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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108298 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:47:32 am »

13/11/2009 (7:11)  - DOSSIER

La giustizia non si salva con i processi cancellati

Gli effetti collaterali del ddl: criminali favoriti, vittime penalizzate

Bolzano e Torino insegnano come si possono ridurre davvero i tempi

LUCA RICOLFI
ROMA


Se il Parlamento approverà il disegno di legge sul «processo breve» ancora una volta Silvio Berlusconi potrà sottrarsi ai procedimenti giudiziari in cui è coinvolto, ossia processo Mills e fondi neri Mediaset. Questo, apparentemente, è il succo di quel che sta accadendo. Se fosse solo questo, però, non ci sarebbe proprio nulla di nuovo, visto che sono anni e anni che, di riffa o di raffa, il nostro dinamico presidente del Consiglio riesce a sgusciare come un’anguilla fra le trappole che i magistrati depongono gentilmente lungo il suo cammino.

E sono anni e anni che gli italiani lo rivotano e lo rieleggono serenamente, per niente turbati dal conflitto di interessi, dallo strapotere mediatico, dalla guerra alla magistratura. E invece non si tratta solo di questo. Liberare Berlusconi dai suoi processi era il succo del cosiddetto lodo Alfano, recentemente bocciato dalla Corte costituzionale. Se fosse passato, l’unico effetto tangibile sarebbe stata la non procedibilità del presidente del Consiglio, visto che le altre cariche dello Stato protette dal lodo Alfano non hanno guai con la giustizia. Con il «processo breve» è diverso. La sfida di Berlusconi alla Giustizia fa un salto di qualità. Perché se passerà il disegno di legge presentato ieri l’effetto più importante non sarà di salvare Berlusconi (che un modo per salvarsi comunque lo trova sempre) ma sarà di umiliare e scassare ulteriormente la macchina della Giustizia. Il processo breve, infatti, si applica ai processi futuri, ma anche a una parte dei processi in corso. Difficile dire fin d’ora a quanti e a quali, ma è certo che molti processi salteranno, con il duplice effetto di rimettere in libertà dei delinquenti e di non rendere giustizia alle loro vittime.

Una lista circolata in queste ore include quelli su scalate bancarie (furbetti del quartierino) e affare Telecom (dossier illeciti). Secondo i vertici del sindacato dei magistrati, sono a rischio di prescrizione una moltitudine di procedimenti che riguardano reati gravi quali: abuso d’ufficio, corruzione semplice e in atti giudiziari, rivelazione di segreti d’ufficio, truffa semplice o aggravata, frodi comunitarie, frodi fiscali, falsi in bilancio, bancarotta preferenziale, intercettazioni illecite, reati informatici, ricettazione, vendita di prodotti con marchi contraffatti, traffico di rifiuti, vendita di prodotti in violazione del diritto d’autore, sfruttamento della prostituzione, violenza privata, falsificazione di documenti pubblici, calunnia e falsa testimonianza, lesioni personali, omicidio colposo per colpa medica, maltrattamenti in famiglia, incendio, aborto clandestino.

Forse i magistrati esagerano, ma è difficile negare che una sorta di amnistia, o di depenalizzazione di fatto, potrebbe graziare migliaia di imputati. Niente male per un governo che ha fatto della lotta alla criminalità uno dei propri obiettivi prioritari. Ma non è tutto. Insieme al danno arriva la beffa. Ci raccontano infatti che le norme sul processo breve vengono introdotte per «adeguarci all’Europa», che ci ha redarguiti innumerevoli volte per la lentezza dei nostri processi. Così, per una sorta di miracolosa «eterogenesi dei fini», una norma concepita per un fine particolare (salvare Berlusconi) si rivelerebbe, a ben guardare, di interesse generale (dare ai cittadini una giustizia più veloce). È vero, un po’ di delinquenti eviteranno il carcere ma almeno i cittadini avranno, finalmente, una Giustizia efficiente e veloce.

Basta però avere un minimo di conoscenza dei problemi della Giustizia per sapere che non è così. Se i processi sono lenti dipende certo anche dalle procedure, come amano pensare i politici, e dalle risorse economiche, come amano pensare i magistrati. Ma la causa più importante, nel senso che ha l’impatto più grande sulla durata, è la disorganizzazione degli uffici, sia nella giustizia civile sia in quella penale.

Lo dimostrano i rari esempi di ristrutturazioni di successo (Torino con il procuratore Maddalena e il presidente Barbuto, Bolzano con il procuratore Tarfusser), ma soprattutto lo dimostrano gli enormi divari di produttività fra distretti di Corte d’Appello (vedi cartine). Come è possibile che, a parità di risorse, l’output della giustizia civile di Torino sia 7 volte quello di Caltanissetta? Com’è possibile che, sempre a parità di risorse, l’output della giustizia penale in Lombardia sia 5 volte quello del Mezzogiorno? Stabilire per legge che i processi non possono durare più di un certo tempo massimo (6 anni, o qualsiasi altro «tetto») può avere un valore simbolico, di principio, ma di per sé non ha effetti pratici rilevanti se non quelli di vanificare una enorme quantità di lavoro già fatto e aumentare l’insicurezza dei cittadini.

Per questo capisco l’amarezza dei magistrati, che pure hanno non poche responsabilità nell’attuale disastro della giustizia. Ma ancora di più capisco l’amarezza dei cittadini, o perlomeno di quella parte di essi che si sente presa in giro. So bene che salvare o no Berlusconi dai processi che lo perseguitano è questione che non interessa a tutti, e su cui le opinioni divergono. Almeno, però, non ci vengano a dire che lo fanno per amore nostro.

da lastampa.it
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 23, 2009, 10:50:09 am »

23/11/2009

Ma il tappo non è Tremonti
   
LUCA RICOLFI

Tre sono, in natura, le strategie di sopravvivenza: l’attacco, la fuga, la simulazione della morte. La tigre attacca, la gazzella fugge, ma il caso più interessante è quello degli animali che - di fronte al pericolo - assumono una postura di perfetta immobilità, o per mimetizzarsi con l’ambiente circostante o per fingersi morti. E' il caso di molti rettili, del rospo, del camaleonte africano, del martin pescatore.

Nella politica economica succede la stessa cosa. Se guardiamo alla storia della seconda Repubblica, non è difficile riconoscere le tre strategie. Nella breve stagione che va dal 1992 al 1998, ossia dalla svalutazione della lira all’ingresso in Europa, prevaleva l’attacco. I problemi venivano riconosciuti e affrontati a viso aperto, indipendentemente dal colore politico dei governi.

Sono gli anni della finanziaria da 90 mila miliardi (governo Amato), della riforma delle pensioni (governo Dini), del protocollo sulla politica dei redditi (governo Ciampi), della modernizzazione del mercato del lavoro (governo Prodi), dell’ingresso in Europa (ancora Ciampi e Prodi). Nel biennio 2006-2008, invece, prevalse la fuga. Il secondo governo Prodi anziché approfittare della congiuntura favorevole scelse di aggravare i problemi: con la Finanziaria 2007 aumentando una pressione fiscale già altissima e affrettando la crisi; con quella del 2008 pianificando un deficit maggiore di quello tendenziale e contro-riformando le pensioni.

In tutto il resto dell'ormai lungo periodo che va da Mani pulite (febbraio 1992) a oggi la strategia dominante è la simulazione della morte. Nonostante alcuni timidi tentativi di affrontare i nodi strutturali dell'Italia (soprattutto nel biennio 2003-2004), il registro dominante è il non fare, o meglio il fare tante, tantissime, piccole cose, nessuna delle quali va al cuore dei problemi. E' solo con gli ultimi due anni, tuttavia, che questa attitudine mai esplicitamente dichiarata diventa una strategia esplicita, una sorta di credo. Sia nel 2008 sia nel 2009, tornato Tremonti al timone dell'economia, il cardine della legge Finanziaria è il non intervento, la ferma volontà di non modificare gli andamenti tendenziali dell'economia. Né la pressione fiscale, né la spesa pubblica, né i saldi fondamentali vengono toccati in modo significativo dall'azione di governo. Siamo in apnea, aspettiamo che torni l'ossigeno, nel frattempo qualsiasi movimento va evitato perché può risultare controproducente. Un mirabile esempio di simulazione della morte.

La politica che non affronta i problemi non mi è mai piaciuta. Da Tremonti e dai suoi predecessori mi sono aspettato sempre molto di più di quello che hanno fatto. E tuttavia devo confessare che ultimamente capisco sempre di più l'inerzia di Tremonti. Non mi piace ma la capisco. Quel che mi ha fatto cambiare atteggiamento è che ho smesso di confrontare le idee di Tremonti con quelle dei suoi critici accademici (che parlano senza avere responsabilità istituzionali), e mi sono preso la briga di analizzare le alternative reali alla linea di Tremonti, ossia quelle sostenute da veri soggetti politici. Per alternative reali intendo le contro-proposte di politica economica avanzate in questi mesi sia dall'opposizione (soprattutto quelle del Pd) sia dalla fronda interna alla maggioranza (ad esempio la contro-finanziaria di Baldassarri, o le richieste del cosiddetto partito del Sud). Ebbene, a mio parere ciascuna di esse avrebbe avuto ed avrebbe conseguenze macro-economiche nefaste: le proposte del Pd sono pericolose sul fronte dei conti pubblici, quelle di Baldassarri (in particolare il taglio dei consumi intermedi) metterebbero in ginocchio la Pubblica amministrazione, quelle del partito del Sud farebbero esplodere la spesa. Insomma, mi verrebbe da parafrasare Sartori, che qualche anno fa - in piena bufera su Oriana Fallaci - titolò un suo articolo: «Uditi i critici, ha ragione Oriana».

Con ciò non voglio certo difendere il non fare, che anzi mi sembra a sua volta molto dannoso per il Paese (oltreché per il centrodestra, che grazie ad esso si avvia a perdere le elezioni politiche del 2013). Quello che però vorrei dire è che forse, tutti quanti, non valutiamo a sufficienza un punto: in politica le alternative non sono fra quel che il governo fa e quel che le menti illuminate pensano. In politica le alternative vere sono solo fra forze in campo, fra gruppi e schieramenti realmente esistenti. E finora le forze che hanno combattuto Tremonti lo hanno fatto quasi sempre in nome di politiche che, se messe in atto, sarebbero risultate più dannose della linea di contenimento praticata dal Tesoro.

Ora però il quadro sta cambiando, e non è forse casuale né intempestiva l'uscita di ieri del ministro Brunetta, che - in un'intervista al Corriere della Sera - ha vigorosamente invitato il Governo a cambiare passo. Brunetta in teoria ha ragione, il momento peggiore della crisi sembra passato (anche se le sue conseguenze dureranno ancora un bel po'), è tempo di riprendere il cammino di modernizzazione dell'Italia e, perché no, «di aprire una grande discussione nel Paese, che coinvolga tutte le intelligenze, comprese quelle, tanto vituperate, degli economisti». E' venuto il momento di tornare a una strategia di attacco, come nei primi Anni 90, lasciandoci alle spalle questi due anni di «simulazione della morte». L'occasione è ghiotta perché, per la prima volta nella storia della seconda Repubblica, il governo non solo ha una schiacciante maggioranza in Parlamento, ma ha davanti a sé la strada spianata dall'assenza di elezioni: dal 22 marzo prossimo fino alla fine della legislatura (3 anni dopo) non ci saranno più test elettorali importanti, visto che non solo le Europee ma anche le Regionali saranno alle nostre spalle.

E tuttavia c'è qualcosa che Brunetta e i critici del Tesoro non sembrano vedere: le riforme non sono una bottiglia di champagne, e non è il tappo di Tremonti che impedisce il brindisi. Se le riforme non decollano è innanzitutto perché gli italiani che le temono sono di più di quelli che sarebbero pronti a sostenerle davvero, accettandone i rischi, le tensioni, i prezzi da pagare. E proprio per questo uno schieramento politico riformista diverso dal partito della spesa, al momento, non esiste ancora. Le riforme che servirebbero richiedono coraggio, e nessun governo ne avrà mai abbastanza finché l'opposizione sarà come quella, faziosa e pregiudiziale, che Prodi e Berlusconi hanno incontrato sui rispettivi cammini. Né si vede come questo dato di fondo della politica italiana possa cambiare rapidamente. L'agenda del centro-destra è continuamente stravolta dalla necessità di salvare Berlusconi dai suoi processi. Quella del centro-sinistra dall'imperativo categorico di impedire che Berlusconi la faccia franca. Nessuno è disposto a interrompere il circolo vizioso. Nessuno ha la forza di rimuovere l'ostacolo che blocca il confronto, nemmeno Tremonti. Peccato, perché più passa il tempo e più arduo sarà venir fuori dal pantano in cui la politica ha precipitato il Paese.

da lastampa.it
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« Risposta #62 inserito:: Dicembre 07, 2009, 11:19:06 am »

7/12/2009

Pd, il partito né di lotta né di governo
   
LUCA RICOLFI


Comunque la si giudichi, non vi sono molti dubbi che la manifestazione di sabato contro Berlusconi - il cosiddetto «No B-day» - abbia spiazzato il partito di Bersani. Non certo per il numero di partecipanti, presumibilmente non lontano dalle 200 mila unità, ma per il fatto stesso che un evento del genere possa aver avuto luogo. Che cosa c’era di tanto spiazzante nella manifestazione di sabato?

Intanto la mancanza di uno sponsor o di un promotore forte, sostituiti da una rete di contatti via Internet. Non solo niente sigle di partito, ma anche niente movimenti e niente leader. Tutte le grandi adunate degli ultimi anni, anche le meno convenzionali, un catalizzatore lo avevano sempre avuto: Wojtyla e la gioventù cattolica (2000), Cofferati e il popolo della sinistra (2002), Pezzotta e il family day (2007), Grillo e il vaffa-day (2007). Qui invece niente, un appuntamento nato senza l’aiuto di nessuna star religiosa, politica o mediatica.

Poi lo stile. A quel che riferiscono le cronache il tono dominante è stato l’allegria, o forse il senso di liberazione. Nessun incidente, nessuna bandiera americana bruciata, nessuna offesa al Capo dello Stato, solo la condanna intransigente del premier, considerato non degno di occupare la carica che occupa. Nessuna voce ai tanti politici che hanno provato a esserci, alcuni non senza imbarazzo.

Ma l’elemento più spiazzante della manifestazione di sabato, rilevato da molti commentatori, è stato che essa ha messo a nudo la debolezza politica del Partito democratico. Che non sta nel non aver aderito alla manifestazione, ma nel fatto di non essere in grado di spiegare le ragioni della sua assenza. Se la manifestazione avesse preso una piega violenta, qualunquistica, antiistituzionale oggi il Pd potrebbe tirare un sospiro di sollievo e dire: ve l’avevo detto. Ma non è andata così, e l’elettore di sinistra fa fatica a capire perché Bersani, leader del Pd, ha disertato una manifestazione in cui c’era anche Franceschini (ex segretario, ora capogruppo Pd alla Camera), c’era anche Marino (uno dei tre candidati alla segreteria), c’era anche Rosy Bindi, che del Partito democratico è niente meno che il presidente.

Naturalmente i dirigenti del Pd una spiegazione sono in grado di darla, ma il punto è che si tratta di una spiegazione in codice, piena di sottigliezze e di distinguo.
Ne abbiamo avuto un saggio qualche sera fa in tv, quando Rosy Bindi ha provato a spiegare perché non sarebbe andata alla manifestazione, salvo poi cambiare idea e andarci: segno che la spiegazione non aveva convinto neppure lei.

Da dove viene tanta confusione di idee nel principale partito di opposizione?

Io un’ipotesi ce l’avrei, anche se non sono affatto sicuro di essere nel giusto. La mia ipotesi è che nel Pd prevalga ancora, con effetti paralizzanti, la dottrina Veltroni dei due tipi di riforme. Secondo tale dottrina, da lui enunciata non appena gli venne affidato il comando del Pd, una dialettica sana fra governo e opposizione poggia su due principi: condivisione e convergenza sulle regole del gioco, scontro anche aspro sui programmi e sui contenuti. Il Pd attuale sembra ancora ipnotizzato dalla dottrina Veltroni: infatti cerca disperatamente un accordo sulla giustizia, sulle riforme istituzionali, e in prospettiva sulla legge elettorale, mentre critica duramente il governo sulla politica economica, sull’evasione fiscale, sulla scuola, sull’università, sulla sicurezza, sulla criminalità, sull’immigrazione, sul terremoto, insomma praticamente su tutto quel che fa.

Io penso che la dottrina Veltroni sia errata, e che le cose stiano semmai al contrario: il dialogo (quasi) impossibile è quello sulle regole, il confronto possibile è quello sulle riforme economico-sociali (come è già successo, quasi di nascosto, con la riforma Brunetta-Ichino della Pubblica amministrazione). Ma il punto che qui mi interessa non è se la dottrina Veltroni sia giusta o sbagliata, ma quali conseguenze produce.

Se credi di poterti mettere d’accordo sulla giustizia (meno intercettazioni, limiti al potere dei Pubblici ministeri, salvacondotto per Berlusconi), accordo che, stante il numero di politici inquisiti, è interesse comune del ceto politico di destra e di sinistra, devi «abbassare i toni» sulle questioni di principio e non puoi aderire a una manifestazione che - per quanto civile e ordinata - esclude ogni forma di collaborazione con il governo. Se credi di non poterti mettere d’accordo sulle riforme economico-sociali, e che anzi sia proprio quello il terreno su cui costruire l’identità del nuovo partito, diventa naturale criticare il governo qualsiasi cosa esso faccia o non faccia, denunciarne continuamente i fallimenti, nella speranza che a forza di disastri e insuccessi gli elettori si decidano a cambiare governo, come in effetti hanno sempre fatto nella seconda Repubblica.

Ed ecco le conseguenze.
Agli occhi degli elettori l’opposizione del Pd appare al tempo stesso «inciucista» e disfattista, pavida e anti-italiana. Inciucista e pavida perché non osa unirsi alla protesta di piazza contro le leggi ad personam, disfattista e anti-italiana perché le sue critiche alle cose che il governo fa sono spesso pregiudiziali e inconsistenti. Di qui la paralisi di un partito che non riesce a fare politica né in piazza né in Parlamento, perché la dottrina Veltroni gli vieta sia la piazza (sulle regole dobbiamo andare d’accordo), sia il Parlamento (sulle cose da fare dobbiamo distinguerci). Di qui il paradosso di un partito che regge come intenzioni di voto (oggi il Pd è tornato intorno al 30%) ma di cui gli elettori non apprezzano il modo di fare opposizione (i giudizi positivi sul governo sono oltre il 50%, quelli sull’opposizione sono sotto il 25%).

Forse, per il bene stesso del Partito democratico, è giunto il momento di farsi qualche domanda sulla dottrina Veltroni.

DA lastampa.it
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« Risposta #63 inserito:: Dicembre 16, 2009, 03:12:13 pm »

16/12/2009

Il Cavaliere nemico perfetto
   
LUCA RICOLFI


Sono passati quasi vent’anni dalla fine della prima Repubblica, ne sono passati più di quindici dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi. La legislatura finirà nel 2013, giusto nel ventennale della discesa in campo.

Come racconteranno questo lungo periodo gli storici di domani?

Fino a qualche tempo fa pensavo che questi anni sarebbero stati ricordati come l’era del berlusconismo. Un periodo in cui il costume ha subito mutazioni profonde, la politica si è personalizzata, i media sono stati militarizzati, la Tv è diventata sempre più volgare, il privato ha invaso la sfera pubblica, i rapporti fra le istituzioni si sono ingarbugliati. Un periodo in cui la figura del leader politico è cambiata profondamente: non più espressione di un partito e di un’ideologia, ma personaggio carismatico che trae il suo consenso dal rapporto con la «gente».

Ma molti dei caratteri che si è soliti associare al berlusconismo si sono manifestati ben prima del suo avvento e non solo in Italia.
La deriva delle Tv (il Grande Fratello è un format internazionale), la messa in scena del privato (Bill Clinton e Monica Lewinsky), il declino dei partiti tradizionali, la personalizzazione della politica, il modo di porsi dei leader, la ricerca del contatto con la gente, l’insofferenza per i protocolli, l’informalità, gli atteggiamenti irrituali: tutte cose che esistono da tempo anche all’estero, e che in Italia sono cominciate con i presidenti della Repubblica Pertini e Cossiga (non per nulla chiamato il «picconatore»), e sono culminate nel pontificato di papa Wojtyla.

Ecco perché, oggi, penso invece che lo specifico del ventennio 1992-2013 gli storici del futuro lo troveranno semmai nell'antiberlusconismo, inteso come imperativo etico e come stato d’animo collettivo. E’ questo, almeno sulla scena politico-culturale, il tratto dominante dell’epoca che ora va tramontando in Italia. E lo è per le ragioni che in questi giorni cominciamo lentamente a mettere a fuoco: quale che sia la responsabilità degli attori in campo, non esiste, nella storia repubblicana, alcun leader presente o passato che abbia attirato sulla propria persona tanto astio, disprezzo e odio. Né Togliatti né Moro, né Andreotti né Cossiga, né Craxi né Prodi sono mai stati investiti da un simile sentimento di ostilità. Un sentimento certo coltivato soltanto da una minoranza (a mio parere valutabile fra l'1% e il 5% del corpo elettorale), ma pur sempre una minoranza cospicua. L'ostilità reciproca fra i due schieramenti corre sia lungo la direttrice che va da destra a sinistra, sia nella direttrice opposta. Da questo punto di vista anti-comunismo e anti-berlusconismo sono speculari e gemelli. Ma solo in quest’ultimo caso, quello del sentimento antiberlusconiano, la corrente dell’ostilità si coagula contro un solo individuo, percepito come la personificazione e la sintesi di ogni male. Non era mai successo in passato, non succede in nessun altro Paese democratico.

Perché l’odio va a bersaglio solo a destra?

Ci sono ragioni ovvie. La prima è che Berlusconi non è solo un leader politico, ma è innanzitutto il padrone di un impero economico-mediatico. La seconda è che Berlusconi è sospettato di gravi reati e si sottrae ai processi. Ma esiste anche un’altra ragione, su cui è venuto il tempo di farsi domande vere, non retoriche. Dietro l’odio per Berlusconi, che quotidianamente si manifesta su Internet ed episodicamente si incarna nel gesto di qualche sconosciuto (ieri il lancio del treppiede, oggi quello della statuetta del Duomo di Milano), c'è un’analisi precisa della società italiana. Io ho cominciato ad ascoltarla con le mie orecchie nel lontano 1994, quando il mio preside, un illustre storico della Resistenza, cominciò ad arringare il Consiglio di Facoltà perché in Italia stava rinascendo il fascismo: la colpa di Berlusconi, allora, era quella di aver sdoganato Fini, quello stesso Fini che oggi con autoironia la sinistra chiama «compagno Fini».
Poi vennero gli allarmi sul razzismo, perché Berlusconi era tornato con la Lega, quella stessa Lega che poco prima, dopo la rottura fra Bossi e Berlusconi, D'Alema aveva definito «una costola della sinistra». Poi, prima delle elezioni del 2001, vennero l’appello di Bobbio per salvare la democrazia e l’appello-profezia di Umberto Eco: secondo lui, se il centro-destra avesse vinto (come in effetti avvenne), Berlusconi sarebbe divenuto proprietario di tutti i principali quotidiani e periodici, Corriere della Sera, La Stampa, Repubblica, Unità, Espresso. Ora si parla di regime, dittatura dolce, grave pericolo per le istituzioni democratiche. Ma anche di indulgenza verso gli evasori, rapporti con la mafia, responsabilità nelle stragi del 1992-1993. Persino gli effetti della crisi, i licenziamenti, le difficoltà economiche, l’inquinamento atmosferico sono messi in conto a Berlusconi: il governo «sta rovinando l’Italia», e sarebbe questo che spiegherebbe il clima di ostilità nei suoi confronti. E il bello è che questa incessante attività di costruzione di una certa rappresentazione della società italiana non è condotta da un’équipe di studiosi, fatta di storici, sociologi, economisti, scienziati politici, statistici, criminologi, bensì da una compagnia di giro formata in massima parte da giornalisti, conduttori televisivi, politici, cantanti, attori, registi, comici, vignettisti, scrittori, letterati, filosofi.

Ebbene, di fronte a questa opera dell’ingegno collettiva è difficile sfuggire al dilemma. O l’analisi è sostanzialmente esatta, e allora è venuto il momento di imbracciare le armi e iniziare la resistenza. Come ha ricordato Antonio Polito ieri sul Riformista, «persino la dottrina liberale prevede il tirannicidio»: se credessimo anche solo alla metà di quello che più o meno obliquamente ci suggeriscono i detrattori di Berlusconi, sarebbe naturale emigrare o darsi alla macchia. Sottoscrivere quell’analisi e invocare il confronto civile è semplicemente illogico, e infatti il confronto civile non decolla mai.

Oppure quell'analisi è gravemente distorta, e allora è venuto il momento di separare le critiche che stanno in piedi (e che sono tante) dal quadro apocalittico che le incornicia e che alimenta un clima da ultima spiaggia, da resa dei conti finale. Se non lo faremo, anche le critiche più serie finiranno per apparire sterili e preconcette. E gli appelli ad «abbassare i toni», a tornare a un confronto civile, non sortiranno alcun effetto: perché è vero che alla fine del suo lungo percorso l’antiberlusconismo si è raggrumato in un sentimento viscerale, ma all’origine è stato soprattutto un’idea, una costruzione intellettuale, una descrizione dell’Italia lungamente coltivata e ribadita.

E’ con questa ricostruzione che è arrivato il momento di fare i conti, con pacatezza e amore per la verità.

da lastampa.it
   
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 27, 2009, 10:01:14 am »


27/12/2009
 
Sulla crisi una lezione dagli immigrati
 

LUCA RICOLFI
 
Nessuno sa se la crisi è davvero finita, né quando l’economia mondiale tornerà a correre, né se capiterà ancora di sperimentare lunghi periodi di crescita. Quel che invece si può già tentare è un primo bilancio della crisi in Italia, a oltre due anni dal suo inizio oltreoceano, quando scoppiò la bolla dei mutui immobiliari americani (agosto 2007).
Sull’impatto della crisi circola da tempo una diagnosi - accreditata da diverse e autorevoli istituzioni, dalla Chiesa alla Banca d’Italia - secondo cui la crisi avrebbe colpito soprattutto i deboli. Ma è davvero così?

Molti elementi fanno pensare il contrario. Il primo impatto della crisi, si ricorderà, fu di tipo finanziario, con il crollo dei titoli azionari: questo meccanismo colpì innanzitutto i ceti superiori, ben più esposti a questo genere di rischi di quanto lo siano i piccoli e medi risparmiatori. Poi, poco per volta, la crisi si estese all’economia reale, in alcuni casi distruggendo posti di lavoro, in altri casi congelandoli attraverso la messa in cassa integrazione di operai e impiegati. Ma quali furono i gruppi sociali maggiormente colpiti? I cittadini del Mezzogiorno o quelli del Nord? I lavoratori dipendenti o quelli indipendenti? Gli stranieri o gli italiani?

Qui i dati riservano diverse sorprese. Secondo la serie storica dell’Isae le famiglie in difficoltà, quelle che «non arrivano a fine mese», sono da sempre più numerose al Sud che nel Nord, ma durante la crisi sono aumentate più al Nord che al Sud, con conseguente riduzione del divario. La crisi sembra dunque aver ridotto le diseguaglianze territoriali, probabilmente anche grazie alla social card, il cui meccanismo di accesso non tiene conto del costo della vita, molto minore nelle regioni meridionali: e infatti il Sud, con il 45% dei poveri, ha ottenuto il 70% delle social card.

Ancora più sorprendenti i dati dell’occupazione. In due anni, ossia fra l’estate del 2007 e quella del 2009, l’occupazione totale è diminuita di 407 mila unità, ma le vittime di questo calo non sono stati i gruppi sociali considerati più deboli, bensì quelli più forti.
Per operai e impiegati i nuovi posti di lavoro hanno sostanzialmente eguagliato i posti di lavoro perduti (il saldo è negativo per sole 5 mila unità). Per i lavoratori indipendenti, invece, le chiusure di attività hanno largamente superato le aperture, con un saldo negativo di 402 mila unità. Una parte di queste chiusure è costituita da contratti di lavoro parasubordinato non rinnovati, ma la parte preponderante è dovuta alle difficoltà finanziarie delle partite Iva, strangolate dalle restrizioni creditizie e dai ritardi nei pagamenti, a partire da quelli della Pubblica amministrazione.

Quanto alla nazionalità dei lavoratori coinvolti nella crisi, i dati Istat ci riservano l’ultima sorpresa: gli oltre 400 mila posti di lavoro perduti sono il saldo fra un crollo per gli italiani (quasi 800 mila posti di lavoro in meno) e un sensibile aumento per gli stranieri regolari (quasi 400 mila posti di lavoro in più). Insomma, comunque lo si rigiri, il prisma della crisi mostra invariabilmente la debolezza dei gruppi sociali forti: i ricchi possessori di attività finanziarie, il Nord, le partite Iva, gli italiani se la sono cavata peggio dei piccoli risparmiatori, del Sud, dei lavoratori dipendenti, degli stranieri. A due anni della crisi siamo mediamente più poveri, ma c’è meno disuguaglianza. Un esito che contrasta con la retorica della crisi («la crisi colpisce soprattutto i deboli»), ma non con ciò che si sa del funzionamento dei sistemi sociali di mercato, in cui è del tutto normale che la crescita amplifichi gli squilibri e la crisi li attenui.

Quello che invece non è scontato, e merita forse una riflessione, è la divaricazione fra i destini degli italiani e quelli degli stranieri. Perché la crisi colpisce di più gli italiani?
Le ragioni possono essere tante, ma quella di fondo mi sembra questa: il nostro sistema economico riesce a creare quasi esclusivamente posti di lavoro poco appetibili, che gli italiani rifiutano e gli stranieri accettano. E tuttavia, attenzione, questo non avviene perché gli italiani siano troppo istruiti bensì, semmai, per la ragione opposta. La nostra forza lavoro ha un livello medio di preparazione bassissimo: abbiamo la metà dei laureati rispetto agli altri Paesi sviluppati, e i nostri studenti medi fanno una pessima figura nei confronti internazionali (vedi i risultati dei test Pisa). Se i nuovi posti di lavoro creati fossero davvero di qualità, probabilmente mancherebbero tecnici, ingegneri, bravi insegnanti, e così via. E infatti i nuovi posti sono spesso di livello modesto, e finiscono per essere accettati soltanto dagli stranieri. Non per la ragione che molti immaginano, però, ossia a causa della bassa qualificazione degli stranieri. Il livello di istruzione degli stranieri è analogo a quello degli italiani (10,2 anni di studio contro 10,9). La differenza è che «loro» vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui l’importante era avere un lavoro, non importa quanto adeguato alla nostra immagine di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto.

In questo senso gli stranieri, con i loro 400 mila nuovi posti di lavoro conquistati nel bel mezzo della crisi, ci stanno impartendo una meritata lezione. Una lezione su cui, a conclusione di questo drammatico 2009, varrebbe forse la pena riflettere.

da lastampa.it
 

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« Risposta #65 inserito:: Dicembre 31, 2009, 05:04:24 pm »

31/12/2009

L'irripetibile congiunzione astrale delle riforme
   
LUCA RICOLFI

Con la fine del 2009 si chiude il peggior anno dalla fine della Seconda Guerra mondiale, non solo in Italia ma in tutte le economie sviluppate. Difficile dire se, quando e come ne usciremo sul piano economico, perché dipenderà poco da noi e molto dal resto del mondo.
Sul piano politico, invece, qualcosa si riesce a intuire fin da ora.

A prima vista si direbbe che, dopo l'aggressione a Berlusconi, qualcosa stia cambiando nel clima politico generale, che gli inviti alla ragionevolezza e al rispetto reciproco qualche risultato lo stiano ottenendo. Si riparla di «riforme condivise» e qualcuno, forse immemore degli innumerevoli fallimenti passati, si spinge persino a parlare di «legislatura costituente», auspicando che - finalmente - destra e sinistra riescano a mettersi d'accordo sulle regole del gioco: poteri del premier, assetto istituzionale, rapporti fra politica e giustizia, legge elettorale.

E tuttavia l'aggressione al premier non è, a mio parere, la ragione principale per cui la politica, in questi ultimi scampoli del 2009, sta mostrando un volto più civile. La ragione di fondo è che l'Italia, per la prima volta da oltre 30 anni, sta per entrare in una congiuntura astrale specialissima e difficilmente ripetibile: un triennio senza elezioni di portata nazionale, e dunque senza micidiali occasioni di contrapposizione e di scontro. Gli appuntamenti elettorali con valenza politica nazionale sono infatti solo di tre tipi: le elezioni politiche, le elezioni regionali, le elezioni europee. Ebbene, noi ci siamo appena lasciati alle spalle sia le elezioni europee (nel 2009) sia le elezioni politiche (nel 2008) e fra meno di tre mesi, ossia alla fine del prossimo mese di marzo, ci saremo lasciati alle spalle anche le elezioni regionali. Dopo il 21 marzo 2010, quando rinnoveremo la maggior parte dei consigli regionali, per oltre tre anni la politica italiana sarà del tutto priva di test elettorali nazionali: un’occasione unica per iniziare un confronto politico non inquinato dall’obbligo di litigare in vista delle prossime elezioni.

Che cosa succederà dunque a partire dal 2010?

Fino al 21 marzo 2010, data dello scontro per le Regionali, possiamo star certi che non succederà nulla di significativo.
I partiti torneranno a combattersi più o meno aspramente, il governo non rivelerà in quali regioni intende costruire le centrali nucleari, il federalismo resterà ibernato come lo è rimasto in tutta questa prima parte della legislatura. Poi, però, a partire dalla primavera del nuovo anno, cominceremo a vedere le carte dei giocatori in campo. La maggioranza, che finora ha navigato a vista e non ha certo grandi risultati da esibire, dovrà usare i tre anni che le rimangono per convincere gli italiani a confermarle la fiducia che le hanno finora concesso. La Lega, in particolare, non può permettersi di arrivare al 2013 senza qualche prova tangibile che il federalismo dà i suoi frutti: meno tasse, servizi migliori, più crescita. Quanto all'opposizione, finora anch’essa ha navigato a vista, ed è impensabile che si presenti all'appuntamento del 2013 senza un profilo assai più chiaro di quello di oggi. Se Bersani non dovesse riuscire in un simile compito, le uniche chance della sinistra di tornare al governo risiederebbero nel fallimento del centro-destra e nella stanchezza degli elettori, una ben triste prospettiva per tutti noi.

L’immobilismo, dunque, non serve né agli uni né agli altri. Questo però non basta a garantire che qualcosa si muoverà. Lo scenario più verosimile, a mio parere, è che le divisioni interne ad entrambi i campi paralizzino sia il governo sia l'opposizione.
A sinistra l'ossessione di «farla pagare» a Berlusconi renderà difficile il confronto anche sulle cose su cui un accordo sarebbe possibile, ossia su alcune regole del gioco e su tutte le più importanti riforme economico-sociali. E’ strano che se ne parli così poco, ma già oggi maggioranza e opposizione dialogano (o hanno dialogato) sulla riforma della Pubblica amministrazione, sul federalismo, sull’Università, sui nuovi ammortizzatori sociali, sulle pensioni (è di questi giorni una proposta comune Pd-Pdl, a firma Cazzola e Treu).
E sulle regole del gioco l'unico ostacolo veramente insormontabile sono le leggi ad personam (legittimo impedimento e «lodo Alfano costituzionale»), che la destra non sembra disposta ad abbandonare e la sinistra non sembra disposta a stralciare da tutto il resto.

A destra la tentazione di far da soli è sempre molto forte, anche se si presenta talora in vesti curiose.
Marcello Pera, ad esempio, qualche giorno fa ha duramente criticato la dottrina delle «riforme condivise», e ha contrapposto ad essa il progetto di fare finalmente - a colpi di maggioranza - la «rivoluzione liberale» promessa da Berlusconi fin dal 1994 e mai attuata né allora, né nel 2001-2006, né oggi.

L'ex presidente del Senato, tuttavia, non ci spiega come mai tale rivoluzione non sia mai stata attuata, né perché proprio ora il centro-destra dovrebbe trovare la determinazione che gli è sempre mancata finora.

Una possibile risposta a questa domanda è che i fautori di una rivoluzione liberale sono minoranza sia nel centro-destra sia nel centro-sinistra. In entrambi gli schieramenti la tentazione egemone, quella che finora ha prevalso, è stata sempre quella di aumentare l'interposizione pubblica - tasse, spesa, deficit pubblico - in modo da rafforzare il potere discrezionale della politica. Si può ritenere che, anche alleandosi fra loro, i liberali dei due schieramenti peserebbero comunque troppo poco, così come si può paventare che siano gli elettori stessi a preferire le promesse di protezione ai rischi di una autentica rivoluzione liberale, che valorizzasse il merito e la responsabilità individuale. Ma è lecito dubitare che una simile rivoluzione il centro-destra sarebbe in grado di attuarla senza una sponda sul versante del Partito democratico, che dopotutto come segretario ha appena eletto Bersani, il più liberale fra i suoi uomini che contano.

Come cittadino, mi auguro naturalmente che i due schieramenti si mettano d'accordo sulle regole del gioco.

Ma ancora di più mi auguro che, anziché continuare a delegittimarsi a vicenda, approfittino della miracolosa congiunzione astrale che ci attende - tre anni senza elezioni - per competere fra loro nel compito che entrambi assegnano a se stessi, quello di rendere l'Italia di domani un po’ più moderna e più libera dell'Italia di oggi.

da lastampa.it
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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 07, 2010, 05:00:49 pm »

7/1/2010
 
Emma e Renata per tutti
 

LUCA RICOLFI
 
Forse quando leggerete questo articolo si saprà già come sono andate le cose nel Pd. Sapremo cioè se a sfidare Renata Polverini, candidata del centro-destra per la Regione Lazio, sarà Emma Bonino.

O se invece il Pd avrà deciso di puntare su qualcun altro, più gradito all’Udc. Io spero che a spuntarla sia Emma Bonino, non per ragioni strettamente politiche bensì per un motivo personalissimo, interiore, intimo mi verrebbe da dire. Un motivo che è più facile raccontare che spiegare.

Bene, ho appreso che Emma Bonino si candidava a governare il Lazio quasi per caso, accendendo distrattamente la radio in auto martedì pomeriggio. Lì per lì non ho capito che non era stato il Pd a candidarla, né che il Pd si fosse immediatamente messo alla ricerca di un altro candidato: alle ultime elezioni politiche i Radicali stavano nelle liste del Pd, quindi davo per scontato che a candidare Emma Bonino fosse stato il Pd stesso (naturalmente questo dipende anche dalla mia ignoranza: abito a Torino, e seguo poco le vicende romane). A un elettore normale non viene neanche in mente che il Pd possa non sostenere una persona - Emma Bonino - che aveva fortissimamente voluto nelle proprie liste meno di due anni fa, quando Veltroni tentava di dare un’identità al suo partito. La Bonino che corre senza l’appoggio del Pd, il Pd che, all’ultimo momento, le contrappone un candidato alternativo, sono scenari semplicemente incomprensibili, al limite del grottesco. Così grottesco che una simile eventualità a me, elettore un po’ distratto, non era neppure passata per la mente.

Ma il motivo vero, il motivo più profondo per cui spero che sia proprio Emma Bonino a sfidare la Polverini sta in ciò che quella notizia ha provocato nella mia mente di cittadino chiamato al voto: ho provato invidia per i romani, anzi per i laziali. E sapete perché?
Perché mi sono detto: se avessi la residenza nel Lazio sarei, per la prima volta nella mia storia di elettore, completamente sereno. E lo sarei perché a sfidarsi sono due persone come si deve, educate e appassionate, che hanno il rispetto di tutti, e si stimano fra di loro (la stima per Renata Polverini è fra le prime cose dichiarate da Emma Bonino nelle interviste). Due persone che, poste al governo del Lazio, ovviamente non farebbero le stesse identiche cose, ma difficilmente si rivelerebbero cattive amministratrici, animate dall’interesse personale o compromesse con clientele e comitati di affari: e l’esperienza insegna quanto, nei governi locali, la qualità complessiva dell’amministrazione sia l’elemento decisivo, ben più delle piccole differenze negli indirizzi politici generali.

Per un cittadino normale, non imbevuto di ideologia, vivere in Veneto o in Emilia, due regioni di opposto colore politico, è sostanzialmente la stessa cosa, perché sono regioni entrambe ben governate. Ed è diversissimo rispetto al vivere in una qualsiasi delle regioni di mafia, indipendentemente dal fatto che a mal governarla sia il centro-destra o il centro-sinistra. Naturalmente la scelta fra Polverini e Bonino non è indifferente, e se abitassi a Roma cercherei di capire le differenze fra i rispettivi programmi (innanzitutto sulle politiche familiari), ma alla fine non è più drammatica della scelta fra vivere in Veneto o in Emilia, in Lombardia o in Piemonte, in Friuli o in Trentino.

Queste cose pensavo a caldo. E poi, voglio confessare proprio tutto, nella mia mente è partita una fantasticheria, una sorta di sogno ad occhi aperti. Che bello sarebbe se, anche nelle altre regioni, anche nella competizione per le elezioni politiche, potessimo scegliere fra candidati così. Che bello sarebbe se, anziché parlare a vanvera di rinnovamento, si avesse un po’ più di cura nello scegliere i candidati. Che bello sarebbe se il rispetto che il nostro candidato riceve dagli «altri», ossia dall’elettorato che non lo voterà, fosse un metro importante per sceglierlo. Somiglieremmo un po’ di più alle grandi democrazie, il cui tratto distintivo, al di qua come al di là dell’Atlantico, è il fatto che la maggior parte degli elettori non esclude affatto di cambiare schieramento, né vive come una catastrofe la vittoria dello schieramento avverso: in Francia la vittoria di Sarkozy non è stata un dramma per gli elettori progressisti, negli Stati Uniti la vittoria di Obama non è stata un dramma per gli elettori repubblicani, in Germania la vittoria della Merkel non è stata un dramma per gli elettori socialdemocratici.

Come cittadino sono abbastanza stanco, e persino irritato, di ascoltare continuamente inviti ad «abbassare i toni». Più che abbassare i toni, alziamo la qualità dei candidati, e non ci sarà più bisogno di abbassare alcunché. Candidando Renata Polverini, il Pdl ha già fatto la sua parte. Presto vedremo se anche il Pd vorrà fare la sua.

da lastampa.it
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« Risposta #67 inserito:: Gennaio 13, 2010, 05:30:31 pm »

13/1/2010

Controllori latitanti
   
LUCA RICOLFI


Poco per volta il fumo si dirada. A quasi una settimana dai fatti di Rosarno, le letture più stereotipate, una dopo l’altra, si sciolgono come neve al sole.

Più si raccolgono testimonianze e indizi, più difficile diventa spiegare tutto con la ’ndrangheta, o con il razzismo, o con il coraggio civico anti-mafioso degli africani (abbiamo sentito anche questa).

Quel che è successo a Rosarno è difficile da inquadrare perché i torti e le ragioni sono tremendamente ingarbugliati. Ma anche perché continuiamo a pensare solo ai torti e alle ragioni di due comunità che si sono scontrate violentemente, e non alle responsabilità delle istituzioni che su quelle comunità avrebbero dovuto vigilare. Eppure questo è il nodo centrale. Soprattutto, questa è la dimensione nazionale del problema.

I disordini di Rosarno sono sorti in un contesto peculiare, perché la Calabria è una delle tre regioni ad alta intensità mafiosa (le altre due sono Sicilia e Campania), e anche in questo poco invidiabile ambito ha alcuni record, primo fra tutti quello dell’evasione fiscale. L’economia è assistita, le truffe ai danni della Pubblica Amministrazione e della Comunità europea sono all’ordine del giorno, e i proventi di tali truffe costituiscono una delle fonti di reddito fondamentali (vedi Giuseppe Salvaggiulo ieri su questo giornale).

Nonostante tutte queste peculiarità, c’è nella vicenda di Rosarno almeno un elemento che, purtroppo, ha carattere nazionale. Questo elemento è la latitanza delle istituzioni di fronte a situazioni di illegalità conclamata. E’ vero quel che faceva notare ieri sul Foglio Giuliano Ferrara, e cioè che nelle regioni del Centro-Nord, compreso il Lombardo-Veneto tante volte descritto come leghista, xenofobo e razzista, gli immigrati sono trattati molto meglio che nel Sud, sono relativamente ben integrati e spesso convivono felicemente con gli italiani. E’ però anche vero che in tutte le grandi città del civilissimo Centro-Nord ci sono zone franche, quartieri, piazze, caseggiati in cui il controllo del territorio è della criminalità, comune e organizzata, italiana e straniera: si spaccia, si scippa, si estorce, si maramaldeggia. E nel medesimo civilissimo Centro-Nord prosperano i cantieri edili che reclutano i manovali (stranieri e italiani) con il caporalato, subappaltano i lavori a imprese fantasma, violano le norme previdenziali, ignorano le più elementari regole di sicurezza.

Ora, il punto è che queste situazioni non sono annidate negli anfratti della vita sociale, non sono nicchie invisibili, non sono aghi nel pagliaio. Sono invece situazioni arcinote a tutti, sulle quali cronisti coraggiosi hanno fatto inchieste, spesso fingendosi immigrati, manovali, tossicodipendenti. Situazioni documentate, ripetutamente denunciate da singoli cittadini e da associazioni. Situazioni su cui talora sono stati scritti libri, con racconti spesso drammatici (su Torino, ad esempio, un classico è Non sulle mie scale, di Italo Fontana).

Eppure nulla accade. Le istituzioni, pur sapendo, quasi sempre intervengono solo quando scoppiano disordini, o quando i cittadini esasperati inscenano una protesta, o quando una sparatoria, un’aggressione, un morto sul lavoro segnalano che si è oltrepassato il limite. E quando dico le istituzioni dico tutte le istituzioni: quelle che dipendono dallo Stato (polizia, carabinieri, Inps, ispettori del lavoro), quelle che dipendono dalle Regioni (Asl), quelle che dipendono dagli enti locali (polizia municipale). Insomma la realtà è che il territorio italiano è un colabrodo, in cui non solo è possibile intrufolarsi di nascosto ma è possibile costituire esplicitamente, sfrontatamente, isole extraterritoriali, sottratte al controllo dello Stato o, più sottilmente, cogestite dalla criminalità e dalle istituzioni, in un regime che si potrebbe definire di «sovranità limitata reciproca», in quanto retto da un patto tacito di non intervento: io chiudo un occhio, tu non esageri.

Per questo trovo assurdo, e anche un po’ spudorato, l’attuale scaricabarile fra istituzioni. La destra, che imputa ai governi passati i problemi che non sa risolvere, dimentica che dal 2001 a oggi la sinistra è stata al governo del Paese per soli 20 mesi (tanto è durato il governo Prodi), e che tutte le più importanti norme che regolano e hanno regolato l'immigrazione, a partire dalla cosiddetta Bossi-Fini, hanno il timbro della destra stessa. La sinistra dimentica che i problemi messi in evidenza da Rosarno riguardano anche le istituzioni locali, e che in tutti questi anni il potere amministrativo in Comuni, Province e Regioni è stato più in mano alla sinistra che alla destra.

Forse, anziché accusarsi reciprocamente, sarebbe più utile che destra e sinistra cominciassero a chiedersi come mai, in vent’anni, quale che fosse il colore politico dei governi, le uniche due ricette che le istituzioni sono state in grado di trovare ai problemi della criminalità e dell’immigrazione sono state sempre solo due: piccole e grandi sanatorie per gli stranieri irregolari, piccoli e grandi indulti per i criminali in carcere (italiani e stranieri). Se si facessero questa domanda destra e sinistra comprenderebbero di più perché i cittadini normali, quelli che chiedono innanzitutto di poter vivere in una società decente, sono sempre più rassegnati di fronte all’impotenza dei poteri costituiti. E forse, riflettendo su questo fallimento che le accomuna, troverebbero anche più facilmente quella strada del confronto costruttivo che ogni giorno ripetono di voler percorrere.

da lastampa.it
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« Risposta #68 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:30:29 pm »

14/1/2010 - IL GRADO DI INTEGRAZIONE: LA LEZIONE DEI NUMERI E DEL MODELLO DEL NORD-EST
 
Rafforzare stato e mercato
 
LUCA RICOLFI
 
Giuliano Ferrara lunedì sul Foglio ha posto la domanda giusta: «Mi volete spiegare come mai nell'eterno sud populista, lassista, familista, pauperista succede quello che succede, guerriglia civile, ferocia scatenata, rivolta e controrivolta, infine deportazione forzata dei neri raccoglitori di agrumi da un inferno all'altro? Mentre nel Veneto gretto, piccolo borghese, minimprenditoriale, piastrellaro, razzista, xenofobo, leghista, e in particolare a Treviso dove non comandano i progressisti che hanno letto Giustino Fortunato ma i reazionari che parlano come l'ex sindaco Gentilini; come mai dunque a Treviso decine di migliaia di immigrati sono via via integrati nel sistema dell'economia di mercato, nella società civile dove non ci sono Libera e i don Ciotti e i volontari benemeriti di ogni sorta di assistenza, ma fabbrichette, capannoni, consumatori, esportatorie altra vil razza dannata del capitalismo dei distretti industriali? »

La domanda è giusta non solo perché dopo i fatti di Rosarno sono proprio questi i pensieri che ci ronzano in testa, ma perché quel che scrive Ferrara parlando di un episodio specifico ha una valenza del tutto generale. Un modo semplice di misurare il grado di integrazione degli immigrati è quello di fare il rapporto fra due numeretti: il peso degli studenti stranieri sul totale degli studenti, e il peso dei detenuti stranieri sul totale dei detenuti. Se facciamo questa operazione scopriamo che, da anni, il grado di integrazione nelle regioni del centro-nord è circa il quadruplo di quello delle regioni del Mezzogiorno, che in Veneto è il doppio che in Calabria, e che in Lombardia e nelle regioni rosse è ancorapiù alto che nel Nord-Est.

Come mai?

Per tanti motivi, presumibilmente. Ma il motivo di fondo è che nel centro-nord, oltre a una genuina cultura dell'accoglienza (specialmente forte nelle regioni rosse), convivono due condizioni fondamentali. Tanto mercato e poca assistenza, come giustamente sottolinea Ferrara.Ma anche la precondizione irrinunciabile di un buon funzionamento del mercato: uno Stato menoassente. Senza questa precondizione anche il mercato non può funzionare, e la xenofobia diventa la risposta istintiva alla mancanza di regole.
 
da lastampa.it
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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 19, 2010, 05:05:07 pm »

19/1/2010

Cari bamboccioni impreparati
   
LUCA RICOLFI


La maturità di un ceto politico, così come quella di un individuo, si misura anche dalla capacità di cogliere l’ironia, lo scherzo,
l’umorismo, più in generale di capire in che registro avviene un discorso. La stessa frase, ad esempio «vorrei essere in Antartide con i pinguini», a seconda del tono, del contesto e di chi la pronuncia può significare che mi sto preparando a un viaggio avventuroso ma anche, più banalmente, che i miei commensali sono di una noia mortale.

Purtroppo la capacità di riconoscere e usare i registri è fra le facoltà che stiamo perdendo, come giustamente ci ha ricordato Cesare Segre in un bell’articolo di pochi giorni fa sul «Corriere della Sera». Una conferma di tale perdita ci viene dalle reazioni alla proposta del ministro Brunetta di stabilire «per legge» che a 18 anni i giovani devono lasciare la famiglia. Non è bastato che il ministro stesso, forse consapevole del livello di immaturità del circo mediatico, abbia specificato subito che lo diceva «un po’ scherzando».

Nonostante l’evidente natura paradossale della proposta (una norma dirigista e illiberale proposta da un liberale come Brunetta!), si è immediatamente scatenato il putiferio del dibattito, delle accuse, delle messe a punto, delle prese di distanza. Giornalisti, ministri, parlamentari, dopo una settimana di cronache sul terremoto di Haiti, hanno immediatamente preso la palla al balzo per posizionarsi e criticare Brunetta, credendo o fingendo di credere che davvero il ministro avesse in mente una legge capace di costringere i genitori a espellere di casa i figli al compimento del diciottesimo anno di età. E’ un peccato, perché la provocazione di Brunetta tocca un tema serissimo, su cui vale la pena farci qualche domanda vera. Da molti anni le statistiche ci dicono che in nessun Paese occidentale i figli restano in casa con mamma e papà così a lungo come in Italia. Perché?

Per anni l’interpretazione dominante è stata che le cause sono essenzialmente economiche: poche occasioni di lavoro, mercato degli affitti congelato, proliferazione delle «università sotto casa». Da un po’ di tempo si stanno facendo largo anche letture meno economiciste, che avanzano il sospetto che c’entrino anche il familismo e il deficit di responsabilità individuale tipici della società italiana. Alberto Alesina e Andrea Ichino, ad esempio, in un bel libro appena uscito da Mondadori (L’Italia fatta in casa) ipotizzano che la lunga permanenza in famiglia sia anche il frutto di una scelta, ossia delle preferenze degli italiani. E Lucetta Scaraffia sul Riformista, citando una ricerca dell’Istat, fa notare che quasi metà dei «bamboccioni» restano in famiglia non per necessità, ma perché in casa si trovano fin troppo bene.

C’è un aspetto, tuttavia, che resta quasi sempre in ombra, e che invece a mio parere meriterebbe più attenzione: le scelte scolastiche dei giovani italiani. Fra i molti record negativi dell’Italia c’è anche il fatto che in nessun altro Paese sviluppato sono così tanti i giovani che potremmo definire nullafacenti, nel senso che né lavorano né studiano. Se a questo aggiungiamo il fatto che il numero di giovani che riescono a laurearsi è circa la metà di quello medio europeo, e che ai test PISA sui livelli di apprendimento i risultati dei nostri quindicenni ci collocano agli ultimi posti in Europa, forse riusciamo a vedere un’altra faccia del problema dei bamboccioni. E cioè che il guaio dei giovani italiani non è solo l’attaccamento a mamma e papà, la preferenza per i comodi della vita familiare, il deficit di responsabilità individuale, ma il fatto che la loro preparazione media è così bassa da impedire loro l'accesso a posti di lavoro di qualità. Detto più brutalmente, siamo noi che li stiamo ingannando, è la finta istruzione che forniamo loro a renderli così deboli. Quel che è successo è che da molti anni la scuola e l’università italiane non solo rilasciano pochi diplomi e poche lauree, ma rilasciano titoli formali più alti del livello di istruzione effettivamente raggiunto. La conseguenza è che abbiamo un esercito di giovani che, per il fatto di avere un titolo di studio relativamente elevato (diploma o laurea), aspirano a un posto di lavoro di qualità, ma per il fatto di essere più ignoranti del giusto difficilmente riescono a trovare quello che cercano. Un sistema di istruzione ipocritamente generoso illude i giovani e ne innalza il livello di aspirazione, un mercato del lavoro spietato li riporta alla realtà. Con tre conseguenze empiriche, che le cronache di questi giorni propongono crudamente alla nostra attenzione.

Primo. In un concorso pubblico per vigili urbani nemmeno i laureati riescono a superare decentemente le prove scritte, e quindi nessuno viene ammesso agli orali, e tanto meno assunto (concorso di Grosseto). Secondo. Ancora una volta un genitore si trova condannato dalla magistratura a mantenere figli ultratrentenni che non trovano un lavoro «adeguato» (l’ultimo caso a Bergamo).

Terzo. Nella crisi gli italiani perdono il lavoro (800 mila posti di lavoro in meno in 2 anni) mentre gli immigrati lo guadagnano (400 mila posti di lavoro in più in 2 anni).

Si potrebbe pensare che dipenda solo dal fatto che gli immigrati sono meno istruiti degli italiani, e per questo motivo si accontentano di lavori poco qualificati. Ma non è così, perché il livello di istruzione medio di italiani e stranieri è quasi identico. La differenza è che gli immigrati vogliono innanzitutto lavorare, e per questo accettano posti molto inferiori al loro livello di qualificazione. Mentre gli italiani pretendono di lavorare in posti adeguati alla loro istruzione formale, e raramente si chiedono se c'è una ragionevole corrispondenza con la loro istruzione effettiva.

da lastampa.it
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« Risposta #70 inserito:: Gennaio 29, 2010, 03:55:39 pm »

29/1/2010

I cittatini complici
   
LUCA RICOLFI

Qualche giorno fa, a Favara, in provincia di Agrigento, due sorelline hanno trovato la morte per il crollo di una casa fatiscente.

A Giampilieri nel Messinese, pochi mesi prima, un’alluvione aveva provocato una frana, la distruzione di molte case, 31 morti.
In Abruzzo il terremoto dell’anno scorso ha causato più di 300 morti anche perché troppi edifici, compresi quelli pubblici, erano usati nonostante violassero le più elementari norme di sicurezza. Andando a ritroso con le cronache, di episodi di questo genere ne ritroviamo purtroppo tantissimi, e infatti i giornalisti si sono ormai abituati a classificarli come «tragedie annunciate».

Viste da questa angolatura le vicende di questi giorni non fanno che certificare una situazione purtroppo ben nota.
Una frazione considerevole del nostro territorio è a rischio idrogeologico, una frazione non trascurabile delle nostre abitazioni è abusiva (e spesso a rischio proprio per il luogo in cui è stata edificata), una frazione tutt’altro che piccola dei nostri edifici pubblici - a partire dalle scuole - viene utilizzata nonostante si sappia da anni che mette in pericolo la vita di chi ne usufruisce. Fin qui, è terribile dirlo, niente di nuovo.

E tuttavia, sottotraccia, la cronaca di questi giorni ci fornisce anche qualche chiave interpretativa sul perché nulla cambi, sul perché le tragedie continuino a ripetersi, sul perché non impariamo mai nulla dall’esperienza. Una parte della risposta è tanto ovvia quanto sconfortante: per rimettere in sesto il nostro territorio - case, edifici pubblici, fiumi - ci vorrebbero somme enormi (Bertolaso qualche mese fa azzardò: 25 miliardi), risorse che semplicemente non ci sono. Ma una parte della risposta è più inquietante: se nulla cambia è anche colpa nostra, delle nostre scelte e delle nostre cecità. E quando dico «nostra» intendo sia dei cittadini sia dei politici che li governano. Per capire perché basta riflettere su due fatti, entrambi balzati alle cronache in queste ore. Il primo è la ribellione di una parte degli abitanti di Ischia contro l’ordine di abbattimento di una casa abusiva e a quanto pare anch’essa a rischio. Il secondo è l’analisi del bilancio del Comune di Favara (dove il crollo di una casa ha appena fatto due vittime).

Ebbene la rivolta degli abitanti di Ischia (dove le case a rischio demolizione sono parecchie centinaia) illustra nel modo più chiaro che una parte del problema deriva dal patto tacito che lega cittadini e amministrazioni locali: la disponibilità dei politici a «chiudere un occhio », a concedere deroghe, proroghe e condoni da sempre si tramuta miracolosamente in voti. E’ anche per questo che, dopo le disgrazie, tutti invocano rigore, ma appena lo Stato, timidamente, prova a far rispettare le leggi, in tanti si ribellano, protestano, remano contro, chiedono condoni, eccezioni e sanatorie. Quanto al bilancio di Favara, dove mancano i soldi per le bollette della luce ma non per le spese di rappresentanza, esso è solo la punta dell’iceberg. Innumerevoli inchieste mostrano che è la Sicilia nel suo insieme, naturalmente con le dovute eccezioni, a fare un uso dissennato del denaro pubblico (vedi il servizio di Laura Anello). E i risultati delle inchieste sono, purtroppo, pienamente confermati dalle stime macroeconomiche. Il peso della spesa pubblica discrezionale rispetto al reddito prodotto, che è del 15% in Lombardia, tocca il livello record del 45% in Sicilia (più che in qualsiasi altra Regione), il tasso di spreco nell’erogazione dei servizi pubblici, che in Regioni come la Lombardia, il Veneto o l’Emilia Romagna non raggiunge il 10%, in Sicilia si aggira intorno al 50% (e così in Calabria, Basilicata e Sardegna). In concreto significa che si potrebbe spendere molto di meno, perché i medesimi servizi potrebbero essere prodotti con la metà dei quattrini che si impiegano oggi.

In breve, a me pare che le cronache di questi giorni ci consegnino anche una lezione. Con 1800 miliardi di debito pubblico è impensabile che lo Stato trovi, d'un tratto, i soldi per la messa in sicurezza dell’Italia. Qualcosa lo Stato centrale può fare (e in parte sta già facendo, nel caso degli edifici scolastici), ma molto dipende anche da noi, dove «noi» significa noi cittadini, ma significa anche i nostri politici, soprattutto locali. Noi dovremmo smetterla di fare i rigoristi quando gli oneri (ad esempio una demolizione) toccano agli altri, salvo diventare anarchici quando toccano a noi. Ma i politici che dissipano il denaro pubblico dovrebbero rendersi conto che la festa è finita. Qualsiasi cosa si voglia fare - e rimettere in sesto il territorio è certamente una delle cose da fare - le cosiddette risorse, cioè i quattrini, potranno saltare fuori solo ristrutturando radicalmente la spesa pubblica discrezionale, ossia riducendo gli sprechi. Secondo una stima prudente gli sprechi nella Pubblica Amministrazione ammontano a 80 miliardi di euro l’anno: basterebbe recuperarne un quarto per fare molte delle cose che periodicamente invochiamo.

da lastampa.it
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« Risposta #71 inserito:: Febbraio 03, 2010, 09:27:58 am »

3/2/2010

No alla guerra santa del nord
   
LUCA RICOLFI


Quando ho iniziato a ricostruire gli squilibri fra le regioni italiane, a raccogliere le cifre per il mio libro, non mi aspettavo un risultato così clamoroso: 50,6 miliardi all’anno è una cifra grossa, è l'equivalente di due o tre finanziarie.

Eppure è questo l'ordine di grandezza del flusso di risorse che, silenziosamente, ogni anno lascia le regioni del Nord e si dirige prevalentemente verso il Sud e il Lazio.

Di questi 50 miliardi, 20 sono dovuti al fatto che il resto del Paese è meno efficiente nell’erogazione dei servizi pubblici; 18 sono dovuti al fatto che il resto del Paese si permette una maggiore evasione; e 12 sono dovuti al fatto che nel resto del Paese la spesa pubblica discrezionale è eccessiva. La somma di queste tre voci fa, appunto, 50 miliardi di euro all’anno, che il Nord potrebbe recuperare se ci fosse un po’ più di giustizia territoriale. Scoprire tutto questo è stato uno choc anche per me, se non altro perché il calcolo che conduce a questa cifra non è stato condotto ipotizzando un federalismo fiscale spinto, o radicale, o egoista, bensì immaginando il più solidarista fra gli infiniti federalismi possibili. Se avessi assunto un modello di federalismo poco o per niente solidarista il credito del Nord sarebbe risultato ancora maggiore, circa 80 miliardi all'anno.

E tuttavia attenzione. Ricostruendo i conti di ogni regione italiana, e facendolo separatamente per l'evasione fiscale, il parassitismo, gli sprechi nella pubblica amministrazione, non si scopre semplicemente che esiste una enorme ingiustizia nell’allocazione territoriale delle risorse, una ingiustizia che penalizza il Nord e avvantaggia (soprattutto) il Sud, ma si scopre che esistono altre linee di frattura, diverse da quella Nord-Sud, e che Nord e Sud non sono affatto omogenei al loro interno.

Le regioni autonome, ad esempio, sono meno virtuose delle regioni limitrofe a statuto ordinario, sia al Nord sia al Sud. Ciò vale in modo particolare per Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige al Nord, per Sardegna e Sicilia al Sud. Ci sono poi le differenze interne alle due grandi aree del Paese, il Centro-Nord e il Sud. Il Centro-Nord ha le sue regioni relativamente viziose, come Liguria, Umbria e Lazio. E il Sud ha le sue regioni relativamente virtuose, come la Puglia e l'Abruzzo. Per non parlare delle differenze dentro le singole regioni, che emergono quando si hanno dati a livello provinciale o comunale: nella Campania sommersa dai rifiuti c'è anche Salerno, il comune capoluogo più virtuoso in materia di raccolta differenziata.

Tutto questo non cancella lo squilibrio Nord-Sud, che resta enorme e certamente va attenuato, sia pure con saggezza e gradualità. Però ci mostra un lato importante del problema politico del federalismo: se vuole far strada, il federalismo non può fondarsi sul patriottismo efficientista del Nord, chiamato a una sorta di guerra santa contro il Sud sprecone. E questo non tanto e non solo perché il patriottismo del Nord provocherebbe una reazione uguale e contraria del Sud, con la nascita di un contro-patriottismo conservatore e corporativo (il «partito del Sud», di cui ogni tanto si sente parlare). Ma perché, se l'obiettivo è ristabilire un po’ di giustizia territoriale, allora non possiamo ignorare che alcuni territori del Nord hanno ancora molta strada da fare, e alcuni territori del Sud ne hanno già fatta una parte. Insomma, è vero che il grosso dell'aggiustamento che dovremo mettere in atto corre lungo la frattura Nord-Sud, ma non si può ignorare che una parte non trascurabile di esso taglia trasversalmente sia il Nord sia il Sud.

Visto da questa angolatura il problema dei prossimi anni non è di spostare direttamente, con atto d’imperio, risorse economiche da Sud a Nord, ma è di costruire un sistema di premi e punizioni che renda conveniente per tutti diventare più efficienti, più parsimoniosi, più rispettosi dei doveri fiscali. L'amministratore che razionalizza la spesa ospedaliera, investe nella raccolta differenziata, combatte il lavoro nero, non può essere trattato come quello che sperpera il denaro pubblico. I codici etici e gli inviti alla moralità servono a ben poco: quel che ci vuole - perché può funzionare - è un meccanismo che renda politicamente remunerative le virtù pubbliche. Ci vuole una sfida dello Stato centrale agli amministratori locali, una sfida che li costringa a giocare un nuovo gioco: il gioco della modernizzazione del Paese.

Se la politica saprà fare questo non ci sarà nessuna spaccatura Nord-Sud, e vedremo nuove alleanze, convergenze inedite, come è capitato a me qualche giorno fa in un dibattito radiofonico con il sindaco di Verona Flavio Tosi e il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca. Uno della Lega, l'altro del partito democratico, uno del Nord, l'altro del Sud, non solo non litigavano fra loro, ma erano d'accordo su tutto. E sapete perché?

Perché entrambi avevano accettato la sfida, entrambi stavano già provando a giocare il nuovo gioco.

da lastampa.it
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« Risposta #72 inserito:: Febbraio 18, 2010, 02:56:16 pm »

18/2/2010

L'abisso morale del Paese
   
LUCA RICOLFI

Non sono giorni allegri quelli che stiamo vivendo. Prima arresti e denunce di uomini politici, di destra e di sinistra, per episodi di corruzione e malgoverno. Poi il crollo del mito Bertolaso, travolto dallo scandalo della Protezione civile. Infine, giusto ieri - 18° anniversario di Mani Pulite - la Corte dei conti rivela l'esplosione, fra il 2008 e il 2009, delle denunce per fatti di corruzione, concussione, abuso d'ufficio.

Qualcuno si comincia a chiedere se non siamo per caso di fronte a una Tangentopoli 2, un nuovo tsunami giudiziario destinato a travolgere la politica come nel 1992.

In questa situazione la tentazione di prendersela con il ceto politico e contrapporgli le virtù della società civile è molto forte, e ha fatto bene Ernesto Galli della Loggia ieri a ricordarci, dalle colonne del Corriere della Sera, che è la società italiana a essere marcia. Non solo perché per certi reati, come la corruzione e la concussione, bisogna essere in due, il politico e l'imprenditore, ed è quindi puerile addossare tutte le colpe a uno soltanto dei «mariuoli», come li chiamava Craxi. Ma perché sono innumerevoli i settori della vita sociale in cui le più elementari regole del vivere civile - non evadere le tasse, promuovere i migliori - sono sistematicamente violate senza che la politica c'entri minimamente. Il professore che trucca un concorso, il commerciante che non emette lo scontrino, l'imprenditore che fa lavorare in nero i suoi operai non sono vittime della politica ma, semmai, beneficiari della sua assenza.

E tuttavia, se vogliamo che qualcosa cambi, non possiamo limitarci a guardare con costernazione all'abisso morale in cui è precipitata la vita del nostro Paese. Non possiamo continuare a contare soltanto su un sussulto delle coscienze, su un moto di indignazione, su una rigenerazione dello spirito civico troppe volte invocata e sempre mancata. Forse dobbiamo cominciare anche, più prosaicamente, a ragionare in termini di vincoli e di incentivi, come fanno (giustamente) gli economisti. Pensare che il problema si riduca a scegliere bene i candidati, a selezionare le persone giuste, a cacciare i disonesti, a mio parere è un po’ ingenuo (chi garantisce che l'allenatore scelga i giocatori giusti? e chi è l'allenatore?). Ben più importante sarebbe chiedersi quali sono i meccanismi che con tanta e crescente frequenza generano i comportamenti di cui l'opinione pubblica è ciclicamente chiamata a scandalizzarsi. Perché se identifichiamo i meccanismi possiamo provare a cambiarli. E un politico che ha la convenienza ad amministrare bene dà più garanzie di un politico che ostenta o promette moralità.

Per quel che riesco a capire, direi che questi meccanismi sono almeno tre. Il primo, ben descritto da Cesare Salvi e Massimo Villone in un loro libro di qualche anno fa (Il costo della democrazia, Mondadori 2005), è il complesso di norme e di strumenti con cui, dopo Tangentopoli, i politici - anziché riformare la politica - si sono assicurati la possibilità di continuare a rubare e sistemare clienti, spesso in perfetta legalità. Ad esempio le cosiddette «società miste», perlopiù figlie delle vecchie aziende municipalizzate, che per molti politici sono diventate un vero e proprio «personal business» (cito Cesare Salvi), terreni di caccia privilegiati in cui essi possono spartirsi poltrone, gettoni, assunzioni, commesse.

Il secondo meccanismo è la rinuncia, prima da parte del governo Prodi, poi da parte del governo Berlusconi, a varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, basata su gare trasparenti e aperte anziché su affidamenti a trattativa privata (ricordate la fine ingloriosa del disegno di legge Lanzillotta, vanificato dal governo di centro-sinistra di cui essa stessa faceva parte? e gli interventi della Lega per annacquare la riforma dei servizi pubblici locali del centro-destra?).

Ma forse il meccanismo più importante è un altro ancora: la crescita costante, inesorabile, dell'interposizione pubblica, ossia dell'attività di intermediazione dello Stato e degli Enti territoriali (Regioni, Province, Comuni), che giusto nell'anno appena trascorso ha toccato il massimo storico, con un'accelerazione senza precedenti (sarà anche per questo che, proprio nel 2009, sono esplose le denunce di corruzione, concussione, abuso d'ufficio?). Questo meccanismo è il più importante non solo perché sono ormai molti milioni - e crescono ogni anno di numero - gli italiani le cui opportunità di guadagno e carriera dipendono pesantemente da decisioni discrezionali di funzionari, dirigenti e amministratori pubblici, ma perché è questo il vero costo che la politica, spesso con la piena ed entusiastica complicità dei cittadini, impone al sistema Italia. Una stima prudente degli sprechi nella Pubblica Amministrazione - sanità, scuola, università, giustizia, burocrazia, assistenza (falsi invalidi) - suggerisce che essi siano pari ad almeno 80 miliardi di euro l'anno, qualcosa come cinque o sei Finanziarie. E tutto fa pensare che una frazione molto consistente di questa enorme voragine sia prodotta, più che dall'ampiezza dell'interposizione pubblica (un flusso di 1500 miliardi l'anno, fra entrate ed uscite), dal fatto che troppe decisioni di spesa non sono governate da regole automatiche e meccanismi trasparenti, bensì da tortuosi processi nei quali il negoziato, l'influenza personale, i rapporti di conoscenza diventano le variabili decisive.

E' stato valutato che i costi diretti della politica, fra eletti, portaborse e consulenti, si aggirino intorno ai 4-5 miliardi l'anno: tanti, certamente, ma una goccia nel mare degli sprechi che la discrezionalità della politica produce ogni anno in tutti i campi in cui ha un ruolo decisivo. E' questo mare che dovremmo innanzitutto cercare di prosciugare. E per prosciugarlo, forse, creare regole e incentivi funzionanti può essere più importante che esortare il mondo politico a ritrovare la moralità perduta, ammesso che ne abbia mai avuta una.

da lastampa.it
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« Risposta #73 inserito:: Febbraio 25, 2010, 09:35:16 am »

25/2/2010

Intercettare a patto di razionalizzare
   
LUCA RICOLFI

Ci risiamo. Ogni volta che, sui giornali o in tv, escono spezzoni di intercettazioni scottanti, il riflesso condizionato è sempre quello: la politica dissotterra uno dei molti disegni di legge per «limitare» le intercettazioni, i magistrati e una parte dell’opinione pubblica si ribellano, i giornalisti entrano in fibrillazione perché temono di perdere uno degli ingredienti più croccanti del loro lavoro.

A rigore, il problema è semplicemente insolubile. Nessuna disciplina delle intercettazioni, infatti, può tutelare, contemporaneamente, i tre diritti che sono in gioco: quello alla privacy, quello alla sicurezza, quello all'informazione. Si tratta dunque di scegliere, o meglio di trovare un compromesso il più ragionevole possibile fra i tre diritti.

Prima di scegliere, tuttavia, varrebbe forse la pena fare i conti con alcuni dati di fatto. La storia recente delle intercettazioni, innanzitutto. Nel 2001 i bersagli intercettati erano 32.000, da allora il loro numero è aumentato sempre, a un ritmo medio del 23% all’anno. Così in 7 anni, dal 2001 al 2008, sono più che quadruplicati. Forse le intercettazioni sono davvero troppe, a meno di pensare che le esigenze investigative siano anch'esse più che quadruplicate in soli 7 anni. Un secondo dato su cui riflettere è la distribuzione territoriale delle intercettazioni. Comunque la si misuri, la densità delle intercettazioni ha una enorme variabilità territoriale: come è possibile che in un distretto di corte d'appello il rapporto fra bersagli intercettati e procedimenti penali sia 15 volte più alto che in un altro? Possibile che le esigenze investigative siano così diverse da un posto all'altro?

C'è infine l'atteggiamento dell'opinione pubblica. Due sere fa, a Ballarò, Nando Pagnoncelli (presidente della società di sondaggi Ipsos), ha presentato dei risultati molto chiari: la maggioranza degli italiani non vuole che si limiti il potere dei magistrati di ricorrere alle intercettazioni, ma nello stesso tempo è favorevole a limitare la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali. A quanto pare gli italiani danno molta importanza alla sicurezza (le intercettazioni non si toccano perché servono a scoprire i colpevoli) ma, quanto alla privacy, pensano che il mezzo più efficace per tutelare la privacy stessa non sia ridurre le intercettazioni, bensì mettere dei paletti alla pubblicazione del loro contenuto sui giornali, in particolare quando coinvolgono persone che non c’entrano.

Tenuto conto di tutto ciò, mi sentirei di proporre una semplice soluzione. La politica si astiene dal modificare i criteri di autorizzazione (tipi di reati, gravità degli indizi) e lascia le cose esattamente come stanno quanto alla definizione del quando si può intercettare e quando no. Nello stesso tempo, però, la politica si prende il diritto di riportare gradualmente il numero totale delle intercettazioni a un livello più ragionevole di quello di oggi (per esempio al livello del 2005, in cui i bersagli intercettati erano poco più di 100 mila, contro i quasi 140 mila attuali).

Come? È semplice: fissando uno stock di intercettazioni nazionale, e affidando al Consiglio superiore della magistratura o a un organismo indipendente il compito di ripartire tale stock fra i 29 distretti giudiziari, in funzione del numero e del tipo di reati tipici di ciascuno di essi. Questa semplice misura, come qualsiasi misura di «razionamento», avrebbe automaticamente effetti di razionalizzazione, perché, in presenza di uno stock limitato di bersagli intercettabili, le procure avrebbero tutto l’interesse a non mettere a repentaglio il proprio potenziale investigativo futuro con autorizzazioni concesse in casi in cui non sono strettamente necessarie. In questo modo la politica garantirebbe ai cittadini una maggiore privacy, grazie alla possibilità di fissare un tetto al numero annuo di intercettazioni. La magistratura, a sua volta, vedrebbe pienamente tutelata la propria autonomia perché manterrebbe il pieno controllo sulla allocazione territoriale della «risorsa scarsa» intercettazioni.

E noi cittadini?

Quanto a noi, forse potremmo prendere sul serio il parere della maggioranza degli italiani, chiaramente espresso nel sondaggio Ipsos. Che la politica metta i bastoni fra le ruote delle procure, restringendo i casi in cui si può intercettare, non ci va, tanto più dopo tutto il marcio che è emerso in queste ultime settimane. Però un po' di prudenza sui giornali non ci dispiacerebbe affatto, e non ci sembrerebbe di per sé una limitazione del nostro sacrosanto diritto di essere informati. I processi sui quotidiani e in tv, condotti con spezzoni di frasi e arditi teoremi di innumerevoli tenenti Colombo improvvisati, non sono vera informazione - scrupolosa, onesta, leale - ma rumore giudiziario, polverone mediatico, inquinamento delle nostre menti.

Certo, vogliamo essere informati, leggere le intercettazioni, capire che cosa è successo, ma non in questo modo, che distrugge la vita di tante persone senza dare a noi nessuna certezza, né politica, né giudiziaria, né umana. Insomma, vogliamo sapere, anche nei dettagli, ma possiamo aspettare un po’. Se una legge votata dal Parlamento dirà che i giornali possono pubblicare quello che vogliono, ma solo dopo una certa fase del procedimento penale (ad esempio l'inizio del dibattimento), ce ne faremo una ragione. L'importante è apprendere la verità, tutta la verità (compresi i testi delle intercettazioni, purché non coinvolgano soggetti estranei al processo), in un tempo ragionevole. Sapere prima, o meglio illudersi di sapere prima, non soddisfa il nostro diritto a essere informati, ma solo la nostra impazienza.

da lastampa.it
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« Risposta #74 inserito:: Marzo 05, 2010, 10:17:58 am »

5/3/2010

Intercettazioni e proposte mai fatte
   
LUCA RICOLFI

Caro Direttore, circa una settimana fa ho scritto su La Stampa un pezzo sulle intercettazioni, nel quale facevo due proposte:

a) Razionare il numero delle intercettazioni, affidando al Consiglio Superiore della Magistratura o ad altro organismo la loro allocazione (attualmente del tutto squilibrata) fra i 29 distretti giudiziari; a titolo di esempio suggerivo che potrebbero essere portate gradualmente a 100 mila (dalle 140 mila del 2008, contro le 32 mila del 2001);

b) Consentire ai giornali di pubblicarle, ma solo se depurate dei riferimenti a soggetti che non c’entrano, e soprattutto solo a partire da un certo stadio dell’azione penale (ad esempio: dall’inizio del dibattimento).


Pochi giorni dopo, leggendo l'editoriale della domenica di Scalfari, vedo che mi critica severamente (fin qui tutto ok) ma attribuendomi due proposte che non ho mai fatto:

a)«Creare un apposito organo di regolamentazione autonomo rispetto alla magistratura e cogente verso i giornali»;

b)«Consentire ai giornali l’accesso alle fonti in fase istruttoria e riferirne “a rotazione periodica" tra le varie testate».

Lì per lì ho pensato che qualche giornalista o commentatore avesse effettivamente fatto queste due proposte, e che Scalfari, per errore o distrazione, le avesse attribuite a me. Ho pensato questo perché sono abituato ad assumere che il mio interlocutore:
1) padroneggi la lingua italiana;
2) non sia in mala fede.

Poi ho controllato su Internet, e non v'è traccia delle due proposte che Scalfari attribuisce a me. Nessuno pare averle fatte. Quindi Scalfari parlava proprio di me. Che cosa devo pensare?

Giustamente Scalfari considera «barocca» la prima proposta, «ridicola» la seconda: il punto però è che io non le ho mai fatte. E nota: non si può dire che Scalfari forzi o deformi il mio pensiero. Lui inventa di sana pianta, addirittura riportando fra virgolette un’espressione che non ho mai usato: «A rotazione periodica».

La sua conclusione è che il potere ha corrotto il mio cervello. Sono senza parole. E’ questa la professione giornalistica?
Perché i lettori di Repubblica, che spesso leggono solo Repubblica, devono pensare che io sia così sprovveduto?

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