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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 107962 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:15:32 pm »

Lavoro, la proposta della Fondazione Hume: “Con il job-Italia 300 mila posti in più”
Riduzione delle imposte pagate dalle aziende sui contratti. Le imprese: potremmo più che raddoppiare le assunzioni
Il job-Italia è generoso anche con i lavoratori. E il gettito per l’Erario resta invariato

08/10/2014
Luca Ricolfi

Ma Renzi li legge i documenti ufficiali del suo governo? A me vien da pensare di no, o che li consideri solo noiose scartoffie buone per tranquillizzare i burocrati europei. Altrimenti non farebbe le dichiarazioni che continua a fare da mesi, in totale contrasto con quello che il suo ministro dell’economia scrive nella «Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014».

Renzi dichiara che nel 2015 i tagli alla spesa pubblica non saranno «solo» di 17 bensì di 20 miliardi; nelle scartoffie, invece, la spesa pubblica diminuisce di appena 4 miliardi. Renzi annuncia una rivoluzione nel mercato del lavoro, per dare una speranza ai disoccupati e agli esclusi, ma nella «Nota di aggiornamento» si prevede che l’anno prossimo l’occupazione aumenterà di appena 20 mila unità, a fronte di più di 3 milioni di disoccupati. Renzi ci promette che fra 1000 giorni l’Italia sarà completamente cambiata grazie all’impatto delle sue riforme, ma nella «Nota di aggiornamento» del suo ministro dell’Economia si prevede che nel 2018, a fine legislatura, sempre che la congiuntura internazionale vada bene e che le famigerate riforme vengano fatte, il tasso di disoccupazione sarà dell’11.2%, anziché del 12.6% come oggi: in parole povere 2-300 mila disoccupati in meno (su 3 milioni), a fronte di 1 milione e mezzo di posti di lavoro persi durante la crisi. Se fossi un imprenditore sarei preoccupato, ma se fossi un sindacalista sarei imbufalito. Come si fa ad accettare che in un’intera legislatura il numero di disoccupati resti sostanzialmente invariato? È per questo, perché sa di non essere in grado di creare nuovi posti di lavoro, che il governo pone tanta enfasi sugli ammortizzatori sociali?

Nuovi posti a costo zero? 
Ed eccoci al dunque. Se la politica deve mestamente ammettere che «non ci sono le risorse», e quindi l’azione di governo di posti di lavoro aggiuntivi ne potrà creare pochissimi, forse è giunto il momento di cambiare la domanda. Anziché chiederci come trovare le risorse per creare nuovi posti di lavoro, dovremmo forse porci un interrogativo più radicale: si possono creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, a costo zero per le casse dello Stato?

Ai primi di marzo, quando come quotidiano «La Stampa» e come «Fondazione David Hume» lanciammo l’idea del maxi-job, la riposta era: forse. Oggi è diventata: quasi certamente sì.

L’idea del maxi-job era in sostanza questa: anziché distribuire a pioggia un’elemosina di cui nessuna impresa si accorgerebbe, perché non permettere alle imprese che già intendono creare nuova occupazione di crearne ancora di più?

Più precisamente: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione (e magari anche alle nuove imprese) di usare, limitatamente ai posti di lavoro addizionali e per un massimo di 4 anni, uno speciale contratto full time nel quale il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali. 

Si potrebbe pensare che un contratto del genere ridurrebbe il gettito della Pubblica Amministrazione, a causa dei minori contributi sociali. E in effetti così sarebbe se, pur in presenza del nuovo contratto, le imprese non creassero alcun posto di lavoro addizionale; se, in altre parole, lo sgravio contributivo si limitasse a rendere più economici posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque. Se però si ammettesse che, con un costo del lavoro quasi dimezzato, alcune imprese creerebbero più posti di lavoro di quelli programmati, la questione degli effetti sul gettito diventerebbe assai più aperta. Bisogna considerare, infatti, che un posto di lavoro in più genera nuovo valore aggiunto, e una parte di tale valore aggiunto genera a sua volta gettito non solo sotto forma di contribuiti Inps e Inail, ma anche sotto forma di altre tasse, come Iva, Irpef, Irap, Ires, eccetera (e si noti che il gettito complessivo delle altre tasse è quasi il triplo di quello dei contributi sociali). 

Il nodo del gettito 
In breve, quel che la Pubblica Amministrazione deve chiedersi non è: quanto gettito perdo se i nuovi contratti di lavoro pagano meno contributi sociali? Ma semmai: le nuove tasse che riscuoto grazie a posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati bastano a compensare il gettito che perdo per i minori contributi sociali?

Ebbene, quando un anno fa formulammo la proposta del maxi-job non eravamo in grado di rispondere a questa domanda, perché non avevamo la minima idea di quanti posti di lavoro in più si sarebbero potuti creare con il nuovo tipo di contratto. Non sapevamo, in altre parole, qual era la «reattività» delle imprese. O, se preferite, qual era il moltiplicatore occupazionale del nuovo contratto. Però una cosa eravamo in grado di dirla: esiste una soglia di reattività sotto la quale il gettito diminuisce e sopra la quale il gettito aumenta. Tale soglia è circa 1.4 e significa questo: se i nuovi posti di lavoro passano da 100 a 140 il nuovo contratto non costa nulla, perché il gettito della Pubblica amministrazione resta invariato; se passano da 100 a meno di 140 (ad esempio a 120), il nuovo contratto costa, perché fa diminuire il gettito; se passano da 100 a più di 140 (ad esempio a 180) il nuovo contratto non solo non costa, ma fa aumentare il gettito.

La ricerca 
Ecco perché gli ultimi sei mesi li abbiamo passati a cercare di scoprire quale potrebbe essere la reattività delle imprese. In primavera, con l’aiuto della società Kkien e dell’Unione industriale, abbiamo condotto un’inchiesta su 50 imprese chiedendo direttamente quanti posti di lavoro in più avrebbero creato con il nuovo contratto. Il risultato è stato sorprendente: nelle imprese che pianificano di aumentare l’occupazione i nuovi posti di lavoro sarebbero balzati, in media, da 100 a 264: un moltiplicatore pari a 2.64. Avremmo voluto rendere pubblico questo risultato, ma ci sembrava eccessivamente ottimistico e basato su troppo pochi casi. Si è quindi deciso di aspettare. 

A giugno è intervenuto un elemento nuovo: l’Unione delle Camere di Commercio del Piemonte ci ha offerto di inserire il questionario sul maxi-job nella loro indagine di metà anno sulle imprese manifatturiere piemontesi, in modo da disporre di un numero molto maggiore di risposte (oltre 1000). Con nostra grande sorpresa il moltiplicatore è ancora salito un po’, portandosi a 2.64. 

È a questo punto che è nata l’idea di un nuovo contratto di lavoro, il job-Italia, che va molto oltre l’impianto del maxi-job. Altrettanto conveniente per le imprese, il job-Italia è molto più generoso con i lavoratori. In estrema sintesi funziona così: 

1) la busta paga è compresa fra 10 e 20 mila euro annui

2) il costo aziendale aggiuntivo rispetto alla busta paga è del 25%, anziché del 100% come oggi

3) il job-Italia è riservato alle imprese che aumentano l’occupazione, e dura da 1 a 4 anni

4) la differenza fra costo aziendale e busta paga viene usata per pagare l’Irpef dovuta dal lavoratore. 

5) quel che avanza dopo il pagamento dell’Irpef viene conferito interamente agli enti previdenziali (Inps e Inail) 

6) lo Stato aggiunge l’intera contribuzione mancante, assicurando al lavoratore una piena tutela (malattia, infortunio, disoccupazione, pensione, liquidazione). 

Un sogno? 

Le stime 
In termini statistici, direi proprio di no. Se anche il moltiplicatore fosse solo 2 (anziché 2.64), se anche il nuovo valore aggiunto per addetto (quello dei posti «in più») fosse un po’ minore di quello medio, il job-Italia farebbe comunque incassare allo Stato molti più soldi di prima.

Una stima prudente suggerisce che, senza job-Italia, le imprese che intendono aumentare l’occupazione creerebbero circa 300 mila nuovi posti di lavoro tradizionali, mentre se potessero usufruirne creerebbero da 600 a 800 mila job-Italia, soprattutto nelle piccole imprese. Risultato: il gettito contributivo si riduce di 3 miliardi, ma quello delle altre imposte aumenta di almeno 6, il che basta a pagare i contributi di tutti i maxi-job attivati, e verosimilmente lascia ancora qualcosa nelle tasche dello Stato.

 Chi frena? 
Ma allora perché non si fa? Una possibile risposta è che ci sia qualche fallacia nel mio ragionamento, o nelle stime della reattività delle imprese, o nella valutazione della lungimiranza della Ragioneria dello Stato, ancora molto legata a una visione statica dei conti pubblici: non posso certo escludere queste eventualità, la mia è solo una «modesta proposta», per dirla con Swift. L’altra risposta possibile è che la politica ha le sue regole, e che per gli equilibri del Palazzo (o per quelli dell’Europa?) sia più sicuro battere strade più convenzionali. Il problema, però, è che sulla via dei piccoli aggiustamenti siamo da anni, e i risultati sono terrificanti. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/08/economia/lavoro-la-proposta-della-fondazione-hume-con-il-jobitalia-mila-posti-in-pi-OfZGnvDbS7uu9koE7Wj3yH/pagina.html

 

 


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« Risposta #211 inserito:: Ottobre 16, 2014, 11:29:26 pm »

Il vero peso delle misure in arrivo

15/10/2014
Luca Ricolfi

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». 

Ma in che cosa consiste la manovra?

Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo.  Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. 
Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili.

Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. 

Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro).

Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). 

Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni?

 

Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? E’ realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. 

Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili.

Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. 

Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra?

Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

 

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

E’ proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. 

Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/15/cultura/opinioni/editoriali/il-vero-peso-delle-misure-in-arrivo-J6RAihK5CeMQiqjGYFgUIP/pagina.html
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« Risposta #212 inserito:: Novembre 20, 2014, 12:59:35 pm »

Finiamola con l’alibi dell’Europa

16/11/2014

Luca Ricolfi

Uno degli episodi che più mi aveva colpito, nella campagna elettorale per le elezioni del 2013, era stata una trasmissione di «Porta a Porta» nella quale Renato Brunetta e Stefano Fassina, ossia due esponenti di parti politiche opposte (Forza Italia e Pd), si erano trovati perfettamente d’accordo su un punto: l’allentamento dei vincoli europei. 

Il che, tradotto in soldoni, significava e significa: lasciateci fare più deficit, se no l’economia non riparte. Ora constato, tutti i santi giorni, che la stessa idea, ovvero che il patto di stabilità sia «stupido», è condivisa quasi universalmente: lo dice Renzi, lo ripetono i politici di governo e opposizione, lo pensano i sindacati, lo scrivono i giornali. 

E la teoria che sta alle spalle di questo giudizio è sempre quella: se l’economia europea non si è ancora ripresa è per la debolezza della domanda interna, e il rigore sui conti pubblici, nella misura in cui deprime la domanda, non fa che aggravare la malattia. 

Il che, tradotto in termini politici, significa: se l’economia non riparte la colpa è della Merkel e dei burocrati europei, che con la loro ottusa ostinazione sul rispetto delle regole bloccano la ripresa.

Questa visione del problema italiano (ed europeo) è indubbiamente suggestiva, se non altro perché alcuni pezzi del ragionamento che la sorregge stanno perfettamente in piedi. Difficile negare i sacrifici degli ultimi 7 anni. Difficile pensare che ci possa essere ripresa se non ripartono consumi e investimenti. Difficile non vedere la lentezza, e spesso l’ottusità, della macchina europea (a proposito: si è votato a maggio, e ancora non abbiamo un governo europeo nel pieno dei suoi poteri). Difficile non cogliere il feticismo di certe regole, come quella che si affida a un algoritmo matematico-statistico controverso (quello del calcolo dell’output gap) per stabilire quanti miliardi di deficit può fare un Paese.

E tuttavia…
Tuttavia, detto e riconosciuto tutto questo, mi sembra che un simile modo di mettere le cose non faccia completamente i conti né con la logica, né con la realtà. 

Non fa i conti con la logica, perché il fatto che gli ultimi anni siano stati (peraltro non sempre e non ovunque) anni di rigore non implica che lasciando correre i conti pubblici le cose sarebbero andate meglio. Forse sarebbero andate ancora peggio, perché alcuni Stati sarebbero falliti e le loro economie non avrebbero più avuto accesso al credito. 

Ma non fa neppure i conti con la realtà, perché l’idea che l’Europa, o la zona euro, siano in stagnazione o addirittura in recessione è una mezza verità. Se prendiamo i tassi di crescita del Pil per abitante nel 2014-2015 (in parte noti, in parte frutto di stime), quel che colpisce non è il basso tasso di crescita europeo ma, semmai, la grandissima eterogeneità dei tassi di crescita dei vari Paesi. Soffermiamoci sulla zona euro, la grande imputata. E’ vero, c’è un Paese in recessione (Cipro), e ce ne sono quattro, fra cui Italia e Francia, che sono in stagnazione (crescita prossima a zero). Ma tutti gli altri, e sono ben 14 su 19, crescono a un tasso medio del 2% (con punte del 4%), un ritmo che non è da economia in crisi, e meno che mai da economia in recessione. E fra i Paesi che crescono di più, ossia fra il 2 e il 4%, ci sono tutti i cosiddetti PIGS tranne noi: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna.

Se questo dicono i dati, i termini del problema si spostano un pochino. Forse anziché arrabbiarci perché Bruxelles non ci lascia esagerare con il deficit pubblico, faremmo meglio a chiederci come fanno tanti Paesi dell’eurozona a crescere nonostante l’Europa, nonostante l’euro, nonostante l’ottusità dei burocrati. Non voglio azzardare la risposta, che presumibilmente è diversa da Paese a Paese, ma vorrei che almeno si riflettesse: dare la colpa all’Europa è troppo comodo, e sa tanto di alibi. Che l’Europa sia un disastro mi pare una tesi plausibile, ma che al disastro europeo si debba e si possa aggiungere il disastro di governi nazionali incapaci di «cambiare verso» nel loro Paese mi pare un lusso che non ci si può più permettere.

Quanto all’Europa, sono convinto anch’io che abbia un ruolo negativo. E tuttavia oserei, anche qui, avanzare un dubbio. Siamo sicuri che il massimo difetto dell’Europa sia la rigidità nella sorveglianza sui conti pubblici degli Stati nazionali?

Io ne suggerirei almeno un altro, secondo me altrettanto se non più dannoso: l’ingerenza selettiva, per non dire masochistica, nelle politiche nazionali. Più precisamente: la tendenza ad essere rigida là dove un atteggiamento più flessibile farebbe meno danni, e ad essere flessibile là dove una maggiore rigidità sarebbe benefica. 

Faccio due esempi, giusto per dare un’idea di quel che ho in mente. Prima della crisi l’economia irlandese cresceva più di qualsiasi altra economia avanzata (salvo quella dell’Estonia). La bassa tassazione sulle imprese è stata un fattore fondamentale della crescita irlandese, così come l’ostinazione del governo irlandese nel mantenere bassa tale tassazione anche durante la crisi è stato un fattore cruciale per l’uscita dell’Irlanda dalla crisi (la crescita irlandese è ora fra il 3 e il 4%). Ebbene, le autorità europee, anziché invitare gli altri Paesi a studiare il caso irlandese, hanno spesso esercitato pressioni sull’Irlanda per convincerla ad alzare l’aliquota del 12,5%, in passato per il timore di un mancato ripianamento dei conti pubblici, più recentemente per timore della concorrenza fiscale di un Paese capace di attirare gli investimenti stranieri. Qui una minore ingerenza sarebbe probabilmente benefica.

Ma c’è anche il caso opposto, in cui si rinuncia a un’ingerenza che farebbe bene al Paese che la subisce. Diverse direttive europee, più o meno recenti, impongono agli Stati nazionali cose ragionevolissime: ad esempio di pagare le imprese tempestivamente, di fare leggi comprensibili (senza indecifrabili rimandi a parole, commi ed articoli di altre leggi), di non tenere i detenuti in condizioni disumane, a partire dall’inaccettabile affollamento delle celle. Ebbene l’Italia ha violato sistematicamente tutte queste regole, e continua a farlo serenamente anche ora. Ma qui l’Europa balbetta, e al massimo ci commina qualche multa.

Come mai?

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/16/cultura/opinioni/editoriali/finiamola-con-lalibi-delleuropa-uvbYaLr7SimBksE76xoKkL/pagina.html?ult=1
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« Risposta #213 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:56:58 pm »

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia
La serie storica dell’Istat si ferma al 1977, ma guardando i dati del collocamento e i vecchi censimenti si scopre che nella crisi del 1929 e nel 1861 il tasso era inferiore
Crescono in tutta Italia proteste e scioperi contro il precariato e la disoccupazione

30/11/2014
Luca Ricolfi

È incredibile, la capacità dei governanti di manipolare i fatti pur di non dirci come vanno le cose. Negli ultimi giorni l’Istat ha fornito i dati sulle forze di lavoro nel terzo trimestre, e ha anticipato i dati provvisori di ottobre. Dati drammatici, ad avere il coraggio di guardarli in faccia. E invece no, immediatamente dopo la diffusione delle cifre Istat si è scatenata la corsa a travisarli. E’ così che abbiamo appreso che i dati trimestrali dell’Istat ci presentano «una sostanziale e progressiva crescita degli occupati nell’ultimo anno», quantificata in 122 mila occupati in più. E che anche l’incremento della disoccupazione, pari a 166 mila disoccupati in più, non ci deve preoccupare perché «va messo in relazione alla crescita del numero di persone che cercano lavoro». Come dire: se aumenta il tasso di disoccupazione è perché la gente è meno scoraggiata e «più persone tornano a cercare lavoro».

Sui trucchi usati per manipolare i fatti non vale neppure la pena soffermarsi, tanto sono ingenui e vecchi (alcuni li insegniamo all’università, sotto il titolo «come si fa una cattiva ricerca»). Sui fatti, invece, è il caso di riflettere un po’.

Occupati in termini reali 
Primo fatto: l’occupazione in termini reali sta diminuendo. Che cos’è l’occupazione in termini reali? E’ la quantità di occupati al netto della cassa integrazione. Se, per evitare le distorsioni della stagionalità, confrontiamo l’ultimo dato disponibile (ottobre 2014) con quello di 12 mesi prima (ottobre 2013), la situazione è questa: gli occupati nominali (comprensivi dei cassintegrati) sono rimasti praticamente invariati (l’Istat fornisce una diminuzione di 1000 unità), le ore di cassa integrazione sono aumentate in una misura che corrisponde a circa 140 mila posti di lavoro bruciati. Dunque negli ultimi 12 mesi l’occupazione reale è diminuita. 

Apparentemente la diminuzione è di circa 140 mila unità, ma si tratta di una valutazione ancora eccessivamente ottimistica: gli ultimi dati Istat, relativi al terzo trimestre 2014, mostrano che, sul totale degli occupati, si stanno riducendo sia la quota di lavoratori a tempo pieno sia la quota di lavoratori italiani. Il che, tradotto in termini concreti, significa che aumentano sia il peso dei posti di lavoro part-time «involontari» (donne che lavorano poche ore, ma non per scelta) sia il peso dei posti di lavoro di bassa qualità, tipicamente destinati agli immigrati.

I senza lavoro 
Secondo fatto: la disoccupazione sta aumentando. I disoccupati erano 3 milioni e 124 mila nell’ottobre del 2013, sono saliti a 3 milioni e 410 mila nell’ottobre del 2014. L’aumento è di ben 286 mila unità, di cui 130 mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156 mila negli 8 mesi del governo Renzi. La spiegazione secondo cui l’aumento sarebbe dovuto a una maggiore fiducia, che farebbe diminuire il numero di lavoratori scoraggiati, riprende una vecchia teoria degli Anni 60 ma è incompatibile con i meccanismi attuali del mercato del lavoro italiano, che mostrano con molta nitidezza precisamente quel che suggerisce il senso comune: gli aumenti di disoccupazione dipendono dal peggioramento, e non dal miglioramento, delle condizioni del mercato del lavoro.

Sulla disoccupazione, tuttavia, ci sarebbe qualcosa da aggiungere. In questi giorni sentiamo ripetere, dai giornali e dalle tv, che il tasso di disoccupazione non solo è ulteriormente aumentato rispetto a 12 mesi fa (1 punto in più), non solo è molto alto in assoluto (13,2%), non solo è fra i più alti dell’Eurozona, ma sarebbe anche il più alto degli ultimi 37 anni, ossia dal 1977.

I dati del 1977 
Ebbene, anche questa, già di per sé una notizia drammatica, detta così è ancora troppo ottimistica. Se dici che siamo al massimo storico dal 1977, o che «siamo tornati al 1977», qualcuno potrebbe supporre che nel 1977 il tasso di disoccupazione italiano fosse più alto di oggi, o perlomeno fosse altrettanto alto. 

Non è così. Nel 1977 il tasso di disoccupazione era molto minore rispetto ad oggi (7,2% contro 13,2%). La ragione per cui si continua a parlare del 1977 come una sorta di spartiacque è che la serie storica dell’Istat con cui attualmente lavoriamo parte dal 1977. Ma questo non significa che sugli anni prima del 1977 non si sappia niente. Prima del 1977 c’era la vecchia serie 1959-1976. E prima ancora c’erano i dati del collocamento, della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, dei censimenti demografici, a partire da quello del 1861, anno dell’unità d’Italia. Tutte fonti meno sofisticate di quelle di oggi, ma sufficienti a darci un’idea degli ordini di grandezza. Mi sono preso la briga di controllare queste fonti, nonché i notevoli lavori che sono stati pubblicati sui livelli di disoccupazione dal 1861 a oggi e la conclusione è tragica. 

Unità d’Italia e dopoguerra 
Mai, nella storia d’Italia, il tasso di disoccupazione è stato ai livelli di oggi. Altroché 1977. La disoccupazione era più bassa di oggi anche nel periodo 1959-1976, per cui abbiamo una serie storica Istat. Era più bassa anche negli anni della ricostruzione, dal 1946 al 1958. Ed era più bassa durante il fascismo, persino negli anni dopo la crisi del 1929. Quanto al periodo che va dall’unità d’Italia all’epoca giolittiana, è difficile fare paragoni con l’oggi, se non altro perché è proprio allora che prende lentamente forma il concetto moderno di disoccupazione, ma basta un’occhiata ai censimenti e agli studi che li hanno analizzati (splendidi quelli di Manfredi Alberti, borsista Istat) per rendersi conto che, comunque si definisca il fenomeno, siamo sempre abbondantemente al di sotto dei livelli attuali.

Il governo Renzi 
Di tutto questo Renzi e i suoi non hanno nessunissima colpa. Il legno storto del mercato del lavoro non si raddrizza in pochi mesi, e forse neppure in parecchi anni. Quel che dispiace, però, è che anche le nostre giovani marmotte, giunte al potere, si arrampichino sugli specchi come tutti gli anziani paperi che le hanno precedute. Come cittadino, preferirei un governo che, sull’occupazione e la disoccupazione, ci dicesse la verità, e mostrasse con i fatti, non con le parole, di aver capito il dramma del lavoro in Italia. Quel che vedo, invece, è un ceto politico che irride i sindacati, si è mostrato del tutto inadeguato sul progetto europeo «Garanzia giovani», stanzia pochissimi soldi per ridurre il costo del lavoro (1,9 miliardi nel 2015), mentre ne stanzia tantissimi sul bonus da 80 euro, misura meravigliosa ma che premia solo chi un lavoro già ce l’ha.

Il guaio, purtroppo, è sempre quello. In Italia la sinistra, oggi come ieri, protegge innanzitutto i lavoratori già garantiti. La destra ha da sempre un occhio di riguardo per i lavoratori autonomi. Quanto a tutti gli altri, precari, lavoratori in nero, giovani e donne fuori dal mercato del lavoro, nessuno se ne preoccupa sul serio, e meno che mai i sindacati. Fino a quando?

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/30/economia/disoccupazione-mai-cos-alta-nella-storia-ditalia-4VBL6pqa8YWsfYxjnQL8wO/pagina.html
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« Risposta #214 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:34:21 pm »

La forza e la debolezza del Premier

27/12/2014

Luca Ricolfi

E’ passato quasi un anno da quando Renzi e i suoi hanno dato il benservito alla vecchia guardia. Da allora di Bersani, Bindi, D’Alema, Prodi, Veltroni, si parla pochissimo. E per la verità pochissimo si parla anche di Enrico Letta e Angelino Alfano, appena più vecchi di Renzi, ma anch’essi inesorabilmente travolti dall’ascesa del sindaco di Firenze. 

 Possiamo dire che è stato un progresso? Possiamo dire che la nuova guardia ha superato la prova? Forse sì, se il termine di paragone è la vecchia guardia stessa. Non saprei dire se la preparazione e la competenza dei nuovi siano ancora più modeste di quelle dei vecchi (anche se, dovendo pronunciarmi, propenderei per il sì). Il punto però è che la nuova guardia è esente da un difetto imperdonabile ed esiziale della vecchia: l’immobilismo. Di Renzi e dei suoi tutto si può dire, meno che abbiano paura di rompere gli schemi. 

E questa, la volontà di cambiare, più che un bene, è un prerequisito di qualsiasi tentativo di salvare l’Italia dal declino in cui è immersa da almeno quindici anni. 

Credo che, più o meno coscientemente, questa sia una cosa che ogni italiano avverte, e una delle ragioni del credito che Renzi continua a riscuotere dall’elettorato. 

 Il discorso, tuttavia, cambia sensibilmente se il termine di paragone non è la qualità di chi c’era prima, ma sono le promesse di Renzi. Qui siamo messi maluccio. Non è il caso di infierire con l’elenco delle scadenze disattese e degli impegni non rispettati, ma credo che chiunque provi a ripercorrere questi dieci mesi non potrebbe non constatare che quasi nulla di ciò che era stato annunciato entro una certa data è stato portato a termine nei tempi previsti, e buona parte attende tuttora di essere portato a compimento.

Quel che è interessante, tuttavia, è che i ritardi e i tradimenti di Renzi non paiono incrinare più di tanto il consenso di cui gode nel paese, e tutt’al più alimentano i borbottii dei suoi critici (un club piuttosto ristretto, cui pare sia iscritto anch’io). Perché?

Me lo sono chiesto spesso, e credo che se si vuole dare una risposta onesta non ce la si possa cavare con la solita spiegazione, secondo cui il pubblico è ignorante, superficiale e abbindolabile. Questa risposta era già sbagliata quando la si usava per spiegare il successo di Berlusconi, e resta sostanzialmente sbagliata anche oggi, quando la si ricicla per spiegare la tenuta di Renzi. No, se Renzi piace nonostante i limiti della sua azione politica, non è perché il pubblico non veda tali limiti. A me la ragione di fondo della tenuta di Renzi pare tutta un’altra: l’elettorato usa due pesi e due misure con i successi e gli insuccessi di Renzi, e tutto sommato ha qualche ragione per adottare questo doppio registro. 

Vediamo come funziona. Intanto bisogna dire che alcune norme varate da Renzi hanno effetti positivi e, soprattutto, immediatamente tangibili, su specifiche categorie sociali: bonus da 80 euro, riduzione dell’Irap, decontribuzione per i neoassunti. Queste misure sono puntualmente riconoscibili nei benefici (perché chi ne usufruisce «se ne accorge») ma opache e diffuse nelle coperture e negli effetti collaterali (perché i relativi costi sono distribuiti su una miriade di soggetti, comprese le generazioni future). Quindi il pubblico ne percepisce il lato benefico, ma ne ignora o ne sottovaluta il lato oscuro (aumento di altre tasse, riduzione di servizi, maggiore deficit pubblico).

C’è poi un secondo meccanismo fondamentale: l’attribuzione esterna (cioè ad altri) della responsabilità dei ritardi. Giusta o sbagliata che sia, finora a livello di opinione pubblica è passata l’idea che il premier vorrebbe cambiare le cose, e cambiarle alla svelta, ma non ci riesce perché innumerevoli poteri, forti e deboli, cercano di ostacolarne l’azione. Se le riforme costituzionali ritardano, se i costi della politica restano alti, se il Jobs Act non è ancora legge, se la Pubblica amministrazione non paga i suoi debiti, non è colpa di Renzi ma è colpa dei sindacati, della minoranza Pd, dei poteri forti, dei burocrati dei ministeri, dei tecnocrati europei.

E infine c’è la ragione probabilmente più potente che rende il premier invulnerabile alle critiche: la mancanza di un’alternativa. Anche chi si rende conto dei tanti limiti delle giovani marmotte, anche chi ne depreca la superficialità e l’impreparazione, anche chi non sopporta l’arroganza di alcuni dei nuovi venuti, non può che arrendersi di fronte al cosiddetto argomento Tina, di thatcheriana memoria: There Is No Alternative. 

Quest’ultimo, a mio parere, è il maggiore fattore di rischio per Renzi, perché nulla garantisce che la mancanza di alternative si protragga indefinitamente. E’ vero, quello di una scena politica povera di idee e presidiata da personaggi mediocri resta lo scenario più verosimile, tuttavia non è detto che il convento della politica italiana sia destinato a offrire per sempre uno spettacolo così modesto come quello che va in scena da alcuni anni. Se, per una felice quanto improbabile combinazione astrale, lo spettacolo dovesse cambiare, se nuove idee (sensate) e nuovi leader (credibili) si dovessero aprire un varco nella scena pubblica, nulla di ciò che ha protetto Renzi fin qui basterebbe a prolungarne il regno. E, simmetricamente, se il piccolo teatro della politica italiana continuasse a offrire il deprimente spettacolo di questi anni, non c’è errore o promessa mancata che basterebbero a provocare la caduta del re. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/27/cultura/opinioni/editoriali/la-forza-e-la-debolezza-del-premier-MdDcbtP8lRCO2YcTw9PZ4N/pagina.html
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« Risposta #215 inserito:: Febbraio 22, 2016, 06:26:41 pm »

Jobs act, Ricolfi: “Precariato ai massimi storici e ripresa occupazionale modesta. Renzi non capisce le statistiche”
A un anno dall'entrata in vigore dei primi decreti della riforma, il sociologo e docente di analisi dei dati traccia un bilancio.
"Sui 764mila contratti stabili in più del 2015, 578mila sono trasformazioni. Nel 2012 erano state di più. La misura più incisiva? Il decreto Poletti che ha liberalizzato le assunzioni a termine.
Ma il vero dramma è che 3 milioni di italiani lavorano senza contratto e altrettanti hanno smesso di cercare un posto"

Di Stefano De Agostini | 22 febbraio 2016

Il precariato è al massimo storico, la ripresa occupazionale è modesta, la narrazione del governo è “al servizio della conservazione del potere”. E’ questo il bilancio che Luca Ricolfi, sociologo e docente di analisi dei dati all’Università di Torino, traccia del Jobs act un anno dopo l’entrata in vigore dei primi decreti della riforma. Il capo del governo “sembra non comprendere il significato delle statistiche di cui parla”, attacca il professore mentre Matteo Renzi si appresta proprio lunedì, a 24 mesi dal suo insediamento, ad andare in visita alla Walter Tosto, azienda che produce macchinari per il settore petrolifero e “ha assunto con il Jobs Act”. Una settimana fa il premier aveva esultato per i 764mila contratti stabili in più certificati dall’Inps, ma l’interpretazione di quei dati fornita da Ricolfi è decisamente diversa.

Il governo sta celebrando i suoi due anni di mandato. Anche il ministero del Lavoro ha pubblicato una presentazione dove rivendica le “buone cose per il nostro Paese”, dal Jobs act a Garanzia giovani. Che idea si è fatto della narrazione che l’esecutivo sta facendo sui numeri del lavoro?
Questo è un governo come gli altri. Narrava Berlusconi, narrava Prodi, narrava Monti, narrava Letta. E le loro narrazioni erano implacabilmente al servizio della conservazione del potere, non certo della verità. Perché dovrebbe essere diverso sotto Renzi?

Lo slogan utilizzato dal governo per il Jobs act è: “Meno precarietà, più lavoro stabile”. Il Jobs act è stato in grado di ridurre l’occupazione precaria?
No, durante il 2015 il tasso di occupazione precaria, ossia la quota dei lavoratori dipendenti con contratti temporanei, ha raggiunto il massimo storico da quando esiste questa statistica (dal 2004), superando il 14%. Bisogna dire, tuttavia, che da settembre dell’anno scorso il tasso di occupazione precaria ha cominciato a ridursi, sia pure di pochi decimali.

Dopo gli ultimi dati Inps sui contratti, Renzi ha commentato: “+764mila contratti stabili nel primo anno di #jobsact. Amici gufi, siete ancora sicuri che non funzioni?”. L’aumento del tempo indeterminato è merito del Jobs act o degli sgravi?
Renzi sembra non comprendere il significato delle statistiche di cui parla. I 764mila posti stabili in più sono la somma fra il numero delle trasformazioni (578mila) e il saldo fra assunzioni e cessazioni (186mila). Per quanto riguarda le trasformazioni, è vero che quelle del 2015 sono state molte di più di quelle del 2013 e del 2014, ma se risaliamo anche solo al 2012 (l’anno di Monti) le trasformazioni erano state oltre 600mila, ossia un po’ di più di quelle vantate dal governo per il miracoloso 2015. E questo nonostante quello di Monti sia stato un anno di recessione. Resterebbe il saldo di 186mila contratti stabili in più. Duecentomila occupati stabili in più non sono tantissimi, ma comunque sono un progresso rispetto alle dinamiche degli anni scorsi. A che cosa sono dovuti? Per ora posso solo esprimere un’opinione: il contratto a tutele crescenti è molto meno importante della decontribuzione, e la modesta ripresa occupazionale in atto si deve innanzitutto al fatto che il Pil è tornato a crescere, più che a specifiche norme volte a favorire l’occupazione. Ma forse la misura più incisiva varata negli ultimi due anni è quella di cui nessuno parla.

Quale misura?
Il decreto Poletti del marzo 2014, che liberalizzava le assunzioni a termine, permettendo molteplici rinnovi. Questa misura va in direzione opposta a quella del Jobs Act, perché incentiva le assunzioni a tempo determinato. Quando si fa un bilancio del 2015 bisognerebbe considerare anche il saldo dei contratti precari (420mila), non solo di quelli stabili (186mila). L’aumento del tasso di occupazione precaria registrato dall’Istat si spiega con l’esplosione delle assunzioni a tempo determinato, che a sua volta potrebbe essere stato favorito dal decreto Poletti. Che poi una parte dei contratti a termine siano stati trasformati in contratti stabili non basta a modificare la dinamica profonda del mercato del lavoro. Alla formazione di posti di lavoro stabili si è affiancata una formazione di posti di lavoro precari, di cui si ha meno voglia di parlare.

Finora è valsa la pena di spendere gli 1,8 miliardi di euro della decontribuzione per raggiungere questi risultati?
No, non ne è valsa la pena, anche perché i miliardi sono almeno 12: il costo della decontribuzione è stato valutato in 5 + 5 miliardi nel biennio 2016-2017.

C’è il rischio che il mercato del lavoro sia stato drogato dagli incentivi? E che l’occupazione si sgonfi quando verranno meno?
E’ quello che temiamo tutti. Il test decisivo sarà il primo trimestre del 2016, i cui dati saranno disponibili a maggio. A quel punto si scoprirà se la modesta crescita di occupazione registrata nel corso del 2015 proseguirà, magari rafforzandosi, o si sgonfierà, perché era artificialmente sostenuta dagli incentivi. L’unica cosa che mi sento di dire, per ora, è che l’ultimo mese del 2015 ha pienamente confermato la profezia che fece Tito Boeri, e cioè che le assunzioni si sarebbero concentrate all’inizio e alla fine del 2015. Insomma, quella del 2015 potrebbe rivelarsi una piccola “bolla occupazionale”. Ma speriamo di no…

Quanto hanno influito i fattori macroeconomici (basso prezzo del petrolio, cambio euro/dollaro favorevole, quantitative easing) sul mercato del lavoro italiano?
Secondo la maggior parte degli studiosi i tre “propulsori” esogeni della nostra economia dovevano portare almeno 1 punto di crescita del Pil in più. Dato che, invece, siamo cresciuti solo dello 0,7%, vuol dire che senza quella spinta il nostro Pil avrebbe continuato a scendere anche nel 2015. Ma noi preferiamo raccontarci che “l’Italia ha svoltato”.

Quali misure servono per una ripresa strutturale del mercato del lavoro?
Una misura, il Job Italia, l’avevo proposta un paio di anni fa, come Fondazione David Hume e come La Stampa, ai tempi in cui scrivevo sul quotidiano torinese. L’idea è piuttosto semplice. Se prevediamo una decontribuzione ancora più forte di quella introdotta nel 2015, ma diamo il beneficio solo alle imprese che aumentano l’occupazione, creiamo abbastanza posti di lavoro aggiuntivi da rendere autofinanziante il provvedimento: più posti di lavoro, infatti, significano più reddito, e più reddito significa più gettito fiscale. Però l’idea del Job Italia non era “combattere il dramma dell’occupazione precaria”. Il “dramma dei precari” è una costruzione mediatico-politica, molto di moda da una decina d’anni, che è stata usata per nascondere il vero dramma di questo paese.

Quale dramma?
Il dramma dell’Italia non è che meno di 3 milioni di persone lavorino con contratti a tempo determinato, ma è che una cifra analoga se non superiore di lavoratori, spesso immigrati, lavorino completamente senza contratto, che altri 3 milioni di persone cerchino un lavoro senza trovarlo, e altri 3 milioni ancora un lavoro manco lo cerchino, perché hanno perso la speranza di trovarlo. Ho chiamato Terza società questo esercito di 10 milioni di persone di cui nessuno si occupa, e che fanno la vera differenza fra l’Italia e la maggior parte dei Paesi avanzati.

Di Stefano De Agostini | 22 febbraio 2016

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02/22/jobs-act-ricolfi-precariato-ai-massimi-storici-e-ripresa-occupazionale-modesta-renzi-non-capisce-le-statistiche/2484646/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2016-02-22
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« Risposta #216 inserito:: Maggio 09, 2016, 06:03:56 pm »

Il debito e la crescita: quello che la demagogia non spiega

Di Luca Ricolfi
8 Maggio 2016

Finora, il governo non si è ancora rimangiato l’impegno di ridurre il rapporto debito-Pil a partire dal 2016. Un impegno che gli osservatori più gufi (o più lucidi) non hanno mai preso troppo sul serio, ma che da qualche giorno comincia ad essere messo in dubbio anche dalle autorità europee.

La ragione dello scetticismo europeo è presto detta. Nel 2016 il Pil dell’Italia crescerà poco più dell’1% (e anche questo non è dato per scontato), mentre i prezzi potrebbero restare sostanzialmente fermi. Nello scenario più pessimistico il Pil (reale) cresce più o meno dell’1% e i prezzi diminuiscono di qualche decimale, quindi il Pil nominale rischia di progredire di un modestissimo 0,7 o 0,8%. Nello scenario più ottimistico il Pil cresce come prevede il governo (+1,2%) e l’inflazione torna in territorio positivo di qualche decimale, il che permette al Pil nominale di crescere intorno all’1,5 per cento. Può bastare per far scendere il rapporto debito-Pil? No, a meno che la velocità di crescita del volume del debito pubblico sia inferiore all’1,5 per cento. Ma il debito pubblico è cresciuto al ritmo del 2,5% nel 2015, e a quello dell’1,7% nei primi due mesi del 2016 (ultimi dati disponibili). Difficile pensare che possa rallentare nel resto del 2016 in una misura sufficiente a compensare la lentezza con cui crescerà il Pil nominale. Ecco perché osservatori indipendenti e autorità europee non credono che nel 2016 il rapporto debito-Pil dell’Italia comincerà a diminuire.

Giunti a questo punto, vale forse la pena affrontare senza giri di parole la questione: è opportuno perseguire comunque, fin da ora, l’obiettivo di riduzione del debito?

A questa domanda il governo non può rispondere, perché nega che il problema esista. Non è difficile, tuttavia, indovinare che cosa risponderebbe quando, posto di fronte all’evidenza dei fatti, non fosse più in grado di negare il problema. La risposta, immagino, sarebbe quella che abbiamo ascoltato più volte in questi mesi e che suona più o meno così: “il debito non si batte con l’austerità, il debito si abbatte con la crescita”.

Questa risposta ha due lati, uno inquietante e l’altro seducente. Il lato inquietante è che ignora le conseguenze negative di un ulteriore aumento del rapporto debito-Pil, conseguenze aggravate dalla circostanza che tale ennesimo aumento infrangerebbe un impegno assunto e più volte solennemente ribadito dal governo italiano. Una prima conseguenza, tanto ovvia quanto costantemente dimenticata, è di aumentare il già pesante fardello che pesa sulle generazioni future. Una seconda conseguenza è di aumentare il rischio cui l’Italia sarebbe esposta nel caso di una nuova crisi finanziaria. Una terza conseguenza è di aumentare il premio che gli investitori richiedono per detenere titoli di Stato italiani. Quest’ultimo effetto, che comporta un ulteriore onere per le finanze pubbliche, in realtà è già in atto: lo spread con i titoli tedeschi, che è stato di circa 116 punti base nel 2015, è in costante aumento da sette settimane, e in quella appena trascorsa ha toccato quota 129.

C’è anche il lato seducente, tuttavia, nella risposta governativa. È verissimo che la crescita è l’unica vera medicina che può abbattere il rapporto debito-Pil senza ammazzare il paziente (e il precedente positivo del Belgio incoraggia a battere quella strada). E tutti noi saremmo felicissimi di poter cominciare ad alleggerire la zavorra del debito senza sacrifici (salariali o patrimoniali), senza tagli alla spesa pubblica, senza aumenti di tasse. Ma che cosa ci impedisce di tornare a crescere?

A dar credito al racconto governativo, sembra che ad impedirci di crescere siano soprattutto le “stupide” regole europee. Troppo poca flessibilità, criteri cervellotici nel calcolo del cosiddetto output gap, mancata condivisione del rischio bancario, latitanza dei promessi investimenti europei (che fine ha fatto il piano Juncker?). Il cahier des doléances dell’Italia è lungo, e tutt’altro che ingiustificato. C’è solo un piccolo dettaglio: il ristagno dell’economia italiana dipende anche dai nodi irrisolti dell’Europa, nodi che frenano in particolare le economie dell’Eurozona, ma sfortunatamente per il nostro orgoglio nazionale non è l’inadeguatezza della costruzione europea la ragione principale delle nostre difficoltà. Che questo non possano intenderlo Grillo, Salvini e Meloni rientra nell’ordine politico naturale delle cose: la forza del populismo sta precisamente nell’avere individuato una comodissima spiegazione (le regole europee) per le nostre difficoltà, e un utilissimo capro espiatorio (gli eurocrati) cui attribuire tutti i mali che ci affliggono. Ma che la diagnosi populista attecchisca al di fuori del vasto mondo delle forze antisistema è meno comprensibile, e assai più pericoloso.

Eppure i dati parlano chiaro. È vero che, fra le economie avanzate (Paesi Ocse), i Paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno di quelli che ne sono fuori (+2,1% contro +2,5% nel 2015), ma il punto è che, all’interno dell’Eurozona, il gap fra il tasso di crescita dell’Italia e quello degli altri Paesi (0,8% contro 2,2%) è imbarazzante. È un gap che c’è sempre stato dall’inizio degli anni 90, quando la prima Repubblica fece posto alla seconda, ma non vi è alcun segno che esso sia oggi minore che ieri, a dispetto di tutte le riforme attuate fin qui. Tanto per non stare sul generico, ricapitoliamo i dati: nell’ultimo anno l’Italia è cresciuta dello 0,8%, ma l’Irlanda è cresciuta del 7,8%, il Lussemburgo del 4,8%, la Spagna del 3,2%, l’Olanda del 2,0%, la Germania dell’1,6%, il Portogallo dell’1,5 per cento. Eppure sono tutti Paesi dell’Eurozona, anzi fanno parte degli 11 paesi del gruppetto originario, che adottò l’euro il 1° gennaio del 1999. Tre di questi Paesi (Irlanda, Spagna Portogallo) facevano parte dei Pigs, ma ora sembrano aver ritrovato la strada della crescita.

Che cosa fa sì che tutti i Paesi dell’Eurozona, eccetto la Finlandia e la Grecia, crescano più dell’Italia? Perché, oggi come ieri (e come domani, se stiamo alle ultime previsioni sul 2016 e il 2017), il tasso di crescita del nostro Paese è molto più basso non solo di quello dei Paesi Ocse ma anche di quello degli altri Paesi dell’Eurozona? Che cosa impedisce all’Italia di fare come gli altri?

Questa è la domanda. È a questa domanda che il racconto populista sistematicamente si sottrae. Ma è dalla risposta a questa domanda che dipende il futuro dell’Italia.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-05-08/il-debito-e-crescita-quello-che-demagogia-non-spiega-145750.shtml?uuid=ADjGvbD&p=2

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« Risposta #217 inserito:: Ottobre 10, 2016, 11:51:48 am »

Il treno della crescita e la scossa che serve all’Italia

Di Luca Ricolfi 9 Ottobre 2016

Da qualche tempo a questa parte, di crescita si parla come se, almeno per le economie dei paesi avanzati, essa fosse un mero ricordo del passato, una sorta di Eden cui, per ora invano, si cerca di fare ritorno. L'imperativo è sempre quello: tornare a crescere, rilanciare la crescita, far ripartire l’economia, uscire dalla crisi, sfuggire all’amaro destino della “stagnazione secolare”. Se però guardiamo ai tassi di crescita effettivi degli ultimi anni nei 34 paesi Ocse (saliti a 35 con il recentissimo ingresso della Lettonia), il quadro che ci si presenta è decisamente più articolato.

Padoan: grande collaborazione con la Ue
Nel 2015, ad esempio, su 34 paesi Ocse ben 20 sono cresciuti a un tasso superiore al 2%, e metà di questi ultimi a un tasso superiore al 3% o al 4 %. Il ritmo di crescita di questi 20 paesi è sostanzialmente in linea con il tasso di crescita del Pil mondiale. E anche estendendo lo sguardo a un periodo più lungo, per esempio il quadriennio 2012-2015, il quadro non appare così drammatico come talora lo si dipinge: in quasi la metà dei 34 paesi Ocse il tasso medio di crescita si è collocato al di sopra del 2 per cento.

Se queste sono le cifre della crescita nelle economie avanzate, forse la domanda che dovremmo porci non è quella solita, come facciamo a far ripartire la crescita, ma come mai alcuni paesi sono tornati a crescere e altri no. Guardando agli ultimi quattro anni (2012-2015) i paesi Ocse si possono suddividere abbastanza nitidamente in almeno quattro gruppi: 5 paesi (fra cui l’Italia) a crescita negativa o nulla, 7 paesi in stagnazione (crescita positiva ma inferiore all’1%), 7 paesi in crescita lenta (fra l’1 e il 2%), e infine i 15 paesi in crescita sostenuta (oltre il 2%, in alcuni casi oltre il 3 o il 4%).

L’Italia, purtroppo, non è affatto «un vagone di mezzo nel treno della crescita europea», ma è e resta nella coda del treno: nel quadriennio 2012-2015 la sua crescita media è stata negativa, e nell’ultimo anno (2015), in Europa, solo Grecia e Finlandia hanno fatto peggio di noi.

Sul perché l’Italia non riesca a collocarsi non dico nei vagoni di testa (paesi che crescono oltre il 2%), ma almeno in quelli di mezzo (paesi che crescono fra l’1 e il 2%) le opinioni si sprecano. Così come si sprecano le profezie sulla crescita del Pil italiano nel 2017, che vanno dallo 0,5% dell’Ufficio Studi Confindustria all’1% governativo.

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E tuttavia una semplice occhiata ai dati (e alle previsioni) degli ultimi anni dovrebbe bastare a mettere in luce due circostanze. La prima è che, al di là di tutti i nostri guai specifici (a partire dai cattivi fondamentali e dalle riforme strutturali mancate o incompiute), ci sono almeno due fattori che accomunano i cinque paesi del gruppo di coda, ossia Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Finlandia: il fatto di essere paesi europei occidentali relativamente ricchi e il fatto di far parte dell’eurozona.

Due circostanze cui, nel caso di Grecia, Portogallo e Italia si aggiunge quella di avere un rapporto debito-Pil abbondantemente al di sopra del 100 per cento. Difficile pensare che questi due handicap, il fatto di aver raggiunto una relativa ricchezza e il fatto di essere privi di una valuta nazionale, non spieghino una frazione considerevole delle nostre difficoltà.

Giusto per avere un’idea dell’importanza di questi due soli semplici fattori, si possono porre a confronto i tassi di crescita medi dei paesi Ocse (relativamente) ricchi e privi di una valuta nazionale, con quelli dei paesi (relativamente) poveri e dotati di una valuta nazionale: ebbene, cambiando queste due sole condizioni si passa da un tasso di crescita media annua (2012-2015) abbondantemente inferiore all’1% a un tasso del 2,5 per cento.

Se questa osservazione ha qualche fondamento, l’implicazione non è certo che si debba uscire dall’euro (i nostri conti pubblici sono troppo vulnerabili, i mercati ci sbranerebbero) ma che ci si debba dare un gran daffare: in un paese come il nostro il cambiamento dei fondamentali della crescita – capitale umano, pressione fiscale, giustizia civile e burocrazia – ha da essere davvero radicale se vuole controbilanciare i due fattori frenanti di cui abbiamo detto.

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Ma c’è anche una seconda circostanza che un attento esame dei dati è in grado di mettere in luce. Negli ultimi anni nessuno, ovvero né i governi, né l’Ocse, né il Fondo monetario internazionale (Fmi), sono mai stati capaci di effettuare previsioni minimamente accurate dei tassi di crescita nazionali dell’anno entrante, e spesso nemmeno di quelli dell'anno in corso. Esistono però, nelle previsioni Ocse e Fmi, due regolarità generali di cui forse occorrerebbe fare tesoro.

La prima è che il tasso di crescita medio dei paesi Ocse è sempre sopravvalutato: nel caso dell’Italia, in particolare, nell’ultimo quadriennio il tasso di crescita dell’anno entrante è stato mediamente sopravvalutato di 0,8 punti percentuali dall’Ocse e di ben 1,2 punti percentuali dal Fmi.

La seconda circostanza da notare è che la differenziazione nei tassi di crescita è sempre sottovalutata (la deviazione standard dei tassi previsti è sempre minore di quella dei tassi effettivi). Il che vuol dire: a conti fatti, le economie avanzate risultano non solo più lente del previsto, ma anche più diseguali nei loro ritmi di crescita. È forse anche per questo, per il fatto cioè che le previsioni degli organismi internazionali tendono a “piallare” le differenze nei tassi di crescita, che continuiamo a non vedere il punto essenziale: in molti paesi l’economia è già ripartita da tempo, e i paesi che occupano i vagoni di coda del treno della crescita sono sempre più o meno gli stessi

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-09/il-treno-crescita-e-scossa-che-serve-all-italia-111424.shtml?uuid=ADFNf2YB
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