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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108308 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Aprile 20, 2009, 04:44:18 pm »

20/4/2009
 
Sinistra, paura di un vero leader
 

LUCA RICOLFI
 
Ci sono idee che non vanno mai via. E infatti le chiamiamo «fisse». Ne abbiamo un po’ tutti nella vita di ogni giorno, e ci prendiamo anche un po’ in giro quando le scopriamo negli altri: Alberto ha la fissa delle vacanze intelligenti, Peppino mangia spaghetti anche in Burundi, Loredana ha l’ossessione dei pipistrelli che ti si attaccano ai capelli (fa anche rima). Ultimamente, però, mi sono accorto che le idee fisse, o fissazioni, ci sono anche nei cieli della politica. Non parlo delle fissazioni ovvie, cioè quelle ossessioni che le forze politiche alimentano consapevolmente, per darsi un’identità o per fare proseliti.

Quelle ci sono sempre state, e rientrano perlopiù nella vasta categoria della «costruzione del nemico»: i comunisti, gli immigrati, gli islamici, gli ebrei e, naturalmente, Berlusconi, il nemico per eccellenza. No, le fissazioni di cui parlo io sono più sottili, sono idee, convinzioni, credenze che - chissà perché - sono diventate inamovibili, inespugnabili, scontate come lo sono i riflessi condizionati, irrinunciabili come lo sono i pilastri della nostra identità.

Che ci siano convinzioni inossidabili me lo ha fatto capire Enrico Letta qualche giorno fa, con un bell’articolo uscito su questo giornale. Di fronte all’osservazione che la sinistra non ha né un leader capace di mettere d’accordo le sue mille anime, né un metodo per dirimere le controversie, Enrico Letta su un punto solo non pare attraversato da dubbi: Berlusconi è un unicum irripetibile, ed è illusorio sperare di costruire una «alternativa vincente» a Berlusconi sul terreno della leadership. Per Letta «l’operazione alternativa non potrà che giocarsi su un campo differente dal suo», perché «sul suo vincerà sempre lui».

Non sono un politico e non so se Letta abbia ragione. Mi incuriosisce molto, però, questo rifiuto a priori dell’idea di un leader come cemento di un’alleanza. È anni che sento ripetere, in pubblico e nelle conversazioni private, che la pluralità della leadership è una risorsa della sinistra, che l’assenza di un capo è una virtù, che la discussione aperta e «franca» è una forza della cultura progressista. E mi sovviene quel che diceva Montanelli nel 2001, per spiegare ai suoi lettori come mai lui, uomo culturalmente di destra, avrebbe votato per il centro-sinistra, allora guidato da Rutelli: «Naturalmente la mia scelta è più che discutibile perché l’esercito di Rutelli è una brancaleonesca accozzaglia di forze (si fa per dire) impegnate a combattersi tra loro, come sempre è avvenuto nel campo delle Sinistre, senza che mai riuscissero a darsi un capo e un programma. Mentre quelle della destra, il Polo, sono molto più compatte, come lo erano, ai loro tempi, quelle fasciste e naziste. [...]

Sicché l’Italia si trova di fronte alla solita eterna scelta: una Destra che regolarmente finisce per elevare a oggetto di culto il manganello, e una Sinistra con la vocazione del bordello. [...]

«Ora, nella mia lunga vita, io ho già fatto esperienza di entrambe le cose. Da ragazzo ho visto volteggiare molti manganelli, e ne ho conservato un ricordo ispirato al disgusto. Poi sono stato un buon frequentatore di bordelli, e ne ho conservato un ricordo ispirato al rimpianto. Ecco il motivo della mia attuale scelta. Questa sinistra (con i suoi gaglioffi alla Bertinotti), non mi fa nessuna paura: non tanto perché è destinata alla sconfitta, quanto perché, anche se arriva al cosiddetto Potere, non riesce a usarlo. La Destra, se ci arriva, ha in mano tutti gli strumenti per restarci. E che volto abbia la destra italiana, che ha perfino il coraggio di proclamarsi “liberale”, lo abbiamo ben visto in questi ultimi giorni. No, meglio - cioè meno peggio - il bordello».

Ebbene, capisco più Montanelli che Letta. Montanelli parteggiava per il «bordello» della sinistra perché gli sembrava la garanzia che la sinistra stessa, a differenza della destra attratta dal «manganello», non sarebbe stata in grado di mettere in atto le idee bacate di cui era portatrice, una certezza che a Montanelli derivava dagli ultimi cinque anni di governo, rassicuranti proprio per la loro inconcludenza (un programma largamente disatteso, 4 governi in 5 anni). Ma i politici di sinistra che si dicono riformisti possono accontentarsi delle ragioni di Montanelli? Chi pensa che l’Italia debba essere modernizzata, che abbia bisogno come il pane di riforme liberali, può consolarsi pensando che avere tanti leader in competizione reciproca ci vaccina contro il rischio di una dittatura? Se un leader che faccia il leader non è la soluzione, qual è lo strumento che ne fa le funzioni? Ma soprattutto: da dove viene questa fobia per la figura del leader? Perché Blair e Obama vanno bene, ma da noi - in Italia - un leader non ci può essere, e quando prova a esserci viene rapidamente logorato e sostituito? Perché la destra può avere un leader nonostante l’ombra di Hitler e Mussolini, e la sinistra che ne ha sempre avuti - da Stalin a Togliatti a Berlinguer - ora lo teme come la peste?

Può darsi che mi sbagli, ma la mia impressione è che la repulsa della cultura di sinistra per il leader abbia una radice profondissima e tragica. Questa radice si chiama, nel lessico marxista, falsa coscienza. I politici sono, come è naturale, guidati quasi sempre e innanzitutto dal loro interesse egoistico, che è quello di fare carriera, gestire potere, ottenere benefici privati, in denaro e in natura. A differenza di quelli di destra, però, i politici di sinistra non cessano di raccontare a se stessi e agli altri la fiaba secondo cui il loro impegno è disinteressato, volto a perseguire il bene comune: se occupano poltrone lo fanno solo per «spirito di servizio» (o perché il partito chiama, come ha detto Cofferati per giustificare la sua aspirazione a un seggio al Parlamento europeo). Questa idea eroica di se stessi non è particolarmente deplorevole (dopo tutto l’autoindulgenza è uno dei tratti umani più comuni), però ha conseguenze logiche pericolose. Una di esse è di far sì che coloro che la professano, anche quando si accapigliano per i posti, si sentano portatori di «valori non negoziabili», rappresentanti unici del bene pubblico, naturalmente inteso in una decina di accezioni diverse, da quella di Bertinotti a quella di Prodi, da quella di Pecoraro Scanio a quella di Di Pietro, da quella di Pannella a quella della Binetti. E allora si capisce perfettamente perché non ci può essere un capo: se nessuno si sente, prosaicamente e semplicemente, rappresentante di determinati interessi, ma tutti quanti si sentono, poeticamente e grandiosamente, portatori di altissimi principi, è logico che non abbiano alcuna intenzione di tradire la propria fede, di venire a patti con le tante eresie di cui è fatta la storia della sinistra. Ve li vedete voi il Papa, il patriarca russo, gli ayatollah, i rabbini, gli innumerevoli rappresentanti delle altrettanto innumerevoli religioni di questa terra cedere il loro potere oligopolistico sulla definizione del «bene», di ciò che è buono e giusto, in favore di un potere monopolistico superiore, un capo di tutte le religioni incaricato di dirimere le controversie?

Insomma, la mia sensazione è che la fobia della sinistra italiana per la figura del capo in quanto tale non sia figlia soltanto della naturale avversione per la gerarchia, ma anche del suo arcaismo, del suo sentirsi ancora depositaria di valori assoluti e irriducibili, mentre è invece soprattutto ceto politico portatore di interessi personali e di gruppo, ormai incapace di ricondurli a quella che Norberto Bobbio considerava l’unica vera stella polare della sua storia: l’idea di uguaglianza. Un male in certo modo speculare a quello della destra, in cui gli ideali - che pure non mancano - lasciano fin troppo facilmente il posto al negoziato sugli interessi, come la vicenda della Bossi-tax (soldi pubblici per interessi di partito) sta illustrando giusto in questi giorni.

Montanelli diceva che la scelta era Tra manganello e bordello. Oggi, forse, constaterebbe che la scelta è diventata tra commercio e fede: una destra fin troppo capace di mediare tra interessi pur di restare al potere, e una sinistra anch’essa attentissima agli interessi ma così poco capace di mediare tra fedi inconciliabili da rischiare perennemente di perderlo, il potere. O, ancor peggio, di non saperlo usare nei rari momenti in cui ce l’ha.
 
da lastampa.it
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« Risposta #46 inserito:: Maggio 12, 2009, 04:20:06 pm »

12/5/2009

La sinistra degli snob
   
LUCA RICOLFI


Respingimento. Su questa parola altamente evocativa gli animi si stanno dividendo. Da una parte il ministro dell’Interno Maroni e la Lega, orgogliosi che l’Italia sia riuscita - per la prima volta - a impedire a diverse imbarcazioni cariche di migranti di raggiungere illegalmente le nostre coste. Dall’altra la Chiesa, le organizzazioni umanitarie e ieri anche il Consiglio d’Europa.

Preoccupati che fra i migranti vi possano essere persone che, una volta sbarcate in Italia, avrebbero chiesto e ottenuto asilo politico. In mezzo, su posizioni leggermente meno estreme, si collocano i nostri due maggiori partiti, il Popolo della libertà e il Partito democratico, il primo tentato di inseguire la Lega (nonostante i distinguo di Fini), il secondo tentato di inseguire la Chiesa (nonostante i distinguo di Fassino).

Che i partiti di governo, nonostante qualche timido mugugno, plaudano all’azione del ministro dell’Interno è del tutto naturale. La sicurezza è uno dei punti chiave del programma del centro-destra, e sarebbe strano che il «respingimento» dei barconi nei porti di partenza non fosse salutato con un sospiro di sollievo. Quel che a me pare invece meno scontato è l’accanimento con cui il Pd e il suo neosegretario da tempo combattono qualsiasi idea venga partorita dal ministro Maroni. Non solo non mi pare né ovvio né normale, ma mi pare estremamente interessante, per non dire rivelatorio. L’ostinazione con cui la sinistra respinge al mittente qualsiasi proposta concreta in materia di sicurezza, senza essere minimamente sfiorata dal dubbio di aver torto, ci fornisce una preziosa radiografia dei suoi mali.

L’astrattezza, prima di tutto. Astrattezza vuol dire non voler vedere la dimensione pratica, concreta, materiale di un problema. Se non fossero ammalati di astrattezza i dirigenti del Pd capirebbero che il problema dell’Italia è che attira criminalità e manodopera clandestina più degli altri Paesi perché non è in grado di far rispettare le sue leggi, e che l’unico modo di scoraggiare l’immigrazione irregolare è di convincere chi desidera entrare in Italia che può farlo solo attraverso le vie legali. A questo serve il «respingimento», ma a questo serviva anche la norma che prolunga da 2 a 6 mesi la permanenza nei centri di raccolta degli immigrati (i vecchi Cpt, ora ridenominati Cie), una norma necessaria ma ottusamente combattuta dall’opposizione. Senza il respingimento (in mare) i trafficanti di immigrati continuerebbero a scaricarli sulle nostre coste, senza il prolungamento dei tempi di permanenza (nei Cie) l’identificazione sarebbe perlopiù impossibile, e continuerebbe la prassi attuale, per cui il clandestino viene trattenuto qualche settimana e poi rimesso in circolazione senza possibilità di riaccompagnarlo in patria. Io capisco che si possano avere seri dubbi sulle cosiddette ronde, o sui medici-spia (denuncia dei malati clandestini) o sui presidi-spia (denuncia dei genitori clandestini di bambini accolti nelle nostre scuole), e io stesso ne ho molti. Ma non capisco il rifiuto pregiudiziale di provvedimenti di puro buon senso, la cui unica funzione è di ristabilire quello che tutti i governi degli ultimi vent’anni avevano sbriciolato, ossia un minimo di deterrenza. Tra l’altro questo è uno dei pochi punti fermi degli studi sulla lotta al crimine: minacciare pene più severe serve pochissimo, quel che serve è rendere credibile la minaccia.

Ma non c’è solo astrattezza, c’è anche molta presunzione, per non dire molto snobismo. Lo sa il segretario del Pd che la maggior parte degli italiani approva l’azione del ministro Maroni?

Sì, probabilmente lo sa, ma si racconta la solita fiaba autoconsolatoria. Gli italiani non sono quelli di una volta, Berlusconi li ha rovinati, la Lega li ha incattiviti, noi politici illuminati non possiamo farci guidare dai sondaggi, noi dobbiamo riforgiare le coscienze, corrotte e intorpidite da vent’anni di berlusconismo. E’ la solita storia: «alla sinistra non piacciono gli italiani», come scrisse fulmineamente Giovanni Belardelli quindici anni fa, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto, sconfitta e umiliata, non si capacitava che un rozzo imprenditore lombardo avesse potuto sconfiggere una classe politica colta e raffinata qual era quella del vecchio Pci.

E qui si arriva all’ultimo e più grave male della sinistra, la sua distanza dai problemi delle persone normali, specie se di modeste origini o di modesta cultura. Quando si parla di criminalità, di sicurezza, di immigrazione clandestina, nella gente c’è certamente anche molto cattivismo gratuito, molta insofferenza, molta intolleranza. Ma una forza politica dovrebbe sapere che i cattivi sentimenti non vengono dal nulla, e quelli buoni hanno talora origini imbarazzanti. L’insofferenza verso gli immigrati è più forte nei ceti popolari perché è nei quartieri degradati che la sicurezza è un problema grave; ed è innanzitutto per chi non ha grandi risorse economiche che la concorrenza degli stranieri per il posto di lavoro e per servizi pubblici può diventare un problema serio. L’apertura verso gli stranieri, il sentimento di solidarietà, l’attitudine a tutti accogliere albergano invece in quelli che lo storico inglese Paul Ginsborg ha battezzato i «ceti medi riflessivi», e raggiungono l’apice fra gli intellettuali, dove - soddisfatti i bisogni primari - ci si può dedicare all’arredamento della propria anima: chi ha un lavoro gratificante e un buon reddito, chi può permettersi di vivere nei quartieri migliori di una città, chi non deve combattere per un posto all’asilo o per una prenotazione in ospedale, può coltivare più facilmente un sentimento di apertura.

Insomma, l’insofferenza degli uni è spesso frutto dell’emarginazione, il solidarismo degli altri è spesso frutto del privilegio. Possibile che la sinistra, che pure continua a dire di voler rappresentare gli umili, non riesca a rendersi conto del paradosso? Ma forse in questi giorni assistiamo anche, lentamente, quasi impercettibilmente, a uno smottamento. Nel Pd qualche timida voce di concretezza e di pragmatismo si è pur fatta sentire: prima Fassino, poi Parisi, poi Rutelli. Speriamo che non siano rapidamente sopraffatti dalla forza del passato, dai tanti luoghi comuni che essi stessi hanno alimentato e che ora frenano il cambiamento.

da lastampa.it
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« Risposta #47 inserito:: Maggio 12, 2009, 10:43:59 pm »


LETTERA DI PIA LOCATELLI A “LA STAMPA”

12 maggio 2009, | Stefania Lopedote


Egregio direttore,
 
ho letto l´articolo di Luca Ricolfi comparso su La Stampa di oggi,  e vorrei aggiungere qualcosa. Parlando di immigrazione clandestina sarebbe bello se si cominciasse dai fatti per non correre il rischio di farsi condizionare dagli interessi elettorali di una parte politica, per esempio la Lega, che oggi esprime il ministro dell´Interno. Spagna, Italia, Malta e Grecia, hanno dichiarato che nel 2008 sono entrate inEuropa, via mare, 67.000 persone. Un terzo circa è entrato nel nostro Paese, ovvero poco più di ventimila in un anno, solo in parte successivamente espulse. Il fenomeno dunque non ha le dimensioni apocalittiche che ci vogliono far credere. È vero invece che se un immigrato clandestino viene raccolto da una motovedetta italiana, dunque su suolo italiano, e sbarcato in Libia, si viola il diritto e la legge. Intanto il porto di partenza è solo presunto, poi non viene accertata la sua nazionalità e terzo, la cosa davvero più grave, il suo eventuale diritto di asilo. Ricolfi, non senza qualche ragione, obietta che l´opposizione ha il vizio dell´astrattezza e che bisogna pur scoraggiare il fenomeno degli sbarchi clandestini. Giusto, ma troviamo degli strumenti meno rozzi perché non c´è nulla di astratto nel difendere principi liberali di civiltà, di democrazia e diritto. Nel 2006 Human Rights Watch ha accusato Tripoli di arresti arbitrari e torture nei centri di detenzione per stranieri, e non penso che da allora la situazione sia granché migliorata. Mettiamo, per ipotesi, che tra quei 226 sbarcati a forza in Libia cifosse stato anche un solo oppositore di Gheddafi, il ministro Maroni si sentirebbe con la coscienza a posto? Sono di sinistra, sono socialista, e non mi piace passare per snob, ma mi preoccupa assai di più correre il rischio di diventare complice di qualche dittatura, petrolifera o meno che sia.
 
Pia Locatelli
candidata per “Sinistra e Libertà”, europee 2009
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« Risposta #48 inserito:: Maggio 15, 2009, 12:33:23 pm »

15/5/2009
 
Sicurezza, l'ultima illusione
 

LUCA RICOLFI
 
Un maledetto irrisolvibile problema idraulico. È triste dirlo, ma al 90% il problema della sicurezza non è un problema politico, ma un problema di flussi e di stock, di capienze e di velocità. Per capire come mai, bisogna mettere da parte il 10% politico del problema, su cui ovviamente ognuno ha le sue preferenze e le sue sensibilità (a me, ad esempio, non piacciono le ronde). E occorre munirsi di santa pazienza e ripassare qualche numero, senza pretese di precisione ma giusto per farci un’idea degli ordini di grandezza.

Le persone denunciate in Italia sono oltre 500 mila all’anno, ossia circa 1 cittadino su 100. Un quarto circa, quasi interamente costituito da persone con precedenti penali, viene condannato da un giudice a una pena detentiva. Ma le probabilità di scontare la pena in carcere sono minime, per un complesso di ragioni istituzionali ben spiegato dal procuratore Bruno Tinti in un suo fortunato libro (Toghe rotte, Chiarelettere). La ragione più importante, però, è di natura materiale: non ci sono abbastanza posti nelle carceri. A meno di tre anni dall’indulto (estate 2006), i detenuti sono già 20 mila più di quanti le carceri potrebbero contenerne: 62 mila persone per 43 mila posti.

Equasi 2 posti su 3 non sono occupati da persone condannate, ma da imputati in attesa di giudizio o sottoposti a misure cautelari. La conseguenza è che i pochi detenuti che effettivamente scontano una pena liberano pochissimi posti all’anno, proprio perché la loro pena è lunga (chi ha una pena breve di norma non la sconta in carcere). In poche parole: le condanne a pene detentive sono più di 100 mila all’anno, ma i posti che si liberano effettivamente sono poche migliaia.

Si potrebbe pensare che, almeno per quanto riguarda gli immigrati, una soluzione potrebbero essere i centri di permanenza temporanea (Cpt), ora ridenominati Cie (Centri di identificazione ed espulsione). A parte il fatto che un Cie non è un luogo deputato a scontare una pena, è di nuovo l’idraulica a lasciare senza speranze: con meno di 2000 posti disponibili, le persone che possono transitare nei Cie sono meno di 10 mila all’anno, e diminuiranno drasticamente con l’allungamento dei tempi massimi di permanenza da 2 a 6 mesi deciso in questi giorni.

È strano che il ministro Maroni, che pure da molto tempo sta progettando di allungare i tempi di permanenza nei Cie per rendere possibili le operazioni di identificazione ed espulsione, non abbia provveduto - prima - ad almeno triplicare la loro capienza. Lì per lì non ci si pensa, ma la regola idraulica è implacabile: se il tempo di permanenza in una struttura aumenta di N volte, la sua capacità annua di accoglienza si riduce nella stessa proporzione. Se prima potevi ricevere 300 nuove persone al mese tenendole 2 mesi ciascuna, adesso puoi immetterne solo 100 al mese, perché ciascuna di esse si fermerà il triplo del tempo, ossia 6 mesi anziché 2. Insomma le stanze restano 300, ma più a lungo le si occupa meno nuove persone potranno transitarvi in un dato intervallo di tempo: se vuoi che il transito resti costante, allora devi triplicare la capienza della struttura. L’aritmetica dei flussi non lascia scampo.

Si potrebbe pensare che, comunque, un passo avanti sia stato fatto con l’accordo con la Libia, grazie al quale gli sbarchi in Italia dovrebbero diminuire drasticamente. Questo è vero, ma ancora una volta sono gli ordini di grandezza che fanno riflettere. Gli immigrati, specie se clandestini, sono indubbiamente più pericolosi degli italiani, ma occupano solo 1/3 dei posti in carcere, e soprattutto non vengono dal mare: gli ingressi con i barconi sono circa 1/7 del totale degli ingressi (o permanenze) irregolari. Il «respingimento in mare» degli stranieri è senz’altro utile, ma è solo una piccola frazione del problema della criminalità in Italia, diciamo un 5 per cento. Ricordo queste cifre non certo per svalutare l’azione del governo, o per minimizzare il ruolo della criminalità straniera in Italia.

Contrastare gli sbarchi illegali e rendere possibili le identificazioni sono provvedimenti ragionevoli, anche per il loro potere deterrente, e secondo me Maroni ha fatto bene a tenere duro su entrambi. Quello di cui dovremmo renderci conto, tuttavia, è che alla lotta contro il crimine mancano ancora i due tasselli fondamentali: una giustizia molto più efficiente, un piano di edilizia carceraria ben più incisivo di quello prospettato dal governo alcuni mesi fa (13 mila posti entro il 2012). Un calcolo prudente suggerisce che tra ristrutturazioni delle carceri esistenti (spesso indegne di un Paese civile) e costruzione di nuove carceri occorra prevedere almeno 50 mila posti aggiuntivi, con un costo che è dell’ordine di 5 miliardi di euro. Finché ciò non avverrà - ed è difficile pensare che, anche con la migliore volontà politica, occorrano meno di una decina d’anni - nessun inasprimento di pena, nessun nuovo reato, nessun giro di vite potrà produrre risultati apprezzabili. Meno che mai possiamo aspettarci miracoli dall’introduzione del reato di immigrazione clandestina, giusto ieri sancita dal voto della Camera. Anzi, il rischio è che proprio i continui annunci di misure drastiche ma materialmente inattuabili rendano ancora meno credibili le nostre istituzioni.

Ma di tutto questo ci renderemo conto, probabilmente, solo fra qualche anno. Solo allora, quando avremo assistito a un’ennesima rivolta nelle carceri, quando saremo stati costretti a varare l’ennesimo indulto o amnistia, quando avremo constatato che l’idraulica del circuito della sicurezza non permette a nessun governo, di qualsivoglia colore politico, di ottenere risultati tangibili in pochi anni, solo allora questa stagione ci apparirà in tutta la sua paradossalità. Perché quello di questi giorni, il «respingimento» dei barconi e l’approvazione del disegno di legge sulla sicurezza, è probabilmente il massimo successo mediatico del governo Berlusconi, ma potrebbe rivelarsi anche, alla lunga, la più grande illusione (l’ultima?) che il Cavaliere ha consegnato agli italiani.
 
da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 28, 2009, 12:17:47 pm »

28/5/2009 (7:33) - IL DIALOGO RICOLFI - BRUNETTA


Ululatori del bosco andate a lavorare!
 
Luca Ricolfi e Renato Brunetta a confronto
 
Follie, paradossi e vizi della pubblica amministrazione. Il sociologo e il ministro a confronto


Pubblichiamo un dialogo tra l’editorialista della Stampa e docente di analisi dei dati all’Università di Torino, Luca Ricolfi, e il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, in occasione dell’uscita del libro La rivoluzione in corso. Il dovere di cambiare dalla parte dei cittadini (Mondadori, 18 euro, pag. 280).

In questo volume il ministro racconta come si propone di rendere più efficiente la macchina amminsitrativa del nostro Paese, riducendone assenteismo e sprechi.


RICOLFI - «Signor Ministro, il suo libro Rivoluzione in corso (Mondadori 2009) è un racconto di quel che lei ha fatto, sta facendo e farà al Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione. Però è anche un diario, pieno di aneddoti gustosi, al punto che qualche volta non ho capito se lei descrive la realtà o la inventa per farsi capire meglio. Ad esempio: chi sono gli “ululatori nei boschi”»?
BRUNETTA - «Bella domanda, la stessa che mi sono fatto quando li ho visti fra i consulenti della pubblica amministrazione (con loro tantissimi altri: l’esperto in mandolino, il collaudatore delle scarpe dei vigili, l’addetto al censimento dei cormorani, gli storiografi dei Beatles...). Non ho ancora trovato una risposta convincente ma è anche vero che non sono un esperto, né in boschi né in ululati. Può darsi che siano utili, ma ho qualche dubbio. Non ne ho nessuno, invece, sul fatto che le consulenze chieste dalle amministrazioni pubbliche siano talora grottesche, spesso inutili e, cosa ancora peggiore, in grado di duplicare i costi, chiedendo ad esterni di fare quel che già degli impiegati interni sono pagati per realizzare. Non tutte le consulenze, naturalmente, meritano degli ululati ma la trasparenza, che abbiamo subito imposto, ha aiutato e aiuterà a disboscare».

R. - «Insisto, a nome dei lettori della Stampa: qual è il territorio e l’amministrazione pubblica che ha dato consulenze per “ululatori nei boschi”»?
B. - «Insiste? E sia: La Valle d’Aosta pagò 8.750 euro per “monitorare la specie lupo (canis lupus) mediante il wolf-howling”. L’impresa, non so dirle se ardua o meno, fu affidata a un professore universitario. Un collega. Un altro collega, del resto, questa volta in Val Cavallina, studiò la possibile “mitigazione dell’impatto del traffico stradale sulle popolazioni anfibie”, che, più o meno, sarebbe lo sforzo di mettere meno rospi sotto le macchine. Meritorio, ne sono certo, ma forse si potrebbe dirlo anche in lingua italiana e non pagarlo 3.000 euro».

R. - «Nel suo libro si parla di cambiamenti drastici, in materia di assenze, salario accessorio, risarcimenti del cittadino, trasparenza e varie altre materie. Qual è, fra tutti, quello che lei considera più rivoluzionario?»
B. - «Ciascuna è una tessera del mosaico, ancora non terminato, e da nessuna si può prescindere. La chiave che ha aperto molte porte, però, è la trasparenza. Per durare, la mala amministrazione ha bisogno dell’ombra, della riservatezza. Il cittadino, che è pagatore e cliente, non deve vedere e non deve sapere. Deve prendere il disservizio come un dato strutturale, naturale. Deve rassegnarsi. Noi abbiamo fatto l'esatto contrario, accendendo tutte le luci e cercando di dirigerne il cono rivelatore in tutte le direzioni. C'è molto lavoro ancora da fare, perché la luce non è mai troppa».

R. - «Come lei sa uno dei problemi della Pubblica Amministrazione è che i trasferimenti e i cambiamenti di mansioni sono difficilissimi da attuare, e sono praticamente impossibili senza l'assenso dei sindacati e dei diretti interessati. Con la sua legge delega di riforma della pubblica amministrazione, cambierà qualcosa al riguardo?
B. - «Cambierà tutto, perché si premierà seriamente il merito, rompendo l’immobilismo della stagnazione egualitaria. Un equilibrio nefando, che sembra ispirato alla giustizia, si autodefinisce tale ma, in realtà, favorisce l’incapacità e la svogliatezza, punendo la competenza e la buona lena. D’ora in poi la disponibilità a trasferirsi diventerà un elemento di valutazione positiva che giocherà a favore del dipendente. Ho letto, nelle parole di certi sindacalisti, che premiare il risultato sarebbe una "logica aziendalista". A me sembra logica, e basta».

R. - «Provo a tradurre: anche in futuro, come oggi, nessun dirigente potrà trasferire d’autorità un dipendente della Pubblica amministrazione, in compenso potrà premiare quelli disponibili a trasferirsi. Insomma lei punta più sui premi che sulle punizioni: ho capito bene?».
B. - «Intanto, il fatto che si sia ragionato sui premi e sugli incentivi dimostra quanto sia stata falsa la lunga campagna propagandistica secondo la quale sembrava quasi volessi mangiare gli impiegati. Invece siamo stati noi, assieme alle diverse operazioni trasparenza, a lanciare quella "non solo fannulloni", mettendo in evidenza i molti casi d’eccellenza ed impegno. Detto ciò, i premi funzionano dal punto di vista della retribuzione, mentre un serio disincentivo alla nullafacenza si vedrà sul terreno della carriera. È ora che i dirigenti abbiano responsabilità reali, fra le quali quella di esprimere giudizi significativi sui collaboratori. Nel provvedimento è comunque stabilito un catalogo di infrazioni particolarmente gravi che possono dar luogo al licenziamento per motivi disciplinari: tra questi, l’ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze del servizio».

R. - «Su molte cose che lei scrive io concordo, però adesso devo dirgliene alcune che non mi convincono, come cittadino e come studioso. Come cittadino non mi è piaciuto il capitolo sulla giustizia, per il tono un po’ sprezzante con cui parla dei magistrati, e per la poca conoscenza dei dettagli del funzionamento della macchina della giustizia. Naturalmente io parlo da cittadino del Nord, però le assicuro che dalle nostre parti se i magistrati rispettassero rigorosamente l’orario d’ufficio, senza portarsi il lavoro a casa, l’output della magistratura crollerebbe. Detto in parole povere: negli uffici come sono oggi è molto difficile scrivere le motivazioni delle sentenze, e il magistrato-tipo lavora ben più di 40 ore la settimana».
B. - «Con altrettanto rispetto, naturalmente, dissento dal suo dissentire e osservo che lei non ha seguito la vicenda con la dovuta attenzione. Se lo avesse fatto avrebbe appreso che proprio in un tribunale del nord non solo ogni giudice (parliamo del giudicante, in questo caso) ha la propria stanza e il proprio computer, ma si è dovuto creare un apposito "ufficio intestazione sentenze", perché chi è incaricato di redigere le motivazioni delle sentenze ometteva di farlo. Ora, se ci sono l’ufficio e le strutture, nonché il personale amministrativo di supporto, perché porti a casa le carte? «Temo, insomma, che via sia una leggenda - che ha fatto presa anche su di lei - secondo la quale fare il magistrato sia una specie di lavoro strutturalmente precario, senza mezzi e affidato alla buona volontà dei singoli. E' totalmente falso. La informo, inoltre, che la nostra è una delle magistrature più informatizzate del pianeta. Allora, se le cose stanno così, perché amministrare la giustizia nel tinello di casa? Con ciò non solo non nego che vi siano magistrati assai impegnati e volenterosi, oltre che competenti. Nego però che si possa porre fine ai guasti enormi della giustizia italiana se si continua a ragionare sui luoghi comuni, anziché sulla realtà.

R. - «Adesso le parlo come studioso. Lei dice che la produttività della Pubblica Amministrazione potrebbe crescere del 50%, o che si potrebbe spendere la metà. È un po’ di anni che studio il problema, e le mie stime degli sprechi sono diverse: sanità 18%, scuola 25%, giustizia civile 34%, università 29%. Cifre preoccupanti, ma molto più basse delle sue. Non sarebbe più saggio seguire il motto "esageruma nen" del nostro sindaco Chiamparino? Ma soprattutto non sarebbe il caso di evitare i discorsi generali? Le differenze territoriali di efficienza sono enormi...».
B. - «Mai esagerato, quindi confermo quel che ho detto. Una cosa sono gli sprechi, un’altra la produttività. Si tratta non solo di aumentare le ore lavorate effettive (si guardi alle percentuali relative all’assenteismo recuperato), che hanno un effetto sulla produttività per addetto. Ma anche di aumentare la produzione di servizi per unità di fattore lavoro e capitale impiegato, compresa la qualità dei servizi. E questa qualità/quantità dei servizi della Pubblica amministrazione, come è noto, deve essere misurata, nei diversi comparti, anche sulla base della loro maggiore produttività come input importanti per tutti i settori produttivi che li utilizzano. Il vero problema è che non vi è abitudine a misurare il prodotto delle amministrazioni pubbliche come lo si fa con altri settori dei servizi, anche perché non è facile. Ci si limita invece alla misurazione di sprechi e spesa. Ma questo è un approccio riduttivo al problema, spesso troppo trascurato dagli economisti. In realtà, l’aumento della produttività nel pubblico può portare a recuperare una parte importante del divario di crescita di cui l’Italia soffre rispetto agli altri paesi europei».

R. - «Faccio lo studioso anche io, ma l'accademia non deve perdere di vista le cose ovvie. Pochi giorni fa il Consiglio dei Ministri ha deciso di stralciare dalla riforma la class action dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, rimandandola a tempi migliori: la considera una parziale sconfitta?».
B. - «No. Come da impegno del presidente del Consiglio Berlusconi, l’azione collettiva nel settore pubblico entrerà in vigore dal primo gennaio 2010. Il relativo schema di decreto legislativo è già predisposto e verrà mandato al Consiglio di Stato nei prossimi giorni e, sulla base di questo parere, comincerà il suo iter parlamentare probabilmente già prima della pausa estiva. Nessuna sconfitta o cedimento, quindi, ma solo volontà di fare presto e bene ciò che il governo Prodi aveva peraltro colpevolmente stralciato dal suo scalcagnato provvedimento sulla class action».

R. - «La cosa che più mi ha colpito nel suo libro è il resoconto dei suoi rapporti con i riformisti del Pd (Veltroni, Fassino, Damiano), che in privato la incoraggiano ad andare avanti e in pubblico mostrano di osteggiarla. Io mi sono fatto un’idea: finché la sinistra riformista farà il doppio gioco, seguendo la doppia parola, la doppia morale, la doppia verità, non ce la farete mai a cambiare l’Italia».
B. - «Concordo con lei, ma con una diversa lettura: questo non è il "doppio gioco", è un modo per mettersi "fuori gioco". Loro sanno benissimo che il vecchio modo d’amministrare la cosa pubblica non può essere conservato ma sentono di esservi legati, anche a causa dei condizionamenti corporativi. Piuttosto che evolversi e cambiare, quindi, preferiscono non giocare».

da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:44:13 pm »

11/6/2009
 
La vittoria del partito che non c'è
 
LUCA RICOLFI
 

Che cosa sia successo alle Europee è piuttosto chiaro: il Pdl e il Pd sono andati male entrambi, ma mentre il Pdl è arretrato solo rispetto alle politiche del 2008 (mentre ha guadagnato qualcosa rispetto alle Europee del 2004, e sta vincendo le amministrative), il Pd è franato sia rispetto alle politiche dell’anno scorso, sia rispetto alle precedenti Europee (-5%). In compenso l’alleato principale del Pd (l’Italia dei valori di Di Pietro) è cresciuto di più dell’alleato principale del Pdl (la Lega di Bossi). E’ come se si fossero intrecciati due match: uno scontro Berlusconi-Franceschini vinto nettamente da Berlusconi, e uno scontro Bossi-Di Pietro vinto da Di Pietro.

Se sommiamo i risultati dei protagonisti principali, infine, il verdetto diventa più nitido: fatta 100 la forza dei tre principali partiti di centro-destra (Forza Italia, An, Lega), la coalizione rivale formata dal Pd, dai radicali e dall’Italia dei valori valeva 95 nel 2004, valeva 82 nel 2008 e vale 80 oggi. Il ritmo di caduta medio del consenso è del 3,3% all’anno, il che - tradotto in voti - significa che i partiti di centro-sinistra che si candidano a governare l’Italia perdono circa 400 mila elettori all’anno, quasi 1000 voti al giorno.

Fin qui la parte immediatamente visibile del voto di domenica. C’è anche una parte nascosta, tuttavia, e forse è la più interessante. Per riconoscerla dobbiamo dimenticare le percentuali di voti validi, su cui si appuntano tutti i commenti, e concentrarci sul corpo elettorale, formato da circa 50 milioni di elettori. Ebbene, se ragioniamo su questa base possiamo notare alcuni fatti.

Il primo è che, nonostante i tentativi di rendere bipartitico il sistema elettorale, Pd e Pdl attirano al più 1 elettore su 2 (per l’esattezza il 54,7% del corpo elettorale nel 2008, e il 38,2% oggi). In concreto questo vuol dire che alle ultime Europee poco più di 1 elettore su 3 si è scomodato per andare a votare uno dei due partitoni, Pdl e Pd, che ambiscono a contendersi il governo del Paese. Per rendersi conto di quanto poco il sistema stia evolvendo in senso bipartitico basti pensare che 5 anni fa, quando ancora non era nato il Pdl e Forza Italia correva ancora da sola, le due liste principali messe insieme - ossia Forza Italia stessa e Uniti nell’Ulivo - raccoglievano già allora il 35% del corpo elettorale: insomma, nonostante la nascita del Pdl, il bipartitismo non è decollato, perché la fusione fra An e Forza Italia è stata cancellata dall’implosione del Pd.

La creazione dei due super-partiti Pd e Pdl, in compenso, ha avuto un interessante effetto anestetico, o di occultamento. Grazie alla confluenza di An e Margherita nei due partiti maggiori, ossia in Forza Italia e nei Ds, oggi è difficile accorgersi di quanto il consenso verso i due partiti leader sia sceso in basso. Ho provato a stimare quanto avrebbero raccolto Forza Italia e Ds se non si fossero presentati con le stampelle di An e Margherita, e il risultato è drammatico. Forza Italia raccoglierebbe il 22-23% dei voti validi, i Ds il 14-15%: in breve, Forza Italia starebbe appena al di sopra del suo minimo storico (il 21,1% della «discesa in campo», 1994), mentre i Ds starebbero addirittura al di sotto dei due minimi storici toccati nel 1992, ai tempi di Occhetto (16,1%), e nel 2001, ai tempi di Veltroni (l6,6%). Se oggi Berlusconi e Franceschini possono arrampicarsi sugli specchi, minimizzando la severità del verdetto elettorale, è anche perché nessun segnale univoco li avverte che le due ammiraglie storiche della seconda Repubblica - Forza Italia e Ds - si sono incagliate nelle secche.

Ma nelle secche di che cosa?

Nelle secche del nostro scontento, è ovvio. E qui sta l’ultimo dato invisibile delle elezioni Europee. In queste elezioni il primo partito non è stato il Pd, non è stato il Pdl, ma è stato il partito che non c’è, il partito che potremmo definire del «non voto volontario». Un partito certo eterogeneo, fatto di persone deluse, arrabbiate, stanche, ma tutte accomunate dal fatto che hanno scelto di non votare un partito vero e proprio. Persone che non sono andate a votare non perché non potevano, ma perché non volevano. Una stima molto prudente del loro numero, basata su un classico lavoro di Mannheimer e Sani (Il mercato elettorale, Il Mulino 1987), che giustamente ci ricordano che fra gli astenuti ci sono anziani e persone che materialmente non possono recarsi alle urne, suggerisce che il «non voto per scelta» possa coinvolgere oggi circa il 30% del corpo elettorale, ossia 15 milioni di persone: un numero mai così alto nella storia repubblicana, e che nessun partito, nemmeno la Dc di De Gasperi nel 1948, nemmeno il Pci nel 1984 (dopo i funerali di Berlinguer), nemmeno Forza Italia nel 2001 (ai tempi del «Contratto con gli italiani»), è stato finora in grado di raggiungere.

Adesso mi aspetto che i colleghi politologi mi spieghino che quella che è nata non è una nuova stella del firmamento politico, che il non voto è fisiologico in tutte le democrazie più moderne (Usa, Regno Unito, Svezia), che il partito del non voto non è un vero partito, perché ha dentro di sé troppe anime: ci sono gli ostili e i lontani, il disgusto e l’indignazione, la passione e l’apatia, l’opzione voice (protesta) e l’opzione exit (defezione), per usare le fortunate categorie di Albert Hirschman. Tutto giusto, ma il punto è un altro. Nel nostro sistema politico c’è chi pensa di avere un consenso popolare così ampio da esimerlo in qualche modo dal dovere del confronto con il Parlamento, con le forze sociali, con la macchina della giustizia. Ebbene, i dati ci dicono che - su 100 italiani - 22 hanno votato Pdl, circa 14 avrebbero votato Forza Italia se si fosse presentata da sola, e meno di 6 (sei) hanno espresso un voto di preferenza per Berlusconi. Fino a ieri si poteva (forse) obiettare che gli italiani che hanno votato per l’opposizione sono ancora di meno. Da oggi, mi pare, chiunque vorrà autoattribuirsi un mandato popolare dovrà fare i conti con le crude cifre del partito che non c’è.
 
da lastampa.it
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« Risposta #51 inserito:: Giugno 15, 2009, 06:28:28 pm »

15/6/2009
 
La legge che piace alla casta
 
 
LUCA RICOLFI
 
Sembra che, sulle intercettazioni, si sia in dirittura di arrivo. Dopo un anno di aggiustamenti e di ritocchi, il relativo disegno di legge è stato approvato alla Camera giovedì (con il voto di fiducia), e da domani inizia il suo iter in Senato. La sostanza delle nuove norme si può riassumere in quattro punti. Primo: per un pubblico ministero diventerà molto più complicato richiedere e ottenere l’autorizzazione a intercettare (ci vorrà il parere di tre giudici, anziché di uno soltanto come oggi). Secondo: in molti casi le intercettazioni diventeranno semplicemente impossibili.

O perché il procedimento è contro ignoti (e manca l’autorizzazione della persona offesa), o perché non esistono «evidenti indizi di colpevolezza» (prima bastavano «gravi indizi di reato»). Terzo: dopo il 60° giorno le intercettazioni dovranno comunque essere interrotte. Quarto: la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni sarà sottoposta a forti restrizioni, con severe sanzioni a carico dei trasgressori (giornalisti e editori).

Indubbiamente la nuova disciplina rafforza la privacy e indebolisce il diritto di cronaca, uno scambio questo che fa imbufalire i giornalisti ma piace ai cittadini, almeno a giudicare dai risultati del sondaggio appena condotto da Ipsos per Il Sole - 24 Ore: i cittadini contrari alla pubblicazione delle conversazioni sono più del doppio di quelli favorevoli. Forse gli italiani sono meno assatanati di gossip di quanto li si immagina, o forse si sono convinti che in troppi casi la stampa non ha fatto un buon uso della libertà di cui godeva.

L’aspetto più importante del disegno di legge sulle intercettazioni, tuttavia, a me pare quello che riguarda la sicurezza. Qui è indubbio che l’effetto delle nuove norme sarà di rendere molto più difficile l’identificazione dei colpevoli di un delitto. Limitando l’uso di uno strumento investigativo fondamentale, le nuove norme aumenteranno la nostra privacy ma al prezzo di una minore sicurezza, di un minore contrasto nei confronti della criminalità in tutte le sue forme, da quella di strada a quella dei colletti bianchi e dei politici. E infatti i magistrati sono preoccupatissimi, come chirurghi cui è stato sottratto il bisturi, mentre i politici - pur non potendo sempre proclamarlo in pubblico - vedono assai bene una legge che ridurrà il rischio di essere «messi in piazza», e aumenterà il livello (già pericolosamente alto) di impunità nel caso commettano dei reati. Che la nuova legge piaccia ai politici, del resto, è rivelato da un fatto che ha sorpreso molti, e che dovrebbe farci riflettere: nel voto di fiducia di giovedì scorso, una ventina di deputati dell’opposizione hanno votato con il governo, ossia a favore delle norme che limitano la libertà dei magistrati di ricorrere alle intercettazioni. Quanto ai cittadini, il sondaggio citato rivela che in maggioranza stanno con i magistrati e contro il governo: preferiscono sacrificare un po’ di privacy pur di avere più sicurezza. Insomma: che i magistrati intercettino pure, ma che i giornalisti non esagerino con la diffusione del contenuto delle conversazioni.

Ci troviamo così di fronte a due fatti entrambi spiazzanti. Il primo è che la maggior parte dell’opinione pubblica è e resta giustizialista, nonostante i dati sulle intercettazioni mostrino in modo inequivocabile che vi è stato sia abuso sia arbitrio nel ricorso a esse: abuso, perché tra il 2001 e il 2007 (ultimo dato disponibile) il loro numero è esploso, senza un nesso plausibile con l’andamento dei delitti (le intercettazioni sono cresciute del 300%, i delitti del 30%); arbitrio, perché il ricorso alle intercettazioni è altissimo in alcuni distretti giudiziari e bassissimo in altri, con squilibri che non è possibile giustificare con le differenze nei «panieri» di reati tipici di ciascun distretto (il distretto che intercetta di più lo fa 13-14 volte di più del distretto che intercetta di meno). Peccato non esista un’opinione pubblica liberale: se ci fosse chiederebbe ai magistrati di darsi una regolata (meno intercettazioni, e più equità nella loro distribuzione fra i 29 distretti di Corte d’Appello), ma inorridirebbe di fronte al goffo tentativo dei politici di mettere sabbia negli ingranaggi della giustizia.
Il secondo fatto spiazzante riguarda il governo. Eletto anche grazie alla promessa di combattere la criminalità, sta per varare delle norme che ridurranno la sicurezza dei cittadini, e lo sta facendo in barba ai sondaggi, secondo cui la maggior parte degli italiani sono favorevoli alle intercettazioni come strumento di lotta al crimine.

Perché il governo, assai prudente in materia di riforme economico-sociali, nel caso della sicurezza pare invece deciso a correre il rischio dell’impopolarità?
Probabilmente per un complesso di ragioni. Una l’abbiamo già vista: questa legge piace ai politici, perché riduce il rischio di incorrere in guai giudiziari. Una seconda possibile ragione è che l’effetto della legge sarà di alleviare la pressione su un sistema carcerario avviato al collasso: meno intercettazioni significa meno colpevoli scoperti, quindi meno condanne, quindi meno ingressi in carcere. Una boccata d’ossigeno per un governo che non vuole varare un nuovo indulto, non osa depenalizzare parte dei reati, ma nello stesso tempo è incapace di aumentare i posti in carcere.

La vera ragione per cui il governo va avanti per la sua strada, però, a me sembra un’altra ancora, ed è la mancanza di concorrenza. A parole la sicurezza interessa a tutte le forze politiche, ma non vi è nessun partito importante pronto a sfidare il governo su questo terreno. La lotta al crimine resta, nonostante tutto, un tema «di destra», che ai partiti di sinistra non interessa, o interessa solo a parole, o interessa solo a condizione che le politiche anti-crimine siano cattivissime con i reati dei mafiosi e dei colletti bianchi, e buonissime con quelli di immigrati e criminali comuni. Così, quando fra quattro anni si farà il bilancio di questa legislatura, non ci sarà nessuno - dall’opposizione - che rimprovererà il governo di non essere stato abbastanza duro con la criminalità.

Dunque, dal suo punto di vista, Berlusconi fa bene a mettere in difficoltà la magistratura. Tutela se stesso. Tutela la casta, compresi i politici dell’opposizione inguaiati con la giustizia. Ha persino ragione su diverse cose. E comunque, quando verrà il momento di tirare le fila di cinque anni di governo, nessuno avrà le carte in regola per chiedergli il conto.

da lastampa.it
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« Risposta #52 inserito:: Giugno 24, 2009, 04:25:27 pm »

24/6/2009
 
Ma il Pd non sa contare
 
LUCA RICOLFI
 
Declino della destra? Se non lo avessi visto e ascoltato lunedì sera dal vivo, mentre lo diceva in tv, non ci avrei creduto. Avrei pensato che i giornali avevano frainteso le dichiarazioni del segretario del Partito democratico, o le avevano forzate un po’, come troppo spesso accade. E invece no, Franceschini aveva detto proprio così: queste elezioni sono andate bene, «è iniziato il declino della destra».

Allora vediamole le cifre di questo declino della destra. Per ora il quadro è completo solo per le 62 Province e i 30 Comuni capoluogo (più lunga e complessa l’analisi dei risultati dei Comuni minori). Per capire dove tira il vento della politica c’è un sistema molto semplice: contare in quanti casi c’è stato un cambiamento di colore politico, e confrontare il numero di amministrazioni conquistate dai due schieramenti, ossia i passaggi da destra a sinistra e viceversa. Ebbene l’esito non potrebbe essere più chiaro: su 32 amministrazioni che hanno cambiato colore non ve n’è neanche una che sia passata da destra a sinistra, perché tutte - ossia 32 su 32 - sono passate da sinistra a destra.

Né si può dire che esista un’area del paese in cui la sinistra abbia tenuto: al Nord la destra ha conquistato 11 Province e 5 Comuni, nelle «regioni rosse» ha conquistato 2 Province e 1 Comune, nel Centro-Sud (dal Lazio alla Sicilia) ha conquistato 10 Province e 3 Comuni. Il risultato è che ora il centro-destra, tradizionalmente forte nelle elezioni politiche e debole in quelle amministrative, governa oltre il 50% delle Province e dei Comuni capoluogo in cui si è votato, mentre prima ne governava meno del 16%. Simmetricamente, il centrosinistra scende dall’84% al 48% e oggi governa in meno della metà delle realtà in cui si è votato.

Naturalmente può darsi benissimo che il consenso alla destra sia in declino, e che le prossime elezioni le vinca la sinistra, specie se si dovesse votare fra quattro anni e nel frattempo il governo non fosse riuscito a combinare granché, o Berlusconi - travolto dai suoi scandali e dai suoi guai giudiziari - fosse stato costretto a un’uscita di scena poco onorevole. E tuttavia per vedere nei risultati di questa tornata amministrativa i segni del declino del centrodestra mi pare ci voglia una fantasia decisamente fervida. Se fossi un dirigente del Pd, rifletterei semmai su questa circostanza: la disfatta per 32 a zero che il centrosinistra ha subito in questa tornata amministrativa non si è consumata in un momento politicamente felice per il centrodestra, bensì in un momento di difficoltà e debolezza. Debolezza per le vicende del premier (processo Mills, caso Noemi, caso Patrizia), che secondo i sondaggi hanno allontanato una parte dell’elettorato, soprattutto cattolico. Ma debolezza anche perché, come giustamente notava ieri Massimo Giannini su Repubblica, è probabile che una parte dei leghisti se ne siano andati al mare «preferendo l’affondamento del referendum al sostegno del candidato dell'alleanza di centrodestra».

Se il centrosinistra ha perso, e perso così sonoramente, nonostante l’avversario fosse in un momento di difficoltà, quel che viene da chiedersi non è se sia iniziato il declino del centrodestra ma, tutto all’opposto, se stia continuando quello del centrosinistra. La mia impressione è che la risposta sia affermativa, e che gli anni che abbiamo davanti saranno molto duri per il partito di Franceschini. Duri perché è possibile che, a differenza di quanto avvenne nella legislatura 2001-2006, le tornate amministrative intermedie (a partire dalle Regionali dell’anno prossimo) riservino amare sorprese a un partito che ha nel controllo delle amministrazioni locali una delle sue ragioni di esistenza. Duri perché d’ora in poi il partito di Franceschini dovrà convincere gli italiani non solo a preferirlo al Pdl, ma a preferirlo abbastanza da indurli a recarsi alle urne, visto che il «non voto per scelta» sta diventando un’opzione seria per molti cittadini stanchi di questa politica. E duri, infine, perché sarà difficile che qualcosa cambi davvero a sinistra se il Pd e i suoi mezzi di informazione conserveranno la più tenace fra le eredità dello stalinismo: l’indifferenza ai fatti, la mirabile capacità di capovolgere i crudi dati della realtà.

da lastampa.it
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 19, 2009, 12:12:50 pm »

19/7/2009
 
Nordisti e sudisti d'Italia
 
LUCA RICOLFI
 

Forse questa volta fanno sul serio. Sì, perché la mera comparsa di movimenti e partiti «del Sud» non è certo una novità. Ci provò quasi vent'anni fa un certo Cito, proprietario di una Tv locale, poi sindaco di Taranto, infine processato e condannato per i suoi rapporti con la criminalità organizzata: il suo partito si chiamava «Lega d’azione meridionale» e arrivò a conquistare oltre 200 mila voti alle Europee del 1994. In anni più recenti altri movimenti e partiti del Sud vennero fondati senza ottenere, finora, un seguito nazionale apprezzabile: nel 2002, a Gaeta, in provincia di Caserta, nasce il «Partito del Sud - Alleanza meridionale»; nel 2005, in Sicilia, nasce il Movimento per le Autonomie (MpA) di Raffaele Lombardo, che oggi raccoglie circa 400 mila voti e ha 10 parlamentari; sempre nel 2005, a Napoli, nasce il partito «per il Sud» (piS), una piccola formazione con sede principale a Foggia, e che - finora - ha lasciato ben poche tracce di sé; qualche mese fa, a Lecce, Adriana Poli Bortone (ex Alleanza nazionale, già sindaco di Lecce), presenta il movimento «Io Sud»; quanto a Bassolino (ex Ds, tuttora governatore della Campania) da tempo sta lavorando alla costituzione di «Sudd», un’associazione di sinistra la cui sigla significa «Sinistra Unita Democrazia e Diritti».

La novità di oggi, dunque, non è che sia in atto l’ennesimo tentativo di costruire un «partito del Sud», ma è che questa volta l’operazione potrebbe anche riuscire, con conseguenze imprevedibili sul quadro politico nazionale. A questo punto della vicenda, le ipotesi sul tappeto paiono tre.

Prima ipotesi: la lobby del Sud. Costruire un gruppo di pressione che, nell’ambito del centro-destra, sposti «a Sud» l'asse della politica del Governo, da molti giudicata troppo sbilanciata a favore degli interessi del Nord; secondo un commentatore attento come Francesco Verderami non si può escludere che questa operazione - pilotata da Micciché e Dell’Utri - sia in realtà gradita a Berlusconi, che potrebbe utilizzare i mugugni dei parlamentari meridionali per ridurre il potere e l’influenza di Tremonti, ormai visto da molti come il vero rappresentante della Lega dentro il centro-destra. A occhio e croce, sembra questa l’idea prevalente fra i politici che si sono riuniti nei giorni scorsi a Sorrento, con l’intento di creare «un nuovo soggetto politico adeguato alle richieste di partecipazione vera e di protagonismo del Sud».

Seconda ipotesi: la Lega Sud. Costruire un partito vero e proprio, che funzioni - nel Mezzogiorno - come la Lega di Bossi funziona nel Centro-Nord. Un partito, dunque, alleato con il Pdl ma che sia capace di sottrarre al Pdl stesso una parte considerevole del voto meridionale. È chiaro che, per Berlusconi e il suo partito, questa ipotesi è la vera «alternativa da evitare» nel gioco politico dei prossimi anni, a partire dalle elezioni regionali del 2010.

Terza ipotesi: il Partito del Sud. Costruire un partito la cui unica missione sia la tutela dell’identità e degli interessi del Sud, senza un asse privilegiato con uno dei due schieramenti principali (un po’ come la Lega delle origini). Un partito, dunque, in cui potrebbero trovar posto sia personaggi politici provenienti dal centro-destra, sia personaggi politici provenienti dal centro-sinistra, come il governatore della Campania Bassolino o quello della Calabria Agazio Loiero. Di questa terza ipotesi, Raffaele Lombardo - fondatore dell’Mpa e governatore della Sicilia - pare l’interprete più autorevole e determinato.

Perché l’eventualità di un nuovo soggetto politico, la cui missione sia la tutela degli interessi del Sud, sta diventando sempre più attuale? Lasciando da parte le ragioni più spicciole, prima fra tutte l’urgenza per decine e decine di politici in difficoltà di riciclarsi in un contenitore nuovo, la ragione più importante mi sembra piuttosto evidente: i quattrini. O, come ci hanno abituati a chiamarli, le «risorse», ovvero le decine e decine di miliardi di euro che da questo autunno, con l’entrata in vigore del federalismo fiscale, verranno contesi fra le regioni «virtuose», che pagano molte tasse e spendono bene i quattrini che riescono a trattenere sul loro territorio, e le regioni «viziose», che hanno alti tassi di evasione e indici di efficienza decisamente bassi. Una prospettiva aggravata dal fatto che, nei prossimi anni, tutto fa pensare che la torta da spartire non crescerà, e sarà comunque inferiore a quella del 2006-2007, ultimi anni in cui il Pil ha dato segni di vita. Detto ancora più esplicitamente: poiché il grosso delle regioni virtuose sta nel Centro-Nord, e il grosso di quelle viziose sta al Sud, il timore dei politici meridionali è che la Lega - grande vincitrice delle ultime tornate elettorali - imponga un riequilibrio svantaggioso per il Mezzogiorno. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza: il drenaggio di risorse dalle regioni virtuose alle altre, sotto forma di evasione fiscale differenziale e di spesa pubblica, è di almeno 50 miliardi l’anno.

Ma è giustificato questo timore delle regioni meridionali di essere penalizzate dalla riforma federalista del centro-destra ?

Secondo me lo è, ma solo fino a un certo punto. È giustificato perché, se non vuole che il Nord gli volti le spalle, il centro-destra qualche concessione alle regioni virtuose, e segnatamente a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, dovrà farla per forza. Ma è forse eccessivo se riflettiamo su due circostanze. La prima è che questo governo è abbastanza conservatore (o prudente, se preferite) da muoversi comunque con i piedi di piombo: lo scenario più probabile non è quello di un trasferimento secco di risorse da Sud a Nord, ma semmai quello di una miriade di annunci seguiti da pochi fatti e da una lenta, ulteriore, crescita della spesa pubblica. La seconda circostanza è che, anche nel caso Tremonti decidesse di fare sul serio (cosa di cui dubito), non è detto che il federalismo si risolva in una punizione del Sud: almeno cinque regioni non virtuose sono collocate nel Centro-Nord, e ci sono realtà meridionali - come la Puglia e l’Abruzzo - che si discostano sensibilmente (in positivo) dal nucleo delle regioni viziose. In uno scenario di risorse costanti o decrescenti, imparare a spendere meno e meglio è l’unica vera opportunità dei territori più spreconi, a Nord come a Sud.

Semmai, il pericolo che si intravede all’orizzonte è un altro. Se il Pd dovesse continuare nella sua corsa verso l’autoannientamento, e il Pdl dovesse subire un salasso elettorale per il successo di un «partito del Sud», nel giro di pochi anni l’Italia potrebbe precipitare in una situazione come quella del Belgio, dove lo scontro fra Fiamminghi e Valloni prevale sulla normale dialettica politica e mette a dura prova l’unità del Regno. Da noi, quel che potrebbe accadere è che il confronto fra destra e sinistra si trasformi, di fatto, in uno scontro fra una coalizione nordista e una sudista. Niente male per un paese che si avvia, nel 2011, a festeggiare il centocinquantenario dell’Unità d'Italia.

da lastampa.it
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« Risposta #54 inserito:: Luglio 25, 2009, 10:56:26 am »

23/7/2009
 
La scuola ha smesso di insegnare
 

LUCA RICOLFI
 
Sulla scuola e l’università ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno nostalgiche. C’è un limite, però, oltre il quale le ideologie e le convinzioni di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le cose sono arrivate. Quale che sia l’utopia che ciascuno di noi può avere in testa, la realtà com’è dovrebbe costituire un punto di partenza condiviso, da accettare o combattere certo, ma che dovremmo sforzarci di vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i nostri sogni.

Queste cose pensavo in questi giorni, assistendo all’ennesimo dibattito pubblico su scuola e università, bocciature e cultura del ’68, un dibattito dove - nonostante alcune voci fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi vedere per quella che è. La nuda realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio lavoro di docente universitario, la ascolto nei racconti di colleghi e insegnanti, la constato nei giovani che laureiamo, la ritrovo nelle ricerche nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento, negli studi sul mercato del lavoro. Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di proteste indignate, un coro di dotte precisazioni, una rivolta di sensibilità offese.

Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani che escono dalla scuola e dall’università è sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e università fornivano.

Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso l’arte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile, che accresca le conoscenze di chi ascolta. Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili, che un segmento sia un «bastoncino» (per usare un efficace esempio del matematico Lucio Russo). Banalizzano tutto quello che non riescono a capire.

Sovente incapaci di autovalutazione, esprimono sincero stupore se un docente li mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed eseguire istruzioni, ma non a padroneggiare una materia, una disciplina, un campo del sapere. Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in ambito matematico-scientifico (e infatti l’università è costretta a fare corsi di «azzeramento» per rispiegare concetti matematici che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non ricordano praticamente nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono convinti che tutto si possa trovare su internet e quasi nulla debba essere conosciuto a memoria (una delle idee più catastrofiche di questi anni, anche perché è la nostra memoria, la nostra organizzazione mentale, il primo serbatoio della creatività).

Certo, in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci sono anche delle capacità nuove: un ragazzo di oggi, forse proprio perché non è capace di concentrazione, riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo come far funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di come sia fatto «dentro»). Si muove come un dio nel mare magnum della rete (ma spesso non riconosce le bufale, né le informazioni-spazzatura). Usa il bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una prenotazione via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema facilità nelle relazioni e nella vita di gruppo. È rapido, collega e associa al volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità vertiginosa.

Però il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto è se quel che si è perso sia tutto sommato poco importante come tanti pedagogisti ritengono, o sia invece un gravissimo handicap, che pesa come una zavorra e una condanna sulle giovani generazioni. Io penso che sia un tragico handicap, di cui però non sono certo responsabili i giovani. I giovani possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di comprenderli, di amarli, ma in realtà ha preparato per loro una condizione di dipendenza e, spesso, di infelicità e disorientamento.

La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità di aver allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti delle possibilità economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo è stato richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui, a forza di generosi aiuti e sostegni di ogni genere e specie, è stato fatto credere di possedere un’istruzione, là dove in troppi casi esisteva solo un’allegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non l’ha avuta ce la fa solo se figlio di genitori ricchi, potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti non manuali ma precari, sotto l’ombrello protettivo di quegli stessi genitori che per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.

Un vero paradosso della storia. Partita con l’idea di includere le masse fino allora escluse dall’istruzione, la generazione del ’68 ha dato scacco matto proprio a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è ritorta innanzitutto contro coloro cui doveva servire: un sottile razzismo di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e politici che le «masse popolari» non fossero all’altezza di una formazione vera, senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi hanno contribuito ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro per i quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione sociale.

Forse, a questo punto, più che dividerci sull’opportunità o meno di bocciare alla maturità, quel che dovremmo chiederci è se non sia il caso di ricominciare - dalla prima elementare! - a insegnare qualcosa che a poco a poco, diciamo in una ventina d’anni, risollevi i nostri figli dal baratro cognitivo in cui li abbiamo precipitati.

 
da lastampa.it
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« Risposta #55 inserito:: Agosto 01, 2009, 04:12:29 pm »

1/8/2009
 
Economia, si naviga a vista
 
LUCA RICOLFI
 
Il tormentato iter del decreto anti-crisi si concluderà oggi con un espediente tecnico rocambolesco: il decreto legge 78 (1 luglio 2009), che traduce in misure specifiche la filosofia del Dpef 2010-2013, verrà convertito in legge stamattina al Senato (con il voto di fiducia), ma un’ora dopo il Consiglio dei ministri si riunirà per varare un decreto legge «correttivo» che - di fatto - impedirà l’entrata in vigore delle norme più controverse del primo decreto appena approvato (competenze del ministero dell’Ambiente, scudo fiscale, poteri della Corte dei Conti). Una sorta di uccisione in culla, o di soppressione del nascituro prima che possa fare danni. Ora che l’iter del Documento di Programmazione Economico-Finanziaria (Dpef 2010-2013) si è concluso, vale forse la pena soffermarsi - più che sulle decine e decine di misure varate - sulla filosofia di fondo che lo ispira. Che a me pare più o meno questa: «Lasciamo perdere le traversate oceaniche, navighiamo a vista». Perché parlo di navigazione a vista? Essenzialmente per i contenuti del cosiddetto «quadro programmatico aggiornato» (pag. 1 del Dpef) dove si apprende che: a) nemmeno nel 2013 avremo i conti pubblici in pareggio (deficit previsto per il 2013: -2,4%); b) il debito, tornato oggi in prossimità del massimo storico, vi resterà per tutta la legislatura; c) la pressione fiscale fluttuerà intorno al 43% (anziché scendere sotto il 40% come promesso in campagna elettorale); d) la spesa pubblica corrente, dopo il picco del 2009 (43,4%), resterà prossima al 42%, 2 punti al di sopra del livello cui l’avevano lasciata Prodi e Padoa-Schioppa; e) spesa sanitaria e pensioni continueranno a crescere a un ritmo superiore al 3%, senza ridurre la loro incidenza sul Pil.

Quanto al breve periodo, la manovra di politica economica - fino al 2011 - non prevede alcun effetto (in più o in meno) sul deficit pubblico, ma semplici spostamenti di entrate e uscite da un capitolo all’altro, secondo una logica che è soprattutto di tamponamento delle situazioni sociali più allarmanti: chiusura di fabbriche, messa in cassa integrazione di operai e impiegati, mancato rinnovo di contratti a tempo determinato, scarsità di credito alle imprese. Difficile immaginare uno scenario più mesto, nonché più lontano dalla baldanza del 2001, quando - incautamente - il «Contratto con gli italiani» prometteva abbattimento della pressione fiscale, piani grandiosi sulle infrastrutture, milioni di posti di lavoro, riduzione del numero di reati. Ridotto all’osso, il Dpef ci dice che - per ora - quel che si può fare è lenire le ferite aperte dalla crisi, senza impegolarci in politiche troppo ambiziose.

Questa mestizia può anche essere giudicata positivamente, almeno in confronto alle promesse mai mantenute dai governi precedenti, sia di destra sia di sinistra. Così come si può considerare saggia, o realistica, la scelta del Dpef (esplicitata a pag. 29) di non incorporare nel quadro programmatico né gli eventuali benefici del federalismo fiscale, né i risparmi di spesa che potrebbero derivare da un futuro accordo con i sindacati sulla spesa pensionistica. Meglio non vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso, deve aver pensato il prudente Tremonti; e se poi qualcosa di meglio si riuscirà a fare, tanto di guadagnato. E tuttavia il dubbio resta: forse fra l’euforia irresponsabile del 2001 e la mestizia ragionieristica del 2009 una via di mezzo si potrebbe anche cercare. Ma quale via?

In realtà se ne possono immaginare tante, ma il punto centrale - come osservava qualche tempo fa Mario Monti - è quello di ridare agli italiani una prospettiva, una direzione di marcia, mete e scadenze con cui misurarsi. Ad esempio: una riforma degli ammortizzatori sociali che riduca l’incertezza e dia a tutti i lavoratori un briciolo di tranquillità; un obiettivo preciso di riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese, che renda più comprensibili i tagli di spesa presenti e futuri; un po’ di chiarezza nei conti del federalismo fiscale, nonché sulle regole con cui dovremo passare dalla spesa storica ai costi standard. Ma soprattutto: qualche segnale meritocratico in più, sul genere di quello che pochi giorni fa il ministro Gelmini ha indirizzato alle Università, quando ha deciso di premiare gli atenei virtuosi e penalizzare quelli inefficienti. Gli sprechi, le inefficienze, gli abusi non ci sono solo nell’Università e nella scuola, ma anche nella sanità, nell’assistenza (false pensioni di invalidità), nella giustizia civile e penale, nelle carceri, nella burocrazia pubblica. Forse è venuto il momento di dirlo a voce alta, con la chiarezza dei numeri. E di farci capire che, ormai, quegli sprechi e quelle inefficienze non possiamo più permettercele.

da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Agosto 12, 2009, 03:19:40 pm »

12/8/2009
 
Copiare come e perché
 
LUCA RICOLFI
 
Ieri tutti i quotidiani riportavano la seguente notizia: i ragazzi di terza media, valutati con test uniformi predisposti dall’Invalsi, risultano più preparati al Sud che al Nord, ma questa vittoria del Sud dipende - in realtà - dal fatto che in troppe classi del Mezzogiorno gli insegnanti lasciano copiare o suggeriscono essi stessi le risposte, falsando così la comparazione fra ragazzi del Nord e ragazzi del Sud.

La vera notizia, però, la notizia che ha creato sconcerto in una parte del pubblico, è che il ministero dell’Istruzione (attraverso i tecnici dell’Invalsi, il nostro istituto nazionale di valutazione dell’apprendimento) si era permesso di ritoccare o correggere i risultati e le graduatorie, ristabilendo la superiorità dei ragazzi del Nord, più volte certificata dalle indagini internazionali.

Di qui l’ennesima accusa al governo di nutrire pregiudizi antimeridionali, quasi che i tecnici dell’Invalsi, e in particolare il suo presidente, il dott. Piero Cipollone (imprestato all’Invalsi dalla Banca d’Italia), avessero modificato i risultati semplicemente perché poco graditi a un governo molto schiacciato sulle posizioni della Lega. Questo sospetto è semplicemente assurdo, e provo brevemente a spiegare perché. Bisogna premettere, innanzitutto, che la «correzione» dei risultati di sondaggi, test di atteggiamento o prove di abilità, è la norma. Il grande pubblico non lo sa, ma esistono collaudati strumenti matematico-statistici che permettono di scoprire - ad esempio - se un intervistato mente, o risponde a caso, o prende in giro l’intervistatore. Così come esistono tecniche di analisi dei dati capaci di scoprire e correggere i risultati dei test di abilità, in particolare nel caso in cui i rispondenti copino o ricevano un «aiutino» da insegnanti compiacenti o desiderosi di autopromuoversi (un esempio americano molto interessante in Freakonomics, di Levitt e Dubner, Sperling & Kupfer, 2006). Io stesso ne ho messa a punto una l’anno scorso, per analizzare e correggere i dati Invalsi sui livelli di apprendimento dei bambini di scuola elementare (anno scolastico 2005-2006).

Ebbene, il risultato interessante è che, nonostante sia i soggetti studiati sia il metodo di correzione siano diversi, i miei risultati di allora (2006) sui bambini delle scuole elementari ricalcano sostanzialmente quelli attuali dell’Invalsi sui ragazzi delle scuole medie. La graduatoria delle zone geopolitiche, dalle più scrupolose alle più disinvolte, è infatti del tutto simile: nel Triveneto e in Lombardia si bara pochissimo (2%, secondo le mie stime); in Piemonte, in Liguria e nelle regioni rosse si bara un po’ di più (intorno al 5%), ma sempre poco; nel Centro-Sud si bara molto di più (intorno al 20%), con un picco impressionante (quasi il 30%) nelle tre regioni ad alta presenza della criminalità organizzata, ossia Calabria, Sicilia e Campania. Se una differenza fra i due studi emerge, semmai, è che la correzione effettuata dall’Invalsi appare estremamente contenuta, e comunque minore di quella suggerita dalla mia analisi dei dati del 2006 sui bambini delle elementari; insomma, se proprio fossi obbligato a fare un rilievo all’Invalsi, non sarebbe di aver corretto troppo, ma semmai di aver corretto troppo poco (naturalmente per valutare in modo non impressionistico se la correzione è stata eccessiva o insufficiente occorrerebbe conoscere i dettagli degli algoritmi di correzione).

La tenacia con cui gli insegnanti colludono con gli studenti durante i test dipende, come ovvio, dall’idea che una «classe che va male» segnali un «insegnante che non sa insegnare». Idea sbagliatissima, ma inestirpabile dal senso comune di molti insegnanti perché per anni la pedagogia dominante ha battuto sul medesimo tasto: gli studenti hanno «diritto al successo formativo», e se un ragazzo non ce la fa la colpa è innanzitutto della scuola, che non l’ha motivato, non l’ha sostenuto, non l’ha aiutato, non l’ha recuperato. Con questa idea bacata in testa è estremamente difficile convincere un insegnante che un test sui suoi allievi non sia anche un test su di lui, ossia sull’insegnante che li ha preparati (detto per inciso, questa è anche l’origine di anni di opposizione sindacale ai test Invalsi, percepiti come mezzi per giudicare e discriminare gli insegnanti). Eppure l’idea è del tutto infondata, e ha fatto bene il presidente dell’Invalsi, nella sua intervista di ieri a Repubblica, a spiegarci il perché: «La scuola che ha avuto un punteggio basso non vuol dire che sia peggiore di un’altra con una valutazione più alta. Bisogna analizzare qual è il punto di partenza del singolo istituto e misurare il valore aggiunto che riesce a mettere in campo. Diversa è una scuola media di Scampia da una del centro storico di Roma, Bologna o Milano». Come se ne esce, dunque? Come produrre risultati attendibili e comparabili fra scuole diverse?

Personalmente non credo alla possibilità di ottenere la piena collaborazione degli insegnanti (tasso di copiatura prossimo a zero), perché comunque ci sarà sempre un incentivo a «fare bella figura». Ma nemmeno credo alla possibilità di ottenere, in tempi ragionevoli, un tasso di copiatura omogeneo su tutto il territorio nazionale, così da rendere automaticamente comparabili i risultati di territori diversi. Il tasso di copiatura, infatti, è distribuito fra le regioni italiane in modo incredibilmente simile al tasso di spreco della Pubblica amministrazione, il che fa sorgere il sospetto che entrambi dipendano - in ultima analisi - dal senso di responsabilità individuale, ossia da qualcosa che difficilmente può cambiare in pochi anni. Se si vuole che le scuole sappiano la verità su se stesse, la via maestra è un’altra: mettere l’Invalsi in grado di effettuare le rilevazioni con personale proprio, come già avviene in altri Paesi europei, anziché costringerlo (per mancanza di fondi) a usare gli insegnanti come somministratori dei test. Una scelta del genere, che permettesse all’Invalsi di costruire una rete nazionale di rilevatori professionisti, avrebbe naturalmente un costo, ma si tratterebbe di un costo modestissimo se comparato a quello dei piani faraonici di cui tanto si parla in materia di pensioni, infrastrutture, ammortizzatori sociali, sviluppo del Mezzogiorno.

Non saprei dire se la decisione di rinforzare l’Invalsi dipenda soprattutto da Berlusconi, da Tremonti o da Brunetta, ma sarei abbastanza tranquillo sul fatto che gli italiani la apprezzerebbero: sapere dove mandiamo i nostri figli a studiare è qualcosa che interessa tutti, e conoscere i risultati effettivi dei ragazzi può aiutare le scuole a migliorare se stesse.
 
da lastampa.it
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:31:04 am »

22/10/2009 - PRIMARIE DEL PD

L'ortodosso, il liberale, il tradizionalista
   
LUCA RICOLFI


E’ andata. C’è voluto un mese di lavoro, ma alla fine abbiamo avuto le risposte di tutti e tre. Non davamo per scontato che rispondessero al questionario della Stampa.

Questo perché un politico ha il diritto di scegliere se, quando e a chi rispondere, così come i cittadini hanno tutto il diritto di giudicarlo in base alle sue eventuali non-risposte. Perciò, innanzitutto: grazie a tutti e tre!

C’è un’altra cosa che non davamo per scontata, e cioè che emergessero differenze significative fra i tre candidati. E invece alcune differenze ci sono, e si vedono a occhio nudo.

Differenze politiche, innanzitutto. Solo Marino è a favore dell’abolizione del valore legale della laurea e punta su una sensibile riduzione delle tasse. E ancora solo Marino ha una posizione netta sul testamento biologico, rigorosamente imperniata sulla volontà del malato. Solo Franceschini dice in modo chiaro ed esplicito che punterebbe su un aumento dei posti in carcere. Solo Marino vorrebbe il salario minimo fissato per legge e uguale su tutto il territorio nazionale, Bersani e Franceschini non lo vorrebbero per legge ma «per via di contratto». Solo Bersani e Franceschini dicono chiaramente che sono contrari alle adozioni da parte di coppie omosessuali, e ancora solo Bersani e Franceschini dicono esplicitamente che le intercettazioni non sono troppe.

Le differenze sono così tante che viene da chiedersi: ma c’è anche qualcosa su cui i tre candidati alla segreteria del Pd sono d’accordo ? Sì, ma non è moltissimo. Su 12 domande, sono solo due quelle che hanno ricevuto la medesima risposta: sì al voto agli immigrati, no alla separazione delle carriere dei magistrati. Ce ne sono poi altre due, sulle pensioni e sul nucleare, in cui Marino e Franceschini sono d’accordo (sì all'aumento dell’età pensionabile, no assoluto al nucleare), mentre Bersani preferisce aggirare la domanda. Su tutto il resto le opinioni divergono, come il lettore può constatare confrontando le risposte riportate qui accanto. Se avessi a disposizione una sola parola per segnalare le differenze fra i tre candidati li definirei l'ortodosso (Bersani), il liberale (Marino), il tradizionalista (Franceschini).

Ma la scoperta più interessante, almeno per me, non è stata di contenuto, bensì di stile. I tempi di attesa, per cominciare: Marino ha mandato le sue risposte per primo, poi è arrivato Franceschini, infine - giusto in tempo - sono arrivate le risposte di Bersani. E poi, cosa ben più informativa, il modo in cui i tre candidati hanno «preso» l’idea del questionario, in particolare la circostanza che la maggior parte delle domande fossero a risposte chiuse.

Franceschini è stato il solo ad accettare il questionario per quello che è: uno strumento imperfetto per capire, all’ingrosso, le posizioni dei vari candidati. Bersani e Marino no, per loro la gabbia del questionario era troppo stretta. È accaduto così che il questionario di Franceschini contenesse 11 riposte «secche» (senza precisazioni) su 12, quello di Marino 4, quello di Bersani 3. Quanto alle risposte che, in un modo o nell’altro, finiscono per eludere la domanda, io non ne ho trovata nessuna in Franceschini, ne ho trovate 3 in Marino, almeno 4 in Bersani. Ma naturalmente il lettore può essere di diverso avviso, e trovare schematiche le risposte di Franceschini, profonde e articolate le riflessioni di Marino e Bersani, riportate integralmente qui a fianco.

Quel che posso aggiungere, a titolo assolutamente personale, è che la lettura del questionario ha modificato la mia immagine dei tre candidati come personaggi pubblici. Sapevo che Bersani era un politico, ma non mi ero reso conto che fosse così politico nel linguaggio e nelle risposte. Quanto a Marino, che erroneamente supponevo un po’ inesperto, ho scoperto che è già diventato un politico a tutti gli effetti. L'esatto opposto di Franceschini, che ho sempre immaginato come un politico navigato, e che oggi invece - dopo aver letto le risposte al questionario - scopro semplice e quasi indifeso, senza la corazza delle precisazioni e dei distinguo. Insomma, non so se lo sceglierei come segretario del Pd, ma almeno credo di aver capito quello che pensa.

da lastampa.it
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 29, 2009, 10:25:42 am »

29/10/2009

Nella direzione giusta
   
LUCA RICOLFI


Ieri, con il via libera del Consiglio dei ministri, è iniziato il cammino della Riforma universitaria, che dovrà approdare in Parlamento.

Poi dovrà essere discussa, eventualmente emendata, e infine approvata dalle due Camere. È presto dunque per formarsi un’opinione definitiva. Come professore universitario posso però testimoniare su un punto: il clima è già profondamente cambiato. Ho partecipato giusto qualche giorno fa a un incontro di Facoltà sui criteri di valutazione della didattica e della ricerca, e ho constatato che un po’ tutti - anche gli oppositori della riforma - sono consapevoli che, comunque le cose vadano a finire nei dettagli (importantissimi, in questo caso), un’epoca è finita e tutto sommato è un bene.

Quale epoca?

L’epoca in cui le università avevano mano libera nella promozione dei candidati locali, spesso pessimi. Un’epoca in cui i clan accademici la facevano da padroni, e nessuno era veramente tenuto a rendere conto del proprio operato. Un’epoca in cui si sapeva che i bilanci in rosso sarebbero stati ripianati, sempre e comunque. Un’epoca in cui, in nome di una malintesa autonomia, si potevano moltiplicare impunemente corsi di laurea e insegnamenti. Un’epoca in cui la valutazione si cominciava, faticosamente, a fare, ma i suoi risultati non venivano utilizzati per premiare i migliori. Un’epoca in cui i fondi seguivano la spesa storica (e i suoi sfondamenti) anziché premiare le università migliori. Un’epoca in cui, a dispetto del dettato costituzionale (art. 34), quasi nulla veniva fatto a favore dei «capaci e meritevoli».

Quell’epoca è al tramonto non per merito di una riforma che non c’è ancora, ma perché i disastri delle riforme precedenti (e innanzitutto del 3+2) sono sotto gli occhi di tutti. Perché più l’Università si apre all’estero, più diventa difficile evitare il confronto, o continuare a lodarsi da soli. E infine perché i soldi sono sempre di meno, e lentamente si sta capendo che non possiamo più permetterci di gettarli al vento.

Però va detto che la riforma del ministro Gelmini, nonostante i limiti che ognuno di noi può trovarvi (io ad esempio avrei qualche domanda sul valore legale della laurea e sulle tasse universitarie), va nella direzione giusta, almeno nell’impianto generale e nei principi ispiratori. La stella polare della riforma è la piena responsabilizzazione delle istituzioni e degli individui. Se i dettagli saranno ben congegnati, cosa non scontata, le università non potranno dissipare risorse come in passato, le prepotenze nei concorsi incontreranno qualche ostacolo, il merito individuale sarà premiato un po’ più di prima (del resto non ci vuole molto). Ci vorranno anni, ma la direzione è questa.

Naturalmente è anche possibile che non se ne faccia niente. La riforma potrebbe non passare in Parlamento. Gli emendamenti di maggioranza e opposizione, anziché migliorarla, potrebbero stravolgerla. I professori potrebbero trovare il modo di continuare a pilotare i concorsi, come prima e più di prima. Gattopardescamente, potrebbe anche accadere che tutto venga cambiato perché tutto resti come prima. E’ questo, a mio parere, il rischio più grande.

Ma se questo rischio si vuole evitare, occorre che tutti facciamo la nostra parte. Il ministro dovrebbe sempre tenere presente che la macchina che ha deciso di toccare è delicatissima, e che il rischio di non rendersi conto delle conseguenze pratiche delle norme che si introducono è sempre molto alto. L’opposizione, anziché demonizzare la Gelmini, farebbe bene a prenderla in parola, vigilando sul fatto che le intenzioni si traducano in norme davvero efficaci: l’ha già fatto quando con Pietro Ichino (senatore del Partito democratico) ha contribuito a migliorare la riforma della Pubblica amministrazione del ministro Brunetta, può benissimo rifarlo oggi nel caso dell’Università. E infine noi, docenti, studenti e personale dell’Università, dovremmo smetterla di pensare che tutto dipende dalle leggi, dalle norme e dai regolamenti: la qualità della riforma dipenderà certo dal fatto che non contenga sciocchezze e aberrazioni, ma molto dipenderà anche da noi, dal modo in cui sapremo parlarne, farla nostra, usarla per costruire un’Università più degna di un Paese civile.

da lastampa.it
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« Risposta #59 inserito:: Novembre 03, 2009, 09:55:28 am »

3/11/2009

Carceri ipocrisia bipartisan
   
LUCA RICOLFI


Nei giorni scorsi l’opinione pubblica era turbata dal caso di Stefano Cucchi, il giovane morto in circostanze tuttora non chiarite dopo un’allucinante odissea nelle istituzioni (caserma, tribunale, carcere, ospedale). Ieri la notizia del suicidio in carcere della brigatista rossa Diana Blefari, pochi giorni dopo la conferma della condanna all’ergastolo per la sua partecipazione all’assassinio di Marco Biagi, ha riportato drammaticamente l’attenzione sul problema delle carceri. E naturalmente è partito il solito copione: i parenti accusano le istituzioni, le istituzioni si difendono ma assicurano che faranno «piena luce», la sinistra si infiamma, la destra si barcamena. E’ facile prevedere che fra una settimana non se ne parlerà più, fino al prossimo caso dotato di sufficiente interesse mediatico.

E invece sarebbe utile provare a parlarne al di là dei casi singoli. Perché il problema delle carceri ha due facce entrambe drammatiche, ma in qualche modo connesse. La prima faccia è quella della sicurezza.

Non da ieri, bensì da molti anni, i posti non bastano per contenere l’enorme flusso di detenuti (spesso semplicemente in attesa di giudizio) che transitano ogni anno nelle carceri italiane. Da oltre un decennio i posti sono fermi a quota 42-43 mila, mentre i detenuti sono arrivati a quota 65 mila e aumentano a un ritmo di 700 al mese. Vuol dire che nel 2013, a fine legislatura, saranno 90-100 mila.

La seconda faccia, non meno importante della prima in un Paese civile, è quella della dignità dei detenuti, un valore tutelato dalla Costituzione (art. 27). Con 43 mila posti in strutture carcerarie sovente fatiscenti non si possono tenere in carcere 65 mila persone senza provocare gravissimi problemi di convivenza, malattia e degrado, fino al dramma dei suicidi (a quanto pare in aumento, per quel che si può desumere dalle informazioni disponibili, scarse e di bassa qualità). Un problema, quello dello scarso spazio in carcere, che ci è già costato una condanna dell’Unione Europea, e che pare appassionare ben poco le forze politiche (con l’importante eccezione dei radicali, da anni costantemente impegnati su questo fronte). Il sovraffollamento è un problema anche in altri Paesi europei, ma nessuno (salvo forse la Grecia) ha un eccesso di detenuti paragonabile al nostro. Anzi la maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale possiede semmai un eccesso di capacità: in Svezia e Germania la quota di posti liberi è intorno al 3%, in Inghilterra e Galles al 4%, in Portogallo al 7%, in Irlanda all’8%, in Danimarca al 10%, in Olanda al 19% (dati 2007, gli ultimi disponibili).

Di fronte a questi due enormi problemi destra e sinistra hanno approcci opposti, ma comportamenti sostanzialmente indistinguibili. La destra fa la faccia feroce e vorrebbe più severità, la sinistra pensa di alleggerire le carceri essenzialmente con le pene alternative (ad esempio gli arresti domiciliari) e la depenalizzazione dei reati minori. Rispondendo alle domande della Stampa ai tre candidati del Pd, solo Franceschini (lo sconfitto) ha avuto il coraggio di dire - contro il politicamente corretto di sinistra - che per combattere la criminalità punterebbe soprattutto su «un piano straordinario di edilizia carceraria, adeguando la capienza delle carceri all’aumento dei detenuti».

Quel che è veramente interessante, però, sono i comportamenti. Nella Seconda Repubblica destra e sinistra sono state al governo sette anni ciascuna ma, se andiamo al sodo, le loro politiche sulla sicurezza sono state estremamente simili. Non siete convinti? E allora ricapitoliamo i fatti, lasciando perdere annunci e dichiarazioni.

Capienza delle carceri. E’ la stessa da 15 anni, nessuno ha messo in atto alcun piano di edilizia carceraria di qualche impatto, e questo nonostante i detenuti siano più dei posti almeno dal 1992.

Sanatorie e regolarizzazioni. Nella Seconda Repubblica ce ne sono state tre, le più importanti sono quella del 1998 (legge Turco-Napolitano) e del 2002 (legge Bossi-Fini), la prima varata dal governo Prodi, la seconda dal governo Berlusconi.

Indulti. Anche qui uno a testa, nel 2003 il cosiddetto indultino di Berlusconi, nel 2006 l’indultone di Prodi, peraltro sostenuto anche da Forza Italia.

Sbarchi. Sia i governi di destra sia quelli di sinistra hanno tentato accordi con i governi dei Paesi di partenza, entrambi sono incappati in drammatici episodi di respingimento, con morti e dispersi: sotto Prodi (1997) una corvetta italiana affondò un barcone albanese in acque internazionali, sotto Berlusconi - quest’anno - varie navi di disperati in fuga dall’Africa sono state ricondotte forzosamente in Libia, suscitando un vespaio di proteste (Europa, Chiesa, Onu).

Se lasciamo perdere le parole, gli appelli, le «differenti sensibilità», la realtà nuda e cruda è che sia la destra sia la sinistra sono paralizzate dalla mancanza di soldi, di idee e di coraggio. Berlusconi in campagna elettorale ha promesso più posti in carcere ma per ora, a un anno e mezzo dalla vittoria elettorale, ha partorito solo un piano (di nuovo parole!) che, se anche dovesse effettivamente partire e miracolosamente rispettare i tempi previsti (2012), non coprirebbe nemmeno l’incremento di detenuti prevedibile fra oggi e allora: si è parlato di 12, 17, 18 mila posti aggiuntivi, ma i nuovi detenuti saranno 25-30 mila. Quanto alla sinistra, aborre l’idea di spendere miliardi per nuove carceri, ma non ha il coraggio di seguire la via dei Radicali e delle sue componenti più laiche e libertarie: indulti, pene alternative, depenalizzazioni. Teme che l’opinione pubblica, diseducata da «questa destra» razzista e forcaiola, non capirebbe.

Io dico solo questo. Un Paese civile non può tenere le persone in carcere nelle condizioni in cui da anni le tiene l’Italia, indipendentemente dal colore dei governi. Riportare in equilibrio il numero dei posti e il numero dei detenuti è un fatto di civiltà, ed è la pre-condizione minima per contenere il dramma umano dei suicidi e della violenza. Lo si può fare aumentando i posti, diminuendo i detenuti, o con un mix delle due misure. Se si pensa che la via maestra siano nuove carceri le si costruisca: per tener dietro all’aumento della criminalità il minimo è raddoppiare la capienza attuale, e il costo è di circa 4 miliardi. E se si pensa che la via maestra siano indulti, depenalizzazioni e pene alternative al carcere si abbia il coraggio - come i Radicali - di gridarlo in faccia all’opinione pubblica. Il resto è ipocrisia.

(con la collaborazione di Tania Parisi)
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