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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 102419 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Febbraio 22, 2014, 05:56:25 pm »

Editoriali
03/06/2013

Soldi ai partiti e significato delle parole

Luca Ricolfi

Sul finanziamento pubblico dei partiti si possono avere le idee più diverse. Oggi, come vent’anni fa, è molto popolare l’idea che debba essere abolito integralmente. Ma anche l’idea opposta, e cioè che qualche forma di finanziamento pubblico debba esserci, è tutt’altro che priva di buone ragioni.

Qui vorrei non entrare nel merito della questione, perché tanto ognuno resta della propria idea. 

E quale sia la mia opinione personale è del tutto irrilevante. Quello che però vorrei dire con forza è che, come cittadino, ho trovato offensiva – per non dire beffarda – l’impostazione del disegno di legge appena proposto dal governo. Provo a spiegare perché.

Il primo articolo del disegno di legge recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». Nella lingua italiana la parola «abolito», in assenza di ulteriori qualificazioni, significa soppresso, tolto, eliminato, azzerato.

Inoltre, per il cittadino italiano medio, la parola «finanziamento pubblico dei partiti» designa l’insieme di risorse pubbliche che affluiscono ai partiti: rimborsi elettorali, finanziamento dei gruppi politici a livello centrale e locale, agevolazioni fiscali e tariffarie, contributi alla stampa di partito. Dunque, il cittadino pensa: i partiti non avranno più soldi pubblici, e se vorranno essere finanziati i soldi dovranno chiederceli direttamente.

Leggendo il Disegno di legge, invece, si scopre che le cose non stanno così. Nel 2013 non cambia nulla. Nel 2014, se il Disegno di legge sarà approvato entro quest’anno, i rimborsi elettorali attuali cominceranno ad essere limati un po’, e spariranno del tutto solo nel 2017 (nel 2018 se il Disegno di legge dovesse essere approvato solo nel 2014). In compenso, fin dal 2014 scatteranno agevolazioni fiscali alle donazioni private, nonché finanziamenti ai partiti attraverso un meccanismo di «destinazione volontaria del 2 per mille dell’imposta sul reddito». Non solo: lo Stato assicurerà alle forze politiche la disponibilità di locali e spazi televisivi.

Non è necessario entrare nei dettagli del disegno di legge per rendersi conto di almeno quattro cose.

Primo. Il disegno di legge non tocca né il finanziamento dei gruppi parlamentari, né il finanziamento dei gruppi dei Consigli regionali, due voci molto consistenti del finanziamento pubblico ai partiti.
Secondo. Lo Stato continuerà a sostenere dei costi per il finanziamento dei partiti, sia in forma diretta, sia in forma indiretta (le detrazioni fiscali, l’uso di immobili, gli spazi televisivi hanno un costo). 

Terzo. Nel triennio transitorio (2014-2016), nulla assicura che la decurtazione dei rimborsi elettorali non venga compensata, o addirittura più che compensata, dal meccanismo del 2 per mille.

Quarto. Anche a regime (dal 2017 o dal 2018), nulla esclude che il finanziamento possa essere uguale o superiore a quello previsto dalla legislazione attuale, dovuta al governo Monti (l’articolo 4, anziché fissare un tetto preciso all’uso del 2 per mille, dice che la spesa non potrà superare «XXX», una cifra indeterminata che potrebbe persino essere maggior di quella attuale).

Ecco perché dicevo all’inizio che ho trovato offensivo l’articolo 1 che recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». 

No. Questo disegno di legge prova a ridisegnare una parte del finanziamento pubblico dei partiti secondo nuovi principi (proprio come aveva auspicato Bersani in campagna elettorale), ma non lo abolisce affatto. Berlusconi e Renzi, a parole paladini dell’abolizione totale, devono farsene una ragione. Può anche darsi che alla fine i partiti costino al contribuente un po’ di meno di oggi, ma nulla fa pensare che costeranno molto di meno o che costeranno nulla. 

Perciò, una sola preghiera. Cari politici, che quando ci aumentate le tasse vi rifugiate codardamente dietro il verbo «rimodulare», ora che state effettivamente rimodulando il finanziamento dei partiti abbiate almeno il coraggio di non usare il verbo «abolire». Perché abolire vuol dire abolire, abolire, abolire (direbbe Gertrude Stein), e se voi dite «abolire» quando non state abolendo affatto, noi ci sentiamo presi in giro. Insomma, se proprio non riuscite ad avere rispetto per noi, abbiatene almeno per la lingua italiana.

Da - http://www.lastampa.it/2013/06/03/cultura/opinioni/editoriali/soldi-ai-partiti-e-significato-delle-parole-rl1KjYKAGo4mduYwdAmzzN/pagina.html
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« Risposta #196 inserito:: Febbraio 24, 2014, 07:12:55 pm »

Editoriali
23/02/2014

Sul governo una certezza e un dubbio

Luca Ricolfi

Il governo Renzi ha giurato, gli italiani – dopo una settimana di Sanremo alquanto impegnativa – si preparano ad assistere al nuovo spettacolo, quello della politica nazionale, più perplessi che entusiasti, più preoccupati che curiosi, più speranzosi che fiduciosi. 

 Anch’io mi sento parte di questo sentire strano e, a mia memoria, del tutto senza precedenti. 

Un sentire che, per quel che riesco a capire, deriva dal fatto che nella mente di tante, forse tantissime persone, si sono installate una certezza e un dubbio. Una certezza granitica e un dubbio inestirpabile. 

La certezza granitica è che «Matteo ce la deve fare». Ce la deve fare perché il nostro Paese è in tragico ritardo su tutti i fronti, e questa è l’ultima occasione. Credo che fra la gente normale, non ammalata di faziosità e di politica, nessuno si auguri un fallimento di Renzi. Persino coloro che lo detestano, coloro che lo trovano sfrontato e vanitoso, coloro che si sentono turbati dalla sua spregiudicatezza, persino tutti costoro non si augurano davvero un naufragio del governo Renzi. Perché tutti, quasi tutti, sentiamo che l’Italia non si può permettere un altro periodo di caos e ingovernabilità, e che caos e ingovernabilità sarebbero i frutti avvelenati di un’eventuale caduta di Renzi.

Accanto alla certezza granitica c’è però anche il dubbio, un dubbio grande come una casa. Chi non crede nei miracoli, o perlomeno non crede che la politica sia capace di miracoli, non riesce a nascondersi che quello che Renzi sta chiedendo agli italiani è un vero e proprio atto di fede. Un qualcosa che va contro ogni ragionevole aspettativa e ogni realistica valutazione dei confini del possibile. Renzi ci sta chiedendo di credere nel nuovo in quanto nuovo. Nessun’altra credenziale, che sia visibile a noi cittadini ignari, sembrano possedere la maggior parte dei nuovi ministri se non quella, appunto, di essere nuovi. Ma ci si può entusiasmare solo del fatto di vedere facce nuove, fresche, giovani e femminili?

Forse sì, ma permettetemi di dare un’occhiata ai curricula, sempre che le cose che uno fa nella vita – studi, ricerche, esperienze professionali – abbiano ancora un qualche valore. Intanto, salvo un paio di nomi, di veri giovani ce n’è ben pochi, a meno di definire «giovani» persone che hanno superato i 40 anni (nel mondo della gente comune una persona di 40 anni è un adulto, e spesso ha vent’anni di lavoro alle spalle). Questa normalità anagrafica del governo, il fatto di non essere un governo di ragazzini, è tutt’altro che un difetto, considerato che, per un ministro, l’esperienza e la competenza negli ambiti di cui si dovrà occupare sono delle virtù. Ed eccoci al punto dolente: i medesimi curricula che rivelano che l’età media dei membri del governo sfiora i 50 anni, ci offrono un quadro tutt’altro che rassicurante proprio su esperienza e competenza. Superata la soglia dei 40 anni, e a maggior ragione superata quella dei 45 o dei 50 anni, ci aspetteremmo che un ministro – ossia una persona chiamata ad occupare il posto di più alta responsabilità in un dato ambito – sia scelto fra i migliori nel suo campo. Dove essere fra i migliori significa aver già dimostrato, nel proprio lavoro, di essere fra i più capaci, i più preparati, i più disinteressati. Questo è essenziale, in particolare, nei ministeri (a mio parere quasi tutti) in cui non bastano esperienza e competenza politiche, ma occorre una profonda familiarità con la materia di cui il ministero si occupa. Perché se è vero che in certi ministeri (ad esempio agli Affari esteri, o agli Affari regionali) quel che conta è soprattutto l’esperienza politica, diplomatica o amministrativa, è ancor più vero che nella maggior parte degli altri (e più che mai nel caso di Economia, Lavoro, Istruzione, Pubblica Amministrazione, Sanità, Giustizia), è cruciale che il ministro abbia una conoscenza non superficiale delle materie che tocca. Detto per inciso, è proprio questo uno dei difetti principali della «vecchia» politica: la storia della seconda Repubblica è piena di riforme abortite, degenerate, o stravolte in quanto pensate da ministri esclusivamente preoccupati del «messaggio politico», ma del tutto incapaci di valutare le conseguenze effettive delle leggi che promulgavano. Ministri, insomma, ignari del fatto che anche l’idea migliore può generare il suo opposto, perché «il diavolo si nasconde nei dettagli».

Da questo punto di vista il governo Renzi è veramente molto vecchio, ossia costruito con una logica vecchia. Là dove serviva esperienza politica e c’era un ottimo ministro, universalmente stimato e noto in tutto il mondo, ossia al ministero degli Esteri, si invita Emma Bonino a farsi da parte. E là dove sarebbero serviti i migliori dei rispettivi campi, ossia nei ministeri che richiedono anche competenza tecnica, in troppi casi (non in tutti, per fortuna: vedi ad esempio Economia e Istruzione) si piazzano politici puri, senza alcuna credenziale nelle materie di cui dovrebbero occuparsi, ma con un’attenzione degna di miglior causa agli equilibri fra le forze politiche e fra le correnti del Pd. Politici cui sarebbe ingiusto rifiutare a priori qualsiasi credito, ma cui è altrettanto difficile affidarsi con la tranquillità che ci trasmette un bravo nocchiero.

Ed ecco allora una domanda vera, nel senso che davvero non so come siano andate le cose: perché tutti i nomi eccellenti che sono girati per i ministeri chiave sono caduti?

Nei giorni del totoministri giravano nomi di altissimo livello come quelli di Lucrezia Reichlin, Oscar Farinetti, Andrea Guerra, Alessandro Baricco, Pietro Ichino, Tito Boeri. Se fossero entrati tutti, o ne fossero entrati altrettanti consimili, sarebbe stato davvero il nuovo, un corpo mortale inferto alla vecchia politica. E io non sarei qui a scrivere questo articolo, né avrei letto le decine di commenti preoccupati che sono usciti sui giornali di ieri (sabato).

Che cosa è successo?

Io non l’ho capito. Renzi ha chiesto a tutti o a quasi tutti di entrare nel suo governo e ne ha ricevuto altrettanti rifiuti? E se sì, qual è la ragione? 

Una possibile risposta è che, chiunque nella sua vita abbia lavorato davvero, abbia dimostrato le sue capacità, e abbia raggiunto una posizione di prestigio, non ha molta voglia di immolarsi per una posizione di ministro che potrebbe durare poco, e guadagnargli solo frustrazioni, arrabbiature, impopolarità e discredito.

Una seconda possibile risposta, molto più inquietante, è che Matteo Renzi sia apparso ai suoi potenziali ministri con le idee troppo vaghe sui contenuti. Che di fronte alla giusta domanda «per fare che cosa dovrei diventare ministro?» si sia tenuto un po’ tanto sulle generali.

Come siano andate le cose non lo so, e forse non lo sapremo mai. Per questo, per ora, non riesco a liberarmi né della mia certezza, che sia un bene per l’Italia che Renzi ce la faccia (in bocca al lupo!), né del mio dubbio, e cioè che Renzi non si sia reso conto fino in fondo della smisuratezza dell’impresa che ci promette di compiere. 

Da - http://lastampa.it/2014/02/23/cultura/opinioni/editoriali/sul-governo-una-certezza-e-un-dubbio-08X1E2fig0mzfuK2RyQDZK/pagina.html
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« Risposta #197 inserito:: Marzo 02, 2014, 11:37:57 am »

Editoriali
02/03/2014

Movimento Cinque Stelle l’illusione iperdemocratica
Luca Ricolfi

Ultimamente, qualcuno si è messo a dire che i grillini sarebbero fascisti. I loro metodi sono stati tacciati di squadrismo. E in questi giorni, di fronte alle procedure di espulsione dei dissidenti, è risuonata forte e chiara l’accusa di stalinismo.

A me pare un abbaglio. Un abbaglio enorme. Soprattutto, un abbaglio che rischia di occultare la vera natura del Movimento Cinque Stelle. No, cari critici del Movimento Cinque Stelle. I partiti totalitari del passato erano un’altra cosa. Erano violenti e anti-democratici. Il Movimento Cinque Stelle è l’esatto contrario: è non violento e iper-democratico. 

Non violento, innanzitutto. Perché la violenza e il suo uso politico, come nel fascismo, nel nazismo e nel comunismo, sono stati una cosa troppo seria e tragica. Evocarle a proposito di qualche spintone in Parlamento (sicuramente deprecabile, ma pur sempre spintone) significa non avere il senso della misura, e in definitiva nutrire poco rispetto per le vittime di quei regimi. 

 Il punto fondamentale, però, quello che caratterizza veramente il grillismo, è l’iper-democrazia. 

Qui è il cuore dell’ideologia 5 Stelle. E qui sta la sua vera e più grave pericolosità, a mio sommesso parere.

Che cos’è l’iper-democrazia?

L’iper-democrazia è un’ideologia che si è consolidata solo negli ultimi 20 anni, in concomitanza con il trionfo di internet, ma le cui radici risalgono a quasi mezzo secolo fa, e precisamente al biennio 1968-69. Che cosa è capitato, in quei due anni cruciali?

Due cose, fondamentalmente. Nelle scuole e nelle università è nata l’ideologia assembleare, il cui nucleo logico è il seguente: le decisioni le prendono coloro che si riuniscono in assemblea, gli assenti hanno sempre torto. L’idea soggiacente è quella di una sorta di primato morale della politica: se fai politica, se sei impegnato, allora sei un gradino sopra gli altri; se invece non la fai, allora sei un egoista, un opportunista, un edonista, o come minimo un qualunquista. E questo a dispetto del fatto che chi fa politica è una minoranza, e la maggioranza ha altro da fare (pochi lo sanno, ma nel mitico ’68 gli studenti politicamente attivi erano solo 1 su 5). Ecco perché la minoranza politicizzata si sente moralmente superiore, e disprezza profondamente la massa che si astiene dalla politica, cui riserva termini carichi di connotazioni negative: maggioranza silenziosa, apatici, qualunquisti. Il complesso di superiorità della sinistra nasce anche di qui.

Ma c’è un altro evento capitale in quegli anni: il 7 gennaio 1969 nasce un tipo di trasmissione radiofonica completamente nuova, “Chiamate Roma 3131”, che diventerà un modello per decine di altre trasmissioni consimili. In essa gli ascoltatori diventano improvvisamente protagonisti: chiunque può telefonare e intervenire a prescindere da qualsiasi credenziale di cultura, esperienza, autorevolezza. Oggi ci sembra normale, ma allora fu un’assoluta novità, che cambiò completamente il rapporto fra pubblico e media. Da allora, sia pure lentamente e gradualmente, si fece sempre più strada l’idea che tutti possono essere protagonisti e, soprattutto, che non è richiesta alcuna speciale dote, competenza o merito per poterlo essere.

Ma veniamo a oggi. Che cos’è il Movimento Cinque Stelle?

Per molti versi non è altro che la micidiale fusione di questi due cambiamenti epocali, entrambi risalenti a mezzo secolo fa. Grazie alla diffusione di internet, l’utopia di una comunità di decisori potenzialmente universale, in cui tutti decidono su tutto, è sembrata improvvisamente una possibilità reale. Il mito della democrazia diretta, da cui Norberto Bobbio ci aveva sempre messi in guardia, è sembrato finalmente alla portata dei tempi. Una volta acquisito che tutti possono circolare in rete, una volta stabilito che il discorso pubblico non richiede alcuna speciale competenza, una volta interiorizzata l’idea che chi fa politica è migliore di chi non la fa, c’erano tutte le condizioni per la nascita di un movimento come quello di Grillo: un movimento iper-democratico, perché fondato sulla credenza che tutti possano partecipare e sulla convinzione che debbano farlo.

Restava un piccolo problema, un dettaglio non risolto. La maggioranza della gente, la stragrande maggioranza delle persone normali, ha un sacco di cose da fare e non si diverte affatto a fare politica, a meno di voler chiamare «politica» il fare gli spettatori nei combattimenti di galli che ogni sera ci offrono Floris, Santoro, Formigli, Paragone, eccetera. Da decenni e decenni le inchieste rivelano che i cittadini politicamente attivi sono una piccolissima minoranza (diciamo il 3%), e che la maggior parte della popolazione o disprezza, o ignora, o assiste passivamente alla commedia della politica. E questo è ancora più vero nel movimento di Grillo, dove i militanti sono circa lo 0,5% degli elettori, ossia qualcosa come 5 persone su 1000.

Ciò crea un salto, una vera e propria frattura, fra la grande e silenziosa maggioranza degli elettori, che si limita a votare e tutt’al più a informarsi, e la minoranza degli impegnati, che frequenta sempre meno le sedi di partito superstiti ma, in compenso, inonda la Rete di ogni sorta di pensieri, analisi, insulti, volgarità, esternazioni più o meno ostili alla grammatica italiana. 

Ma non si tratta solo di una frattura, quella c’è sempre stata, anche ai tempi del glorioso Pci. La novità è che ora, con il movimento di Grillo, a quella frattura si dà uno statuto nuovo, esplicito e paradossale. Grillo sogna una civiltà digitale in cui tutti, seduti davanti al proprio schermo, partecipino alle decisioni fondamentali della comunità. Una civiltà iper-democratica perché tutti possono partecipare, tutti hanno le competenze per farlo, e l’assenza di partecipazione è una colpa, come era nel ’68 e come, sotto sotto, è sempre rimasta nella cultura e nella mentalità della sinistra. 

Questa visione della democrazia e della partecipazione genera almeno due conseguenze. La prima è il sostanziale disprezzo per la democrazia rappresentativa, che si basa invece proprio sul principio opposto, secondo cui la gente ha il pieno diritto di non occuparsi attivamente di politica, ed è del tutto normale che il cittadino deleghi ad altri, i politici di professione, il compito di amministrare la cosa pubblica. La seconda conseguenza è il disprezzo per il proprio stesso elettorato, ossia per quei 995 elettori su 1000 che non partecipano alle decisioni in Rete. Questo disprezzo, non il presunto fascismo o stalinismo, è secondo me il vero lato inquietante del grillismo. Perché, nel movimento di Grillo come negli altri partiti, i militanti non sono affatto un campione rappresentativo degli elettori. Spesso sono invece i più aggressivi, i più faziosi, i peggio informati (perché leggono tanto, ma solo ciò che li conferma nelle loro opinioni), i meno vicini al sentire comune delle persone normali. Le quali lavorano, studiano, si divertono, cercano la loro via nel mare aperto della vita. L’iper-democrazia della Rete, molto poco democraticamente, le snobba e le esclude, e in questa esclusione rivela il vero volto di sé stessa.

Da - http://lastampa.it/2014/03/02/cultura/opinioni/editoriali/cinque-stelle-lillusione-iperdemocratica-nMnhdTJTpp0S2RTJtdpRiL/pagina.html
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« Risposta #198 inserito:: Marzo 12, 2014, 12:01:11 pm »

Editoriali
11/03/2014

Irpef o Irap una scelta rivelatrice
Luca Ricolfi

Irpef o Irap? I dieci miliardi di sgravi fiscali promessi da Renzi devono andare ai lavoratori o alle imprese?

Mai dilemma di politica economica fu più falso e fuorviante di questo. Intanto perché l’abbassamento dell’Irpef - al quale secondo le ultime voci sarebbe orientato il premier - non riguarderebbe affatto «i lavoratori», che sono oltre 22 milioni, ma una parte dei lavoratori dipendenti; e in secondo luogo perché l’abbassamento dell’Irap non riguarderebbe «le imprese», quanto l’insieme ben più vasto dei lavoratori autonomi soggetti a Irap, che sono quasi 5 milioni di persone. 

Cominciamo quindi con il dire una prima verità: se, come pare, lo sgravio sarà tutto concentrato su un’imposta, e non spalmato su entrambe, la scelta reale di Renzi non è fra lavoratori e imprese, ma semmai fra due gruppi di lavoratori.

Ma è l’unica scelta? Ed è la scelta più importante?
Secondo me no. A mio parere, la frattura sociale fondamentale, in Italia, non è fra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. La frattura fondamentale è fra garantiti e non garantiti. O, se preferite, fra società delle tutele e società del rischio. Da una parte dipendenti pubblici e dipendenti delle grandi imprese, la cui condizione poggia su un sistema di garanzie relativamente solido e sostanzialmente stabile.

Dall’altra lavoratori autonomi, operai e impiegati delle piccole imprese, disoccupati, precari, lavoratori in nero, giovani e donne alla ricerca di un’occupazione, che nuotano nel vasto oceano del rischio perché la loro condizione è drammaticamente soggetta ai capricci del mercato e le tutele di cui godono sono minime. Questi sono i due mondi che si intrecciano in Italia, talvolta all’interno della medesima famiglia. Ora, rispetto a questa frattura, l’alternativa fra sgravi Irpef e Irap è assolutamente cruciale. 

Gli sgravi Irpef incidono sui risparmi e sui consumi di una decina di milioni di lavoratori dipendenti, ma lasciano del tutto invariata la condizione di chi è lavoratore autonomo o non ha un’occupazione. Gli sgravi Irap, invece, oltre a incidere sui risparmi e sui consumi di circa 5 milioni di lavoratori indipendenti, esercitano un effetto di entità non trascurabile sul tasso di crescita e sull’occupazione. Alleggerendo i conti delle aziende, infatti, gli sgravi Irap riducono il rischio di chiusura e aumentano le possibilità di creare nuovi posti di lavoro. 

 

La differenza di fondo fra le due strade, fra mettere 10 miliardi sull’Irpef e metterli sull’Irap, è che nel primo caso (Irpef) si fornisce un sollievo a una parte di coloro che un reddito già ce l’hanno, mentre nel secondo caso si dà una chance anche a chi non ha alcun reddito. In poche parole, gli sgravi Irap possono avere qualche effetto non solo nella società delle garanzie, ma anche in quella del rischio.

Tradizionalmente la politica, specie a sinistra, ha sempre avuto un occhio di riguardo per il mondo dei garantiti, specie dipendenti pubblici e operai delle grandi fabbriche, e ha prestato ben poca attenzione a quello dei non garantiti, e in particolare di giovani, donne, disoccupati, precari e lavoratori in nero. E’ per questo che, quando spuntano fuori delle «risorse», il riflesso condizionato di un po’ tutte le forze politiche, e massimamente quello delle organizzazioni sindacali, è di convogliare tali risorse verso i propri iscritti o i propri elettori, che tendenzialmente costituiscono porzioni più o meno ampie e ben definite del mondo dei garantiti. E’ naturale: ognuno cerca di proteggere i suoi, e i non garantiti sono tali proprio perché non hanno alcuno che li protegga e ne difenda le buone ragioni. 

Ecco perché, molto giustamente, tanti studiosi e tanti osservatori dicono che, in Italia, non solo la destra ma anche la sinistra è conservatrice. Ed ecco perché, da qualche tempo, ci si augura che almeno la sinistra abbandoni la sua attitudine conservatrice e provi a fare la sinistra, difendendo innanzitutto i veri deboli.

Avrà Matteo Renzi il coraggio di puntare, per la prima volta nella storia della sinistra nell’Italia repubblicana, sul mondo dei non garantiti?  O preferirà la solita strada, quella di dare un contentino a un segmento dei garantiti?
Lo vedremo domani, quando verrà presentato il Jobs Act. Nel frattempo possiamo solo rallegrarci di una cosa: dopo che il premier avrà fatto la sua scelta definitiva, noi cittadini ne sapremo molto di più sul premier stesso. Perché la scelta Irpef-Irap è una cartina al tornasole perfetta, capace di dirci se – con Renzi – la sinistra ha davvero cambiato verso, diventando più moderna e attenta all’interesse generale, o se essa continua ad essere ostaggio dei poteri di sempre, che ne hanno fatto una delle forze più conservatrici del Paese.

Da - http://www.lastampa.it/2014/03/11/cultura/opinioni/editoriali/irpef-o-irap-una-scelta-rivelatrice-qEHKLVZtdd2umOzNgEpU5L/pagina.html
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« Risposta #199 inserito:: Marzo 19, 2014, 12:22:06 pm »

Editoriali
19/03/2014

Il vero choc è il rimborso dei debiti

Luca Ricolfi

L’avete notato? Ogni governo ha la sua parola chiave. Quando c’era Monti, la parola chiave era «salvare» (l’Italia). Con Letta era diventata «stabilità». Con Renzi e i suoi siamo passati a «rivoluzione». Poiché in passato si è fatto ben poco, e nessuno ha memoria di una vera rivoluzione, il mero fare qualcosa appare rivoluzionario.

Non ho nulla contro l’uso della figura retorica dell’iperbole, e quindi non cercherò di sostituire alla parola rivoluzione parole meno eccitanti, tipo cambiamento, riforma, provvedimento. Parliamo pure di scelte rivoluzionarie, se questo può tirarci su il morale. Però almeno proviamo a fare qualche distinzione, perché dentro la rivoluzione in corso ci sono atti di portata molto diversa. Ci sono atti che hanno un valore simbolico altissimo e nessun effetto pratico, o addirittura effetti pratici negativi. E ci sono atti che lasciano indifferente il grande pubblico ma hanno una portata enorme, nel senso che possono cambiare radicalmente le condizioni di vita della gente. La mia impressione è che fra l’importanza di un atto e l’attenzione dell’opinione pubblica vi sia, tendenzialmente, una sorta di relazione inversa, per cui quel che colpisce l’immaginazione conta poco e quel che conta molto non colpisce l’immaginazione. 

Vediamo due esempi estremi.

Mettere all’asta 100 auto blu è pura propaganda anti-casta. E lo resterebbe anche se ne venissero vendute 1.000 o 10.000. Non tanto perché il ricavato sarebbe comunque modestissimo, ma perché il vero costo delle auto di servizio sono gli autisti, e anche licenziandoli in blocco resterebbero da pagare taxi e corse di auto Ncc (Noleggio con conducente). Assumendo che le auto blu vendute siano 1.500 e non solo 100, e che da ciascuna si ricavino 5.000 euro (come suggerisce l’esperienza passata), il ricavato sarebbe di 7,5 milioni, una cifra assolutamente irrisoria (più o meno 1 millesimo dei risparmi di spesa ipotizzati da esponenti del governo per il 2014, pari a 7 miliardi).

Passiamo al secondo esempio. Pagare alle imprese 68 miliardi di debiti della Pubblica Amministrazione, e farlo «entro luglio» (o anche entro il 21 settembre, come ora si sente dire) sarebbe effettivamente una misura di impatto enorme, una misura che cambierebbe le vite di molti. Perché se questi pagamenti avvenissero effettivamente e rapidamente molte meno fabbriche chiuderebbero, ci sarebbero più assunzioni, e le imprese superstiti sarebbero più competitive. Però ne parlano solo gli specialisti e i creditori, l’opinione pubblica si appassiona di più per le auto blu o per i 1000 euro in più in busta paga. A sentire i dibattiti di questi giorni, sembra che questi benedetti 10 miliardi in più per i lavoratori dipendenti siano una misura rivoluzionaria e senza precedenti, la mossa decisiva che può rilanciare i consumi e far ripartire la crescita. 

 

Ma bastano pochi calcoli per mostrare che la gerarchia di importanza fra queste due ultime misure, meno tasse e pagamento dei debiti, è tutta un’altra. Il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione rimette dentro i bilanci delle imprese 68 miliardi di euro, ossia circa 4 punti di Pil. Il saldo netto della manovra di politica economica di Renzi, nella più favorevole delle ipotesi, è dell’ordine di 6-7 miliardi di euro (circa 0,4 punti di Pil), e questo per la semplice ragione che le minori imposte (Irpef e Irap) sono compensate da maggiori tasse sul risparmio e da tagli alla spesa pubblica (la cosiddetta spending review). Detto brutalmente, il reddito disponibile dei lavoratori dipendenti beneficiati dalle riduzioni Irpef potrà anche crescere un po’, ma a fronte di questo incremento i risparmiatori pagheranno più tasse, e la Pubblica amministrazione dovrà ridurre acquisti e stipendi. Contrariamente a quanto molti sono portati a pensare, i 10 miliardi che il governo promette di «mettere in tasca» a una parte dei lavoratori non pioveranno dal cielo ma, ove si troveranno le coperture saranno sottratti ad altri usi, e ove tali coperture non verranno trovate andranno ad aumentare il deficit pubblico (di 3 miliardi, secondo le ultime dichiarazioni). 

Ed eccoci al punto: la «rivoluzione» è fatta di tasselli di impatto del tutto diverso. La vendita della auto blu entusiasma ma non sposta nulla: è mero solletico. La manovra complessiva di riduzione bilanciata di tasse e spesa pubblica piace, ma sposta poco: è una pacca sulle spalle. Il pagamento effettivo e tempestivo dei debiti della Pubblica Amministrazione non scalda i cuori ma può spostare molto: è un vero choc. Uno choc positivo che oggi può evitare la chiusura di migliaia di attività economiche, e ieri avrebbe potuto salvare centinaia di migliaia di posti di lavoro che ora non ci sono più.

Ma esiste qualche possibilità che, entro il 21 settembre, la Pubblica Amministrazione faccia quel che Renzi promette?

Penso non lo sappia nessuno. Anzi, penso che nessuno lo possa sapere: né Renzi, né Padoan, né Bassanini (che ha elaborato il piano di sblocco dei pagamenti). Perché l’esito di questa partita non dipende solo da come andrà il braccio di ferro fra la politica, che ora pretende il pagamento dei debiti, e la burocrazia, che ha sempre frenato. L’esito dipenderà anche dai mercati finanziari. I quali potrebbero apprezzare l’operazione, in quanto aumenta le prospettive di crescita dell’Italia, ma potrebbero anche osteggiarla (chiedendoci tassi più alti), in quanto essa equivale a una spesa non coperta da corrispondenti entrate. E questo indipendentemente dalle procedure di contabilizzazione del debito che la Ragioneria dello Stato e il ministero dell’Economia riuscissero a negoziare con l’Europa: l’esperienza passata dimostra che i vincoli della politica economica non sono solo quelli stabiliti dalle autorità europee (il famigerato 3%), e che il loro rispetto non è né necessario né sufficiente per evitare l’aggressione dei mercati. 

Dunque, a mio parere, il governo rischia. Rischia di non sbloccare i debiti perché gli apparati ministeriali si mettono di traverso, o perché le banche non collaborano, o perché l’Europa ci mette condizioni tropo severe. Ma rischia pure di riuscire a sbloccarli, e che a quel punto siano i mercati a sentire puzza di bruciato in un’operazione così imponente. In questa situazione, l’unica carta che l’Italia può giocare per proteggersi dal rischio di un nuovo aumento dello spread è accelerare le riforme strutturali (soprattutto in materia di giustizia civile, norme fiscali e mercato del lavoro), e rendere il più possibile credibili gli annunci sulle misure future. Il che vuol dire essenzialmente una cosa: prendere congedo dagli estenuanti riti della seconda Repubblica, che hanno imbrigliato tutti i governi che si sono succeduti dal 1994. Riti fatti di interminabili negoziati e mediazioni fra partiti, nel Parlamento, con le parti sociali, con gli apparati dei ministeri. Riti fatti di lungaggini abnormi nell’iter dei provvedimenti legislativi, in una selva di annunci, disegni di legge, emendamenti, deleghe, decreti attuativi, regolamenti. 

Da questo punto di vista il governo Renzi è una realtà ancora tutta da scoprire. Il suo decisionismo fa ben sperare, mentre la pioggia di annunci, quasi sempre privi di un supporto legislativo ben definito, fa temere che, alla fine, anche lui possa finire impigliato nella palude da cui voleva tirarci fuori.

Da - http://lastampa.it/2014/03/19/cultura/opinioni/editoriali/il-vero-choc-il-rimborso-dei-debiti-iYujQVy4MyECQeI39IlrPP/pagina.html
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« Risposta #200 inserito:: Marzo 24, 2014, 04:54:42 pm »

Editoriali
23/03/2014
Spesa pubblica, perché i tagli sono difficili

Luca Ricolfi

Sono troppi o troppo pochi 34 miliardi all’anno di tagli della spesa pubblica? 
La domanda aleggia nelle stanze della politica da qualche giorno, perché 34 miliardi è quanto il Commissario alla spending review Carlo Cottarelli ipotizza di risparmiare nel 2016, dopo aver tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi quest’anno e 18 l’anno prossimo.

La sequenza 7-18-34, a quanto pare, spaventa Renzi e i suoi. Non solo perché siamo sotto elezioni, e parlare di tagli di spesa pubblica ad appena 60 giorni dal voto può danneggiare il partito del premier, ma anche perché alcuni tagli ventilati da Cottarelli, ad esempio quelli alle pensioni superiori a 2500 o 3000 euro mensili lordi, appaiono davvero sorprendenti: come si fa a considerare ricco, e quindi soggetto a un «contributo di solidarietà» (che brutta e ipocrita espressione…), un pensionato che incassa 2000 euro netti al mese, e nello stesso tempo considerare povero, e quindi da aiutare con uno sgravio Irpef, un lavoratore dipendente che di euro al mese ne guadagna 1500?

Dunque Renzi frena. Secondo alcuni (Federico Fubini venerdì su Repubblica) sarebbe orientato a tagli di «soli» 20-25 miliardi, meno di quanti ne aveva programmati il timido governo Letta. 

Secondo altri, più maliziosi, la vera entità dei tagli che Renzi si appresta a mettere in cantiere, specie riguardo alle pensioni del ceto medio, la conosceremo solo dopo le Europee, quando non ci saranno più appuntamenti elettorali importanti alle porte. 

Che cosa dobbiamo pensare?

Non lo so, perché delle vere intenzioni del premier (ammesso che esistano) non ho la minima idea. Però, avendo studiato per anni gli sprechi della Pubblica amministrazione, ho un’idea di quanto grandi essi siano e del perché sarà impossibile eliminarli a breve.

Cominciamo dalle cifre. La spesa pubblica, se trascuriamo gli interessi sul debito e le pensioni vere e proprie (che sono retribuzioni differite), ammonta a circa 500 miliardi. Questa cifra include sia la spesa sociale in senso stretto (sanità, scuola, assistenza, ammortizzatori sociali) sia le spese generali di funzionamento di qualsiasi stato moderno (difesa, giustizia, carceri, amministrazione, trasporti, infrastrutture). La stragrande maggioranza degli studi che hanno provato a stimare l’entità degli sprechi in uno o più di tali settori hanno riscontrato tassi di spreco medi nazionali compresi fra il 15% e il 30%. Tali tassi, però, variano enormemente da territorio a territorio, diciamo da un minimo del 5%, tipicamente riscontrabile per diversi servizi erogati in Lombardia e in Veneto, fino al 50%, tipicamente riscontrabile in molte (non tutte) le regioni meridionali. Complessivamente, una stima prudente del tasso medio di spreco a livello nazionale, intendendo con spreco tutto quel che si spende in più rispetto ai territori più efficienti, si può situare intorno al 20%. In concreto significa che, ogni anno, buttiamo dalla finestra più o meno 100 miliardi di euro, dove «buttare dalla finestra» significa che potremmo produrre gli stessi servizi spendendo 400 miliardi anziché 500 o, alternativamente, che con la medesima spesa di prima potremmo ampliare i servizi di circa il 20%: più asili nido, più politiche contro la povertà, migliori ospedali, migliori scuole e così via.

Se ci fermiamo fin qui la conclusione è scioccante: altroché troppi tagli, 34 miliardi è appena un terzo di quel che si potrebbe tagliare! Dunque Renzi dovrebbe tagliare di più, non di meno di quel che Cottarelli ipotizza.

C’è un «però» grande come una casa, tuttavia. Tagliare senza ridurre i servizi è difficile, difficilissimo (su questo, e fino a questo punto, i sindacati hanno perfettamente ragione). Si può fare, ma solo a tre condizioni, nessuna delle quali è attualmente rispettata, e l’ultima delle quali è indigeribile per i sindacati.

Prima condizione (studi macro). Ci vogliono studi di settore, servizio per servizio, articolati territorialmente almeno a livello regionale, per individuare le «migliori pratiche» (le cosiddette best practices) e stimare il tasso di spreco di ogni territorio, che si può ricavare da un confronto sistematico, in termini di costi e benefici, con il territorio meglio organizzato. Bisogna, in altre parole, continuare il lavoro meritoriamente iniziato dalla Commissione Muraro (Commissione tecnica per la finanza pubblica), insediata nel 2007 da Padoa Schioppa e malauguratamente sciolta da Tremonti nel 2008, dopo poco più di un anno di lavoro. Non è questo, a quel che è dato conoscere, il lavoro che sta facendo il Commissario Cottarelli. Eppure nessuna riduzione degli sprechi è possibile in Italia se non si parte da studi macro ben fatti e da obiettivi di risparmio territoriali.

Seconda condizione (studi micro). Una volta individuate le inefficienze di uno specifico servizio e la loro distribuzione territoriale, occorrono studi molto precisi e dettagliati per passare dalla individuazione dell’entità complessiva degli sprechi alla loro eliminazione in un dato territorio. Quando il governatore Cota mi chiese di dare una mano a razionalizzare la spesa sanitaria in Piemonte, non se ne fece nulla perché lui voleva risultati in pochi mesi, mentre io ritenevo che un piano che non peggiorasse il servizio ai malati richiedesse almeno 2 anni di duro lavoro di un’équipe di decine di medici, infermieri, sociologi, economisti, eccetera. Il governatore della mia regione aveva commesso, a mio parere, il medesimo identico errore di Renzi e di tutti i premier che lo hanno preceduto: quello di sbarcare al governo senza avere né un’analisi, né piani operativi pronti, né la consapevolezza che, se li si intende costruire da zero, bisogna avere la pazienza di aspettare 2-3 anni. 

Terza condizione (comando). Una volta capito che un determinato servizio in un dato territorio «spreca», poniamo, 100 milioni di euro, e che per ridurre lo spreco bisogna intervenire in determinati, specifici, punti del sistema di erogazione del servizio, manca ancora una condizione fondamentale, quella che in un libro di qualche anno fa Giulio Tremonti ebbe a chiamare il «comando» nella Pubblica amministrazione. Occorre, in altre parole, che ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa. Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono. 

Purtroppo nessuna delle tre condizioni precedenti è soddisfatta, per adesso. Il lavoro della commissione Muraro è incompleto e in ogni caso andrebbe aggiornato. Di studi analitici se ne conoscono pochissimi, mentre ce ne vorrebbero diverse centinaia. Quanto a ristabilire un minimo di «comando» nella Pubblica amministrazione, ne siamo lontani anni luce. A queste tre difficoltà, ne andrebbe poi aggiunta un’altra, di tipo politico generale, e cioè che una spending review che volesse fare sul serio non potrebbe nascondere tre fatti su cui i governanti, chiunque essi fossero, hanno sempre preferito sorvolare: che il grosso degli sprechi e delle inefficienze nell’erogazione dei servizi ha luogo nel Mezzogiorno; che spendiamo ogni anno 10 miliardi per false pensioni di invalidità; che almeno un terzo dei «poveri» che usufruiscono di esenzioni varie, dai ticket sanitari alle tasse universitarie, sono finti poveri, che evadono il fisco o autocertificano il falso.

Conclusione?

Nessuno, in Italia, riuscirà mai ad azzerare 100 miliardi di sprechi della Pubblica amministrazione. Sarebbe già molto che un governo riuscisse a eliminarne la metà, diciamo 50 miliardi, ossia un po’ di più di quello che Cottarelli ha ipotizzato per il 2016. Per farlo, però, occorrerebbe che fossero soddisfatte le condizioni che ho ricordato. Finché non lo saranno tutte e tre, dalla più facile (la prima) alla più difficile (la terza), è inutile illudersi. Se 34 miliardi di tagli saranno, scordiamoci i servizi. E se vogliamo salvare i servizi, scordiamoci i 34 miliardi di tagli.

Da - http://lastampa.it/2014/03/23/cultura/opinioni/editoriali/spesa-pubblica-perch-i-tagli-sono-difficili-q8l2AOHRCDTexdus3DzBlK/pagina.html
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« Risposta #201 inserito:: Aprile 28, 2014, 05:55:23 pm »

Editoriali
27/04/2014

La vera sfida è tra Grillo e il premier

Luca Ricolfi

C’ è un po’ di maretta in vista delle Europee, da qualche giorno. Gli ultimi sondaggi, infatti, sono rassicuranti solo per due partiti, quello di Renzi e quello di Grillo. Tutti gli altri sono a rischio. Forza Italia teme di scendere sotto la soglia psicologica del 20%. Quanto alle cinque liste minori, piccole ma non piccolissime, nessuna può essere certa di superare il 4%, una soglia tutt’altro che psicologica, visto che al di sotto di essa non si entra nel Parlamento Europeo: Nuovo Centro Destra (che si presenta con l’Udc), Lega, Fratelli d’Italia, Scelta Europea, Lista Tsipras viaggiano tutti fra il 2% e il 6%, il che, tenuto conto dell’imprecisione di tutti i sondaggi, significa che potrebbero sia farcela tutte, sia restare tutte fuori. Su tutto, infine, aleggia l’incognita del non voto (astensioni, schede bianche e nulle), di solito piuttosto alto in questo genere di elezioni. 

a diverse settimane la maggior parte degli osservatori prevede una vittoria del Pd, trascinato dalla popolarità attuale di Renzi, e una competizione fra Forza Italia e Movimento Cinque Stelle per la conquista del secondo posto. Secondo alcuni, in particolare, il recente calo del consenso a Forza Italia andrebbe considerato temporaneo, e in parte recuperabile grazie al ritorno di Berlusconi in tv. 

La mia impressione è che, in realtà, le cose non stiano così, almeno per quel che riguarda i primi tre posti. A mio modesto parere, se non capiteranno eventi speciali (ad esempio l’arresto di Berlusconi, o l’impossibilità di pagare gli 80 euro a fine maggio), il quadro più verosimile è quello di una competizione per il primo posto fra Renzi e Grillo, con Berlusconi staccato di parecchi punti percentuali. 

Perché Grillo potrebbe contendere il primo posto a Renzi? E perché Berlusconi dovrebbe accontentarsi del terzo posto?

Una prima risposta è che i sondaggi vanno letti, ma anche ritoccati in base all’esperienza. E l’esperienza dice che il voto «politicamente corretto» (oggi chiaramente il voto al Pd) è spesso sopravvalutato nei sondaggi, mentre quello politicamente scorretto (ad esempio quello a Grillo e alla Lega) al contrario è sottovalutato. Se i sondaggi danno il Pd al 33%, è opportuno togliere un paio di punti, e se danno il movimento Cinque Stelle al 25%, è ragionevole aggiungerne altrettanti: nonostante le apparenze, il Pd potrebbe essere intorno al 31%, e il Movimento Cinque Stelle intorno al 27. Se poi, come succede negli ultimi giorni, alcuni sondaggi danno il Pd intorno al 32% e il Movimento Cinque stelle intorno al 27%, diventa molto imprudente concludere che il Pd è in testa. Probabilmente lo è, ma con un distacco modesto. E comunque, se si dovesse votare domani mattina, non punterei una grossa somma sul Pd primo partito.

 

C’è però anche un secondo ordine di motivi che suggerisce che la competizione vera non sia quella per il secondo posto, fra Movimento Cinque Stelle e Forza Italia. Intanto, dobbiamo sempre ricordarci che, giusto o sbagliato che sia, in Italia (ma non solo) le elezioni Europee sono considerate elezioni poco importanti. Questo mero fatto è un grave handicap per Forza Italia, perché rende inservibile l’armamentario anti-comunista. Se Renzi «non è comunista» (parola di Berlusconi), e per di più non c’è alcun pericolo di «consegnare l’Italia alle sinistre» (perché si vota per il Parlamento Europeo), a Berlusconi e ai suoi viene a mancare una delle armi fondamentali tradizionalmente brandite in campagna elettorale.

E tuttavia non si tratta solo di questo. La crisi di Forza Italia è anche una crisi genuinamente politica. Ammaliato dal miraggio di diventare, in tandem con Renzi, il padre delle grandi riforme costituzionali ed elettorali, Berlusconi pare aver perso completamente di vista la politica economico-sociale. Non tanto nel senso che poco se ne occupa, ma nel senso, ben più grave, di non accorgersi degli spazi che Renzi e il Pd gli aprono ogni giorno. Nel mondo di Forza Italia il lutto per non aver fatto la «rivoluzione liberale» promessa nel 1994 non solo genera sensi di colpa (vedi l’intervista di Bondi alla «Stampa» di qualche giorno fa) ma conduce a fraintendere la stessa azione di Renzi, visto come colui che starebbe facendo «quel che dovevamo fare noi». Proprio perché sanno di non aver fatto la rivoluzione liberale, e vedono in Renzi colui che è stato capace di spodestarli, molti politici di centro-destra cadono nell’errore di proiettare sul giovane leader della sinistra i fantasmi dei propri ideali perduti. Se noi non siamo stati capaci di essere liberali, così sembra ragionare la mens politica del centro-destra, liberale deve essere colui che sta prendendo il nostro posto.

Eppure, basterebbe un po’ di osservazione e un po’ di disincanto per rendersi conto di quanto poco – nonostante il ciclone Renzi – sia cambiato l’hardware della sinistra. Certo il software è nuovo di zecca, perché il nostro giovane premier è svelto, disinvolto e comunica bene. Ma l’hardware, il nocciolo duro della politica economico-sociale, di veramente nuovo ha ben poco, e di liberale nulla o quasi. La scelta di ridurre l’Irpef anziché l’Irap, la rinuncia a dare gli 80 euro ai lavoratori dipendenti più poveri (i cosiddetti incapienti), lo stravolgimento del decreto Poletti sul mercato del lavoro, l’assordante silenzio sugli sperperi e l’evasione fiscale del Mezzogiorno, sono tutte scelte (anzi, non-scelte) che ci restituiscono una minestra che conosciamo fin troppo bene: quando deve scegliere, la sinistra sta dalla parte dei garantiti, come esige la Cgil, mentre al mondo dei non garantiti (poveri, disoccupati, giovani e donne fuori del mercato del lavoro, artigiani e partite Iva) si penserà in un secondo tempo, quando ci saranno le risorse, quando l’Europa ci darà il permesso, quando il percorso delle riforme sarà completato. Il guaio dell’Italia è che la rivoluzione liberale, verosimilmente la sola che potrebbe restituire ai non garantiti un po’ di speranza e un po’ di dignità, non piace né alla destra né alla sinistra.

Così il panorama politico profondo dell’Italia resta, nonostante Renzi e Grillo, molto meno movimentato di quel appare in superficie. Quel che soffia nelle vele di Grillo è il vento della delusione per l’Europa, una sorta di variante sovrannazionale della nostra insofferenza per la casta. In quelle di Renzi soffiano venti diversi, compreso l’equivoco della rivoluzione liberale. Una rivoluzione che la destra ha tradito, e la sinistra, almeno per ora, si guarda bene dal raccogliere.

Da - http://lastampa.it/2014/04/27/cultura/opinioni/editoriali/la-vera-sfida-tra-grillo-e-il-premier-slOAeShusnrqtLXL7ajjhK/pagina.html
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« Risposta #202 inserito:: Giugno 22, 2014, 05:52:26 pm »

Editoriali
22/06/2014

Bonus, le insidie del rinnovo
Luca Ricolfi

E se i mondiali di calcio dell’Italia, tutta pimpante contro l’inesistente Inghilterra e finita ko contro la squadra di Costa Rica, fossero un’inquietante metafora della parabola del governo Renzi?

Speriamo di no. In fondo qualcosa di buono Renzi lo ha fatto, anche se non è detto che sarà lui a raccoglierne i frutti. Mi riferisco, soprattutto, alla caduta di alcuni tabù del discorso pubblico. Dopo Renzi è diventato ammissibile (ossia possibile senza passare per berlusconiani) criticare la magistratura, dissentire dai «venerati maestri», prendere le distanze dai sindacati. Non solo, ma alcuni tabù sono stati rotti o stanno per esserlo in modo effettivo: ad esempio i vincoli sul mercato del lavoro allentati dal decreto Poletti, e l’inamovibilità e intrasferibilità dei dipendenti pubblici, destinate a cadere con la riforma della Pubblica Amministrazione. Fin qui siamo a Italia-Inghilterra.

Dove però comincia Italia-Costa Rica è su tutto il resto, o meglio sulle cose che contano davvero. Qui la disillusione e le preoccupazioni si sprecano.

La disillusione, innanzitutto. Appena insediato, Renzi aveva dichiarato che «la differenza fra un sogno e un obiettivo è una data», con ciò intendendo che per ogni riforma avrebbe indicato delle scadenze precise e le avrebbe rispettate. 

Ricordate la scaletta delle riforme? Febbraio: legge elettorale e riforme istituzionali. Marzo: riforma del lavoro. Aprile: riforma della Pubblica Amministrazione. Maggio: fisco. Giugno: riforma del welfare e della giustizia. Luglio: pagamenti di 68 miliardi di debiti dello Stato e degli Enti locali.

Nessuna data è stata rispettata, nessuna lo sarà, meno che mai quella di pagare 68 miliardi di debiti della Pubblica Amministrazione entro luglio (o settembre) dei quest’anno. Né poteva essere diversamente, a meno di pensare che i predecessori (Letta e Monti) fossero dei completi incapaci. Non è una colpa grave (nessuno ha la bacchetta in mano), ma segnala che anche Renzi è lento, parecchio lento. Le cose veramente importanti andate in porto sono poche (80 euro e decreto Poletti su tutte), il resto dovrà attendere una miriade di incontri, mediazioni, trattative, disegni di legge, decreti delegati, regolamenti attuativi, stanziamenti, come al solito. Niente di nuovo, siamo abituati.

 Ci sarebbero poi le preoccupazioni. Qui il nodo è il bonus da 80 euro, o meglio la sua trasformazione in sgravio fiscale permanente, che valga non solo per il 2014 ma anche per il 2015 e gli anni successivi. Il timore di chi l’ha trovato in busta paga, ma anche di alcuni economisti, è che non si riescano a individuare le risorse per coprirlo anche nel 2015 e che quindi la gente, sapendo che non sarà rinnovato, spenda di meno di quanto farebbe sapendo di poterci contare per sempre. Sono timori comprensibili, specie se si crede che l’economia possa ripartire con un piccolo (circa +0.5%) incremento della domanda interna, e inoltre si ritiene che l’aumento dei consumi privati generato dal bonus non sarà sterilizzato dalla corrispondente riduzione della spesa pubblica con cui, a detta dei nostri governanti, il bonus 2015 dovrà essere finanziato.

Il mio timore è opposto, invece. Chiedo scusa in anticipo ai lettori che non saranno d’accordo, ma quel che temo è precisamente che il bonus venga rinnovato, e provo a spiegare perché.

Per rinnovare il bonus occorrono altri 7 miliardi di tagli di spesa pubblica, oltre a quelli già effettuati quest’anno (circa 3). Se, come promesso, il bonus verrà esteso anche ad altre categorie (incapienti, pensionati, lavoratori autonomi) l’ammontare dei tagli di spesa indispensabili salirà abbondantemente al di sopra dei 10 miliardi. Il tutto senza contare gli ulteriori tagli necessari per finanziare i molti miliardi di nuove e diverse spese, più o meno obbligate e improcrastinabili, che immancabilmente si presentano ogni anno (esodati, cassa integrazione, infrastrutture, emergenze e disastri, eccetera). In tutto circa 15 miliardi di vecchia spesa pubblica in meno, 5 miliardi di nuova spesa pubblica in più. Sono conti rozzi e approssimativi, ma anni di disperati esercizi politico-contabili sul bilancio pubblico ci insegnano che sono questi gli ordini di grandezza in ballo. 

Ebbene, mi spiace dirlo ma secondo me non può funzionare, e forse è persino un bene che non funzioni. Non può funzionare perché nessun governo italiano è in grado di tagliare 15 miliardi di spesa pubblica in un anno, anche ammesso che la cosa sia desiderabile. Quindi o i tagli saranno minori, o sforeremo i conti pubblici (magari non dicendolo, se no l’Europa ci sgrida, bensì «accorgendoci» a posteriori di averlo fatto). Se i tagli saranno minori, e persino se saranno pari a quelli programmati, non resterà un euro per ridurre il costo del lavoro (cuneo fiscale) e le tasse sulle imprese (Ires e Irap), ovvero per migliorare la competitività della nostra economia, che è poi l’unica via che abbiamo per far ripartire la crescita e, se la crescita sarà superiore al 2%, creare qualche nuovo posto di lavoro. In questa situazione, l’unico modo per mantenere la promessa di stabilizzazione del bonus di 80 euro è quello di adottare, insieme a qualche riduzione di spesa, un mix di nuove tasse (come in parte è già stato fatto) e di ulteriore deficit pubblico, tanto più probabile se, sia pure in ritardo, alcuni debiti dello Stato verso le imprese verranno finalmente onorati.

E tuttavia anche questa non è una prospettiva allettante. Qualsiasi cosa ci permetta o ci proibisca di fare l’Europa, i tassi di interesse che paghiamo sui titoli del debito pubblico si formano sul mercato, e la situazione attuale dei mercati finanziari (tassi bassissimi) è assolutamente eccezionale, ossia non destinata a durare. Possiamo non accorgercene, perché continuiamo a guardare solo allo spread con la Germania, ma già ora i mercati danno segnali di non fidarsi dell’Italia. Basta dare un’occhiata all’andamento dei nostri tassi rispetto a quelli degli altri Pigs o presunti tali (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) per rendersi conto della nostra vulnerabilità. Fino al 2012, nonostante tutto, eravamo il meno peggio dei Pigs, poi (da gennaio 2013) siamo stati scavalcati dall’Irlanda, e infine (dal gennaio di quest’anno) siamo finiti anche dietro la Spagna: solo Grecia e Portogallo sono messi peggio di noi. Non solo, ma negli ultimi mesi la posizione relativa dell’Italia è ulteriormente peggiorata: i rendimenti dei nostri titoli di Stato decennali, pur riducendosi, lo fanno meno velocemente di quelli dei tre paesi mediterranei più inguaiati (Grecia, Spagna, Portogallo).

Insomma, a mio parere siamo davanti a una scelta difficile: se Renzi vuole aiutare i veri deboli, ossia chi sta fuori del mercato del lavoro, deve concentrare tutte le risorse sulla riduzione delle tasse sui produttori (Irap e Ires innanzitutto, come ha appena fatto la Spagna) e sulla riforma complessiva del mercato del lavoro. Se invece vuole vincere anche le elezioni regionali (nel 2015 si vota in oltre la metà delle Regioni), avanti così: punti tutto sul rinnovo del bonus, nella speranza che gli elettori appena riacchiappati alle elezioni europee restino in casa Pd il più a lungo possibile.

Da - http://lastampa.it/2014/06/22/cultura/opinioni/editoriali/bonus-le-insidie-del-rinnovo-mN1uWCUi0Ru6AGcMnj2YlK/pagina.html
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« Risposta #203 inserito:: Luglio 07, 2014, 12:30:47 am »

Editoriali
06/07/2014

Quei sei milioni di deboli che i partiti non vedono
Luca Ricolfi

C’è maretta, nel Pd e nel Pdl, nella maggioranza e nell’opposizione, nei partiti grandi e nei partiti piccoli. Le acque sono agitate perché le riforme sulle regole del gioco, prima fra tutte la legge elettorale, non possono essere rimandate per l’ennesima volta e un po’ tutti ne approfittano per alzare il prezzo del proprio consenso. Ma il vento che agita il Pd è solo una leggera brezza a confronto del turbine che sconquassa il Pdl. Nel Pdl, infatti, le normali divergenze di opinione sui contenuti delle riforme si intrecciano inestricabilmente con il dibattito sotterraneo sul dopo Berlusconi. 

 Un dibattito che, apparentemente, deve rispondere alla domanda: chi guiderà il centro-destra dopo Berlusconi? Ma in realtà sta già cercando di rispondere a un’altra e ben più importante domanda: che cosa sarà il centro-destra dopo Berlusconi? 
Questa seconda domanda è la domanda cruciale. Se qualcosa hanno insegnato le elezioni europee è che, per adesso, esiste una sola forza di governo, il Pd. Il punto è dunque se, anche alle prossime elezioni politiche, il centro-destra non si presenterà in campo, come di fatto è successo alle elezioni Europee, oppure sarà in grado di dare agli elettori una nuova offerta politica.

Il compito di costruire un’offerta alternativa a quella del partito di Renzi è reso difficile dalle divisioni, personali prima ancora che politiche, fra i reduci del ventennio berlusconiano. Ma la difficoltà fondamentale, a mio parere, è di ordine politico-culturale. Oggi il centro-destra non sa né in nome di quale idea dell’Italia rifondarsi, né quale sia il blocco sociale che intende rappresentare. Una difficoltà che è accentuata dal fatto che una parte dello spazio politico tradizionale del centro-destra la sta occupando Renzi con le sue idee più «di destra»: decreto Poletti sul mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica, conflitti con i sindacati e con la magistratura.

Ecco perché non è assurdo domandarsi: c’è ancora spazio per una forza di governo alternativa alla sinistra?
La mia impressione è che, nonostante l’espansionismo renziano, di spazio ve ne sia in abbondanza, anche se non è detto che tale spazio sia adatto ad essere occupato da una forza di centro-destra. 

La ragione fondamentale per cui di spazio, almeno per ora, ve n’è in abbondanza, è che la politica di Renzi non sta affatto affrontando il problema fondamentale dell’Italia, e nell’unico caso in cui ha prodotto un risultato importante e tangibile (gli 80 euro in busta paga), lo ha affrontato dal lato sbagliato. 

 Qual è il problema fondamentale dell’Italia?
Il problema fondamentale è che ci mancano almeno 6 milioni di posti di lavoro. Se vogliamo che il nostro tasso di occupazione sia comparabile a quello medio degli altri Paesi avanzati dobbiamo, come minimo, creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro. Il che significa, in concreto, permettere un ingresso massiccio di giovani e soprattutto di donne adulte nel mercato del lavoro. Può sembrare banale, ma è questo il nucleo del problema italiano. Perché intorno al tasso di occupazione ruota tutto: un tasso di occupazione patologicamente basso come il nostro accentua le diseguaglianze, deprime il reddito medio, ci rende schiavi del debito pubblico. Non solo: lasciare insoluto questo problema crea una frattura sociale inedita e gravissima, quella fra chi sta dentro il mercato del lavoro, i cosiddetti insider, e chi ne sta fuori, i cosiddetti outsider. Frattura che si va ad aggiungere e intrecciare alla frattura già abbastanza grave fra i garantiti (lavoratori pubblici e dipendenti delle imprese medie e grandi) e i non garantiti (lavoratori autonomi e dipendenti delle piccole imprese).

Rispetto all’enormità di questo problema, la politica italiana, tutta la politica italiana, appare muta e disarmata. Nessuno gli conferisce la priorità che meriterebbe. Nessuno, soprattutto, ha il coraggio di dire che creare alcuni milioni di posti di lavoro richiede scelte aperte e radicali.

Perché questo silenzio?
Nel caso della sinistra è abbastanza chiaro. Il problema del Pd renziano era ed è riportare all’ovile i propri elettori, che provengono innanzitutto dal mondo dei garantiti. Di qui l’operazione 80 euro in busta paga, che ha beneficiato 10 milioni di lavoratori dipendenti ma ha lasciato fuori gli incapienti (chi ha un salario inferiore a 8.000 euro l’anno), i non garantiti e gli outsider, ossia soprattutto giovani e donne inoccupate.

In questo senso quella di Renzi, checché ne dicano i suoi detrattori, è stata una politica di sinistra classica, da manuale: redistribuire risorse a favore della propria base sociale.

Ma nel caso della destra?
Perché la destra stenta ad occupare gli spazi lasciati aperti dal Pd di Renzi? Perché il dramma di quei 6 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello non è prioritario neppure a destra?

Difficile dirlo. Una ragione, probabilmente, è che la destra italiana ha sempre visto la riduzione delle tasse più come un mezzo per sostenere il reddito delle famiglie che come un mezzo per stimolare crescita e creare posti di lavoro. Non a caso nel «Contratto con gli italiani» Berlusconi prometteva la riduzione delle aliquote Irpef, una misura che porta voti, ma non diceva una parola sulla riduzione di Ires e Irap, una misura ben più capace di creare posti di lavoro. 

C’è forse una ragione più profonda, tuttavia, per cui gli esclusi dal mercato del lavoro interessano così poco il ceto politico. Ed è che creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro è un’impresa politicamente contraddittoria. La piena occupazione, infatti, è un obiettivo di sinistra, e lo è più che mai al giorno d’oggi, in un’epoca i cui i veri deboli non sono i lavoratori dipendenti, occupati e garantiti, ma sono i giovani e le donne escluse dal mercato del lavoro. Quell’obiettivo di sinistra, tuttavia, oggi che non possiamo più spendere in deficit può essere raggiunto solo con mezzi considerati di destra: il taglio della spesa pubblica, la liberalizzazione del mercato del lavoro e la riduzione delle tasse sui produttori, a partire dall’imposta societaria. 

Di qui il nostro disorientamento. La sinistra sembra di sinistra perché parla di occupazione, la destra sembra di destra perché parla di tasse. Ma né l’una né l’altra stanno cercando di creare quei 6 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello.

Da - http://lastampa.it/2014/07/06/cultura/opinioni/editoriali/quei-sei-milioni-di-debiti-che-i-partiti-non-vedono-i4ffVSJGMTNlcGEAeD8RxK/pagina.html
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« Risposta #204 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:17:08 pm »

Editoriali
03/08/2014

Chi ci rimette con il primato della politica
Luca Ricolfi

Su quel che fa il governo Renzi le opinioni divergono. C’è il partito del «finalmente, dopo trent’anni!» che si compiace di ogni novità, reale o presunta che sia. E c’è il partito del «niente di nuovo sotto il sole», che vede riemergere i soliti difetti della politica: tanti annunci e pochi fatti, scadenze non rispettate, leggi e decreti pasticciati, eterno rinvio dei problemi più spinosi, a partire da quello del mercato del lavoro. 

Quello su cui quasi tutti sono d’accordo è che lo stile di governo è cambiato, perché il nuovo premier non è ingessato come i predecessori, e pare determinatissimo a portare a termine i propri piani. C’è un punto, tuttavia, su cui mi pare che non si stia riflettendo abbastanza. Quel che Renzi e i suoi stanno cambiando non è solo lo stile di governo, il tipo di comunicazione, il rapporto con l’opinione pubblica. A me pare che il cambiamento più importante sia una sorta di ritorno in grande stile del primato della politica. Un ritorno che, a seconda dei punti di vista, si può descrivere come sussulto di orgoglio o come rigurgito di arroganza, ma che comunque è in pieno atto.

Ma primato nei confronti di chi? 
Alcune vittime del ritorno della politica si vedono ad occhio nudo. I magistrati e i sindacati, ad esempio. Non che questi due poteri siano stati riformati o meglio regolamentati, come da qualche decennio si attende. Però sono stati subito «messi a posto»: verso i magistrati Renzi ha dichiarato che non aveva alcun problema a tenersi degli indagati fra i membri del governo, verso i sindacati ha detto chiaro e tondo che potevano scordarsi i riti della concertazione, perché lui avrebbe deciso anche contro il loro parere. 

Questa però è solo la parte più visibile della restaurazione del primato della politica. Accanto ad essa ve n’è un’altra, a mio parere ben più carica di conseguenze. Di tutti i premier della seconda Repubblica (e forse anche della prima) Renzi è quello che mostra il minore rispetto, per non dire il maggiore disprezzo, per qualità come l’esperienza, la competenza, la preparazione tecnica e culturale. E, simmetricamente, è il premier che con più spregiudicatezza ha puntato sulla fedeltà e l’appartenenza come criteri di selezione della classe dirigente. 

Tutto questo era evidente fin dalla scelta della squadra di governo, con la rinuncia a servirsi dei migliori e la preferenza accordata ai più fedeli, ma è diventato via via più evidente nelle ultime settimane. Quando, nella polemica con il commissario alla spending review, Renzi e i suoi ribadiscono che «è la politica che decide», non c’è solo l’ennesima manifestazione dell’arroganza del potere (la frase «Cottarelli stia sereno» è un avvertimento di sfratto), ma c’è l’implicita affermazione di un’idea della politica come attività sostanzialmente autosufficiente. Un’idea che verrebbe da definire semplicemente ingenua, se le sue conseguenze non fossero estremamente dannose.

Pensare che problemi di enorme complessità e delicatezza, come il cambiamento della Costituzione, la riforma del mercato del lavoro, la riorganizzazione della Pubblica amministrazione, si possano affrontare mediante un negoziato fra partiti, gruppi parlamentari e fazioni varie, senza un disegno coerente e meditato, con la sola logica delle concessioni reciproche, significa non avere la minima idea degli enormi limiti cognitivi della politica, tanto più di questa politica, con questi politici, nell’Italia di oggi. Nessuno costruisce un aereo, o un’automobile, o un computer, cercando di mettere d’accordo tutti i produttori che ambiscono a fornirne parti e componenti. Eppure è questa la pretesa della politica in Italia. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aerei, delle automobili e dei computer funzionano, mentre le nostre leggi di riforma non funzionano quasi mai.

Ma la restaurazione del primato del politico, sfortunatamente, non finisce qui. Il disprezzo per la competenza, per l’esperienza, per i saperi tecnici e specialistici, non si limita a privilegiare i politici puri nelle posizioni di governo, ma investe anche il lavoro e le professioni della gente comune. Per chi è della mia generazione, e ha preso atto degli obbrobri della rivoluzione culturale cinese, con le sue epurazioni di intere categorie di persone, medici, insegnati, ingegneri, professionisti, intellettuali, colpevoli soltanto di essere «borghesi» anziché «contadini poveri», fa un certo effetto la leggerezza con cui la politica sta procedendo a rottamare medici, magistrati, professori semplicemente in base alla loro età, senza alcuna considerazione sulle loro competenze o la loro utilità. Come fa effetto sentire che qualcuno è stato scelto «in quanto donna», o «in quanto giovane», senza alcun riferimento ai suoi meriti rispetto ad altri candidati.

La realtà, temo, è che demagogia e populismo sono ormai saldamente insediati nel Dna della nostra classe politica. Renzi e i suoi, almeno per ora, non sembrano fare eccezione. Perché l’essenza del populismo, il suo ingrediente fondamentale, non è l’appello al popolo (che pure non manca: «ho preso il 40.8% dei voti»), ma è il semplicismo, l’incapacità di riconoscere e accettare la complessità dei problemi di una società moderna, tanto più se in crisi da vent’anni. E’ di qui che nasce il senso di sufficienza verso professionisti ed esperti. E’ qui che trova alimento il sentimento di onnipotenza dei governanti. E’ qui, soprattutto, che il progetto di restaurare il primato della politica ha il suo fondamento logico: se i problemi sono semplici, e si tratta solo di tradurre in legge alcuni nobili principi, la politica può farcela da sola, e i Cottarelli di ogni genere e specie possono tranquillamente (anzi: «serenamente») andare a farsi benedire, tanto un tecnico amico lo si trova sempre. 

Per Stella e Rizzo, autori del più fortunato pamphlet politico degli ultimi anni (La casta, Rizzoli 2007), c’è oggi forse qualche nuovo materiale su cui riflettere: la lotta contro la casta, nata per cambiare la politica, sta producendo la più spettacolare e imprevista rivincita della politica stessa.

Da - http://lastampa.it/2014/08/03/cultura/opinioni/editoriali/chi-ci-rimette-con-il-primato-della-politica-mdRLs6cwq4JugB1AXyKIjK/pagina.html
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« Risposta #205 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:22:46 pm »

Il paradosso del nostro benessere

12/08/2014
Luca Ricolfi

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate. 

Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale.

Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

 La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare). 

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

E’ così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare.

Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori.

Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

Da - http://lastampa.it/2014/08/12/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-del-nostro-benessere-PB83k3ZMiqh51RmrotXNYN/pagina.html
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« Risposta #206 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:44:03 pm »

Il braccio di ferro tra i “renzismi”
04/09/2014

Luca Ricolfi

Da ieri le cose sono un po’ più chiare. Grazie a una bella intervista del direttore del Sole24ore Roberto Napoletano a Matteo Renzi, siamo in grado di capire molto meglio che cosa il nostro giovane premier ha in mente, ovvero: quali sono le sue intenzioni, quali sono le sue priorità, qual è la sua visione del mestiere di governare. Ma soprattutto: qual è la sua diagnosi dei mali dell’Italia e dei rimedi necessari a curarli. 

Il passaggio chiave dell’intervista a me pare quello in cui Renzi dice «io non credo che chi governa debba necessariamente scontentare […]. Noi dobbiamo coinvolgere il popolo e io oggi sento che il Paese è coinvolto, la gente mi dice “andiamo avanti” […]. Non ho paura di perdere le prossime elezioni, ma molte delle riforme che dobbiamo fare sono popolari». 

Più o meno è il contrario di quanto, in una conversazione con Claudio Cerasa pubblicata sul «Foglio», gli suggerisce il suo amico Dario Nardella, che di Renzi ha preso il posto come sindaco di Firenze. Nardella ricorda che la Germania fu sottratta al declino dal coraggio del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che nel 2003 non esitò a varare riforme impopolari, a costo di sacrificare la sinistra del suo partito e perdere le successive elezioni politiche.

Di qui il consiglio di osare: «Io auguro a Renzi di vincere anche le prossime elezioni, ma la priorità oggi è far vincere il Paese, e per far vincere il Paese qualche volta occorre muoversi sfidando il vento». 

Quel che è interessante, di queste due interviste, non è solo il fatto che, nello stesso giorno, compaiano due interpretazioni del renzismo piuttosto diverse, se non opposte, di cui una, quella di Renzi stesso, blanda e populista, l’altra, quella del renziano Nardella, radicale e a suo modo aristocratica. Quel che a mio giudizio è veramente significativo è che queste due interpretazioni rimandino, a loro volta, a due diverse diagnosi sui mali dell’Italia.

Le due diagnosi non differiscono in alcun modo significativo nella denuncia dei grandi mali del paese, e concordano perfettamente sull’esigenza di modernizzare e rendere più efficienti il mercato del lavoro, la burocrazia, la giustizia civile (tutte riforme che costano poco o nulla), ma divergono drasticamente sulla politica economica in senso proprio: dove e quanto tagliare la spesa pubblica, quanto deficit possiamo permetterci, dove e come impiegare le risorse così liberate.

Secondo il renzismo di Renzi stesso, che chiamerò «renzismo di prima specie», la spesa pubblica si può tagliare di 20 miliardi di euro in un anno (perché il popolo è con noi), il pareggio di bilancio non è una priorità (il 3% di Maastricht non è sacro), il ritorno alla crescita richiede un rilancio della domanda di consumo (conferma ed estensione del bonus da 80 euro).

Ma c’è anche un «renzismo di seconda specie», che qua e là si manifesta nelle parole del sindaco di Firenze Dario Nardella, ma in realtà è condiviso da molti studiosi ed osservatori della vicenda italiana. Secondo questo punto di vista molte delle riforme che Renzi dice di voler compiere non sono affatto popolari (se fatte sul serio), a partire dai 20 miliardi di tagli alla spesa pubblica; le scelte coraggiose non sono in alcun modo eludibili, specie in materia di mercato del lavoro e lotta agli sprechi; la riduzione delle tasse va convogliata innanzitutto verso i produttori, per aumentare competitività e occupazione. In poche, crude, parole: il bonus da 80 euro è un pannicello caldo, e non servirà a creare occupazione.

Entrambe le posizioni hanno le loro buone ragioni.
Il renzismo di prima specie (quello populista), a mio avviso ha un’unica giustificazione robusta: se pensi di essere l’unica salvezza per l’Italia, e per cambiare il Paese ti occorrono alcuni anni, allora è naturale che il primo obiettivo della tua azione sia durare, e che tu pianifichi di fare solo quello che non mette a repentaglio il governo; la politica, dopo tutto, non è testimonianza, ma è l’arte del possibile. 

Il renzismo di seconda specie (quello aristocratico), invece, affonda le sue radici in una visione drammatica delle condizioni del Paese. Secondo questo punto di vista, che per molti versi è stato quello di Renzi stesso nella sua fase eroica ed utopistica, il declino dell’Italia è in atto da almeno vent’anni, e invertire la rotta è un’impresa ciclopica, che richiede sacrifici e scelte dolorose. In questa prospettiva nessuno è indispensabile, ma nessuno può farcela se non sfida l’impopolarità. Governare l’Italia significa avere il coraggio che ebbe Schroeder nel 2003, anziché barcamenarsi per tenere a bada le correnti del proprio partito.

La debolezza del renzismo populista è che, per voler durare, rischia di non cambiare davvero il Paese. La debolezza del renzismo aristocratico è che, per voler cambiare davvero il Paese, rischia di non durare.

Chi vincerà? 
Il renzismo populista, immagino. Il populismo è fede nel popolo, e sottovaluta sistematicamente la complessità dei problemi, due attitudini che lusingano e rassicurano l’opinione pubblica. Ed è questa ostinata volontà di farsi lusingare e rassicurare che spinge gli elettori a rivolgersi a leader come Grillo, Berlusconi e Renzi.

Il renzismo aristocratico, invece, difficilmente potrà prevalere, perché non lusinga e non rassicura. La sua diagnosi dei mali italiani è troppo impietosa, i rimedi che suggerisce sono troppo radicali. C’è solo da augurarsi che quella diagnosi sia sbagliata, e che l’allegria del premier non venga ricordata, in futuro, come «allegria di naufragi», per dirla con la bellissima poesia di Ungaretti.

Da - http://lastampa.it/2014/09/04/cultura/opinioni/editoriali/il-braccio-di-ferro-tra-i-renzismi-QcFlr8D5i0hi0UgxHl3hGN/pagina.html
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« Risposta #207 inserito:: Settembre 17, 2014, 05:43:47 pm »

Occupazione, il governo non aspetti

17/09/2014
Luca Ricolfi

Dopo tutto anche Renzi è un politico. Per questo non mi ha sorpreso che il suo discorso di ieri in Parlamento fosse alquanto retorico, e piuttosto avaro di impegni precisi. Due passaggi, tuttavia, mi sono sembrati informativi, sia pure in senso negativo. In entrambi, infatti, pur non dicendo che cosa farà, il premier ha detto chiaramente che cosa non farà. E’ già qualcosa.

Il primo passaggio è quello in cui Renzi respinge la critica di aver sbagliato i tempi, dando la precedenza alle riforme delle regole (legge elettorale e Costituzione) con conseguente ritardo delle riforme economico-sociali. A questa critica Renzi in sostanza risponde che le riforme vanno fatte tutte insieme (come se la politica non decidesse ogni giorno che cosa rinviare e che cosa no), e che l’importante è aver compiuto i primi passi, disegnando la cornice del suo «vasto programma», per dirla con De Gaulle. E’ la conferma, purtroppo, che tuttora il governo non pensa che la creazione di nuovi posti di lavoro sia un problema di gran lunga prioritario rispetto a tutti gli altri. Ce ne eravamo accorti a maggio (altrimenti i 10 miliardi del bonus Irpef non sarebbero finiti a chi un lavoro già ce l’ha, e il Jobs Act non sarebbe stato incanalato su un binario parlamentare lento), ma è comunque una notizia che il premier continui a pensarla come la pensava 7 mesi fa, quando aveva rinunciato a varare subito il Jobs Act. Speriamo che abbia ragione lui, e che l’Italia, nonostante sia tornata in recessione, possa ancora permettersi di aspettare tutto il tempo che i politici vorranno prendersi prima di rendere operative nuove regole del mercato del lavoro.

C’è però anche un secondo passaggio del discorso di Renzi che ci fa capire qualcosa, ed è quello in cui Renzi sbeffeggia chi propone come modello la Spagna: «Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello debba essere la Spagna, ho grande stima della Spagna, ma quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere un Paese che ha il doppio della disoccupazione dell’Italia mi preoccupo». 

Neanch’io penso che un Paese come l’Italia possa uscire dai suoi guai semplicemente imitandone un altro. E tuttavia fa una certa impressione il semplicismo con cui Renzi liquida il modello spagnolo, e gli contrappone il comportamento dell’Italia in questi anni, una difesa che a me ricorda molto quella di Tremonti e Berlusconi nel 2008-2011, quando dicevano che, a differenza di altri Paesi, l’Italia tutto sommato aveva tenuto, restava un Paese solido, eccetera eccetera. 

E allora guardiamolo un po’ più da vicino questo orribile modello spagnolo. Fra il 2007 e il 2013 il Pil italiano ha perso l’8,5%, quello spagnolo il 5,9%. Nel 2014 il Pil italiano calerà ancora (dello 0,4% secondo l’Oecd), mentre quello spagnolo crescerà, come quello di quasi tutti i Paesi europei. Ma lì la disoccupazione è il doppio che da noi, obietta Renzi. Ed è qui, quando fa questo confronto, che capisco perché il nostro governo non riesce a capire il dramma dell’Italia.

 

Eppure Renzi dovrebbe sapere (o Padoan dovrebbe spiegargli), che il tasso di disoccupazione è un pessimo indicatore della situazione occupazionale di un Paese, e diventa del tutto fuorviante se si confrontano due Paesi con regole del mercato del lavoro profondamente diverse come l’Italia e la Spagna. Il confronto vero va fatto sul numero di occupati, non sui tassi di disoccupazione. Ebbene, nel 2013 il tasso di occupazione spagnolo, a dispetto di anni di austerity, era più alto di quello italiano, e questo nonostante in quello italiano siano inclusi tutti i lavoratori in cassa integrazione. Se poi si tiene conto del numero medio di ore lavorate e del numero di soggetti che hanno due lavori, il vantaggio occupazionale della Spagna sull’Italia si allarga ancora di più. La realtà è che, a dispetto dei rispettivi tassi di disoccupazione, c’è più lavoro in Spagna che in Italia, non solo, ma in Spagna l’occupazione sta riprendendo a salire, mentre in Italia continua a scendere, in barba alle belle parole della nostra Costituzione, secondo le quali «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Questo vuol dire che dovremmo conformarci al modello spagnolo?
Certo che no, ma almeno potremmo smetterla di raccontarci fiabe autoconsolatorie, basate su confronti statistici improbabili, e cominciare a chiederci se i Paesi che hanno usato questi anni per correggere alcuni dei loro squilibri non hanno nulla da insegnarci. Temo che, se avessimo l’umiltà di guardarci allo specchio, l’insegnamento principale sarebbe questo: la differenza fra noi e gli altri quattro Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è che loro hanno attraversato una crisi profonda, cui hanno reagito e da cui stanno uscendo, mentre noi non abbiamo nemmeno provato a interrompere il nostro declino, un declino di cui l’inesorabile calo delle ore lavorate per abitante è la spia più drammatica e chiara. 

E’ questo, forse, il nesso logico segreto fra i due punti che abbiamo voluto sottolineare del discorso di Renzi in Parlamento. La ragione per cui pensa che non esistano riforme prioritarie è la medesima per cui gli «scappa da ridere» quando qualcuno evoca il modello spagnolo. Quella ragione è, semplicemente, che anche lui, come molti suoi predecessori, pensa che la politica abbia molto tempo davanti a sé, e possa scegliere liberamente di che cosa occuparsi oggi, di che cosa domani, che cosa rinviare, che cosa far passare con un decreto, che cosa con una legge delega, che cosa ignorare. Non ha tutti i torti, perché una società in declino, specie se ancora ricca, ha margini di tolleranza per gli errori dei suoi governanti molto maggiori di una società in crisi. Per questo penso che lo sbaglio di non aver stabilito delle priorità, dando alla creazione di lavoro la precedenza assoluta che meritava, è un errore di cui la società italiana si accorgerà solo un po’ più in là. Diciamo fra 1000 giorni, forse.

Da - http://lastampa.it/2014/09/17/cultura/opinioni/editoriali/occupazione-il-governo-non-aspetti-FbR3M1d9y5API51xssPuBO/pagina.html
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« Risposta #208 inserito:: Settembre 22, 2014, 04:11:22 pm »

Qualcosa è cambiato

21/09/2014
Luca Ricolfi

Nell’ultima settimana qualcosa è cambiato. E’ cambiata la situazione, perché tutti gli organismi internazionali e i centri studi hanno smesso di scommettere sulla ripresa italiana: il 2014 sarà ancora un anno di recessione, e il 2015 chissà. Ma è cambiata anche la risposta della politica, almeno sul versante governativo: Matteo Renzi ha (finalmente) deciso di dare la priorità che meritano alle riforme economico-sociali, e in particolare al Jobs Act. Questa svolta, non ancora evidente nel discorso di martedì in Parlamento, troppo avaro di impegni precisi, è diventata invece chiarissima nei giorni successivi, con le dichiarazioni sull’articolo 18 e con il video-messaggio di venerdì, in cui Renzi ha attaccato frontalmente i sindacati, accusandoli di aver sempre privilegiato i lavoratori garantiti e trascurato gli occupati precari e chi un lavoro non ce l’ha. 

Renzi ha ragioni da vendere, perché la divisione fra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, garantiti e non garantiti, insider e outsider, è effettivamente uno dei nodi fondamentali dell’Italia, se non il nodo fondamentale. 

E il fatto che sindacalisti, politici e osservatori impegnati gli oppongano, nel 2014, i medesimi argomenti di 20 o 30 anni fa, non fa che confermare le buone ragioni di Renzi. 

E tuttavia…

Per vincere una battaglia non basta avere sostanzialmente ragione, o che i propri avversari non dispongano di soluzioni praticabili. Occorre anche che le proprie soluzioni siano tali. In poche parole: che funzionino.

Per questo penso che quella che si annuncia sembrerà (ai mass media) una battaglia fra «renzismo» e «camussismo», ma sarà invece (per l’Italia) una partita, dagli esiti imprevedibili, fra due renzismi entrambi possibili. 

Il primo renzismo possibile è quello «di tipo Craxi». In questo scenario Renzi abolisce l’articolo 18 per i neo-assunti (come Craxi aveva fatto con la scala mobile), introduce il contratto a tutela crescente, riforma gli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti gli occupati e rendendoli più severi (corsi di formazione, obbligo di accettare le offerte di lavoro). In poche parole: modernizza il mercato del lavoro. Se Renzi fa solo o principalmente questo (che comunque non è poco) è possibile che l’occupazione non riparta, che l’Italia continui ad essere uno dei Paesi Ocse con meno occasioni di lavoro, e che fra qualche anno ci tocchi sentir dire che «aveva ragione la Camusso, togliere l’articolo 18 non crea nuovi posti di lavoro».

 

C’è però anche un secondo renzismo possibile, chiamiamolo «di tipo Blair» giusto per dargli un nome. Il suo punto di partenza è la constatazione che le imprese, oltre al problema di un mercato del lavoro rigido, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia civile lentissima e inaffidabile, hanno anche un serissimo problema fiscale: il costo aziendale di un’ora di lavoro è eccessivo, e la tassazione sul profitto commerciale (il cosiddetto Ttr) non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi Ocse. Detto altrimenti: se le imprese non assumono non è solo, o principalmente, perché poi non possono licenziare, ma perché non hanno margini sufficienti. Questo significa che, per creare occupazione, occorre anche allentare la morsa fiscale sui produttori, il che costa molto in termini di risorse, e alla fine fa sempre arrabbiare qualcuno: se finanzi gli sgravi aumentando il debito pubblico si arrabbiano l’Europa e i mercati finanziari, se li finanzi tagliando la spesa pubblica si arrabbiano la Camusso e i sindacati. 

Quale renzismo prevarrà, ammesso che la sinistra Pd e i sindacati non ci rispediscano subito al voto?

Io tendo a pensare che Renzi non disdegni il renzismo di tipo Blair, ma che alla fine sarà costretto ad adottare quello di tipo Craxi. E la ragione è molto semplice. Ammettiamo per un momento che Renzi, che finora si è preoccupato soprattutto dei garantiti (bonus di 80 euro), e anche per questo ha goduto della benevolenza dei sindacati, abbia deciso finalmente di occuparsi di chi un lavoro non ce l’ha, giovani e donne innanzitutto. Ammettiamo che sia persuaso che ridurre i costi delle imprese sia una precondizione per metterle in grado di assumere. Ammettiamo che sia convinto che nella Pubblica amministrazione ci sia «grasso che cola», e che sia da lì che debbano provenire le risorse per riformare gli ammortizzatori sociali e ridurre il costo del lavoro. Anche assumendo tutto ciò, ossia una ferrea volontà di creare lavoro, resterebbe un problema politico enorme: sconfiggere la Cgil in una battaglia campale sull’articolo 18 è più facile, molto più facile, che tagliare 15 o 20 miliardi di sprechi nella Pubblica amministrazione. Nel primo caso (abolizione articolo 18), Renzi non avrebbe contro né i garantiti (che resterebbero tali, perché l’articolo 18 verrebbe abolito solo per i neo-assunti), né gli esclusi, la cui prima preoccupazione è quella di trovare un lavoro, ma solo i settori più politicizzati e conservatori della società italiana. Nel secondo caso (tagli di spesa pubblica), invece, Renzi avrebbe contro un po’ tutti: dipendenti pubblici, sindaci, governatori, percettori di prebende e sussidi, lobby legate alle commesse pubbliche. Insomma, vincere una battaglia ideologica è più facile che battere una rete di interessi. Il renzismo del primo tipo (alla Craxi) è più facile di quello del secondo (alla Blair).

Può darsi che, come il solito, io sia troppo pessimista. Ma ho l’impressione che, incassato il sostegno dei lavoratori dipendenti e di tanti elettori delusi da Berlusconi, a Renzi manchi ancora un tassello fondamentale: convincere gli uomini e le donne che stanno fuori o ai margini del mercato del lavoro che la sua battaglia è anche la loro.

Da - http://lastampa.it/2014/09/21/cultura/opinioni/editoriali/qualcosa-cambiato-iykGdDoQUqXgUV9odvSICJ/pagina.html
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« Risposta #209 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:53:06 pm »

Per crescere concentriamo le risorse
02/10/2014

Luca Ricolfi

Sulle ragioni per cui l’Italia, quale che sia la congiuntura economica, cresce meno della maggior parte delle altre economie avanzate, il consenso è relativamente ampio. Nessuno nega che vi sia una carenza di domanda effettiva (calo dei consumi, investimenti insufficienti). Nessuno nega che la pressione fiscale sui produttori (Irap, Ires, contributi sociali) soffochi l’economia.

Nessuno nega che non aver fatto le riforme modernizzatrici (mercato del lavoro, giustizia civile, pubblica amministrazione) ci stia costando carissimo.

Dove cominciano i dissensi è sulle terapie, ossia sul modo di rispondere alla crisi. Qui non mi riferisco, però, alle decine di teorie che circolano fra gli esperti, ma solo a quelle che hanno una plausibilità economico-politica, e inoltre non si basano su ipotetici aiuti esterni (tipo eurobond, interventi della Bce, eccetera). Ebbene, se ci limitiamo alle teorie realistiche, a me pare che esse si riducano a tre.

La prima è la teoria dello «stimolo». Secondo questo punto di vista, l’economia non si può riprendere senza uno stimolo di almeno 30 miliardi di euro (2 punti di Pil), tendenzialmente sotto forma di riduzioni fiscali alle famiglie e alle imprese. Tali riduzioni andrebbero finanziate in deficit, promettendo all’Europa (e ai mercati finanziari) di fare le riforme e ridurre la spesa pubblica negli anni a venire. La formulazione più chiara ed esplicita di questo punto di vista mi pare quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che l’hanno ribadita più volte in varie sedi.

La seconda teoria potremmo chiamarla del «passo dopo passo». Secondo questa visione, se l’Italia dovesse promettere riduzioni della spesa pubblica e riforme strutturali non verrebbe creduta né dai partner europei, né dai mercati finanziari. E se provasse a sostenere la domanda aumentando il deficit dal 3 al 4 o al 5%, verrebbe immediatamente castigata dai mercati finanziari, con conseguente impennata dello spread. Quindi l’unica cosa che si può fare è galleggiare per qualche anno intorno al 3% di deficit pubblico, e nel frattempo cambiare la composizione della domanda, riducendo simultaneamente e gradualmente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale. Questa, nella sostanza, è la posizione del governo e del suo ministro dell’Economia. La formulazione più chiara di questa posizione mi pare quella dovuta all’economista Roberto Perotti (collaboratore del governo), che l’ha recentemente esposta in un bell’articolo sulla rivista on line Lavoce.info.

C’è però anche un terzo modo di vedere le cose, che chiamerò «concentrare le risorse». Secondo questo punto di vista è vero che la teoria dello stimolo non fa i conti con la diffidenza dei mercati finanziari verso l’Italia, ma è altrettanto vero che la linea del passo dopo passo è troppo debole e troppo lenta. E’ molto improbabile che le riduzioni effettive della spesa pubblica superino gli 8-10 miliardi l’anno, e a questo ritmo sarà già un miracolo se Renzi riuscirà a rinnovare il bonus da 80 euro e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali. Di qui l’idea di non disperdere gli sgravi in mille rivoli. Anziché uno stillicidio di alleggerimenti fiscali o contributivi di cui nessuno si accorge, meglio concentrare le risorse sui settori più dinamici dell’economia italiana, aiutandoli ad aumentare l’occupazione, la competitività, o entrambe. E’ questa, ad esempio, l’idea lanciata da Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, nell’intervista di ieri a questo giornale, in cui invita Renzi a varare «un provvedimento molto forte di sgravio fiscale per le aziende che nell’ultimo anno sono cresciute nelle esportazioni». Anche se la proposta Farinetti è spudoratamente pro domo sua, perché la catena di vendita dei prodotti Eataly sarebbe fra le prime a beneficiarne, credo che l’idea andrebbe considerata molto seriamente (il fatto che una proposta giovi anche a chi la fa non implica che sia insensata). Quando le risorse sono molto scarse può essere assai miope spalmarle su tutti, anziché indirizzarle verso quei settori o quelle imprese che meglio possono contribuire a far uscire la barca dell’Italia dalle secche in cui si è incagliata. Semmai la domanda è: uscire sì, ma come?  

Qui le risposte possono essere almeno due. Se si ritiene che le risorse disponibili vadano usate innanzitutto per aumentare la competitività dell’Italia, l’idea di Farinetti è ottima. Se invece si ritiene che vadano usate per sostenere l’occupazione, la strada potrebbe essere decisamente diversa: anziché sostenere le imprese che nell’ultimo anno (in passato) hanno aumentato il fatturato delle esportazioni, si dovrebbero premiare le imprese che nel prossimo anno (in futuro) aumenteranno il numero di occupati.  

Questa secondo modo di concentrare le risorse a me sembra più utile all’Italia, almeno finché la situazione dell’occupazione resterà drammatica come oggi. Come Stampa e come Fondazione David Hume da alcuni mesi, insieme ad altre istituzioni, stiamo lavorando su una proposta che va in questa direzione (nuovi posti di lavoro), e inoltre ha il vantaggio di aumentare il gettito della Pubblica Amministrazione anziché ridurlo. La prossima settimana, su questo giornale, racconteremo di che cosa si tratta.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/02/cultura/opinioni/editoriali/per-crescere-concentriamo-le-risorse-1Roq9NRTXj5ddNgDZjSD0O/pagina.html
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