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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108948 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 22, 2008, 10:43:32 am »

22/12/2008
 
Elettori in ritirata
 
LUCA RICOLFI
 

Ormai la tendenza degli italiani è piuttosto chiara: se domani si tornasse a votare, l’unico partito che potrebbe sfidare il Popolo della Libertà di Berlusconi è il partito del non voto. È già oggi così in Piemonte, dove un recente sondaggio di «Contacta» per La Stampa ha rivelato che astensionisti e indecisi sono più numerosi di quanti intendono votare Pdl.

E’ già così in Abruzzo dove le elezioni regionali hanno consegnato poco meno di 300 mila voti al candidato del centro-destra, mentre gli astensionisti sono stati quasi 600 mila.

Se queste tendenze dell’opinione pubblica dovessero consolidarsi, e l’offerta politica dovesse restare quella di oggi, nel giro di breve tempo potremmo assistere a uno scenario surreale: un partito maggioritario ma privo di rappresentanza parlamentare, costituito dagli italiani che non scelgono alcun partito; un partito sistematicamente vincente, il Pdl, che però rappresenta meno del 30% degli italiani; un partito sistematicamente perdente, il Pd, che rappresenta a stento il 20% degli italiani; e infine un branco di partiti inseguitori o concorrenti, nessuno dei quali capace di rappresentare più del 10% dell’elettorato.

Quando ci si domanda perché stiamo arrivando a questo punto, la risposta che ascoltiamo più di frequente è che gli italiani hanno ormai perso ogni fiducia nel ceto politico e sono disgustati dal periodico riemergere della questione morale. Soprattutto a sinistra, si tende ad autoflagellarsi, e si imputa a Veltroni di non aver saputo garantire quel rinnovamento che con tanta enfasi era stato promesso. Tutto vero e tutto giusto, naturalmente. Però, se vogliamo capire quel che sta succedendo, forse è il caso di osservare più da vicino la dinamica elettorale recente. Il crollo dei consensi a sinistra non è avvenuto adesso, con la sconfitta in Abruzzo, ma otto mesi fa, con le elezioni politiche di aprile. È lì che il messaggio del centro-sinistra ha fatto cilecca, anche se non è facile stabilire perché (eccessiva continuità con Prodi? Candidature calate dall’alto? Troppi inquisiti nelle liste?). La controprova è che domenica scorsa, in Abruzzo, la sinistra nel suo insieme è andata avanti rispetto al livello delle politiche di aprile (come percentuale di voti validi), e questo nonostante l’arresto del governatore uscente Del Turco (targato Pd) e l’esplodere di ogni sorta di scandali in regioni governate dalla sinistra come la Toscana, la Campania, la Calabria.

Più che punire la sinistra, il voto abruzzese sembra avere punito il partito di Veltroni e premiato tutte le liste satelliti, dall’Italia dei Valori all’estrema sinistra, cresciute non solo rispetto alle Politiche del 2008 ma anche rispetto alle Regionali del 2005. Corrispondentemente, il peso del Pd sull’insieme della sinistra è sceso sotto il 42%, contro il 73% delle Politiche (2008) e il 62% delle Regionali (2005). L’impressione di una avanzata della destra, dunque, è frutto di un’illusione prospettica, dovuta al fatto che si guarda solo alla variazione 2005-2008 (Regionali su Regionali), senza riflettere sul crollo del numero assoluto di consensi avvenuto fra aprile e dicembre di quest’anno, ma soprattutto sul fatto che tale crollo è stato ancora più drammatico a destra che a sinistra, nonostante gli ultimi scandali abbiano colpito quasi esclusivamente la sinistra.

In breve, la mia impressione è che la questione morale, in quanto riemersa soprattutto a carico del Pd, ha per ora l’effetto di occultare una crisi di consenso che riguarda anche la destra. Il ritiro della partecipazione elettorale, annunciato nei sondaggi e già praticato nelle urne, coinvolge infatti sia la destra sia la sinistra, seppure per ragioni diverse.

A sinistra esso è prima di tutto il frutto delle non-scelte di Veltroni, non solo sul terreno etico (poco coraggio sugli inquisiti e sui cattivi amministratori) ma in materie politiche ordinarie come scuola, università, Welfare, federalismo, giustizia, bioetica: il popolo di sinistra è demoralizzato da una direzione che gli appare confusa e perennemente oscillante fra le sirene del dialogo e le tentazioni demagogiche. A destra, invece, il ritiro della partecipazione è il frutto dell’incapacità del governo - ma forse sarebbe meglio dire: della classe dirigente nel suo insieme - di fornire agli italiani le garanzie e le certezze di cui sentono il bisogno. Troppi, in questo drammatico periodo di crisi, sono stati i segnali di improvvisazione e di incertezza: decreti votati in gran fretta e poi modificati, annunci non seguiti da azioni concrete, inviti al dialogo alternati ad attacchi durissimi a sindacato e opposizione, senza parlare dei ripetuti segnali di discordia interni alla maggioranza (Bossi contro Berlusconi), o fra i supremi custodi dell’economia (Tesoro contro Banca d’Italia). Il governo pare non rendersi conto che, in una situazione di gravissima crisi dell’economia, questo stillicidio di provvedimenti, non sostenuti dalla capacità di indicare al Paese una strada, erode innanzitutto il consenso del governo stesso, e che la salute di cui Berlusconi pare godere nei sondaggi sulle intenzioni di voto è drogata dal discredito che l’inconcludente disputa Veltroni-Di Pietro getta su tutta la sinistra.

Vedremo chi si logorerà prima, se gli italiani puniranno di più l’incapacità dell’opposizione di darsi una linea politica o l’incapacità del governo di ridurre l’incertezza dei cittadini. Ma potrebbe anche accadere che, alla lunga, gli italiani finiscano per punire entrambi, ingrossando i ranghi del partito del non voto. In quel caso non è escluso che la transizione verso un «bipolarismo maturo» si interrompa bruscamente e, come quindici anni fa, sulla scena politica irrompano attori radicalmente nuovi, o che perlomeno proveranno a sembrarlo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 24, 2008, 05:34:29 pm »

24/12/2008 - LUCA RICOLFI
 
Le due verità
 
 
Ieri le prime pagine di quasi tutti i quotidiani riportavano la notizia secondo cui più di un milione di famiglie «non ha i soldi per mangiare», e ben 15 famiglie su 100 «faticano ad arrivare a fine mese». Di qui una serie di dichiarazioni preoccupate di politici e sindacalisti sulla gravità della crisi e la drammaticità della situazione delle famiglie italiane. Fonte della notizia: l’ultima indagine Istat sui redditi e le condizioni di vita in Italia, da cui effettivamente risulta che una famiglia su sette non riesce a quadrare il bilancio. Solo i due principali quotidiani della destra, Il Giornale e Libero, con due editoriali di Nicola Porro e Gian Luigi Paragone, hanno provato a raccontare un’altra verità, anch’essa sorretta da numerosi dati di segno contrario. Gli italiani, sostengono i due quotidiani vicini al governo, si preparano a trascorrere un Natale non molto diverso dal precedente, il numero dei vacanzieri è in aumento, i buoni affari - favoriti da massicci sconti - si moltiplicano, le prenotazioni nelle località di montagna sono su buoni livelli, le rate dei mutui stanno scendendo e i prezzi delle case pure. Chi ha ragione? Che cosa sta realmente succedendo? Hanno ragione entrambi, naturalmente, perché i dati sono dati, ed entrambe le letture poggiano su dati sufficientemente attendibili. Però i dati, se mi permettete il gioco di parole, hanno anche una data, come il latte, lo yogurt e le merendine. Il sapore di uno yogurt non è esattamente lo stesso se la confezione è integra, o invece è scaduta da un anno abbondante. È quel che è successo ieri con i dati Istat, che sono stati diffusi a fine 2008 ma erano stati rilevati nell’autunno del 2007 (più di un anno fa), in un momento in cui si cumulavano quattro gravissimi fattori di sofferenza per le famiglie: una fiammata inflazionistica, l’aumento del costo dei mutui, i primi effetti della crisi dei mutui subprime, la stangata fiscale della prima Finanziaria del governo Prodi. Da allora la situazione è completamente cambiata, nel bene e nel male. Vediamo rapidamente come. Sul versante occupazionale le cose vanno decisamente peggio, perché parecchi lavoratori hanno perso il lavoro, le ore di cassa integrazione sono in rapido aumento, moltissimi contratti stanno per scadere e solo una parte verrà rinnovata.

Nessuno è in grado di prevedere con ragionevole accuratezza quanti nuovi disoccupati avremo l’anno prossimo, ma ben pochi dubitano che saranno parecchie centinaia di migliaia. Non per nulla il tema degli ammortizzatori sociali e la proposta di settimana corta (lavoriamo meno, lavoriamo tutti) sono balzati ai primi posti nell’agenda della politica. Altrettanto male vanno le cose nei piani alti della stratificazione sociale: chi aveva in portafoglio azioni e obbligazioni «pericolose» ha dimezzato il suo capitale di rischio, imprenditori e commercianti fanno i conti con un calo della domanda che, senza essere ancora drammatico, sta comunque erodendo i loro margini di guadagno. È possibile che il 2009 sia un anno molto duro per molti, sia in basso (disoccupati, precari, piccoli esercenti) sia in alto (imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi in genere). Però, attenzione a non generalizzare. Disoccupati, precari e lavoratori indipendenti non sono tutta la società. La maggior parte dei capifamiglia rientrano in due altre grandi categorie: i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e i pensionati. Per essi, almeno finché conservano un reddito, da alcuni mesi la situazione sta sensibilmente migliorando, perché i loro redditi nominali sono in aumento (come sempre avviene per vari automatismi e trascinamenti) mentre i prezzi - per la prima volta dal 1959 - stanno diminuendo. Difficile dire di quanto, vista la scarsa sensibilità dell’indice Istat ai movimenti effettivi dei prezzi, ma non si può escludere che lo stiano facendo più in fretta di quanto suggeriscano le statistiche ufficiali: accanto a beni che aumentano di prezzo, ci sono voci di bilancio importanti come la benzina, il riscaldamento, le bollette della luce e del gas, i mutui, i viaggi, i pacchetti turistici, i prodotti nei supermercati, che stanno offrendo ai consumatori opportunità fino a ieri impensabili. Insomma, se è vero che una parte delle famiglie passa un momento difficile, è anche vero che i percettori di redditi fissi stanno aumentando il proprio potere di acquisto. Può darsi che questo momento duri poco, ma resta il fatto che per adesso è così. La controprova? Ieri l’Isae, una delle fonti statistiche più preziose per seguire la congiuntura economica in tempo reale, ha reso noti i dati di dicembre sui bilanci familiari. Ebbene essi mostrano che il momento peggiore, ancora peggiore di quello dell’autunno 2007 (periodo della rilevazione Istat), è stata la prima metà del 2008, in cui la percentuale di famiglie in difficoltà ha raggiunto il massimo storico da quando esiste l’indagine (1999), toccando - a luglio - il livello record del 22% di famiglie costrette, per quadrare il bilancio, a fare debiti o ricorrere ai risparmi. Da allora, ossia nel giro di poco più di un trimestre, il numero di famiglie in difficoltà è sceso con impressionante rapidità, passando dal 22% di luglio al 17% di ottobre al 13% di dicembre.

In breve: le famiglie in difficoltà sono quasi dimezzate in 5 mesi; rispetto al 2007, anno dei drammatici dati Istat di ieri, sono diminuite (e non aumentate, come credono i sindacati); infine, non erano mai state così poche dal 2006, unico anno di sollievo da quando l’introduzione dell’euro tagliò bruscamente il potere di acquisto degli italiani. Dobbiamo essere per questo ottimisti? Assolutamente no, perché il 2009 non promette nulla di buono. Ma, almeno, non fasciamoci la testa prima di essercela rotta. Questo è un momento strano perché convivono due verità: una grave recessione in arrivo, e un periodo - non sappiamo ancora quanto lungo - di aumento del potere di acquisto (deflazione), che dà un briciolo di ossigeno alle famiglie. Se vogliamo capire quel che succede, forse è meglio raccontarle entrambe, anziché fissarci su quella che più si accorda con i nostri pregiudizi.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:12:35 pm »

31/12/2008 (7:53) - MANUALE DI SOPRAVVIVENZA

Danzare sul Titanic
 
DOSSIER 2009, manuale di sopravvivenza 
 
LUCA RICOLFI


Ci chiediamo tutti come sarà il 2009, ma a differenza che in passato non c’è nessuno (salvo forse i soliti astrologi) che abbia le carte in regola per formulare una previsione attendibile. Non sappiamo se ci sarà un collasso dell’economia, non sappiamo se la crisi durerà 1, 2, o 10 anni, non sappiamo se il prezzo del petrolio salirà o scenderà, non sappiamo se ci sarà inflazione o deflazione, se le Borse si risolleveranno, se l’euro si rafforzerà o si indebolirà. Non sappiamo se Israele o gli Usa attaccheranno l’Iran, non sappiamo se India e Pakistan entreranno in guerra. Non sappiamo nada de nada perché non sappiamo a chi credere, e non lo sappiamo perché la stragrande maggioranza degli esperti e delle grandi istituzioni internazionali non hanno saputo prevedere quasi nulla di ciò che è successo negli ultimi 18 mesi.

Ho fatto questa premessa perché, alle volte, la politica italiana mi pare un po’ come la danza sul Titanic. Può darsi che non si sia tutti quanti sul Titanic, e che nel giro di un anno la tempesta si plachi, ma finché non avremo la ragionevole certezza di esserne fuori sarebbe forse auspicabile un po’ di understatement, o semplicemente un po’ meno di provincialismo. C’è anche un’altra ragione per prendere con le molle i temi di cui animatamente si parla in questi giorni: federalismo, riforma della giustizia, cambiamento della forma dello Stato corrono il forte rischio di essere solo ossi gettati quotidianamente a una stampa famelica di notizie, mentre i veri cambiamenti si stanno preparando, silenziosamente, in altri luoghi e per altre vie. Voglio dire che, anche se i prossimi anni non ci riservassero scenari drammatici, e la crisi dovesse riassorbirsi in un paio d’anni, non è detto che l’Italia cambierà davvero sotto la spinta delle tre riforme di cui oggi tanto si parla. La mia impressione è che la riforma presidenzialista non si farà (o verrà abrogata da un referendum), mentre le altre due riforme - federalismo e giustizia - si faranno in modo così pasticciato e ideologico che porteranno più svantaggi che vantaggi. Dal federalismo è purtroppo lecito aspettarsi un aumento della pressione fiscale, perché l’aumento della spesa pubblica - al momento - pare il solo modo per ottenere l’accordo di tutto il ceto politico. Dalla riforma della giustizia verrà (speriamo) una maggiore tutela della privacy, ma quasi certamente al prezzo di un ulteriore aumento della criminalità di politici, amministratori e colletti bianchi in genere: non si vede, infatti, come questa magistratura potrà perseguire i reati contro la pubblica amministrazione se il ceto politico la priverà dell’odioso ma efficace strumento delle intercettazioni.

Mentre queste tre riforme - federalismo, giustizia, presidenzialismo - occuperanno il centro del dibattito pubblico, è probabile che altre riforme e altri problemi, a prima vista meno importanti, incidano assai di più e più a lungo sulla nostra vita. Penso alla riforma della scuola e dell’università (Gelmini), a quella degli ammortizzatori sociali (Sacconi), a quella della Pubblica Amministrazione (Brunetta). Si tratta di tre riforme di cui si parla più sottovoce ma che, se andranno in porto, avranno effetti molto più importanti, e a mio parere più positivi, di quelli prodotti dalle riforme maggiori. Forse non a caso già oggi istruzione, mercato del lavoro e pubblica amministrazione sono i terreni su cui, sia pure un po’ di soppiatto, l’opposizione sta collaborando più costruttivamente con il governo. Se il confronto andrà avanti su basi serie, fra qualche anno potremmo avere un sistema dell’istruzione più meritocratico, maggiori tutele per chi perde il lavoro, una pubblica amministrazione più trasparente e quindi più rispettosa dei diritti dei cittadini.

Ma il lato nascosto dei processi politici che ci attendono non si limita alle riforme ingiustamente percepite come minori. Ci sono anche temi oggi sottovalutati ma presumibilmente destinati ad esplodere. Ne ricordo solo due: il controllo dei flussi migratori e il sovraffollamento delle carceri. Sono problemi di cui si parla relativamente poco non perché siano secondari, ma perché nessuno ha interesse a farlo. Il governo non ha interesse a parlarne perché dovrebbe riconoscere un fallimento: gli sbarchi sono raddoppiati e le carceri stanno scoppiando esattamente come ai tempi dell’indulto (2006). La sinistra non può parlarne perché ormai sa che le sue soluzioni - più apertura, più tolleranza, più integrazione - riscuotono consensi solo nei salotti intellettuali. Eppure è molto probabile che l’estate prossima, con l’aumento estivo degli sbarchi, le carceri stipate di detenuti, i centri di accoglienza saturi, il governo si trovi ad affrontare un’emergenza drammatica.

Insomma, a me pare che in Italia molto di quel che realmente si muove si intraveda appena, e molto di quel che si vede non muova realmente granché. Peccato, perché a forza di guardare solo dove i politici ci chiedono di guardare, rischiamo di perderci i passaggi più interessanti, o quantomeno quelli che ci toccano più da vicino. Auguri!

da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 06, 2009, 11:37:50 am »

6/1/2009
 
La carta della fiducia
 
LUCA RICOLFI
 

Se ripensiamo alle notizie economiche delle ultime settimane c'è da restare sconcertati. La maggior parte dei mezzi di informazione ha prima annunciato un crollo dei consumi (-20% a Natale) e un aumento della povertà (il 15% della famiglie «non ha i soldi per mangiare»), per poi accorgersi che i consumi erano sostanzialmente stabili e le notizie sulla crescita della povertà erano un po’ vecchiotte, visto che risalivano al biennio 2006-2007, ossia alla scorsa legislatura. Prima l’idea sconsolata del Natale povero, poi le immagini delle fiumane di gente in coda per le strade davanti ai negozi, pronta a spendere centinaia di euro a testa in saldi.

Ma non si tratta solo di dati detti e contraddetti. Quando non è il dato ad essere controverso, è la sua interpretazione che diventa ballerina. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che il deficit dello Stato nel 2008, il cosiddetto fabbisogno, è risultato di quasi 8 miliardi superiore al previsto. Per alcuni è l’ennesima conferma che Tremonti sa solo sfasciare i conti pubblici, per altri è segno che il governo ha già fatto quello che l’opposizione da tempo gli chiede di fare, ossia allargare i cordoni della borsa per combattere la crisi.

Questa altalena di fatti e contro-fatti, interpretazioni e contro-interpretazioni, rende estremamente difficile orientarsi per capire quel che realmente sta succedendo nel nostro Paese. A mio parere, in questo momento, l’errore di prospettiva più grande che stiamo commettendo è quello di proiettare le nostre paure per eventuali guai futuri sulla realtà, più modesta e meno allarmante, dei segnali che attualmente ci stanno arrivando. Il fatto che nei prossimi mesi possa esserci qualche nuovo crack (come Lehman Brothers), o una crisi di panico dei risparmiatori, o una guerra nucleare fra Israele e Iran, non autorizza a pensare che già ci siamo dentro, né a ignorare i segnali positivi che continuano ad affiancare quelli negativi.

I segnali negativi sono ben noti e ribaditi ad ogni piè sospinto: aumento dei disoccupati e delle ore di cassa integrazione, difficoltà di accesso al credito, crollo della borsa, caduta della produzione industriale e più in generale dell’attività economica. A questi segnali, tuttavia, si affiancano anche parecchi segnali di segno opposto, che tendiamo a ignorare ma su cui sarebbe invece opportuno riflettere.

Primo, e più importante: negli ultimi 6 mesi, soprattutto grazie alla diminuzione dei prezzi (confermata giusto ieri dall’Istat), il numero di famiglie che non riescono a quadrare il bilancio si è ridotto di circa il 30% (indagini Isae di luglio-dicembre 2008), riportandosi al livello del 2006, ossia dell’anno migliore dai tempi dell’introduzione dell’euro (2002). Secondo: finora, le domande per la social card sono poco più di 1/3 del previsto, un fatto che è difficile spiegare solo con i ritardi delle istituzioni e la «vergogna» dei potenziali beneficiari. Terzo: nel corso del 2008 i bandi di gara per le grandi opere hanno avuto un incremento record, pari al 26,9% (dati Crem diffusi pochi giorni fa). Quarto: nonostante la crisi, fra il 2007 e il 2008 l'occupazione dipendente è aumentata di oltre 300 mila unità (ultima indagine Istat, 18 dicembre). Quinto: benzina, gasolio, energia elettrica, mutui, case stanno diminuendo di prezzo. Sesto: a dicembre, per la prima volta da 9 mesi, l'indice Pmi del settore manifatturiero, che misura le aspettative dei responsabili acquisti delle imprese, è salito anziché continuare la sua corsa verso il basso.

Bastano questi segnali a convertire il nostro pessimismo in ottimismo? No, e non solo perché in qualsiasi momento lo tsunami può piombarci addosso dall’esterno, ma perché vi sono rischi strettamente interni che, al momento, paiono sottovalutati dal governo. Il primo, ben noto, è il rischio di un aumento della disoccupazione dovuto al licenziamento di operai e impiegati non tutelati dalla legislazione e dai sindacati: non solo lavoratori atipici, ma anche semplicemente dipendenti in imprese medie e piccole. Il secondo rischio, assai meno noto, è che il rallentamento dell’attività economica costringa a chiudere centinaia di migliaia di artigiani e di piccole imprese, oltre alle più di 200 mila che hanno già chiuso nell’ultimo anno e di cui nessuno parla. Il terzo rischio, forse il più importante, è che anche chi non perderà il posto ma semplicemente teme di perderlo, sia indotto a comportamenti di consumo e di investimento eccessivamente prudenti, contribuendo così, senza volerlo, ad aggravare la recessione in corso. È paradossale, ma dal punto di vista macroeconomico, ovvero del sostegno della domanda, è più importante tranquillizzare i 20 milioni di occupati che si salveranno, che aiutare 1 milione di occupati che il posto lo perderanno davvero.

È dunque su questo versante, quello delle garanzie a chi rischia di perdere il lavoro, che i nostri governanti - ma anche un'opposizione costruttiva - hanno una grande responsabilità. I provvedimenti finora varati, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali, vanno senz’altro nella direzione giusta, ma sono largamente insufficienti se il loro scopo non è semplicemente di tappare qualche falla futura, ma di creare fin da ora un clima di serenità e di fiducia generalizzato. Se si vuole che i comportamenti economici tendano a normalizzarsi, non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse, ma occorre dare un chiaro segnale di attenzione nei confronti di chi teme di perdere il lavoro, sia esso lavoratore atipico o normale, dipendente o indipendente. E l’unico segnale che può funzionare, lo sappiamo tutti, è che gli ammortizzatori sociali diventino automatici, permanenti e universali. Non a caso, nel giro di pochi mesi, il lavoro è divenuto di gran lunga la preoccupazione centrale degli italiani (vedi l’ultimo sondaggio pubblicato da Mannheimer sul Corriere della Sera).

Certo, un’operazione del genere avrà un costo elevato, né potrà essere condotta in pochi mesi o senza fare qualche sacrificio su altri versanti. Ma sono certo che, se il punto di arrivo sarà chiaro, per governo e opposizione sarà più facile trovare un ragionevole accordo, e a quel punto la fiducia, premessa cruciale della ripresa economica, lentamente ma inesorabilmente tornerà a scorrere nelle vene della società italiana.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 15, 2009, 03:25:19 pm »

15/1/2009
 
Cambio di stagione
 
LUCA RICOLFI
 
Ha fatto un certo scalpore la notizia, peraltro ampiamente prevedibile e prevista, che per il 2009 pagheremo ancora più tasse che per il 2008. Secondo il Corriere Economia il cosiddetto «Tax freedom day» - ossia il giorno di liberazione dalle tasse, in cui finalmente cominciamo a lavorare per noi stessi anziché per lo Stato - si è spostato di altri 2 giorni in avanti: quest’anno dovremo aspettare fino al 23 giugno, un vero record (dall’Unità d’Italia a oggi solo il governo D’Alema, nel 2000, riuscì a fare peggio). Né possiamo consolarci pensando che le cose siano destinate presto a cambiare: anche per i restanti anni della legislatura il Dpef prevede una pressione fiscale costante, attestata intorno al 43%, nonostante il programma elettorale del centro-destra confidasse in un calo della pressione fiscale di almeno 3 punti di Pil, dal 43% al 40%.

Qualcuno, come Alberto Mingardi sul Riformista, interpreta questo ennesimo raffreddamento dell’anima liberale del centro-destra come la conferma definitiva della fine di una stagione, la stagione iniziata nel 1994 con Berlusconi leader di una destra anti-fiscale, campione della società contro lo Stato, dell’individuo contro la burocrazia degli apparati. Rispetto alla coppia libertà-sicurezza, il centro-destra attuale penderebbe sempre di più verso la sicurezza, l’ordine, la tradizione. Forse è così, ma quel che è interessante è che i risultati non si vedono nemmeno lì.

Naturalmente non è colpa di un governo appena insediato se gli sbarchi raddoppiano, la criminalità è ai massimi storici (superata solo dal picco post-indulto del 2007), l’affollamento delle carceri è tornato a livelli drammatici, gli stessi - circa 60 mila detenuti per 43 mila posti - che nel 2006 indussero il povero Prodi a promulgare l’indulto. Però è difficile sfuggire all’impressione che il governo non sappia come gestire la situazione, nonostante l’impegno di Maroni: i posti nelle carceri sono sempre quelli, quelli nei Cpt - paradossalmente - sono destinati a diminuire proprio a causa dell’aumento dei tempi di permanenza (se un clandestino viene trattenuto 10 mesi anziché 2, la capacità di accoglienza si riduce proporzionalmente). Nel programma si parlava di «costruzione di nuove carceri», «aumento delle risorse per la giustizia», «garanzia della certezza della pena», tutto fa pensare invece che nel 2009 il governo sarà costretto a nuovi provvedimenti di emergenza, presumibilmente destinati a scattare l’estate prossima, quando le presenze in carcere (e forse anche nei Cpt, ora ridenominati Cie) toccheranno livelli insostenibili.

Ma non è tutto. I cavalli di battaglia elettorali del centro-destra non erano solo la riduzione delle tasse e la lotta a criminalità e immigrazione irregolare. C’era anche un terzo cavallo di battaglia, che stava particolarmente a cuore alla Lega e all’elettorato «padano»: l’adozione da parte del Parlamento nazionale della proposta di legge sul federalismo fiscale della Regione Lombardia (votata il 19 giugno 2007). Pure questo cavallo è nel frattempo caduto, anche se pochi se ne sono accorti: la «bozza Calderoli», che ha sostituito la proposta lombarda, è un drammatico passo indietro rispetto al progetto originario, e infatti ha ottenuto il consenso di tutte le forze che in origine si opponevano al federalismo, soprattutto governatori del Mezzogiorno e importanti settori della sinistra. Per non parlare dei recenti ripianamenti dei deficit di Catania, di Roma, della sanità laziale, o della costosissima conclusione di vicende come Alitalia e Malpensa. È grazie a questo genere di passaggi che il federalismo, che in origine era un’opportunità per diminuire la spesa e le tasse, ha oggi molte più probabilità di aumentarle entrambe.

Uno-due-tre: meno tasse, più sicurezza, federalismo «lombardo». Su queste tre cose, a mio giudizio le più qualificanti (anche se non necessariamente le più condivisibili) del programma di centro-destra, non si vede proprio come Berlusconi abbia la possibilità di onorare le promesse. Ciononostante il consenso a Berlusconi resta molto alto, anche se da qualche tempo in calo. Perché? Per due ragioni almeno. La prima è ovvia: il tradimento del programma per ora è evidente solo sul versante delle tasse, e in questo momento - con la recessione economica incombente - la gente chiede più protezione, non più libertà. I guai veri verranno se e quando esploderà il problema delle carceri e il federalismo, nonostante l’uscita dalla recessione, si mostrerà incapace di ridurre davvero le tasse e la spesa.

Ma la ragione più importante del perdurante consenso del centro-destra è un’altra: il Pdl non ha seri nemici a destra, esattamente come il Pci non ne aveva (e non ne tollerava) a sinistra. È questa la ragione politica per cui i fallimenti del governo non si traducono in consenso all’opposizione: federalismo vero, meno tasse, linea dura su criminalità e immigrazione sono «missioni» che interessano una parte considerevole dell’elettorato, ma non le forze di opposizione, che semmai considerano positivo il fatto che il centro-destra stia annacquando il suo programma. Gridare alle tasse troppo alte, alla pericolosità delle città, al pasticcio federalista non è congeniale a un’opposizione che pensa che le tasse siano «bellissime», gli immigrati «buonissimi», e il federalismo rischiosissimo a meno che noi illuminati lo rendiamo «equo e solidale». Insomma, il curioso della situazione è che il centro-destra sta abbandonando le sue bandiere, ma non c’è nessuno che abbia la voglia o la possibilità di raccoglierle. Per questo, almeno per ora, Berlusconi può dormire sonni tranquilli. Un po’ meno gli elettori che lo hanno votato sperando che, questa volta, avrebbe mantenuto le promesse.
 
da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 17, 2009, 03:40:54 pm »

17/1/2009
 
Anno Zero, emozione e sentimento
 
 
LUCA RICOLFI
 
Non conosco personalmente Lucia Annunziata, nonostante abbiamo più o meno la stessa età, proveniamo da ambienti politici affini, scriviamo sullo stesso giornale. In vita mia le ho parlato due o tre volte al telefono, per lavoro.

Però stamattina la prima cosa che ho fatto quando sono arrivato nel mio ufficio all’università è stata di procurarmi il suo numero e chiamarla. Avevo visto la trasmissione di Santoro sulla guerra israelo-palestinese a Gaza, ed ero rimasto sbalordito.

Sbalordito per la partigianeria della trasmissione, accuratamente costruita per vedere le buone ragioni dei palestinesi e ignorare quelle degli israeliani. Sbalordito per il pochissimo spazio concesso al ragionamento e l’enorme spazio lasciato alle viscere. Sbalordito per la strumentalizzazione del genuino e umanissimo dolore di due ragazze, una palestinese e una israeliana, cinicamente buttate nell’arena come fanno gli organizzatori di combattimenti fra galli. Sbalordito per l’incapacità di Santoro di ascoltare una critica (a mio parere giustissima, ma comunque cortese e civile) all’impostazione della sua trasmissione. Sbalordito per la violenza con cui il conduttore, abusando del suo potere, ha più volte coperto la voce di chi esprimeva, o meglio tentava di esprimere, opinioni non conformi (Lucia Annunziata, prima; Tobia Zevi verso la fine della trasmissione). Sbalordito per le parole sprezzanti con cui Santoro ha risposto alle argomentazioni di Lucia Annunziata, accusata di ripetere «le solite scemenze» su Annozero, e addirittura di voler acquisire meriti presso qualche potente (presso chi? che cos’è questo modo obliquo di alludere?). Sbalordito di fronte al comizio finale, in cui Santoro si produceva in una eruzione di indignazione, accusando tutto e tutti (tranne se stesso, eroe incontaminato) di non aver fatto nulla per fermare la guerra.

Ma non era il mio sbalordimento che volevo comunicare a Lucia. Era la mia gratitudine come telespettatore e cittadino. Lucia ha fatto la cosa giusta non solo ad andarsene quando è stata offesa e ricoperta di male parole dal padrone di casa, ma ha fatto bene ad assumersi - finché ha avuto la forza di nuotare controcorrente - il compito, inevitabilmente sgradito e poco «in» dentro quella trappola mediatica, di provare a riportare tutti alla ragione, mettendo fra parentesi le emozioni estreme. Io sono grato a Lucia Annunziata, perché ha tentato di ricordarci una cosa fondamentale: se abbiamo qualche speranza di spegnere gli odi e le incomprensioni che sconvolgono il mondo, in Palestina come nella nostra povera Italia, è in quanto troviamo il modo di raffreddare gli animi, di dar voce a chi ancora cerca di capire le ragioni dell’altro, e di toglierne a chi gli animi cerca di scaldarli, e sa esprimere solo odio, rancore, rabbia, indignazione a senso unico.

Le emozioni, specialmente quelle più o meno artificiosamente esasperate dalla tv, sono quasi sempre brevi, violente, cieche, con un retrogusto amaro. Ecco, c’erano tante emozioni ieri da Santoro, ma così poco sentimento. Perché chi pensa solo a esprimere, a buttar fuori le sue emozioni, può amare o odiare, essere felice o disperato, ma non ha sentimento. Il sentimento comincia quando riesci, almeno un po’, ad essere anche nella testa e nel cuore dell’altro. Quando ascoltare ti interessa di più che parlare. Quando il dolore del tuo nemico diventa anche un po’ tuo. Quando sei capace di patire con lui. È a questo, a trasformare le emozioni in sentimento, che serve il richiamo alla ragione, un richiamo che nello zoo di Annozero molti ospiti avrebbero accettato di buon grado, se solo il domatore non avesse preferito aizzarli, gli uni contro gli altri.

Non so che cosa pensiate voi, cari lettori. Ma dopo tanti anni che seguo la politica, compresa quella che tormenta Israele e la Palestina, io mi sono convinto che se i grandi drammi del mondo non si risolvono mai è anche perché, in questo mondo, la gente normale, umile e semplice, che vorrebbe solo amare, lavorare e vivere in pace, non conta nulla e non ha quasi mai voce. Mentre contano moltissimo tutti coloro che la voce la sanno alzare, che sanno farsi sentire, scaldare gli animi, seminare odio, incomprensione, fanatismo. E in questo loro delirio di onnipotenza cercano ogni volta di trascinare anche i semplici e gli ignari, colpevolizzando chi non capisce e intimidendo chi non ci sta.

È uno spettacolo triste, che va in scena da tempo immemorabile e produce solo odio e morte, checché ne pensino i suoi ambiziosi produttori e registi. Lucia ha fatto bene a ricordarcelo, a mettersi di traverso, a dire «io non ci sto», sobbarcandosi la parte di quella che rompe il gioco e quindi è giudicata «stronzissima» (così si è ironicamente autodefinita lei stessa) da chi il gioco lo ha organizzato e truccato. Peccato non ce l’abbia fatta, perché - se avesse vinto lei - la trasmissione di Santoro avrebbe potuto prendere un’altra piega e diventare un contributo alla comprensione reciproca, anziché l’ennesima istigazione all’odio. Santoro l’ha conclusa dicendo che nessuno fa nulla per fermare la guerra, e rivendicando - almeno lui - di aver tentato di fare qualcosa. Penso sia vero esattamente il contrario: molti, come Manuela Dviri e tante associazioni silenziose, stanno facendo quel che possono per tenere accesa la speranza del dialogo, nonostante tutto e tutti. Quanto a Santoro, un’occasione per aiutare la pace l’avrebbe avuta: non fare una trasmissione come quella che ha fatto, e avere un po’ più di rispetto per chi ha opinioni diverse dalle sue.

da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 22, 2009, 03:38:28 pm »

22/1/2009
 
Federalismo rischi di flop
 
 
  LUCA RICOLFI
 
Ieri al Senato Tremonti ha illustrato piuttosto ampiamente le intenzioni del governo in materia di federalismo fiscale.

Il nocciolo dell’intervento del ministro dell’Economia mi sembra questo. Cari amici, il governo si rende perfettamente conto che introdurre il federalismo fiscale in un momento come questo, con una grave crisi alle porte, può essere rischioso, ma state tranquilli perché i decreti attuativi non saranno varati prima di avere valutato molto attentamente il loro impatto e le loro interazioni reciproche, nonché gli eventuali aggiustamenti suggeriti dall’evoluzione dell’economia.

Quanto alla pretesa di determinare ora, ex ante, gli effetti macro-economici di questa riforma, ci sono almeno due buoni motivi per respingerla. Primo: il disegno di legge sul federalismo ha un impianto estremamente complesso, fatto di 12 tributi, 5 soggetti della riscossione, 2 fondi di sussidiarietà, 11 principi e criteri generali, 8 tipi di procedure attuative, varie commissioni e livelli decisionali, per cui le variabili di cui si dovrebbe tenere conto in un eventuale calcolo sono «un numero elevatissimo». Secondo: non esiste ancora una base di dati omogenei e condivisi, e «avere dei dati ma non omogenei e non condivisi è come non avere dei dati». Quest’ultimo argomento, naturalmente, taglia la testa al toro: se non ci sono ancora dati decenti non si può prevedere nulla, quindi l’opposizione - che vuol vederci chiaro - sta chiedendo la luna. E tuttavia forse qualche osservazione critica si può fare lo stesso.

Intanto trovo stupefacente che, dopo quasi dieci anni di prove di federalismo fiscale, con due cambiamenti della Costituzione già attuati (di cui uno tuttora vigente), né il centro-destra né il centro-sinistra si siano ancora preoccupati di predisporre la base di dati che occorre. So che è un compito molto complesso (perché io stesso me ne sto occupando da anni), ma mi sembra che il non averlo ancora completato introduca un preoccupante elemento di incertezza sia nel discorso politico sia nel cammino del federalismo. Detto fuori dei denti: perché tanta fretta di approvare un disegno di legge se non si è ancora in grado di valutarne l’impatto? Probabilmente perché i politici pensano che i dati siano innanzitutto qualcosa su cui occorre mettersi d’accordo (dati «condivisi»), anziché qualcosa che occorre predisporre al riparo da ogni negoziato politico (dati «omogenei»).

Ma il punto decisivo non è di tempi, bensì di sostanza. A me pare che il fatto di non avere ancora messo dei «numeri» nel progetto federalista, e di rimandare tutti i dettagli a una serie di futuri decreti attuativi, non sarebbe inquietante solo se il disegno di legge contenesse già in sé un sistema di anticorpi capaci di impedire la futura degenerazione del federalismo stesso in una mostruosa macchina per: a) aumentare la spesa; b) aumentare la pressione fiscale; c) paralizzare la pubblica amministrazione. In assenza di una esplicita e rigorosa previsione di tali anticorpi, i timori di chi vede il federalismo come una ghiotta occasione per tutta la classe politica locale di incrementare il proprio potere appaiono purtroppo giustificati.

Ma quali potrebbero essere gli anticorpi che nel disegno di legge attuale non si vedono? Essenzialmente due. Il primo è un vincolo macroeconomico di riduzione parallela della spesa e della pressione fiscale, senza il quale il federalismo tradisce la sua missione-chiave: ridare ossigeno a famiglie e imprese (meno tasse), e migliorare i servizi pubblici (più efficienza). Il secondo anticorpo è un principio chiaro di responsabilità territoriale, per cui la perequazione, o riequilibrio, che le zone forti del Paese sono tenute a compiere a favore di quelle deboli sia volta a compensare le differenze di reddito percepito, ma sia indifferente alle differenze di evasione fiscale e di efficienza della macchina pubblica. Detto in altre parole, al federalismo non è giusto richiedere di coprire le enormi differenze di gettito dovute ad evasione fiscale, e tanto meno le enormi differenze di servizi dovute a spreco di risorse pubbliche. In concreto questo significa che ai territori che devono «rientrare» perché evadono troppo, o perché sprecano le risorse che ricevono, non si possono attribuire nuovi compiti o nuove risorse finché non hanno iniziato a ridurre evasione fiscale e sprechi. Altrimenti il rischio è che si ripeta quel che è già accaduto trent’anni fa con l’istituzione delle Regioni: lo spostamento di compiti dal centro alla periferia ha ampliato i divari territoriali anziché contribuire a ridurli.

Vedremo, alla fine del voto parlamentare, che tipo di legge uscirà. Ma se, come è verosimile, di tali anticorpi nel testo definitivo non vi sarà traccia, allora il rischio di un flop potrebbe diventare davvero molto serio. Alla fine della fiera, ossia a fine legislatura, potremmo trovarci con più tasse, più spesa, più debito pubblico, più conflitti dentro la Pubblica Amministrazione: l’esatto contrario di ciò per cui i fautori del federalismo affermano di battersi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 31, 2009, 11:42:16 am »

31/1/2009
 
Le tre libertà
 
 
LUCA RICOLFI
 
Sulle intercettazioni gli altolà al governo si sprecano. Ieri, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, sono intervenuti nientemeno che il Procuratore generale della Cassazione (Vitaliano Esposito), il primo presidente della Cassazione (Vincenzo Carbone), il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Nicola Mancino), il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Luca Palamara). Nei giorni scorsi era già intervenuto il presidente della Corte Costituzionale (Giovanni Maria Flick). Tutti, in un modo o nell’altro, hanno espresso preoccupazioni per le possibili conseguenze del disegno di legge governativo. Sono fondate tutte queste preoccupazioni? Dipende dal bene che si intende tutelare.

Se il bene è il diritto alla privacy, le preoccupazioni sono ovviamente infondate, perché il disegno di legge - limitando i casi in cui si può intercettare e pubblicare - ha precisamente lo scopo di aumentare le garanzie dei cittadini in materia di privacy e segretezza delle comunicazioni, garanzie esplicitamente previste dalla Costituzione (art. 15) ma di fatto sospese ogni qual volta il superiore interesse delle indagini autorizza i magistrati a usare l’arma impropria delle intercettazioni.

Se il bene da tutelare è il diritto all’informazione le cose si fanno più complicate. Indubbiamente le norme di cui si discute limitano gravemente il diritto dei cittadini a essere informati tempestivamente sul corso delle indagini, anche se si potrebbe obiettare che attualmente, quando scoppia uno scandalo, quella che viene fornita dai mezzi di comunicazione di massa è tutto tranne che un’informazione accurata, imparziale, completa. Detto altrimenti: la scelta effettiva non è fra sapere e non sapere, ma fra sapere solo dopo l’inizio del processo (come vorrebbe il governo), o avere fin da subito dei frammenti arbitrari di informazione - talora utili, talora fuorvianti - come oggi accade.

Se infine il bene da tutelare è il diritto alla sicurezza dei cittadini le preoccupazioni espresse dalle maggiori cariche dell’ordine giudiziario mi paiono pienamente giustificate. Non v’è dubbio, infatti, che la drastica riduzione delle possibilità di intercettare prevista dal disegno di legge governativo in molti casi diminuirà la possibilità di scoprire e punire i colpevoli di reati.

È inutile pensare che ci sia una posizione giusta, o una soluzione ottimale. Le tre libertà che ci stanno a cuore - non essere spiati, venire informati, essere sicuri - non possono essere tutelate tutte e tre contemporaneamente e nella stessa misura. La drastica limitazione delle intercettazioni che si profila all’orizzonte rafforzerà la nostra privacy, ridurrà le nostre informazioni (non necessariamente vere, ma pur sempre informazioni), diminuirà la nostra sicurezza. Se teniamo più alla privacy che alla sicurezza possiamo anche rallegrarci con il governo, se teniamo più alla sicurezza che alla privacy non possiamo che condividere le preoccupazioni dei vertici della magistratura.

Personalmente mi sento più in sintonia con le preoccupazioni dei magistrati che con gli improvvisi aneliti libertari del governo. Vorrei aggiungere un’osservazione, però. Le obiezioni dei magistrati sarebbero più convincenti se essi, oltre a ripetere a iosa la verità - e cioè che senza intercettazioni moltissimi colpevoli non verrebbero individuati -, mostrassero di rendersi conto che gli abusi ci sono stati, ci sono, e un qualche mezzo per limitarli andrà comunque trovato. I dati sulle intercettazioni non sono molti e non sono di grande qualità, ma quei pochi di cui disponiamo ci permettono di dire alcune cose.

Nei due periodi per cui esistono dati relativamente omogenei, ossia il quinquennio 1992-1996 e il settennio 2001-2007, il numero di intercettazioni è esploso: nel primo periodo sono più che raddoppiate, nel secondo sono più che quintuplicate. Una parte di questo aumento si può giustificare con l’aumento dei delitti, un’altra parte con la crescita del numero di utenze a persona, ma siamo sicuri che una parte non sia dovuta al fatto che l’intercettazione è semplicemente il mezzo più comodo (e anche più economico, checché ne dicano i suoi detrattori) per raccogliere prove?

Le intercettazioni possono sembrare poche se commisurate al numero totale dei procedimenti (una statistica spesso astutamente usata dai magistrati per minimizzare il problema) ma non sono affatto poche se le commisuriamo al numero di procedimenti penali, e peggio ancora se le commisuriamo ai procedimenti per reati che le autorizzano (non tutti i reati sono intercettabili).

Infine, la distribuzione territoriale. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2007, mostrano che nei 29 distretti di corte d’Appello in cui è diviso il territorio italiano la propensione a intercettare ha una variabilità enorme: il distretto che intercetta di più lo fa 13-14 volte di più di quello che intercetta di meno. E anche all’interno delle grandi zone geopolitiche le differenze sono enormi, con distretti meridionali che intercettano 10 volte di più di altri situati nella medesima area geografica.

Insomma i magistrati hanno ragione, ma sembrano vedere solo una faccia della Luna. Quanto alle forze politiche principali, la mia impressione è che nessuna di esse abbia intenzione di trovare un compromesso ragionevole. Con un singolare scambio di ruoli, il centro-destra si fa paladino della privacy, e in questo improvviso afflato libertario si trascina dietro il drappello dei radicali; mentre il Pd, con Veltroni, ribadisce una linea già espressa nel programma elettorale: «La nostra posizione è per la massima libertà di intercettare, evitando però che il contenuto delle telefonate finisca impropriamente sui giornali, e questa è una posizione del Pd e anche, vorrei ricordarlo, dell’Italia dei valori».

Così il governo cerca di nascondere che le sue proposte produrranno più criminalità, il Partito democratico sembra non comprendere il grave vulnus alla libertà che l’esistenza stessa delle intercettazioni comporta. Il primo vincerà perché ha i numeri, il secondo si salverà l’anima votando contro. A noi spettatori resterà solo un dubbio: perché il Partito democratico non confluisce nell’Italia dei valori?

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 08, 2009, 06:29:06 pm »

8/2/2009
 
Non possiamo saperlo
 
 
LUCA RICOLFI
 
Immaginate un uomo facoltoso che sta morendo. In tanti gli hanno voluto bene, perché l’hanno conosciuto in vita e ne hanno apprezzato le qualità umane.

Qualcuno prega, qualcuno riflette, qualcuno piange, tutti sentono dentro di sé pietà e timore: pietà per chi li sta lasciando, timore di fronte al mistero della morte, l’unica cosa che - purtroppo - accomuna tutti. In un’altra stanza, però, mentre lui lentamente si avvia verso la fine, i familiari più stretti cominciano ad accapigliarsi per l’eredità. Volano parole grosse, si sentono insulti, minacce, recriminazioni, accuse reciproche. I parenti stretti litigano, gli amici ammutoliscono. Così è stato ed è per Eluana. Laici convinti e cattolici ortodossi ingaggiano oggi sotto i nostri occhi una mortificante guerra politica, di cui la persona di Eluana è strumento. E’ puro mezzo per fini che stanno altrove, fuori di lei e al di là di lei.

Una guerra i cui ingredienti essenziali sono due certezze uguali e contrarie: la Chiesa e i suoi sostenitori più fanatici sono certi che togliendo l’alimentazione ad Eluana si stia uccidendo una persona, il mondo laico è certo che così non si fa altro che rispettare la sua volontà. Gli uni dicono che Eluana morirà fra atroci sofferenze, gli altri si proclamano certi che Eluana abbia perso la facoltà di provare dolore. Gli uni poggiano le loro certezze su dichiarazioni di amici e di neuroscienziati, gli altri su dichiarazioni diametralmente opposte di altri amici e altri neuroscienziati. Così quella che era e resta una persona viene trasformata in un simbolo, pretesto e occasione per dare libero sfogo alle convinzioni di ognuno. Questo spettacolo è triste e grottesco. Ma è anche indebito. A dispetto delle apparenze, i due popoli che si affrontano armati delle loro certezze sono solo due dannose minoranze.

La maggioranza delle persone, su vicende come quella della povera Eluana, non ha certezze ma solo dubbi. Nessuno di noi sa che cosa si prova in uno stato vegetativo persistente, né se si provi qualcosa, né chi lo provi. Che cosa davvero significhi soffrire senza essere cosciente, o provare dolore senza pensare, ricordare, comunicare. Nessuno può sapere che cosa abbia sentito Eluana negli ultimi 17 anni, e se l’agonia pilotata di questi giorni sia una liberazione o l’ennesima e definitiva violenza sul suo corpo. Nessuno può sapere con certezza quale fosse la vera volontà di Eluana quando ha avuto l’incidente, e tanto meno quale sarebbe la sua volontà oggi, ammesso che possa ancora averne una. Per questo la maggior parte delle persone, anche quando ha delle opinioni, si rende conto che si tratta - appunto - soltanto di opinioni, che non può esistere, in casi come questo, una verità unica e incontrovertibile. Non così gli esponenti delle due chiese che in questi giorni si affrontano sui giornali e sulle tv.

Nonostante non esista alcuna certezza, quasi tutti parlano come se sapessero, senza l’umiltà e quel senso dell’umana finitudine che alla laicissima eppur religiosa Natalia Ginzburg faceva dire, in una poesia dedicata a Dio: «Non possiamo saperlo». Non possiamo sapere se Dio «è piccolo come un granello di sabbia», se «ha gli occhiali neri e due volpini al guinzaglio» o se invece «muore di fame, e ha freddo, e trema di febbre». Così come non possiamo sapere se per Eluana sia meglio vivere o morire. Se c’è una cosa che faremmo bene a imparare dal caso Englaro è che su questioni che toccano in profondità la coscienza e la sensibilità di ciascuno, la politica dovrebbe fare un passo indietro. Un passo indietro deciso e radicale. Una sorta di gesto di rispetto, come quando ci si toglie il cappello in chiesa o davanti a un morto. Mi ha fatto pena (e rabbia) il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, messa da Berlusconi di fronte all’aut aut: obbedire alla propria coscienza (non votando il decreto salva-Eluana) oppure dimettersi da ministro.

E mi risultano ancora meno comprensibili le convulsioni del Pd sui cosiddetti temi etici, come se un partito dovesse e potesse avere una linea anche su questioni che attengono alla coscienza individuale. Quando si parla di aborto, fecondazione assistita, testamento biologico, eutanasia, qualsiasi legge non potrà non urtare la sensibilità e le convinzioni profonde di una parte cospicua del Paese, spaccare i partiti, dividere persone che su tutto il resto sembrano andare d’accordo. Fare leggi sui temi etici è forse indispensabile, ma pensare che possa sempre esistere una legge giusta, valida per tutti, è solo un’illusione, come l’esempio dell’aborto illustra nel modo più chiaro: definire l’aborto un infanticidio è ovviamente inaccettabile per chi considera il feto soltanto un insieme di cellule, ma renderlo legittimo è inaccettabile per chi pensa che il feto sia già una persona, portatrice di sensibilità e diritti.

Da dilemmi come questi, purtroppo, non si esce mai con una legge giusta, ma solo con una legge rispettosa, che cioè rispecchi il più fedelmente possibile la sensibilità prevalente in una certa società e in un certo tempo, e possibilmente non umili la sensibilità di chi pensa controcorrente. Per questo è essenziale depoliticizzare il dibattito pubblico. Se sai che non può esistere la soluzione giusta, se sai che il tuo punto di vista non è l’unico possibile, se sai che la risposta alla maggior parte delle tue domande è «non possiamo saperlo», diventa naturale abbandonare il linguaggio della certezza e dello scontro, e passare al più civile registro del dubbio. Non cercare di imporre le certezze della maggioranza parlamentare, ma cercare di ascoltare i dubbi della minoranza. Anche perché, non appena si parla di temi come questi, i concetti di maggioranza e minoranza diventano assai fluidi: il governo potrebbe avere i numeri per imporre una legge in Parlamento, ma un referendum potrebbe riservargli un’amara sorpresa.

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 21, 2009, 06:39:22 pm »

21/2/2009
 
Gli stranieri e la mecca del crimine
 
LUCA RICOLFI
 

Periodicamente l’opinione pubblica si allarma per il problema della criminalità e della violenza. I giornali soffiano sul fuoco. Il governo tenta di fare qualcosa (è di ieri l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto anti-stupri). Maggioranza e opposizione tirano acqua ai rispettivi mulini. Quando al governo c’è la sinistra e all’opposizione c’è la destra, il copione è già scritto: la sinistra minimizza e la destra drammatizza. Quando invece, come oggi, i ruoli di governo e opposizione sono invertiti, il copione va in crisi. La sinistra vorrebbe cavalcare la paura, ma non può farlo perché i suoi riflessi condizionati buonisti le suggeriscono di sdrammatizzare. La destra, per contro, vorrebbe tanto drammatizzare, ma deve trattenersi perché è al governo e teme di essere considerata responsabile di quel che succede. Dopo i recenti casi di stupro a danno di donne italiane e straniere siamo dunque tornati a farci le solite domande. La criminalità è in aumento? Gli stranieri delinquono di più degli italiani? I romeni hanno una speciale vocazione per i reati di violenza sessuale? O sono tutte «percezioni»? Sull’andamento della criminalità non si può dire molto. Con i dati finora disponibili (non definitivi e fermi al 1° semestre 2008) possiamo solo fissare qualche punto. La criminalità è aumentata molto subito dopo l’indulto: +15,1% in un anno, fra il primo semestre 2006 e il primo semestre 2007. Nel primo semestre del 2008 è diminuita rispetto al 2007, presumibilmente a causa dell’elevato numero di «indultati» recidivi, liberati e poi riacciuffati dalle forze dell’ordine. Ma la diminuzione non è stata sufficiente a compensare l’impennata del 2007, cosicché due anni dopo l’indulto il numero di delitti era un po’ maggiore di quello pre-indulto. Per esempio abbiamo più rapine (+4,9%), più omicidi volontari consumati (+7,7%), più truffe e frodi informatiche (+10,7%). In breve: le carceri sono strapiene, esattamente come lo erano prima dell’indulto (60 mila detenuti), e il numero di delitti è un po’ maggiore di allora. Sul tasso di criminalità dei cittadini stranieri è difficile lavorare con statistiche precise, perché si ignora il numero esatto degli irregolari, però la situazione è piuttosto chiara.

Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6). Fino a qualche anno fa la pericolosità degli stranieri, pur restando molto superiore a quella degli italiani, era in costante diminuzione, ma negli ultimi anni questa tendenza sembra essersi invertita: la pericolosità degli stranieri non solo resta molto superiore a quella degli italiani, ma il divario tende ad accentuarsi. Resta il problema della violenza sessuale e degli stupri. Qui la prima cosa da dire è che i mass media sono morbosamente attratti dalle violenze inter-etniche - lo straniero che stupra un’italiana, l’italiano che stupra una straniera - e riservano pochissima attenzione alle violenze intra-etniche, che a loro volta sono spesso intra-famigliari (donne violentate da padri, zii, suoceri, partner più o meno ufficiali). Ma i mass media, a loro volta, amplificano una distorsione che è già presente nelle denunce: l’assalto di un branco di adolescenti a una ragazzina all’uscita da scuola ha molte più probabilità di essere denunciato di quante ne abbiano le vessazioni di un padre-padrone, non importa qui se dentro un campo nomadi o in una linda villetta piccolo borghese. Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che - anche qui - il divario si sta allargando: l’ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio relativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004). Infine, i romeni. In base ai pochi dati fin qui resi pubblici, la loro propensione allo stupro risulta circa 17 volte più alta di quella degli italiani, e una volta e mezza quella degli altri stranieri presenti in Italia. Lo stupro non è però il reato in cui i romeni primeggiano rispetto agli altri stranieri. Nella rapina sono 2 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 15 volte rispetto agli italiani), nel furto sono 3-4 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 42 volte rispetto agli italiani). Nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose, invece, sono leggermente meno pericolosi degli altri stranieri, ma comunque molto più pericolosi degli italiani (7 e 5 volte di più rispettivamente). Si può discettare all’infinito sul perché il tasso di criminalità degli stranieri, anche regolari, sia così più alto di quello degli italiani. Razzisti e xenofobi diranno che l’alta propensione al crimine di determinate etnie dipende dai loro usi e costumi, se non dal loro Dna.

Ma la spiegazione più solida, a mio parere, è tutta un’altra: se gli stranieri delinquono tanto più degli italiani non è perché noi siamo buoni e loro cattivi, ma perché i cittadini stranieri che arrivano in Italia non sono campioni rappresentativi dei popoli di provenienza. Con la sua giustizia lentissima, con le sue leggi farraginose, con le sue carceri al collasso, l’Italia è diventata la Mecca del crimine. Un luogo che, oltre a una maggioranza di stranieri per bene, attira ingenti minoranze criminali provenienti da un po’ tutti i Paesi, e così facendo crea l’illusione prospettica dello straniero delinquente. Perciò hanno perfettamente ragione gli italiani che hanno paura degli immigrati, ma hanno altrettanto ragione gli stranieri onesti che si sentono ingiustamente guardati con sospetto. I cittadini italiani privi di paraocchi ideologici non possono sorvolare sul fatto che uno straniero è dieci volte più pericoloso di un italiano. Ma farebbero ancor meglio a rendersi conto che ogni comunità straniera è costituita da due sottopopolazioni distinte: gli onesti attirati dalle opportunità di lavoro, e i criminali attirati dalla debolezza delle nostre istituzioni. Il problema è che le due sottopopolazioni non si possono distinguere a occhio nudo, e quindi - in mancanza di segnali che consentano di separarle - la diffidenza diventa l’unico atteggiamento razionale. Un atteggiamento che non si supera con lezioncine di democrazia, tolleranza e senso civico, ma solo rendendo l’Italia un paradiso per gli stranieri di buona volontà e un inferno per i criminali, stranieri o italiani che siano.

da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 01, 2009, 10:41:36 am »

1/3/2009
 
Primo: non confidarsi in pubblico
 
LUCA RICOLFI
 
Dev’essere rimasta di sale Kimberley Swann, la ragazza inglese di cui parlavano ieri un po’ tutti i giornali. Assunta da pochi mesi come impiegata presso una ditta privata che si occupa di rapporti con l’Asia, ha ricevuto una lettera di licenziamento con una motivazione inconsueta: aver screditato l’azienda parlandone male su Facebook, il sito Internet di «socializzazione» più di moda del momento (175 milioni di utenti).

Facebook è un luogo in cui si scambiano ogni sorta di informazioni-emozioni-proposte fra persone conosciute e sconosciute, fra vecchi amici e amici nuovi, fra professionisti della rete e semplici navigatori. Di qui l’equivoco: presumibilmente la ragazza inglese ha usato Facebook come si usa un canale privato (posta, telefono, e-mail).

Senza rendersi conto che Facebook è un luogo pubblico, sia pur governato da particolari regole e limitazioni. Kimberley, si potrebbe dire, ha avuto l’audacia di confidarsi in pubblico, incappando così in un vero e proprio ossimoro della vita sociale. La confidenza, infatti, è per sua natura personale, privata, vincolata alla riservatezza, e quindi l’idea di confidarsi in pubblico è tanto strampalata quanto quella di parlare a un cactus (l’attività preferita di Spike, mitico fratello di Snoopy).

Non so come siano andate esattamente le cose, ma l’episodio è rivelatore. Chi incappa in un incidente del genere sembra non rendersi conto del lato oscuro della società della comunicazione. Siamo abituati a pensare che l’interconnessione universale sia un pasto gratis, una meravigliosa possibilità regalata a tutti di poter trasmettere e ricevere informazioni, conoscere persone, operare a distanza. E invece essa è anche una cosa diversa, che richiederà molto tempo ancora per essere pienamente compresa nei suoi effetti.

Del resto è sempre stato così. Le società imparano molto lentamente a fare i conti con le conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche. Quando Gutenberg inventò la stampa, intorno al 1450, nessuno poteva prevedere che in futuro essa avrebbe alimentato l’etica protestante e reso possibili le democrazie di massa. Così, quando le tecnologie di riproduzione dei suoni e soprattutto delle immagini (fotografia e cinema) resero illimitatamente riproducibili le opere d’arte, Walter Benjamin fu tra i pochi a intravedere le profonde conseguenze che questo avrebbe avuto sulla fruizione delle opere stesse, prima fra tutte la «perdita dell’aura», ossia di quell’alone di sacralità, autorevolezza, unicità che aveva da sempre circondato i capolavori artistici (il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è della metà degli Anni 30).

Oggi, con il trionfo di Internet e delle telecomunicazioni, siamo ancora meno preparati a capire tutti gli effetti della rivoluzione tecnologica in atto, specialmente quelli inquietanti. L’altra faccia dell’interconnessione globale, quella che i cantori delle virtù della rete non vedono, è la distruzione della privacy. Se Walter Benjamin fosse vivo oggi, forse scriverebbe La privacy nell’epoca della sua impossibilità tecnica.

Perché la società della comunicazione distrugge la privacy? Una ragione ovvia, visibile a occhio nudo, è che tutti i nostri comportamenti sono diventati «tracciabili». Qualsiasi cosa facciamo - telefonare, usare una carta di credito, entrare in un negozio video-sorvegliato, compilare un modulo di acquisto, collegarsi a Internet, usare un personal computer - depositiamo tracce informatiche indelebili del nostro passaggio, per non parlare delle tracce biologiche che continuamente lasciamo sugli oggetti, le persone, gli ambienti, e che l’analisi del Dna rende utilizzabili a fini di identificazione. Qualsiasi cosa facciamo può essere ripresa da un telefonino, di cui manco ci accorgiamo. Qualsiasi cosa diciamo può essere catturata da un registratore, a nostra insaputa. Qualsiasi immagine o voce ci abbiano carpito, può tranquillamente finire su YouTube, o essere riprodotta, diffusa, venduta nei circuiti più impensabili.

Ma c’è una ragione più profonda che mina la privacy, e quella ragione siamo noi stessi, o meglio i nostri comportamenti quotidiani. Nel giro di pochissimi decenni la nostra privacy ha subito l’onda d’urto del nostro esibizionismo. Proprio mentre da ogni parte veniva proclamato il diritto alla riservatezza, fino al punto da considerare invasiva la pubblicazione dei voti finali sui tabelloni scolastici, l’evoluzione del costume procedeva in direzione diametralmente opposta. Il proprio privato, per quanto insignificante o addirittura riprovevole, viene continuamente e rumorosamente spiattellato all’attenzione di tutti, in treno come in aereo, al bar come al ristorante, in televisione come su Internet. Il sentimento del pudore si è ritirato come un ghiacciaio attaccato dal riscaldamento globale. Il «lei» sta soccombendo al «tu», nonostante le resistenze di alcuni (l’altro giorno alla radio ho sentito Cruciani, l’ottimo conduttore della Zanzara, costretto a chiedere a un telespettatore che gli dava del tu: scusi, lei ed io ci conosciamo?). Insomma, come in una scatola di sardine, siamo tutti vicini a tutti, continuamente invasi e sempre potenzialmente invasori. Il medesimo studente che chiede privacy quando si tratta della sua pagella, non esita a riversare su Internet le immagini a luci rosse di compagne e fidanzate. Il cittadino che non vuole essere spiato o intercettato è il primo a sognare di finire su YouTube.

È vero, con una e-mail possiamo contattare chiunque a costo zero. Ma proprio perché riceviamo decine, centinaia, migliaia di e-mail il nostro tempo è sequestrato da un lavoro opprimente di selezione, autodifesa, smistamento, che sottrae energia a occupazioni ben più degne. Lo spazio della nostra privacy si sta consumando, ma noi non siamo nella condizione di accorgercene. Non solo perché siamo inebriati dalla libertà che la rete ci promette. Ma perché confessarci, esporci, mostrarci ci piace. E quindi confondiamo spazio privato e spazio pubblico. Non ci rendiamo conto che la privacy, il diritto alla privacy, è tante cose insieme. Diritto a non rivelare tutto di noi. Diritto a non far sapere a tutti quel che facciamo sapere a pochi. Ma anche diritto a non sapere i fatti altrui. A non interagire con tutti. A non essere invasi. Insomma, diritto a una distanza che, con il passare del tempo, sta diventando il bene più raro.

da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 04, 2009, 10:08:10 am »

4/3/2009
 
Un assegno che non piace ai politici
 
LUCA RICOLFI
 

Può piacere o non piacere Dario Franceschini, il nuovo segretario del Partito democratico.
Si possono nutrire seri dubbi sulla sua preparazione economica, visto il modo in cui si fece strapazzare da Tremonti in tv qualche mese fa a proposito di Pil, deficit e dintorni. Per non parlare del semplicismo della sua ultima proposta: fare un decreto legge per dare un assegno a tutti i disoccupati e finanziarlo con i proventi della lotta all’evasione fiscale. Però è difficile negare che da quando c’è lui - ossia da poco più di una settimana - la musica nel Pd sembra cambiata. Il nuovo segretario appare meno indeciso, meno condizionato dalla nomenklatura di partito (forse anche perché non ambisce a essere confermato a ottobre), meno oscillante fra dialogo e non dialogo, meno romanocentrico, ma soprattutto sembra avere interrotto o perlomeno attenuato la sindrome da incertezza che affliggeva il Pd su quasi tutto.

Su testamento biologico, collocazione nel Parlamento europeo, rapporto con i sindacati, referendum elettorale e così via. In più, come ha capito subito l’esperto Berlusconi, Franceschini sa stare in tv.

Fra tutte le mosse del neo-segretario, quella dell’assegno per tutti i disoccupati (non solo per le fasce protette) è decisamente la più importante, perché interessa la gente, mette in difficoltà il governo, e costringe un po’ tutti a prendere posizione. Vediamole dunque queste posizioni.

Posizione A: si può fare, ma per adesso si deve fare in deficit, recuperando i soldi nei prossimi anni, ad esempio con i proventi della lotta all’evasione fiscale. Per quel che capisco, è la posizione prevalente nel Pd e nei sindacati (e anche quella di Franceschini).

Posizione B: si può fare, ma non in deficit, i soldi si possono trovare riformando le pensioni (ad esempio abrogando la contro-riforma di Prodi). È la posizione dell’Udc, della Confindustria, di Enrico Letta e dell’ala liberal-riformista del Pd.

Posizione C: non ci sono né i tempi né i soldi, non si può fare. È la posizione di molti esponenti del governo, compreso Berlusconi.

Ciascuna di queste posizioni ha dalla sua diverse buone ragioni. È vero, ad esempio, quel che dice il ministro Sacconi, e cioè che una riforma degli ammortizzatori sociali organica richiederebbe troppo tempo, mentre il problema di sostenere il reddito di chi perde il lavoro va affrontato subito, quindi inevitabilmente con gli strumenti che già ci sono. Così come è vero che qualsiasi riforma degli istituti attuali - assegno di disoccupazione, cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mobilità breve e lunga, ecc. - dovrebbe eliminare una miriade di abusi (da parte delle parti sociali) e inadempienze (da parte della pubblica amministrazione): lavoratori in cassa integrazione che lavorano in nero, proroghe concesse per pressioni politiche, borsa del lavoro incapace di far incontrare domanda e offerta. È altrettanto vero che lo stato dei nostri conti pubblici rende estremamente rischioso un finanziamento in deficit e suggerisce piuttosto di puntare su un riequilibrio del sistema pensionistico, che sarebbe ben accolto dai mercati e potrebbe rendere meno vulnerabili i nostri conti pubblici (grazie a una riduzione del differenziale fra titoli di stato italiani e bund tedeschi). È verissimo, infine, che in un momento di crisi è dura chiedere ulteriori sacrifici ai lavoratori.

In tutta questa discussione, però, resta in ombra - almeno nel dibattito politico - un punto a mio parere assolutamente centrale, e cioè che in gioco non ci sono solo una decina di miliardi di euro (le valutazioni del costo della riforma oscillano fra i 5 e i 15 miliardi di euro) ma anche un principio di enorme portata psicologica: l’automatismo o la discrezionalità del sostegno. Attualmente buona parte dei cosiddetti ammortizzatori si attivano e si prorogano in base a scelte discrezionali della politica, come risultanti di complessi negoziati fra sindacati, Confindustria, governo, amministrazioni locali. Inevitabilmente tali scelte premiano gli attori e i territori forti a discapito di tutti gli altri. Proprio per questo il sistema attuale non dispiace alla politica, intesa in senso lato, e penalizza enormemente gli attori deboli: giovani precari, artigiani, piccole imprese e loro dipendenti. Il sistema alternativo, ossia quello dell’assegno unico e automatico per tutti coloro che hanno perso un precedente lavoro, ha invece il grande vantaggio di codificare un diritto individuale che non andrebbe negoziato con nessuno, e quindi toglierebbe molto potere alle istituzioni e alle lobby che - aprendo e chiudendo infiniti tavoli di trattativa - amministrano l’esistenza dei lavoratori, per lo più tutelando i forti e dimenticando i deboli. Ma c’è un altro preziosissimo vantaggio del sistema dell’assegno unico e automatico: rendendo universale e certo il godimento del beneficio in caso di necessità, l’assegno unico contribuirebbe a ridurre l’incertezza delle famiglie, ossia una delle cause che oggi deprimono la fiducia e per suo tramite i consumi.

Che fare, dunque? Una modesta proposta potrebbe essere questa. Governo e opposizione si diano un termine certo, per esempio il 30 settembre di quest’anno, per approvare in Parlamento un disegno di legge condiviso per il riordino e l’unificazione degli attuali ammortizzatori sociali (molti progetti esistono già, si tratta solo di integrarli e soprattutto di scrivere le norme attuative, fondamentali se non si vuole che l’entrata in funzione vada alle calende greche). Quanto al finanziamento del nuovo istituto, la base minima potrebbe essere costituita dalla somma dei costi degli istituti pre-esistenti, pari a parecchi miliardi di euro. Il resto sia tratto dalla riforma della previdenza, in una misura che potrà aumentare man mano che ci decideremo a ritoccare il nostro sistema previdenziale, rendendolo più sostenibile. Se una certa riforma fa risparmiare la cifra X, mettiamo quella cifra nel «salvadanaio» del nuovo assegno di disoccupazione. Gli iperprotetti pagheranno qualcosina, ma in compenso giovani e fasce deboli avranno finalmente un minimo di tutela.

Naturalmente non se ne farà nulla, perché politici, amministratori locali, sindacati vari preferiranno continuare a sedersi intorno a un tavolo per negoziare tutto. Ma è bello qualche volta immaginare di vivere in un mondo diverso da quello reale. Un mondo in cui la politica, che proprio grazie alla crisi vede continuamente crescere il proprio potere, sia capace anche - per una volta - a fare un piccolo passo indietro. Per il bene dei più indifesi, e forse persino per il bene della politica stessa.

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Marzo 16, 2009, 10:09:34 am »

16/3/2009
 
La guerra di Dario e Silvio
 
LUCA RICOLFI
 
A giudicare dai sondaggi, il segretario del partito democratico Dario Franceschini piace agli elettori del Pd e non dispiace al resto della popolazione. Secondo una recente indagine di Mannheimer la maggior parte dei sostenitori del Pd pensa che il nuovo leader abbia sufficiente carisma e che condurrà il partito in modo «del tutto diverso» dal suo predecessore, riuscendo così a portare nuovi consensi.

E’ realistica questa immagine di una luna di miele fra il nuovo leader e l’elettorato del Pd?

Secondo me sì, per almeno tre buoni motivi. Il primo è che, nonostante il suo volto sia ormai noto da qualche anno, Franceschini non è percepito come un vecchio notabile della sinistra, come accade invece a tutti quanti i politici di lungo corso dei Ds e della Margherita: Massimo D’Alema, Romano Prodi, Piero Fassino, Walter Veltroni, Francesco Rutelli, Anna Finocchiaro, Giuliano Amato, Rosy Bindi, Franco Marini, Pier Luigi Bersani, Livia Turco, Luciano Violante. Fino a cinque anni fa la stragrande maggioranza dei comuni cittadini non sapeva chi fosse Dario Franceschini, né conosceva il suo aspetto, quella faccia da bravo ragazzo che - a dispetto dei suoi 50 anni - aiuta a differenziarlo dal resto dell’establishment democratico, fatto di gente visibilmente corrosa dalle fatiche della politica.

Il secondo motivo per cui Franceschini piace è che è veloce: decide, prende posizione, polemizza, è tagliente, non gira troppo a lungo intorno alle questioni. Adriano Celentano, inventore della dicotomia rock/lento, avrebbe detto di lui che è «rock»: tutto il contrario dello stile ellittico e sospensivo con cui da dieci anni i «lenti» leader democratici hanno affrontato (o meglio eluso) i nodi politici fondamentali della sinistra. Ma il motivo vero, il motivo più importante, per cui Franceschini piace è che ha cominciato a curare la più grave delle malattie della sinistra: il linguaggio oscuro, criptico, involuto, astratto, lontano dal senso comune. Franceschini usa parole che tutti possiamo capire, fa proposte di cui riusciamo a immaginare gli effetti, è quasi sempre concreto. Insomma si preoccupa innanzitutto di arrivare alle persone normali, e solo in seconda battuta di lanciare messaggi in codice agli addetti ai lavori. Sul piano della comunicazione, è il leader più simile a Berlusconi che la sinistra post-comunista abbia avuto finora, e proprio per questo funziona. Penso che ciò sia un bene, per l’Italia e per la sinistra: farsi capire, rivolgersi all’elettorato prima che al Palazzo è una virtù, indipendentemente dai motivi più o meno nobili per cui lo si fa.

C’è un piccolo però, tuttavia. Per quel che abbiamo sentito in queste prime settimane, Franceschini assomiglia a Berlusconi anche da un altro punto di vista: la sua stella polare è il consenso, non la modernizzazione dell’Italia. Se osservate attentamente le azioni dei due leader, è piuttosto evidente che entrambi amano le mosse demagogiche o populiste, ed evitano accuratamente le scelte coraggiose, che farebbero bene al Paese ma potrebbero mettere a repentaglio la stabilità del governo o il potere dell’opposizione. È stata demagogica la soppressione integrale dell’Ici attuata dal governo, visto che i poveri erano già stati sgravati (da Prodi) e gli effetti sulla propensione al consumo non potevano che essere trascurabili. È demagogica la richiesta di Franceschini di aumentare l’aliquota Irpef per i redditi sopra i 120 mila euro, vista la modestia del relativo gettito e visto che la stragrande maggioranza dei redditi alti non vanno in dichiarazione, in quanto tassati alla fonte con aliquote decisamente convenienti, di gran lunga inferiori a quella massima (un punto opportunamente richiamato dal professor Uckmar giusto ieri sul Corriere della Sera). Ma ancor più delle scelte, sono significative le non scelte. Destra e sinistra hanno paura di liberalizzare i servizi pubblici locali, perché distruggerebbero decine di migliaia di poltrone negli enti locali. Il governo non vuole ammortizzatori sociali di carattere universalistico (assegno di disoccupazione automatico, per tutti i settori e tutti i contratti di lavoro) perché sa che uno strumento del genere ridurrebbe fortemente il potere discrezionale della politica. L’opposizione, per bocca di Franceschini, propone sì l’assegno di disoccupazione per tutti, ma rifiuta di coprirne i costi riformando le pensioni, una patata bollente che anche il governo non ha la minima intenzione di toccare sul serio.

Visto da quest’altra angolatura, il nuovo corso di Franceschini appare assai meno nuovo di quanto poteva sembrare a prima vista. Certo, alcune idee meriterebbero di essere valutate attentamente, come l’abbinamento del referendum elettorale alle elezioni Europee, o la riduzione al 20% dell’anticipo Irpef di giugno. Ma complessivamente la direzione di marcia prevalente sembra riproporre schemi vecchiotti: visto che al centro non si riesce a sfondare, spostiamo il partito (un pochino) a sinistra per recuperare voti fra i delusi, i nostalgici di Prodi, i dipietristi arrabbiati, i laici doc, i girotondini, gli anti-berlusconiani in genere. Insomma, la priorità delle priorità è evitare che le Europee si trasformino in una Waterloo per il partito democratico, a costo di interrompere - per l’ennesima volta - il cammino riformista timidamente iniziato tanti anni fa.

È una scelta sociologicamente comprensibile, perché basata sull’istinto di sopravvivenza da cui nessun apparato burocratico è immune, anche quando proclama ideali ben più alti della mera conservazione di sé stesso. Il dubbio, semmai, è se una scelta così conservatrice sia veramente efficace per salvare il Pd da un declino irreversibile. Pensare sempre, come Ds e Margherita hanno fatto negli ultimi anni, esclusivamente all’immediato futuro - le prossime elezioni, il prossimo congresso, le imminenti primarie, la stabilità di un governo amico - può rallentare il declino, ma forse non è il mezzo più adatto a invertire una tendenza. D’altronde, per invertire una tendenza, ci vorrebbero partiti vivi, in cui minoranze combattive lottano per affermare una nuova visione politica, per contrastare un gruppo dirigente, e infine per sostituirlo con una nuova élite. Se questo non accade, e in Italia non accade più da tempo in nessun partito, è inutile aspettarsi qualcosa di più di quello che il buon Franceschini sta facendo per il suo sfortunato partito. Se mai qualcosa di nuovo apparirà sotto il sole, con ogni probabilità verrà da fuori.
 
da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 28, 2009, 03:56:04 pm »

28/3/2009
 
Conservatori e liberali
 
LUCA RICOLFI
 

Da oggi Forza Italia e Alleanza nazionale non ci sono più, e al loro posto esiste un unico partito della destra, il Popolo della Libertà: lo sta creando ancora una volta Silvio Berlusconi, che proprio ieri - davanti a una platea entusiasta - ha inaugurato a Roma la tre giorni che sancirà la definitiva unificazione fra il partito del premier e il partito del presidente della Camera. Ha fatto bene Berlusconi, ha fatto bene Fini. Soppesati i pro e i contro, la fusione fra Forza Italia e Alleanza nazionale mi sembra un evento positivo un po’ per tutti. È positivo per il partito di Fini, altrimenti votato a un destino di subalternità a Forza Italia: a differenza della Lega, An non ha un insediamento territoriale forte, né alleati possibili diversi da Forza Italia. È positivo per il partito di Berlusconi, perché senza la «trasfusione di militanza» assicurata dai nuovi venuti, Forza Italia correrebbe il rischio di un drastico ridimensionamento al momento dell’uscita di scena di Berlusconi. È positivo per l’Italia, perché in un contenitore unico le (modeste) differenze ideologiche e programmatiche fra i due principali partiti della destra avranno più possibilità di esprimersi su un piano puramente politico, anziché essere artificiosamente amplificate a fini elettorali (come è successo, ad esempio, in materia di sicurezza).

Tanto più che, proprio per il carisma di Berlusconi, tali differenze non avranno il potere paralizzante che le differenze hanno invece sempre avuto a sinistra, dove la divisione fra sinistra riformista e sinistra estrema ha abbattuto due governi Prodi (nel 1998 e nel 2008), mentre le «diverse sensibilità» interne al neonato Pd sono bastate a far naufragare un progetto covato oltre un decennio. Che un solo partito sia meglio di due non significa, tuttavia, che il quadro politico che esce dalla festa di questi giorni sia particolarmente incoraggiante per il Paese. Il partito democratico di Veltroni e Franceschini ha già dimostrato ampiamente di non essere il partito riformista, coraggioso e liberale, che le sue migliori intelligenze hanno sognato per anni. Ma il Pdl non sembra dare molte garanzie in più. Alleanza nazionale non è mai stato un partito modernizzatore, Forza Italia lo è stato per una decina d’anni, fino a quando - complice il ristagno economico e l’intransigenza sindacale - ha capito che spingersi troppo in là sulla strada delle riforme avrebbe compromesso le basi del proprio consenso elettorale. Non a caso, in questi giorni, la definizione del nuovo partito più ascoltata è stata «casa dei moderati», un’etichetta impensabile quindici anni fa, quando Forza Italia sembrava promettere una rivoluzione liberale (un impegno ritualmente evocato da Berlusconi anche ieri, ma reso poco credibile dalle promesse mancate del 2001-2006, per non parlare delle pulsioni stataliste di oggi). La realtà, purtroppo, è che le forze che puntano sulla modernizzazione dell’Italia sono in minoranza sia nel Paese sia in Parlamento, e lo sono da sempre. C’è stata, è vero, una breve stagione, grosso modo il decennio 1994-2004, nella quale sia la destra sia la sinistra hanno provato a modernizzare l’Italia, ma quella stagione - vista nella prospettiva della lunga durata - è stata come un breve squarcio di sole in una giornata nuvolosa. La nostra cultura politica resta, nonostante ogni velleità modernizzatrice, fondamentalmente figlia delle tre grandi ideologie del secolo scorso, il comunismo, il fascismo, il cattolicesimo. Oggi la patina ideologica si è ritirata quasi completamente, come un ghiacciaio sciolto dall’effetto serra, ma la scorza più dura - fatta di statalismo, dirigismo, paternalismo - è ben in vista, e si sta anzi irrobustendo: la crisi economica aumenta la domanda di protezione e di tutela, mentre la libertà individuale sta diventando una sorta di bene di lusso, che viene dopo la sicurezza economica e personale. Se lasciamo perdere i soliti schemi astratti - destra e sinistra, laici e cattolici - e guardiamo a quel che i partiti sono effettivamente diventati nella seconda Repubblica, il quadro che l’elettore ha di fronte non è dei più ricchi. Tutti i partiti, compresa la Lega, sono impegnati innanzitutto a tutelare il potere degli amministratori locali, e si oppongono tenacemente a qualsiasi norma che rischi di ridurre le risorse a loro disposizione, o di diminuire il loro potere di nomina: non per nulla né il centro-sinistra né il centro-destra hanno avuto il coraggio di varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, non per nulla il federalismo fiscale è stato progressivamente annacquato per venire incontro al ceto politico dei territori più spreconi. Quanto ai due maggiori partiti, il Pd e il Pdl sono entrambi - oggi - due partiti conservatori di massa, che si differenziano fra loro essenzialmente per gli interessi verso cui hanno un occhio di riguardo: la sinistra non ha la minima intenzione di disturbare la sua base sociale, fatta di pensionati e lavoratori «garantiti», la destra non ha la minima intenzione di disturbare la propria, fatta di partite Iva, ceti professionali, imprenditori. La sinistra non avrà mai il coraggio di riformare il mercato del lavoro, sfidare i sindacati, abbandonare le corporazioni dei magistrati, degli insegnanti, dei professori universitari. La destra non avrà mai il coraggio di combattere l’evasione fiscale, estirpare il lavoro nero, liberalizzare il commercio e le professioni, difendere i consumatori contro gli abusi delle imprese, grandi o piccole che siano. Così le cose buone che piacerebbero agli uni sono destinate a restare lettera morta per il veto degli altri. E viceversa. Possiamo pensare che sia un male, perché l’Italia avrebbe bisogno d’innovazione più che di conservazione dell’esistente. Si può pensare anche, tuttavia, che la comune ispirazione conservatrice della destra e della sinistra non sia altro, in fondo, che l’espressione politica di quel che noi stessi siamo. Un popolo in cui l’aspirazione al cambiamento si manifesta a ondate improvvise, come ribellismo anarcoide, su un sottofondo costante, duraturo, pietroso fatto di particolarismo, di tenace attaccamento ai nostri interessi immediati, individuali e di gruppo. Se questo è ciò che siamo, non deve stupire che - da noi - le forze del cambiamento siano minoranza sia a destra sia a sinistra, e che alla fine della storia, dopo un quindicennio di seconda Repubblica, la competizione politica fondamentale sia diventata una sfida fra due conservatorismi. Ancora un anno e mezzo fa avevamo Ds, Margherita, Forza Italia, An. Oggi abbiamo solo Pd e Pdl. Non è un passo indietro, perché le differenze che le due grandi fusioni cancellano - fra Ds e Margherita, fra An e Forza Italia - erano marginali, talora persino artificiose, mentre Pd e Pdl sono due partiti realmente diversi, per visione del mondo, per mentalità, per priorità politiche. Ma non è neppure un grande passo avanti, perché sono diversi soltanto per le cose che vogliono conservare. Così, chi vuole un vero cambiamento non sa chi votare, e chi vuole votare non può aspettarsi un vero cambiamento.

da lastampa.it
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« Risposta #44 inserito:: Aprile 12, 2009, 10:53:02 am »

12/4/2009
 
Domande agli scienziati
 

LUCA RICOLFI
 
Oggi non è il tempo delle polemiche, delle recriminazioni, delle accuse reciproche. Dopo la tragedia del terremoto abruzzese, maggioranza e opposizione hanno scelto la compostezza, e noi non possiamo che essergliene grati. Come non possiamo che essere riconoscenti alla Protezione civile, ai volontari, a quanti hanno fatto di tutto per lenire le sofferenze delle popolazioni colpite. Verrà un momento, tuttavia, in cui dovremo trarre qualche conseguenza da quel che è successo. Dovremo decidere, ad esempio, se continuare a «chiudere un occhio» sulle migliaia di situazioni in cui si accettano dei rischi solo perché affrontarli costa troppo, in termini di soldi o di consenso politico: è il caso di migliaia di edifici scolastici pericolosi, è il caso delle tante abitazioni private - spesso abusive - lasciate proliferare in zone a rischio sismico conclamato, come le pendici dei nostri maggiori vulcani.

C’è però forse anche qualcos’altro su cui, prima o poi, dovremo cominciare a darci delle risposte. Questo qualcos’altro si riassume in una domanda drammatica: a chi dobbiamo credere?

Lo so, a prima vista la risposta è ovvia: dobbiamo fidarci della scienza, che è imparziale e autorevole. E in linea di massima è davvero così. Quando una decisione - ad esempio sgomberare una città - dipende da valutazioni tecniche complesse, è ragionevole che i politici ascoltino gli scienziati, e non corrano ciascuno dietro al proprio esperto di fiducia, o credano al primo portatore di verità pseudo-scientifiche alternative a quelle ufficiali. Insomma, nel caso del terremoto dell’Aquila non credo che i politici potessero agire diversamente, e trovo ingiusto accusarli di avere colpevolmente sottovalutato i rischi del sisma. Per il ruolo che ricoprono politici e amministratori non hanno scelta: pensate che cosa succederebbe se uno di essi ignorasse il parere della comunità scientifica, e la sua decisione - di agire, o non agire - si rivelasse catastrofica.

A chi dobbiamo credere?
Ma c’è anche un’altra domanda, che non riguarda i politici bensì il pubblico: a chi dobbiamo credere noi comuni cittadini, che non abbiamo responsabilità istituzionali, ma semmai abbiamo il problema di proteggere noi stessi e i nostri cari? La fiducia che i politici sono tenuti a riporre nei confronti della scienza ufficiale è pienamente giustificata?

Qui credo che una riflessione non guasterebbe. La mia impressione è che in molti campi gli esperti siano assai meno depositari di certezze di come noi ingenui cittadini li percepiamo. Ci sono ambiti nei quali le valutazioni degli scienziati sono pienamente affidabili, pensiamo ad esempio ai calcoli di un ingegnere che progetta un ponte o di un fisico che manda in orbita un satellite. Ma ci sono ambiti in cui, per le ragioni più disparate (dati insufficienti, teorie incomplete, complessità intrinseca dei fenomeni), le affermazioni degli scienziati sono altamente incerte e controvertibili, tanto è vero che ci sono scuole di pensiero, sottoscuole, minoranze dissenzienti, fazioni in lotta più o meno aperta fra loro. È il caso, ad esempio, del problema del riscaldamento globale, un fenomeno che la maggioranza degli studiosi ritiene dovuto essenzialmente all’azione dell’uomo e una minoranza considera invece dovuto a cause naturali, o semplicemente a un mix sconosciuto di cause naturali e umane. O il caso dell’economia e dei mercati finanziari, per i quali semplicemente non esistono modelli di previsione affidabili, né teorie abbastanza consolidate da suggerire terapie ben definite.

Il doppio paradosso
In questi casi si crea un doppio paradosso. L’autorità di stabilire il confine fra il vero e il falso continua ad essere monopolio della scienza ufficiale, anche se la scienza ufficiale stessa non ha (o non ha ancora) ciò che le conferisce tale autorità, e che noi istintivamente tendiamo ad attribuirle automaticamente: la capacità di fare predizioni corrette o suggerire terapie valide. Simmetricamente può succedere che dilettanti, impostori o semplici outsider riescano a fare meglio della scienza ufficiale, talora per puro caso o fortuna, talora perché in certe circostanze una teoria può essere meglio di nessuna teoria, talora perché un outsider può aver capito cose che l'establishment accademico può non aver capito. Nel caso della crisi economica, ad esempio, nessuna istituzione ufficiale ha neanche lontanamente previsto quel che sarebbe successo, e molte hanno continuato a sfornare predizioni errate, anche a crisi ampiamente in corso; mentre chi avesse creduto ad analisi di esperti non ufficiali (perché non economisti) come il matematico Benoît Mandelbrot (2004) o il politologo Robert Gilpin (2000) avrebbero avuto dubbi solo sul momento esatto del collasso, e sarebbero corsi ai ripari ben prima dell'estate del 2007.

E nel caso del terremoto abruzzese ?
A ben guardare a me sembra che ci troviamo di fronte, per una volta, a un doppio errore. La scienza ufficiale, una settimana prima del disastro, ha formulato una valutazione che, a posteriori, si è rivelata errata: «Lo sciame sismico che interessa L'Aquila da circa tre mesi è un fenomeno geologico tutto sommato normale, che non è il preludio ad eventi sismici parossistici, anzi il lento e continuo scarico di energia, statistiche alla mano, fa prevedere un lento diradarsi dello sciame con piccole scosse non pericolose». Quanto al paladino delle proprietà predittive del radon, il tecnico Giampaolo Giuliani, ha mostrato di sopravvalutare le capacità profetiche della sua creatura: il terremoto previsto a Sulmona per il 29 marzo non si è verificato, mentre il suo secondo allarme (quello lanciato nella notte del 5-6 aprile a L'Aquila ai propri vicini e familiari) si è purtroppo rivelato fondato.

Nessuno pienamente attendibile
In breve, a me pare che nessuno si sia mostrato pienamente attendibile. Il tecnico Giuliani perché per rendere credibile un qualsiasi metodo scientifico ci vogliono ben più prove di quelle di cui disponiamo fin qui a proposito del nesso fra radon e terremoti. La scienza ufficiale perché, quando dice che i terremoti non si possono prevedere puntualmente (luogo e ora), si trincera dietro un’ovvietà, che vale anche per la pioggia e i fulmini ma che non ci impedisce di essere inondati da «previsioni del tempo». Più che certezze, insomma, quel che la tragedia aquilana ci lascia in eredità sono tante domande, domande vere e non retoriche su come si possono gestire situazioni come quella abruzzese. Molto sommessamente vorrei proporne tre.

Prima domanda: siamo sicuri che le ricerche sulle proprietà predittive delle emissioni di radon siano così poco promettenti da giustificare la scarsa attenzione ad esse finora riservata dalla ricerca ufficiale in Italia?

Seconda domanda: siamo sicuri che almeno le variazioni (nel tempo e nello spazio) della probabilità di un terremoto non possano essere valutate con il radon o con altri «precursori»? Possibile che, dopo anni di studi sui precursori, non si sia ancora in grado di stabilire non dico dove e quando ci sarà la catastrofe ma se, in un dato momento e in un dato luogo, il rischio sia salito troppo?

Terza e decisiva domanda: siamo sicuri che, di fronte a un forte aumento del rischio di un evento catastrofico segnalato dagli strumenti, la sola alternativa sia fra non fare nulla e sgomberare un'intera città? Possibile che non esistano vie di mezzo?

Un grande dubbio
In poche parole io resto con un grande dubbio. Mi chiedo se, almeno in futuro, scienziati ed autorità non potrebbero decidersi a valutare con più attenzione, o meno sufficienza, i segnali premonitori deboli (ossia non sorretti da una teoria scientifica consolidata), nonché le misure intermedie fra immobilismo ed evacuazione totale. Fra queste ultime, ad esempio, ce n'è una che molti cittadini usano spontaneamente quando hanno paura di un terremoto, e che ad alcuni aquilani ha persino salvato la vita: scendere in strada o nei campi, senza abbandonare definitivamente le proprie abitazioni. Un po' come si faceva durante la guerra, quando le sirene annunciavano l'eventualità di un bombardamento aereo e la gente si riparava nelle cantine e nei rifugi antiaerei. Anche allora le autorità avrebbero potuto dire: «allo stato attuale delle conoscenze non è possibile realizzare una previsione deterministica della localizzazione, dell'istante e della forza dell'evento». Ma non lo dicevano, e i cittadini decidevano se correre il rischio.

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