prossima settimana). Ma com’è il nuovo testo licenziato dalla commissione Giustizia? Per valutarlo dobbiamo ricordare quali sono i tre «beni» in gioco: la privacy, la libertà di informazione, la sicurezza.

Sul primo punto, la privacy, è difficile non dare un giudizio positivo. Se il disegno di legge sarà approvato nella nuova versione, la privacy ne risulterà rafforzata sotto almeno due profili: diminuirà il numero di cittadini ascoltati, perché per i magistrati diventerà più difficile intercettare; verrà limitato il coinvolgimento delle persone estranee alle inchieste, perché un'apposita udienza-filtro provvederà a distruggere le conversazioni irrilevanti. Da questo specifico punto di vista, la tutela della privacy, gli unici che potrebbero dolersi della nuova disciplina sono i fautori dello sciagurato slogan «intercettateci tutti», espressione - come minimo - di una visione illiberale della democrazia.
Sul secondo punto, la libertà di informazione, il giudizio dipende da come si valuta la qualità dell’informazione giudiziaria nel nostro Paese.

Nel testo attuale vengono indubbiamente introdotte limitazioni alla libertà dei giornalisti di pubblicare, ad esempio perché dopo la cosiddetta udienza-filtro le conversazioni irrilevanti vengono distrutte, o perché le sanzioni verso giornalisti ed editori, pur meno pesanti di quelle previste inizialmente, restano comunque in piedi. In breve c'è meno libertà di pubblicare, ma è tutto da dimostrare che la libertà di cui i giornalisti godevano prima non fosse eccessiva, o che i giornalisti stessi non abbiano ampiamente abusato di tale libertà.

E' sul terzo punto, la sicurezza, che cominciano invece le dolenti note. La nuova versione del disegno di legge licenziata dalla Commissione Giustizia può sembrare accettabile se la si compara alla prima versione, quella approvata dal Senato a giugno, ma solo perché tale versione era del tutto priva di logicità e ragionevolezza. Se invece la si compara con la legislazione attuale, non possiamo non preoccuparci. Il nuovo testo, infatti, prevede una serie notevole di limitazioni ed ostacoli all'attività investigativa delle procure, e verosimilmente indebolirà l'azione di contrasto alla criminalità. In poche parole: saremo meno ascoltati, ma anche meno sicuri.

Si potrebbe obiettare che questo è il prezzo della tutela della privacy. Ma non è precisamente così. Perché, anche ammesso che il numero di intercettazioni fosse eccessivo, come i dati suggeriscono e molti magistrati (anche di sinistra) ammettono, mettere i bastoni fra le ruote all'attività delle procure non era l'unica via per limitare gli abusi. Se lo scopo era di ridurre il numero delle intercettazioni era sufficiente contingentarle, ossia mettere un tetto al loro numero totale, in modo da costringere i magistrati a usarle oculatamente, come spontaneamente avviene con le risorse scarse.

Lo strumento di contrasto alle intercettazioni privilegiato dal disegno di legge è invece quello di sottrarre al Gip del tribunale locale il potere di autorizzarle, per trasferirlo a un collegio di tre giudici del tribunale del capoluogo distrettuale. Secondo la maggior parte dei magistrati, ivi compreso il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, questa norma comporterà "enormi difficoltà organizzative", con un'ulteriore caduta di efficienza della macchina della giustizia. E' come se, per far andare più piano un conducente spericolato, anziché dargli una vettura meno veloce si procedesse a disseminare la sua strada di buche, curve ed ostacoli. Peccato, perché con forme di razionamento il numero di intercettazioni si poteva ridurre senza infliggere gravi danni collaterali alle indagini.

Perché la traiettoria del disegno di legge sulle intercettazioni ha condotto a sacrificare il bene della sicurezza sull'altare della privacy?

Una ragione ovvia è che esiste un interesse del ceto politico, di tutto il ceto politico, a proteggere sé stesso arginando il potere di indagine della magistratura e ponendo dei limiti alla libertà di informazione. Ma esiste anche una ragione meno evidente che ha condotto a sacrificare in misura così cospicua il bene della sicurezza, ed è il tipo di battaglia politica che editori e giornalisti hanno condotto contro il disegno di legge sulle intercettazioni. Quando quella battaglia è partita era evidente che gli sconfitti sarebbero stati i magistrati, e i vincitori sarebbero stati i giornalisti. E questo già solo per il nome che la stampa di opposizione coniò per descrivere la legge, subito definita "legge bavaglio". Chiamarla così equivaleva a dire che la posta in gioco principale non era l'efficacia delle indagini bensì la libertà di informazione: diritto dei giornalisti di pubblicare tutto e subito, diritto dei cittadini di leggere quello che i giornalisti avessero ritenuto di pubblicare e scrivere.

E invece non era così, o perlomeno alcuni di noi possono ritenere che non fosse esattamente così. Come operatori dell'informazione, potevamo anche fare una battaglia meno autoreferenziale, meno corporativa, e riconoscere che troppo spesso della libertà a noi concessa abbiamo abusato e continuiamo ad abusare. Potevamo preoccuparci di più del bene comune, o perlomeno di quello che la maggioranza degli italiani considera tale: nei sondaggi la gente si mostra più interessata all'efficacia delle intercettazioni nel contrasto del crimine che alla libertà di leggerne il contenuto sui giornali. Potevamo considerare, infine, che nella battaglia contro il pessimo testo di legge licenziato dal Senato, i giornalisti erano la parte forte e i magistrati quella debole (anche per loro colpe), tendenzialmente destinata a soccombere se priva di un vigoroso sostegno della stampa e dell'opinione pubblica.

Così, se non interverranno cambiamenti importanti - primo fra tutti la caduta della norma che prevede tre giudici del capoluogo distrettuale per autorizzare le intercettazioni - ci avviamo verso una nuova stagione. Il numero delle intercettazioni diminuirà, la stampa dovrà accettare alcune restrizioni (non tutte ragionevoli), i cittadini avranno un po' più di privacy.

Il prezzo sarà una giustizia meno efficiente e meno efficace, in poche parole un ridimensionamento del potere delle procure. Un vero peccato per un governo che ha fatto della lotta alla criminalità una delle sue principali bandiere. Un autentico paradosso per un'opposizione che, creando il mito della legge bavaglio, ha contribuito non poco a far andare le cose come sono andate

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7636&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #89 inserito:: Luglio 30, 2010, 09:33:28 am »

30/7/2010

Le ragioni di politica e giustizia

LUCA RICOLFI

Sono venti anni, più o meno dai tempi di Tangentopoli, che i rapporti fra la magistratura e la politica non riescono a funzionare.

I politici sono invisi ai magistrati (e ai cittadini) anche perché, come anguille, riescono quasi sempre a sgusciare via, sottraendosi all’azione della giustizia. Se leggete i libri di Marco Travaglio quel che vi colpisce di più non è quanti politici abbiano avuto problemi con la giustizia, ma quanti politici siano riusciti a risolvere brillantemente i loro problemi giudiziari, e non già perché risultati innocenti bensì grazie a immunità, prescrizioni, leggi ad hoc, ricandidature. Io ho smesso di leggerli, i libri di Travaglio, tanta è la nausea che mi suscitavano queste storie di impunità.

Da parte loro i magistrati sono invisi ai politici perché, come zanzare, infastidiscono senza tregua il corso della politica. Non c’è anno, né mese, né settimana, in cui un qualche politico o amministratore, nazionale o locale, grande o minuscolo, non incappi in un’indagine giudiziaria. Il corso della politica, in Italia, è punteggiato quasi quotidianamente da vicende giudiziarie, che interferiscono con il suo normale corso, e qualche volta lo deviano pesantemente. Le forze politiche non esitano a usare le vicende giudiziarie per delegittimare gli avversari, e anche la lotta interna ai partiti fa un uso spregiudicato delle indiscrezioni provenienti dalle inchieste.

Gli ultimi anni e mesi non hanno fatto eccezione. Se ci limitiamo ai personaggi più noti finiti nelle inchieste, oltre al solito Berlusconi, possiamo ricordare - in ordine alfabetico - Antonio Bassolino, Guido Bertolaso, Italo Bocchino, Aldo Brancher, Nicola Cosentino, Totò Cuffaro, Flavio Del Bono, Vincenzo De Luca, Ottaviano Del Turco, Claudio Scajola, Denis Verdini. Sono i primi nomi che mi vengono in mente, e come si vede ce n'è per la destra, per il centro e per la sinistra.

Di fronte a questo stillicidio, che si ripete incessantemente da vent’anni, una parte della casta - specie a destra, ma non solo - invoca il proprio sacrosanto diritto di fare politica al riparo dalle zanzare della magistratura. Un’altra parte, specie a sinistra, usa invece la magistratura come arma politica, chiedendo le dimissioni (o la non candidatura) dei politici indagati ogni volta che a cascare nella rete è uno degli avversari. Quanto alla furia giustizialista, per cui basta essere indagati per dover fare un passo indietro, essa svolazza dove il vento dell’opportunità politica la porta: Di Pietro era intransigente, ma ha cessato di esserlo quando gli è convenuto (alle ultime regionali l’Italia dei valori ha sostenuto Vincenzo De Luca, nonostante fosse rinviato a giudizio per vari reati); Fini e i finiani hanno digerito di tutto in passato, ma ora fanno i moralisti con il sottosegretario Giacomo Caliendo, esortato a dimettersi prima ancora di essere rinviato a giudizio.

E’ evidente che c’è qualcosa che non va. Finché l’azione dei magistrati viene usata strumentalmente per la lotta politica, non possiamo stupirci che qualcuno teorizzi l’indifferenza alle inchieste giudiziarie, il diritto della politica a non farsi commissariare dalla magistratura. D’altro canto, finché la politica non prende l’iniziativa e si decide una buona volta a fare pulizia al proprio interno senza aspettare le zanzare delle procure, è inevitabile che gli indagati siano percepiti - innanzitutto dall’opinione pubblica - più come probabili colpevoli che come presunti innocenti. Sono troppo numerosi i politici su cui emergono vicende inquietanti, sono troppo frequenti i casi in cui politici indagati riescono a farla franca solo grazie a ogni sorta di furbizie e protezioni.

Come si esce dalla spirale?

Qualcuno dice con regole ferree, che impongano ai politici indagati di fare un passo indietro, e ai partiti di non candidare politici indagati. Ma è una linea molto discutibile, perché presuppone l’infallibilità (e l’imparzialità) delle procure. Nella realtà effettuale, ossia nelle condizioni dell’Italia com’è e non come dovrebbe essere, significherebbe introdurre un’ennesima arma impropria nella lotta politica. L’automatismo delle dimissioni, anche se venisse spostato più avanti (ad esempio al momento del rinvio a giudizio), consegnerebbe la politica alla magistratura, un esito che una democrazia liberale dovrebbe fuggire come la peste.

Molto più ragionevole sarebbe che la politica si guadagnasse sul campo il diritto, quando lo ritiene giusto, di difendere le proprie scelte e i propri uomini dall’azione della magistratura. La magistratura non è infallibile, e forse non è sempre imparziale. Però anche la politica deve prendersi le sue responsabilità. Per potersi difendere senza essere percepita come una corporazione che si sente al di sopra della legge, occorrerebbe che la politica - prima di chiedere un passo indietro alla magistratura - facesse lei un passo avanti, e si occupasse di fare pulizia in casa propria senza aspettare che siano le procure della Repubblica a rivoltare i tappeti. Solo se prima avrà avuto il coraggio di liberarsi dei suoi uomini più disinvolti, indipendentemente dal fatto che abbiano commesso reati o «solo» scorrettezze, la politica potrà risultare credibile al momento di difendere un proprio uomo contro eventuali sbagli (o anche solo atti dovuti) della magistratura.

I casi in cui bisogna difendersi da errori o automatismi della magistratura ci sono, ma per farlo credibilmente i partiti debbono avere le carte in regola. Mi sono chiesto spesso perché un uomo come Bassolino, nonostante i suoi trascorsi amministrativi e giudiziari, abbia avuto vita politica così lunga nel Pd. Altrettanto sovente mi sono chiesto perché il Pdl e l’attuale governo siano rimasti ostinatamente indifferenti alla richiesta di arresto per il sottosegretario Nicola Cosentino, una richiesta per concorso esterno in associazione mafiosa confermata dalla Corte di Cassazione. Così mi sono chiesto, tante volte, perché l’Udc abbia sempre difeso a spada tratta Totò Cuffaro, ora condannato per mafia. Tutti errori giudiziari?

Non lo so. So però che se, a suo tempo, questi partiti avessero fatto scendere dai rispettivi carri un po’ di gente (questi o altri personaggi, non sta a me dirlo), oggi li prenderei più sul serio quando difendono qualche loro uomo finito nelle maglie delle procure.

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