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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 102401 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Agosto 31, 2008, 10:35:13 am »

31/8/2008 - CORDATA ALITALIA
 
Governativi per forza
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Faceva una certa impressione, nei giorni scorsi, leggere le interviste di Colaninno padre e Colaninno figlio. Entrambi schierati a sinistra, ma impegnati su due fronti dialettici opposti.
Il primo, in veste di futuro capo della nuova Alitalia, a spiegare al direttore di Repubblica come si può dare una mano a Berlusconi restando fedeli ai propri ideali, ai propri valori, alla propria etica.

Il secondo, in veste di neoparlamentare del Partito democratico, a spiegare alla stampa come si possa condividere l’analisi del proprio partito - secondo cui l’operazione Alitalia è un danno per il Paese - ma anche approvare il comportamento del proprio genitore, che di quell’operazione è il tassello fondamentale.

Siamo talmente abituati ai contorsionismi della politica che si potrebbe chiudere il discorso qui, e archiviare il tutto sotto la voce: la solita arte sofistica, i soliti ossimori, la solita incapacità di deporre il veltroniano «ma anche».

Se però proviamo a guardare le cose in una prospettiva appena più larga, forse dobbiamo registrare anche un fatto nuovo e diverso. Dopo anni di politicizzazione, di rapporti privilegiati con l’uno o l’altro schieramento politico, la maggior parte dei grandi imprenditori e banchieri italiani sembrano aver definitivamente superato la dicotomia destra-sinistra. La Confindustria di D’Amato aveva un asse privilegiato con Berlusconi, quella di Montezemolo guardava forse più a Prodi, ma oggi si ritorna al passato, quando gli industriali erano semplicemente «filogovernativi per forza». Le appartenenze ideologiche sbiadiscono, il pragmatismo è la vera stella polare che guida le scelte imprenditoriali. Come dice efficacemente Colaninno padre, non si può decidere che cosa fare o non fare stando a vedere ogni volta se il semaforo della politica è rosso o verde: la politica offre delle opportunità, e gli uomini d’affari le colgono se le giudicano profittevoli, indipendentemente dal colore politico dei governi.

Mentre l’opinione pubblica, i giornalisti, gli intellettuali continuano a stupirsi delle spericolate alleanze che si fanno e si disfano sotto i loro occhi, gli operatori economici e i gruppi di interesse sono già oltre. Accade così che la «Fenice» (il piano di salvataggio di Alitalia) possa piacere a chi dovrebbe osteggiarla e dispiacere a chi dovrebbe sostenerla: l’imprenditore Colaninno (sinistra) sta dalla parte di Berlusconi perché sente profumo di profitti, il sindaco di Roma Alemanno (destra) si mette di traverso perché sa che il ridimensionamento di Fiumicino gli toglierà consensi.

Insomma, quel che sembra strano se guardiamo la realtà con le lenti dell’ideologia, diventa comprensibilissimo se ci convinciamo che la classe dirigente italiana fa semplicemente il proprio gioco, come del resto ha fatto quasi sempre nella storia d’Italia. C’è stato un breve periodo, grosso modo dal 2000 al 2007, nel quale il gioco ha comportato anche di scommettere su una parte politica (sulla destra quando Berlusconi prometteva miracoli, sulla sinistra quando ci si rese conto che quei miracoli non sarebbero mai arrivati), ma oggi è chiaro a tutti che né la destra né la sinistra sono un investimento sicuro. Perciò, meglio navigare a vista, e cercare di entrare in sintonia con il ceto politico che c’è, a prescindere dalle idee di cui si ammanta.

Si potrebbe pensare che, dopo tutto, questo sia un progresso. Modernizzazione significa anche scrollarsi di dosso il peso delle ideologie. Però temo che, in questo caso, il crescente realismo della classe dirigente non porti nulla di buono al Paese. Che imprenditori e banchieri facciano i propri interessi e solo quelli non dovrebbe scandalizzare nessuno. Che ci vengano a raccontare che lo fanno con i propri ideali, o per senso di responsabilità, o con animo sollecito verso i deboli può farci piacere, e certamente procurerà loro ingenti benefici spirituali, terreni e forse anche ultraterreni. Ma il punto decisivo non è con che animo si perseguano i propri legittimi interessi. Il punto decisivo è con quali regole, o meglio con quale sistema di regole. Ci sono sistemi universalistici, in cui le regole sono relativamente semplici, generali e automatiche: la politica cambia alcune regole del gioco, ma non lo fa in continuazione e soprattutto non lo fa nel dettaglio, intervenendo in modo discrezionale caso per caso. Ci sono sistemi particolaristici, o corporativi, in cui moltissimo dipende dai legami con il potere politico, e assai poco dal talento individuale, dall’innovazione, dal duro lavoro: le regole si fanno e si disfano continuamente, e la discrezionalità di politici e amministratori è massima, perché c’è una giungla di concessioni, autorizzazioni, deroghe, concertazioni, agevolazioni, incentivazioni. Il caso Alitalia, in cui le regole antitrust sono state sospese per favorire un disegno politico, è un esempio da manuale di come operano i sistemi di questo secondo tipo.

Nei sistemi universalistici il mercato funziona bene e dà i suoi frutti, in termini di benessere e di crescita. Nei sistemi particolaristici il mercato funziona male, perché soffoca la concorrenza e penalizza gli operatori che non hanno relazioni politiche privilegiate, come le piccole imprese, gli artigiani, i lavoratori autonomi in genere. In Italia c’è stata un’effimera stagione in cui è sembrato che anche la Confindustria, che rappresenta soprattutto gli interessi dei gruppi maggiori, puntasse realmente su modificazioni delle regole generali: liberalizzazioni, flessibilità sul mercato del lavoro, riduzione delle tasse, rinuncia totale agli incentivi discrezionali in cambio di aliquote societarie più basse. Era una visione lungimirante, perché avrebbe permesso di introdurre un po’ più di concorrenza e creare un po’ più di sviluppo. Ma quella stagione è ormai alle nostre spalle, se mai è veramente esistita. I grandi gruppi hanno capito che per stare sui mercati internazionali non si può fare a meno di innovare e competere, ma hanno anche capito che per stare sul mercato interno la via maestra restano i cartelli, gli accordi, i patti di sindacato, gli incroci azionari, le desistenze, e soprattutto gli scambi con il potere politico.

Di chi è la colpa?
Di nessuno in particolare. Gli industriali hanno preso atto che nessun governo si interessa veramente dell’impresa, e che quindi la riduzione delle tasse sulle attività produttive è una chimera: piuttosto che niente, meglio la Fenice di Berlusconi. Noi cittadini, a nostra volta, abbiamo continuato a dare i nostri voti a due schieramenti che fingono di combattersi ma hanno un solo vero punto in comune: la diffidenza per la cultura liberale, con il suo immancabile rovescio, la credenza nel primato della politica.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 06, 2008, 09:09:29 am »

6/9/2008
 
La giungla federale
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
L’altro giorno mi è capitato di ascoltare un’animata conversazione al bar: c’era un tale che raccontava di aver cambiato già tre volte gestore telefonico, ogni volta persuaso dalle mirabili e «convenientissime» offerte del nuovo gestore. Risultato del cambiamento: nessun vero risparmio e, anzi, servizi telefonici forse un po’ più cari di prima.

Questa conversazione mi è tornata prepotentemente alla mente ieri, alla fine della lettura del nuovo «Schema di disegno di legge» sul federalismo fiscale, altrimenti noto come «bozza Calderoli-bis», che ritocca e integra la versione precedente (del 24 luglio). Prima di spiegare perché, una premessa indispensabile: sono un federalista convinto, e spero che il governo - questo o un altro - ce la faccia a darci un buon assetto federale.

Però, dopo aver letto la bozza Calderoli, mi è sempre più chiaro che gli scettici sulle virtù del federalismo hanno molte ragioni per restare tali.

Un federalismo ben fatto è probabilmente l’unica via che resta all’Italia per uscire dalle secche in cui si è incagliata. Ma un federalismo «mal fatto» (ossia sbagliato nei meccanismi e nei dettagli) potrebbe rivelarsi un rimedio peggiore del male.

Perché il nostro federalismo rischia di riuscire male?

Fondamentalmente perché immagina un meccanismo di controllo da parte dei cittadini che non ha nessuna chance di funzionare come ci si attende. La filosofia di base del federalismo si può riassumere così: diamo agli enti territoriali la responsabilità di decidere sia le tasse sia la spesa, e vincoliamoli al pareggio di bilancio. Così se un territorio non funziona (o perché tassa troppo, o perché spende male) i cittadini se ne accorgono e puniscono con il voto chi ha male amministrato.

Fin qui benissimo, ma in pratica?

In pratica bisogna fare un sacrificio sovrumano e leggere attentamente lo schema di disegno di legge. Se trovate il coraggio di farlo (il testo è scritto in un italiano inquietante), scoprite diverse cose.

Primo, i territori che hanno responsabilità amministrative si situano a ben 5 livelli diversi: Stato, Regioni, Province, Comuni, Città metropolitane, cui nella nuova versione della bozza si aggiunge un sesto livello, quello di «Roma capitale» (art. 13). Il cittadino che, grazie al potere punitivo del voto, dovrebbe far funzionare il federalismo fiscale, dovrebbe anche essere in grado di sapere, per ogni servizio (e sono almeno una ventina quelli importanti), da quale dei cinque livelli amministrativi è gestito, senza contare il problema di quei servizi che resteranno di fatto gestiti in modo misto, ossia da due o più livelli. Se non sai a chi dir grazie, come fai a punire elettoralmente i cattivi amministratori?

Ma le ricerche indicano che la maggior parte dei cittadini non ha un’idea precisa di quali servizi siano in carico allo Stato, quali alla Regione, quali alla Provincia, quali al Comune, quali siano in condominio e fra chi. Mi sembra decisamente utopistico, specie se i livelli di governo saranno ben cinque, immaginare una cittadinanza molto più istruita e attenta di quella attuale.

Ma ammettiamo che l’utopia si realizzi, e che i cittadini prendano nota attentamente di cosa funziona e cosa no, individuino il colpevole, facciano una media ponderata di quel che va male e quel che va bene (se Dio vuole nessun amministratore riesce a fallire in tutto), valutino se un cambio di governo locale migliorerebbe o peggiorerebbe le cose. C’è un secondo problema, però: i cittadini non dovrebbero soltanto giudicare i servizi, ma anche valutare se per quei servizi pagano troppe tasse. Qui a prima vista le cose sono più semplici: se a Torino l’aliquota Irpef per un certo scaglione di reddito è al 30% e a Milano è al 32%, a Torino si pagano meno tasse. Ma la situazione reale non è questa. A Torino come a Milano ci sono già oggi una quantità incredibile di tributi locali: Ici, Tarsu, addizionali comunali e regionali Irpef, addizionale Irap, e chi più ne ha più ne metta.

Ci si poteva aspettare che la bozza Calderoli dicesse: bene, per aiutare cittadini e imprese a confrontare la pressione fiscale di territori diversi unifichiamo le decine di tributi pre-esistenti, e introduciamo una tassa unica regionale, una tassa unica provinciale, una tassa unica comunale, con un unico parametro-aliquota che permette di sapere dove si paga di più e dove si paga di meno. E invece no, la bozza Calderoli, anche nella nuova versione, che pure auspica una razionalizzazione dei tributi locali (art. 10), prevede addirittura la nascita di «panieri di tributi», nonché la possibilità degli enti locali di introdurre «tributi di scopo», manipolare le basi imponibili (ossia decidere come si calcola il reddito o il patrimonio su cui si pagano le tasse), fissare tariffe, disporre agevolazioni, esenzioni, sgravi di ogni genere e sorta. Esattamente quello che fanno i gestori dei telefoni, con il risultato che il povero cittadino fra promozioni, fasce di orario, tipi di telefonata non è mai in grado di calcolare davvero se gli conviene un gestore oppure un altro.

Ma non basta. Nello schema di disegno di legge c’è almeno un altro punto preoccupante: il periodo di transizione durerà ben cinque anni anziché tre come previsto in un primo momento (art. 17).

Ed ecco allora l’incubo. Cinque anni di continui cambiamenti e aggiustamenti normativi. Tasse locali e «panieri di tributi» che spuntano come funghi. Ritocchi continui a tariffe, agevolazioni, basi imponibili. Imprese che devono fare calcoli complicatissimi per capire se conviene localizzarsi in un territorio o in un altro. Cittadini disorientati dalla giungla di nuove tasse e nuove regole di calcolo. Competenze che si trasferiscono dal centro alla periferia con lentezza e continui attriti fra Stato ed Enti territoriali. Negoziazioni infinite fra «conferenze» di tutti i soggetti interessati: governo centrale, governatori delle Regioni a statuto ordinario, governatori delle Regioni a statuto speciale, presidenti di Provincia, sindaci. Nuovi costi dovuti all’attuazione della legge (in barba all’articolo 21 che tenta di evitarli). Litigi istituzionali sull’interpretazione della legge e conseguente pioggia di ricorsi per ottenere più risorse o devolverne meno. Insomma una transizione infinita, nel più classico caos italiano.

Naturalmente il ministro negherà tutto, e dirà: vedrete che ce la faremo. Me lo auguro anch’io.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 15, 2008, 04:56:11 pm »

15/9/2008 - SCUOLA
 
Voti del Sud
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Oggi la macchina della scuola riprende a girare in quasi tutta Italia. Ma quest’anno, all’inizio dell’anno scolastico, il sentimento dominante sembra essere l’apprensione: gli insegnanti temono di perdere il posto (o di non trovarlo), i genitori di non poter lasciare i figli a scuola anche il pomeriggio, i figli di dover sgobbare di più per essere promossi. A differenza che in passato, infatti, sembra che il governo voglia fare sul serio: gli studenti se ne sono già accorti con i nuovi esami di riparazione, insegnanti e famiglie hanno capito che i tagli di organico e di orario ci saranno davvero. Nel frattempo l’ultimo rapporto Ocse sull’istruzione, pubblicato pochi giorni fa, ci ricorda per l’ennesima volta qual è il problema fondamentale dell’Italia: la bassissima qualità delle scuole del Mezzogiorno. Senza il Sud, l’Italia non è affatto indietro rispetto agli altri Paesi sviluppati, e anzi in alcune zone, in particolare nel Nord-Est, tocca livelli di eccellenza.

Perché il Sud non ce la fa?
Alla Gelmini, forse in un attimo di sincerità, è sfuggita la risposta politicamente scorretta: perché gli insegnanti meridionali sono meno preparati (da cui l’idea, immediatamente rimangiata, di corsi di aggiornamento e riqualificazione riservati ai docenti del Sud). A questa diagnosi la maggior parte dei commentatori di sinistra ha opposto la consueta spiegazione pseudo-sociologica: è il «contesto complessivo» del Mezzogiorno, fatto di povertà, degrado, sottosviluppo, che spiega l’insuccesso degli studenti meridionali nei test oggettivi somministrati da vari organismi nazionali e internazionali (Invalsi, Pisa, Pirls, Timss).

Chi ha ragione?
Probabilmente entrambi e nessuno. Che gli insegnanti delle scuole meridionali possano essere meno preparati di quelli delle scuole del Centro-Nord è quasi un’ovvietà. Se l’output della scuola (qualità dei diplomati) è peggiore al Sud, non si vede come potrebbero non risentirne quegli studenti meridionali che proseguono gli studi e diventano insegnanti restando nel Mezzogiorno. Altrettanto logica è la spiegazione «di sinistra»: a parità di altre condizioni, essere figli di un disoccupato e studiare in una scuola fatiscente (circostanze entrambe più frequenti al Sud) non può che ostacolare l’apprendimento. E tuttavia entrambe queste diagnosi, pur segnalando meccanismi reali, non fanno i conti con alcuni dati di fondo.

Innanzitutto non è vero che la scuola italiana sia messa così male a tutti i livelli. Nei primi anni della scuola elementare gli studenti italiani ottengono risultati eccellenti, ampiamente al di sopra di quelli della maggior parte dei Paesi sviluppati, inclusi Francia, Germania, Spagna, Svezia. È dopo, a partire dalla scuola media inferiore, che si assiste al crollo della scuola. Ma la cosa più interessante è che, nella maggior parte delle rilevazioni e per la maggior parte delle materie, i risultati degli scolari meridionali nelle elementari sono addirittura superiori a quelli degli studenti del Centro-Nord, in barba al sottosviluppo, al degrado delle scuole, alla presunta cattiva qualità degli insegnanti. Anche qui è dopo, ossia a partire dalla scuola media, che il divario diventa favorevole al Nord e aumenta con il passare degli anni di scuola. Nella scuola secondaria superiore le differenze fra studenti del Nord e del Sud diventano enormi, ma contrariamente a quel che si potrebbe pensare non spariscono affatto se si considerano famiglie con il medesimo tenore di vita e il medesimo livello di istruzione: anche a parità di condizione sociale, gli studenti del Nord vanno sempre molto meglio dei loro coetanei del Sud.

Ecco perché dicevo che sia la spiegazione basata sulla qualità degli insegnanti, sia quella basata sul sottosviluppo, pur essendo entrambe ragionevoli, non sono sufficienti. Se all’inizio la scuola del Sud sembra funzionare addirittura meglio di quella del Nord (nonostante i suoi insegnanti e il suo «degrado») e solo poi - a partire dalla media inferiore - il divario cambia di segno e si mantiene in tutti i ceti sociali, probabilmente dobbiamo rivolgere la nostra attenzione altrove. Ma dove?

Secondo me precisamente nel punto che ha suggerito al ministro Gelmini di dare l’esame da avvocato al Sud piuttosto che al Nord. Per spiegare perché i ragazzi del Sud, con il procedere degli studi, vengono staccati sempre di più da quelli del Nord basta supporre che gli insegnanti del Sud usino una scala di valutazione diversa, e più benevola, di quelli del Nord: mediamente un compito che al Sud vale 9 al Nord vale 7, un compito che al Nord vale 4 al Sud può valere tranquillamente 6. Poiché la sufficienza è 6 in tutte le scuole della Repubblica, questa semplice «staratura» dello strumento di misurazione, che inflaziona i voti scolastici di una parte del Paese, basta a spiegare perché al Sud la qualità media degli studenti sia sempre più bassa a mano a mano che si procede negli studi. Anche se gli insegnanti che lavorano nel Mezzogiorno fossero preparati esattamente come quelli del Nord, il risultato sarebbe analogo: concedendo il 6 molto più facilmente che al Nord, gli insegnanti del Sud innescano un meccanismo automatico di amplificazione dei divari, che i test oggettivi puntualmente registrano e che solo apparentemente favorisce gli studenti del Sud (con voti scolastici inflazionati è più facile essere promossi oggi, ma sarà più difficile trovare un lavoro soddisfacente domani).

Se la doppia scala di valutazione è il problema dei problemi, non si può non vedere con favore la svolta rigorista del ministro, nonostante la giustezza di molte obiezioni che le vengono rivolte, prima fra tutte l’assenza (per ora) di un compiuto progetto culturale di riforma dell’istruzione. Per portare fino in fondo quella svolta, tuttavia, il ministro Gelmini dovrebbe avere il coraggio che è mancato ai suoi predecessori di sinistra e di destra: rendere pubblici i risultati dei test Invalsi (punteggi medi in italiano, matematica e scienze) a livello di singolo istituto scolastico anziché solo a livello provinciale. Negli anni scolastici 2004-’5 e 2005-’6 l’ex ministro Moratti fece eseguire i test nella totalità delle scuole elementari e medie e in buona parte delle scuole superiori, ma non ebbe mai il coraggio di renderli pubblici a livello di singola scuola. Il suo successore, il ministro Fioroni, non solo rinunciò anch’egli a pubblicarli, ma soppresse le rilevazioni a tappeto (in tutte le scuole) a favore di un’indagine a campione (in alcune scuole estratte a caso), del tutto inefficace per dare agli insegnanti e alle famiglie dei segnali utili.

Eppure è proprio di questo che avremmo bisogno. Non per valutare i singoli insegnanti attraverso i risultati dei loro allievi (cosa assurda, perché i risultati dei ragazzi dipendono anche dall’ambiente sociale… e dai ragazzi stessi!), ma per dare a famiglie e insegnanti il polso della situazione: se so che in un liceo scientifico il punteggio medio di matematica ai test nazionali è 85 e in un altro è 70, non saprò forse mai di chi è il merito ma almeno saprò che nella prima scuola i ragazzi vengono portati a un livello più alto. Se sono il preside o un insegnante di matematica del liceo più debole, quell’informazione mi servirà da pungolo, se sono un genitore mi aiuterà a scegliere la scuola per mio figlio.

Perciò, caro ministro, smettiamola di tenere nel cassetto i risultati degli ultimi test a tappeto, quelli dell’anno scolastico 2005-2006, e reintroduciamoli nell’anno che sta iniziando. Gliene saremo grati tutti, e avremo la certezza che qualcosa di importante stia cambiando davvero.
 
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 18, 2008, 10:40:26 am »

18/9/2008
 
Berlusconi tra fascisti e qualunquisti
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Riassunto delle ultime puntate: da alcune settimane, fra una gaffe e l’altra, fra una provocazione e una replica indignata, fra una dichiarazione e una smentita, è risuscitato in Italia un surreale dibattito su fascismo e antifascismo. Le gaffe principali sono di Alemanno e La Russa: il primo ha provato a sottilizzare, distinguendo fra leggi razziali (cattive) e fascismo (fenomeno «più complesso»), il secondo ha improvvisato una difesa dei ragazzi della Repubblica Sociale che «combatterono credendo nella difesa della patria». La provocazione è del presidente di Azione Giovani che nei giorni scorsi ha pubblicato una lettera in cui, dopo una rassegna delle violenze che i giovani di destra hanno subito per mano di «antifascisti», concludeva sconsolato: «Ce l’ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista, ma non l’ho proprio trovato, anzi ne ho trovati molti per non esserlo».

Altri esponenti della destra, come Gianfranco Fini (An), Altero Matteoli (An), Claudio Scajola (Forza Italia), sono intervenuti per ristabilire risolutamente la scelta di campo, democratica e antifascista, dei rispettivi partiti nonché del nuovo partito - il Popolo della libertà - che sta sorgendo dalla loro confluenza.

Nel frattempo il povero Giuliano Amato, impressionato dalle gaffe del neo-sindaco di Roma Alemanno (prima sull’imprudenza dei turisti olandesi, poi sulla «complessità» del fenomeno fascista), ha rinunciato a presiedere la commissione Attali, che avrebbe dovuto favorire una discussione aperta e serena sul futuro di Roma. In mezzo a questa piccola tempesta mediatica non poteva mancare la voce di Silvio Berlusconi, che ha sostanzialmente snobbato la questione con un paio di dichiarazioni: «Se qualcuno è nostalgico verso i propri padri credo che non abbia importanza» e «Io penso solo a lavorare e a risolvere i problemi degli italiani».

Devo confessare che, lì per lì, l’atteggiamento di Berlusconi non mi è dispiaciuto. Intanto perché la maggior parte dei cittadini italiani ha ben altri problemi, e trova poco utili questo genere di diatribe. Poi perché troppe volte lo schermo dell’antifascismo è stato usato per azioni nefande o per campagne di disinformazione e di odio. E infine perché le parole stesse antifascismo e antifascista sono ambigue, dal momento che designano sia la ferma volontà di impedire qualsiasi ritorno di una dittatura fascista, sia la faziosità, l’intolleranza e la chiusura mentale di una parte dell’antifascismo militante (non per nulla, nella cultura politica italiana, ci sono anche gli anti-antifascisti).

Né si può negare a Berlusconi di aver spiegato bene il suo pensiero, almeno a Porta a Porta, quando ha aggiunto: «Non voglio dire che è una cosa di poco conto, ma è una cosa scontata e non vedo come ci possano esser dubbi su questo. (...) È importante che qualcuno si senta pienamente democratico e legato ai principi che sono alla base dello Stato e della democrazia e contenuti nella Costituzione e che in questi si riconoscano. Lascio la discussione sul passato ad altri».

E tuttavia, ripensandoci, mi resta il dubbio che avrebbe potuto (dovuto?) essere ancora più chiaro e più netto. Sia perché è il presidente del Consiglio, sia perché è il leader del primo partito italiano, un partito che sta nascendo proprio in questi giorni e quindi - come tutte le cose che prendono forma - ha bisogno di tracciare nettamente e nitidamente i propri confini. Berlusconi fa benissimo a dedicare il 99 per cento delle sue energie a risolvere i problemi di oggi, ma non sarebbe male che un 1 per cento fosse dedicato a dire in modo risoluto che - nel Pdl, il nuovo partito di cui sarà il fondatore e il leader - non c’è posto né per la destra nostalgica di Storace e Santanchè, né per chi la pensa come il presidente di Azione Giovani, perché il nuovo partito della destra italiana - come i suoi confratelli europei - non ha alcun dubbio su quale fosse la parte giusta ai tempi della Resistenza e della Repubblica Sociale. È chiedere troppo?
 
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 25, 2008, 12:01:45 pm »

25/9/2008
 
Il mito della scuola elementare
 

LUCA RICOLFI


 
Ci sono, nelle politiche governative in materia di istruzione, parecchie cose che mi lasciano perplesso. Ad esempio la mancanza di una diagnosi convincente dei mali della nostra scuola e della nostra università. Il vuoto di iniziative forti per aumentare il numero di asili nido, specialmente nel Mezzogiorno (uno dei cosiddetti obiettivi di Lisbona: portare la copertura al 33% entro il 2010, contro l’11% attuale). Soprattutto non mi piace per niente il fatto che all’Università (dove lavoro) i tagli della manovra finanziaria 2009-2011 siano uguali per tutti gli Atenei, quando da anni - grazie ad una serie di ottime ricerche - si sa con precisione quali sono gli atenei che spendono (relativamente) bene i loro fondi e quali li dilapidano in una corsa senza senso all’aumento del personale e agli avanzamenti di carriera.

E tuttavia, nonostante queste riserve, stento a capire l’incredibile pioggia di critiche, insulti, manifestazioni, sceneggiate, lezioni di pedagogia (e talora di democrazia) che sono state riversate sul neo-ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini non appena ha cominciato a occuparsi di scuola, e in particolare di quella elementare (per una rassegna consiglio di vistare il sito del Partito democratico e quello della Cgil-scuola, ora ridenominata Flc).

Il mio stupore nasce da due ragioni distinte. La prima è che, andando a controllare le cifre (DL 112, art. 64, comma 6), si scopre che la maggior parte dei numeri spaventa-famiglie che sono stati agitati sono semplicemente falsi. Non è vero che il bilancio della scuola subirà tagli per 8 miliardi: il taglio del prossimo anno sarà inferiore a 0,5 miliardi (1% del budget), i tagli netti previsti per il triennio 2009-2011 sono pari a 3,6 miliardi spalmati su tre anni. Non è vero che saranno licenziati 87 mila insegnanti: la riduzione del numero di cattedre avverrà limitando le nuove assunzioni, la cifra di 87 mila insegnati in meno si raggiungerà nel 2012 e include nel calcolo le riduzioni già pianificate da Prodi (circa 20 mila unità, a suo tempo giudicate insufficienti nel Quaderno bianco sulla scuola pubblicato giusto un anno fa dal precedente governo). Non è vero che, nelle scuole elementari, sparirà il tempo pieno e tutti i bambini dovranno tornare a casa alle 12,30: l’introduzione del maestro unico, con conseguente soppressione delle ore di compresenza, libererà un numero di ore più che sufficiente ad aumentare le ore di tempo pieno eventualmente richieste dalle famiglie. Né si vede su quali basi l’opposizione agiti lo spettro di una riduzione degli insegnanti di sostegno, o della chiusura delle scuole di montagna (nessuna norma della Finanziaria lo prevede, e il ministro ha esplicitamente escluso tale eventualità).

Ma c’è un secondo motivo per cui mi è incomprensibile lo tsunami anti-Gelmini di queste settimane: i critici danno per scontato che la scuola elementare così com’è vada bene, e che l’introduzione del maestro unico sia una scelta didatticamente sbagliata. Può darsi, ma non ne sarei così sicuro, e vorrei spiegare perché. Se la scuola elementare italiana fosse così ben congegnata come ripetono i suoi paladini, forse non osserveremmo quotidianamente quel che invece osserviamo. E cioè che sia nelle scuole medie sia (incredibilmente) all’università tantissimi ragazzi, oltre a fare errori di grammatica e ortografia con cui un tempo nessuno avrebbe preso la licenza elementare, non sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non sono in grado di progettare una tesi o una tesina, non conoscono il significato esatto delle parole, fanno sistematicamente errori logici, non sanno spiegare un concetto né costruire un’argomentazione, insomma non capiscono e non riescono a farsi capire se non in situazioni ultra-semplici (in una parola sono «ignoranti», secondo la bella definizione del libro di Floris uscito in questi giorni: La fabbrica degli ignoranti, Rizzoli). In breve i ragazzi spesso sono debolissimi proprio nell’organizzazione del pensiero e nella padronanza del linguaggio, ossia precisamente in ciò che avrebbero dovuto acquisire nei cinque anni di scuola elementare. Il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e di ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità, ivi compresa la capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di autovalutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti.

A questa osservazione si potrebbe obiettare, e certamente qualcuno obietterà, che sia i test nazionali (Invalsi) sia i test internazionali (Pirls, Timss, Pisa) ci restituiscono un’immagine ben più ottimistica della scuola elementare italiana. Ma questo è vero solo in parte. I test internazionali condotti sui bambini in quarta elementare danno risultati opposti a seconda degli ambiti considerati (l’Italia è ai primi posti nei test di lettura, ma precipita agli ultimi sia in quelli di matematica sia in quelli di scienze). Quanto ai test nazionali essi indicano che il declino dei livelli di apprendimento fra i 7 e i 16 anni è costante e inizia già nelle elementari (in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda). Forse la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata: è vero, i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la scuola elementare - con la sua impostazione ludica - non li prepara alle prove che dovranno affrontare quando entreranno in un mondo vero, meno protetto, in cui ci sono anche frustrazioni e si deve essere capaci di studiare da soli (cosa che molti bambini non imparano mai a fare: un effetto perverso del tempo pieno?).

Conclusione? Nessuna, solo una preghiera: anziché fare dello spirito sul grembiulino e del terrorismo sul tempo pieno, proviamo a riflettere seriamente - ossia senza preconcetti ideologici - sui vizi e le virtù della nostra scuola elementare.
 
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 05, 2008, 12:25:50 am »

4/10/2008
 
Riforma col buco
 
 
LUCA RICOLFI
 
prima vista, quella di ieri dovrebbe essere ricordata come una vittoria storica per i fautori del federalismo: il Consiglio dei ministri, infatti, ha dato il via libera definitivo al relativo disegno di legge delega, ossia all’ultima versione della «bozza Calderoli». Se tutto andrà per il verso giusto il federalismo sarà legge entro Natale, poi comincerà la pioggia dei decreti delegati (che dovrebbero essere completati entro due anni), infine - a partire dal 1° gennaio 2011 - prenderà avvio una lunga fase di rodaggio e di messa a punto, che dovrebbe concludersi fra il 2015 e il 2020. A ben guardare, tuttavia, non si può escludere che, fra una decina di anni, quella «vittoria storica» ci appaia piuttosto come una vittoria di Pirro, o addirittura come una beffa. Naturalmente spero di sbagliarmi, ma allo stato attuale ci sono almeno due ragioni che mi inducono al pessimismo. La prima è che proprio le vicende dell’ultima settimana, che hanno convinto Regioni, Province e Comuni (e persino una parte dell’opposizione) a sostenere la bozza Calderoli, sono un pessimo biglietto da visita per il decollo di un progetto federale serio. Nel volgere di pochissimi giorni abbiamo assistito a un’incredibile sequenza di «erogazioni» o promesse di fondi: erogazioni al Comune di Catania, mandato in dissesto da anni di centro-destra; erogazioni al Comune di Roma, mandato in dissesto da anni di centro-sinistra. Erogazioni alla sanità laziale, sfasciata da Storace e (a giudizio del governo) ben poco raddrizzata dal governatore-commissario Marrazzo; erogazioni ai Comuni prima vessati dalla Finanziaria e poi miracolati dal governo.
È naturale che gli elettori, e in particolare quelli del Nord, si chiedano: come possiamo aver fiducia nel federalismo se il governo che lo sostiene si mostra così arrendevole con chi ha dissipato il denaro pubblico? Che fine hanno fatto le belle parole sul principio di «responsabilità», sui politici che devono pagare i loro errori? Domande non dissimili a quelle che, proprio in questi giorni, si fanno gli amministratori che hanno i bilanci in ordine: che senso ha risparmiare e razionalizzare se poi il governo è sempre pronto a ripianare i debiti frutto di cattive gestioni? Ma c’è anche una seconda ragione per cui, pur avendo il massimo della simpatia per il federalismo, sono pessimista sui frutti che potrà dare: ho letto attentamente la bozza Calderoli, e credo di aver capito perché il ministro è riuscito nel miracolo di convincere un po’ tutti, compresi coloro che - sulla carta - avrebbero tutto da perdere dal federalismo. La ragione per cui la bozza Calderoli piace anche ai politici dei territori meno efficienti (primi fra tutti quelli delle regioni meridionali) è che essa ha buone probabilità di aumentare - e non diminuire, come ingenuamente pensano gli elettori della Lega - le risorse a loro disposizione. Perché? Perché molte Regioni meridionali sono sì inefficienti, ma non in quanto ricevono troppe risorse, bensì perché utilizzano malissimo le risorse che ricevono. Quindi per esse il passaggio dalla spesa storica ai costi standard implica un aumento delle risorse nonostante finora abbiano dimostrato di non saperle usare. Per essere chiaro faccio un esempio. La Regione A (in genere la Lombardia, o il Veneto) riceve 100 e produce 100, la Regione X (una tipica regione del Sud) riceve 90 ma produce 50: il federalismo le conviene perché con il criterio del costo standard le farà arrivare 100 (anziché 90), senza tuttavia imporle di produrre 100 come la regione A. Ecco perché la scelta della Regione modello è cruciale: se anziché la Regione A si sceglie la Regione B, che è un po’ meno efficiente, il federalismo diventa addirittura una pacchia per le Regioni sprecone. Vediamo perché, di nuovo con un esempio. La Regione B (tipicamente l’Emilia, o la Toscana) produce 100 come la regione A ma spende 110: a questo punto il costo standard è salito a 110 e la Regione X, inefficiente ma sottofinanziata, riceverà 110 (anziché 90), con un «guadagno» rispetto alla spesa storica che è salito da 10 a 20. Nella bozza Calderoli non vi è nulla che garantisca che il rifinanziamento delle Regioni sprecone ma sottofinanziate avvenga solo dopo apprezzabili e documentati aumenti di efficienza. Di qui l’entusiasmo dei territori inefficienti per il federalismo, e la loro opposizione a quanti (ad esempio il ministro Sacconi) si preoccupano che la Regione modello sia la Regione A e non la Regione B. Le simulazioni mostrano che se, come probabile, i ministri del rigore saranno sopraffatti, il federalismo comporterà un aumento anziché una diminuzione della spesa pubblica. Ma non è tutto. Nella bozza Calderoli, e più in generale nelle discussioni sul federalismo, si parla di capacità fiscale nonché del dovere dei territori forti (ad alta capacità fiscale) di «aiutare» i territori deboli (a bassa capacità fiscale). C’è un piccolo problema, però: non si chiarisce mai se per capacità fiscale si intende il gettito potenziale di un territorio oppure il suo gettito effettivo.

Il primo dipende solo da quanto si guadagna, il secondo anche da quanto si evade. Se le Regioni inefficienti hanno anche un livello di evasione fiscale molto maggiore delle Regioni efficienti, che cosa garantisce che la «solidarietà» dei territori forti non sia chiamata a coprire anche l’eccesso di evasione fiscale di quelli deboli? Di nuovo, allo stato non si vede alcun meccanismo che induca i territori ad alta evasione fiscale a non pesare oltre il giusto sui territori più virtuosi. Ed è possibile che anche questa assenza di meccanismi sanzionatori contribuisca a rendere il federalismo accettabile ai territori più deboli, nonché a neutralizzare un’opposizione spesso prigioniera di una visione distorta del dovere della solidarietà. Ripeto, spero di sbagliarmi, e mi auguro che Tremonti, Sacconi e Brunetta - almeno in futuro - sappiano resistere alle gigantesche pressioni del partito della spesa. Ma resto pessimista, perché constato che la diga governativa è fragile, il federalismo emendato e annacquato ha ricompattato la casta, e la Lega - partito di popolo, ma anche di sindaci, ministri e sottosegretari - ormai ne è divenuta parte integrante. Probabilmente, dopo il referendum che ha abolito la devolution, Bossi ha capito che se il federalismo è vero non può passare. E se deve passare, ahimé, non può essere vero.

da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 13, 2008, 09:51:55 am »

13/10/2008
 
Demagogia e populismo
 
 
LUCA RICOLFI
 
Io penso che il cosiddetto dialogo sia non solo utile, ma indispensabile - strettamente indispensabile - per affrontare i principali problemi dell’Italia. Per «dialogo» intendo non tanto il rispetto reciproco fra governo e opposizione (che è solo un prerequisito ovvio, ed è questione di maturità politica), quanto la capacità di governo e opposizione di mettere da parte le divisioni nei casi in cui sono in gioco gli interessi di lungo periodo dei cittadini.

Nel corso di questa legislatura, nonostante alcuni tentativi, il dialogo non è mai decollato seriamente e ora - con l’approssimarsi della manifestazione del 25 ottobre - pare destinato ad arenarsi definitivamente. Perché il dialogo non decolla? Perché, nonostante in tanti ci auguriamo una stagione di ragionevolezza, i due maggiori partiti non riescono a instaurare fra loro un rapporto che non sia troppo dannoso per noi?

La risposta, a mio parere, è molto diversa per la destra e per la sinistra.

Il «male» della destra, ossia il tratto della destra stessa che maggiormente danneggia l’Italia, è il populismo. Il populismo in salsa berlusconiana è la credenza di poter fare a meno dell’opposizione in quanto si detiene una maggioranza sia in Parlamento sia nel Paese. Di qui il fastidio per ogni offerta di dialogo, l’insofferenza per le lungaggini parlamentari, la tentazione ricorrente di tirare dritto ignorando le ragioni dell’opposizione, forti soltanto del mandato popolare e dei sondaggi.

Questa sorta di sindrome di autosufficienza, a sua volta, deriva probabilmente da una sottovalutazione della complessità dei problemi dell’Italia, ma forse anche da una sottovalutazione delle proprie buone ragioni.

I politici di destra, salvo qualche importante eccezione, si muovono come se le proprie idee non fossero abbastanza valide da meritare una battaglia culturale né abbastanza forti da portare l’opposizione stessa a fare i conti con esse (come, per fare un esempio, fece la Thatcher, le cui idee contaminarono positivamente Tony Blair). Deficit di egemonia, avrebbe detto Gramsci; miope preferenza per il puro e semplice mantenimento del potere, direbbe oggi un osservatore malizioso. Può sembrare paradossale, ma a me sembra che la tendenza a snobbare l’opposizione non sia segno che la destra è sicura di poter cambiare l’Italia da sola, ma - tutto al contrario - che ha già rinunciato a tentare l’impresa.

Radicalmente differente è il problema della sinistra. Il «male» della sinistra, il suo tratto che più danneggia l’Italia, è la vocazione demagogica. La demagogia in salsa veltroniana è la tendenza a illudere i propri elettori ignorando o deformando i fatti, l’attitudine a manipolare la verità se questo giova alla causa: probabilmente l’aspetto in cui il Partito democratico è rimasto più simile al vecchio Partito comunista. Veltroni ha sicuramente ragione quando osserva che è ben difficile dialogare con chi non perde occasione per irridere l’opposizione e il suo leader. E tuttavia pare non rendersi conto che i leader politici non sono le «comari di un paesino», come le chiamava Fabrizio De André. Esistono certo presupposti psicologici del dialogo (tu ti offendi se l’altro ti tratta male), ma esistono anche - e sono decisamente più importanti - presupposti logici del dialogo: dire la verità, o perlomeno qualcosa che non ne sia troppo distante, è la condizione preliminare minima per affrontare i problemi del Paese.

Sfortunatamente per tutti noi, invece di fare questo, Veltroni e il gruppo dirigente del Pd dipingono un’immagine radicalmente distorta della situazione in cui ci troviamo e delle ragioni per cui vi siamo immersi fino al collo. Lasciamo perdere le vere e proprie bugie che si possono leggere sul sito del Pd, o che ci è capitato di ascoltare in tv (ad esempio: «150 mila insegnanti messi per strada», «tagli alla scuola per 8 miliardi nel triennio 2009-11»). Lasciamo anche perdere l’infantile affermazione per cui «la crisi è colpa della destra» e del suo sfrenato liberismo: come se, dopo gli anni di Reagan e della signora Thatcher, Europa e Stati Uniti non avessero anche avuto una lunga stagione di amministrazioni progressiste; come se - almeno in Italia - la sinistra riformista non fosse più liberista della destra; come se una crisi quale quella che travolge il mondo intero potesse essere imputata a una parte politica. Concentriamoci, invece, sui dati di fondo della situazione italiana.

Veltroni e i suoi parlano di stipendi, salari e pensioni come se ci fossero risorse per aumentarli, e dimenticano che fu lo stesso Padoa-Schioppa, ancora all’inizio di quest’anno, a negarne l’esistenza di fronte ai sindacati che esigevano un intervento sui redditi da lavoro dipendente: farebbero meglio a dire la verità, e cioè che ci vorranno anni di crescita e di sacrifici perché il potere di acquisto delle famiglie italiane recuperi le posizioni inesorabilmente perdute negli ultimi quindici anni, quale che fosse il colore dei governi. Veltroni e i dirigenti del Pd parlano della politica scolastica come se la svolta rigorista non fosse iniziata con il precedente governo (commissari esterni, esami a settembre), e come se le misure di risparmio di oggi non fossero analoghe a quelle previste a suo tempo da Padoa-Schioppa (Finanziaria 2007), e ampiamente spiegate nel Quaderno bianco sulla scuola preparato dal governo Prodi: farebbero meglio a riconoscere che in Italia gli insegnanti sono davvero troppi (come rivelano i dati Ocse) e che purtroppo una parte di essi non è all’altezza del compito (come constata chiunque abbia figli in età scolare). Più in generale, Veltroni e il Pd criticano ossessivamente i tagli, in qualsiasi campo avvengano (scuola, università, forze dell’ordine, giustizia, sanità, enti locali), e preferiscono rimuovere il dato cruciale: i tagli alla spesa corrente sono necessari, tanto è vero che, in campagna elettorale, il partito di Veltroni ne prometteva per circa 40 miliardi in un triennio, contro i 30 previsti dalla Finanziaria di Tremonti.

Naturalmente si possono avere idee diverse su come intervenire sui problemi strutturali dell’Italia, e ci sono ottimi motivi per essere critici su molto di ciò che passa il convento governativo: tagli poco o per niente selettivi, passi indietro nella disciplina dei servizi pubblici locali, confusione in materia di federalismo, scarsi investimenti nei settori strategici, insufficienze e ritardi nelle misure di carattere sociale (come la social card). Ma se si vuole essere credibili, occorre smetterla di illudere gli italiani trattandoli come bambini: far credere che i tagli siano evitabili, che ci siano soldi per i redditi da lavoro dipendente, o che la crisi sia «colpa della destra», significa solo fare della demagogia. Una demagogia cui Berlusconi non potrà che rispondere con dosi crescenti di populismo. Che a loro volta rafforzeranno Veltroni nella convinzione che il male sia «questa destra». La quale destra avrà la prova provata che con «questa sinistra» non si può dialogare. E così via per saecula saeculorum. Perciò imploriamo entrambi: possiamo cambiare film?
 
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 30, 2008, 11:13:59 am »

30/10/2008
 
Due patti scellerati
 

LUCA RICOLFI
 
Il decreto Gelmini è stato convertito in legge, scuola e università sono in agitazione. Il mondo della scuola scenderà in piazza oggi (chissà perché dopo e non prima dell’approvazione del decreto?), mentre l’Università si mobiliterà il 14 novembre, per combattere tagli che furono decisi fra giugno e agosto, quando il Partito democratico riteneva inopportuno scendere in piazza («Noi manifesteremo il 25 ottobre»). Misteri della politica italiana.

Ma parliamo della sostanza. Che cosa sta succedendo nella scuola e nell’università? Perché studenti, docenti e genitori paiono trovarsi dalla medesima parte della barricata?

Quel che sta succedendo è relativamente chiaro, almeno per chi conosce i dati di fondo dell’istruzione in Italia e riesce a non farsi accecare dalle proprie credenze politiche. Sia la scuola sia l’università dissipano una quota di risorse pubbliche considerevole, nel senso che spendono più soldi di quanti, con un’organizzazione più efficiente, basterebbero a garantire i medesimi servizi. Su questo, quando si trovano al governo, destra e sinistra la pensano allo stesso modo.

Chi avesse dei dubbi può consultare due documenti del governo Prodi (il «Quaderno bianco sulla scuola» e il «Libro verde sulla spesa pubblica»). Credo non si sia lontani dal vero dicendo che, con una migliore allocazione delle risorse, sia la spesa della scuola sia la spesa dell’università potrebbero essere ridotte di almeno il 10 per cento a parità di output.

La novità di questi mesi non sta nella diagnosi, ma nella determinazione con cui si sta passando dalle parole ai fatti: la destra al governo sta facendo con la consueta ruvidezza molte cose che la sinistra stessa, magari con più garbo, avrebbe fatto se ne avesse avuto la forza, il tempo e il coraggio (fra queste cose c’è, ad esempio, il rispetto delle norme Bassanini sul numero minimo di allievi per scuola, varate dal centro-sinistra ben 10 anni fa). Del resto fu lo stesso Padoa-Schioppa, all’inizio della scorsa legislatura, ad avvertirci che certi sprechi non possiamo più permetterceli e a ricordarci che il problema di eliminarli dovremmo porcelo comunque, persino se avessimo i conti perfettamente in ordine: ogni spesa, infatti, ha un «costo opportunità», ossia è sottratta ad impieghi alternativi (se buttiamo al vento 8 miliardi per false pensioni di invalidità, automaticamente rinunciamo a una cifra equivalente in asili nido, sussidi di disoccupazione, aiuti ai poveri, sostegno ai non autosufficienti ecc.).

Su questo il governo ha ragioni da vendere, anche se non si può non rilevare che molte misure - pur condivisibili negli obiettivi - diventano criticabili per il modo in cui sono messe in pratica. È il caso, per fare l’esempio più importante, dei tagli all’università, che sarebbero ben più accettabili se punissero ancora più duramente gli atenei in dissesto, ma premiassero con più e non meno soldi gli atenei virtuosi.

Ma quella degli sprechi è solo una delle due facce del problema dell’istruzione in Italia. L’altra faccia è il tragico declino dei livelli di apprendimento, la scarsissima preparazione dei nostri diplomati e laureati, specialmente nelle regioni meridionali. Di questo sono corresponsabili ministri e docenti, ma anche gli studenti e soprattutto le loro famiglie. Il sistema dell’istruzione in Italia si regge su due patti scellerati: nella scuola, il patto fra insegnanti e famiglie, nell’università il patto fra docenti e studenti. Il cardine del primo patto è: l’importante è che il ragazzo sia sereno, vada avanti senza soffrire troppo, prenda il diploma; che poi impari molto o poco conta di meno. Il cardine del secondo patto è: l’importante è arrivare alla laurea, non importa in quanto tempo e imparando che cosa; noi professori pretendiamo sempre di meno da voi studenti, voi studenti non ci importunate e vi accontentate di quel poco che riusciamo a trasmettervi. Naturalmente ci sono anche - nella scuola come nell’università - isole felici e importanti eccezioni, ma il quadro generale è purtroppo diventato questo.

Sono precisamente i due patti non scritti che spiegano l’inconsueta alleanza fra una parte dei docenti, una parte degli studenti e una parte dei genitori.

I docenti difendono i posti di lavoro (nella scuola) e le carriere (nell’università). I genitori difendono una scuola che insegna poco e male, ma in compenso non stressa i ragazzi e risolve non pochi problemi reali delle famiglie, specie quando la madre lavora. I ragazzi sono preoccupati per l’avvenire e temono di essere le uniche vittime dei cambiamenti che si stanno preparando per loro.

E hanno perfettamente ragione. Solo che indirizzano la loro ira verso il bersaglio sbagliato. Se fossero calmi e lucidi avrebbero già capito che il futuro non glielo ruba la Gelmini, ma glielo hanno già rubato molti degli adulti al cui fianco marciano con tanta convinzione. La precarietà dei giovani e il ristagno del sistema Italia sono anche il risultato non voluto e non previsto di una lunga e colpevole disattenzione per la qualità dell’istruzione.

Il governo non è certo innocente, perché non c’è quasi nulla nei provvedimenti di cui da mesi si discute che lasci prefigurare un innalzamento apprezzabile del livello degli studi, e c’è persino qualcosa che fa temere un ulteriore declino. Ma coloro che aizzano bambini e ragazzi contro le misure del governo non la contano giusta: se davvero avessero a cuore il futuro dei nostri giovani si batterebbero come leoni per tagliare i rami secchi e rendere gli studi molto più seri, più rigorosi, più profondi. Perché lo smarrimento e l’angoscia di questa generazione sono genuini e pienamente comprensibili, ma sono anche il frutto della superficialità con cui gli adulti hanno permesso la distruzione della scuola e dell’università.

 
da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 03, 2008, 10:57:53 am »

3/11/2008
 
L'università i tagli e il consenso
 

LUCA RICOLFI

 
Fino a un paio di settimane fa Berlusconi si vantava di avere il 72 per cento dei consensi. Da qualche giorno, invece, forse complici le due grandi manifestazioni di fine ottobre promosse dal Partito democratico e dai sindacati, nel governo si stanno facendo strada atteggiamenti più guardinghi. Pare che Bossi sia preoccupato dei tagli ai bilanci degli atenei e che Berlusconi si stia chiedendo se bloccare la Gelmini, congelando i provvedimenti sull’università attesi per i giorni prossimi.

I timori di Berlusconi sono basati sui sondaggi, che in effetti non vanno troppo bene per il governo. La luna di miele con gli elettori sembra finita e l’opposizione pare recuperare qualche punto nelle intenzioni di voto degli italiani. A quanto pare Berlusconi teme la piazza, mentre Veltroni spera di continuare a cavalcarla. Lo stop del premier alla Gelmini e agli interventi sull’università sembra una mossa pensata apposta per togliere all’opposizione il cavallo su cui sta per montare. Tutto chiaro, a prima vista: il movimento degli studenti sta procurando i primi grattacapi seri al governo, e così finisce col rianimare l’esangue partito di Veltroni. Ci sono alcune complicazioni, però.

Prima complicazione: è bene distinguere tra consenso assoluto e consenso relativo.

Il consenso assoluto per uno schieramento (di governo o di opposizione) è la differenza fra la percentuale di elettori che ne giudicano positivamente l’operato e la percentuale di elettori il cui giudizio è negativo. Il consenso relativo di uno schieramento rispetto all’altro, invece, è la differenza fra i rispettivi consensi assoluti. Ebbene, la stranezza del momento politico attuale è che oggi stanno diminuendo sia il consenso assoluto verso il governo, sia quello verso l’opposizione. La sfiducia complessiva degli italiani nell’azione politica, di destra e di sinistra, sta tornando a livelli altissimi, a un passo dal record toccato l’anno scorso, ai tempi della Casta di Stella e Rizzo e del «vaffa-day» di Grillo. Quanto al consenso relativo, nelle ultime settimane sta premiando l’opposizione, ma solo perché tra maggio e settembre era scesa a un livello così basso che le è ormai difficile perdere ulteriori colpi, mentre il governo ha ancora uno «spazio di caduta» ragguardevole, visto che solo ora sta uscendo definitivamente dalla luna di miele. Di qui il progresso nelle intenzioni di voto registrato dagli ultimi sondaggi. Nonostante tale progresso, tuttavia, il consenso relativo dell’opposizione resta tuttora inferiore a quello di qualche mese fa, al momento del voto. Nulla, per ora, autorizza a credere che, se si rivotasse oggi, il risultato dell’opposizione sarebbe migliore di quello di aprile. Insomma: il governo ha ragione di temere la piazza, ma l’opposizione si illude se pensa di avere il consenso necessario per egemonizzare la protesta.

Seconda complicazione: non è detto che bloccare le misure sull’università sia una buona idea, né dal punto di vista del governo né da quello degli studenti. Allo stato attuale, infatti, bloccare il riordino dell’università non significa cancellare i tagli - che sono scolpiti nel marmo della legge finanziaria fin dal giugno scorso - bensì rinunciare a «modularli», ossia a differenziarli secondo criteri ragionevoli. Se non si fa nulla, i tagli restano, e restano «uguali per tutti», quindi assolutamente iniqui date le enormi differenze nel livello e nel tipo di inefficienze dei vari atenei sparsi per la Penisola. Se invece si fa qualcosa, si può provare ad aprire sul serio la partita della lotta agli sprechi e alle malversazioni, che almeno a parole accomuna tutti: studenti, docenti, rettori, politici di destra e di sinistra.

Ciò appare tanto più necessario se si riflette sul fatto che esiste una fondamentale differenza fra le inefficienze della scuola e quelle dell’università. L’inefficienza del sistema scolastico è solo molto marginalmente dovuta a gestioni dissennate delle risorse pubbliche, dal momento che il grado di autonomia e di discrezionalità degli istituti è molto limitato. L’inefficienza del sistema universitario, invece, è innanzitutto la conseguenza di un pessimo uso dell’autonomia che la legge assegna agli atenei. Ci sono atenei che, pur con tutti i difetti e i limiti della nostra corporazione, hanno fatto un uso relativamente virtuoso dell’autonomia loro concessa, ci sono atenei che ne hanno fatto un uso dissennato (e qualche volta persino criminoso). Ecco perché i cosiddetti tagli lineari, o uguali per tutti, sono molto più iniqui nell’università che nella scuola.

Naturalmente la strada della lotta agli sprechi richiede da parte di tutti un minimo di buona volontà e ragionevolezza. Gli studenti dovrebbero capire che tagli severi ma selettivi e ben studiati sono nel loro interesse. Il governo dovrebbe valutare se lo scalino del 2010 (700 milioni di euro in meno) non sia troppo ripido, e al tempo stesso varare una serie di «patti di stabilità» pluriennali, convogliando verso gli atenei virtuosi una parte dei fondi negati agli atenei spreconi. Il Pd dovrebbe incalzare il governo, richiedendo che una parte delle risorse risparmiate siano reimmesse nel circuito dell’università, favorendo il reclutamento dei giovani studiosi e aumentando (anziché diminuendo) i fondi per il diritto allo studio. Sono certo che non succederà. Ma sono altrettanto certo che, se mai succedesse, l’opinione pubblica ci starebbe e restituirebbe alle forze politiche un po’ del rispetto che hanno perduto.
 
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Novembre 10, 2008, 10:25:49 am »

10/11/2008
 
Il lato buono della crisi
 
LUCA RICOLFI
 

Siamo tutti preoccupati per la crisi, se non altro perché non sappiamo ancora né quanto durerà né quanto sarà profonda. C’è chi pensa che fra sei mesi l’economia ripartirà, e c’è chi teme che ci vorranno anni per uscire dal tunnel, come nel 1929. Gli economisti, con grande soddisfazione dei non-economisti (vedi il sociologo Ulrich Beck su La Repubblica di qualche giorno fa), si mostrano divisi su quasi tutto: cause della crisi, ruolo della speculazione, responsabilità della politica, rimedi a livello globale, rimedi nei singoli Stati (sull’Italia, solo nelle ultime settimane, ho contato almeno cinque ricette diverse). C’è un punto, però, su cui forse potremmo riflettere tutti, indipendentemente dal lavoro che facciamo e dalle convinzioni che professiamo: le crisi economiche non sono mai un bene ma, una volta che ci finiamo dentro, diventano anche straordinarie opportunità, che sarebbe un peccato sciupare.

In che senso la crisi, questo male oscuro che si è impadronito delle nostre vite e delle nostre menti, è anche un’opportunità? A mio modo di vedere in due sensi fondamentali. Il primo è stato forse illustrato nel modo più chiaro dagli economisti della cosiddetta «scuola austriaca», come von Hayek e Schumpeter. Essi non si illudevano che il capitalismo fosse una macchina perfetta, capace di procedere senza scosse lungo un sentiero di crescita permanente (questa illusione, semmai, è tipica dei loro critici). Il capitalismo è invece un modo di produzione che procede alternando fasi di prosperità, in cui gli squilibri si formano e si aggravano, e fasi di crisi, in cui gli squilibri si attenuano e si correggono, preparando le condizioni per una nuova fase di prosperità. Vista da questa prospettiva, la crisi non è semplicemente un male più o meno evitabile ma è il momento necessario e insostituibile della «distruzione creatrice», quella fase cioè in cui il sistema si autocorregge eliminando le inefficienze, tagliando i rami secchi, rinnovando le tecnologie, aprendosi a nuovi soggetti, ricchi di idee e voglia di metterle alla prova.

Lo sottolineava a modo suo Montezemolo in un’intervista di qualche settimana fa, quando faceva notare che le fasi di prosperità del capitalismo sono anche fasi di «degenerazione», mentre quelle di crisi sono di «rigenerazione». Può sembrare paradossale, ma da questo punto di vista la crisi è (anche) un bene: non solo produce una riallocazione più efficiente delle risorse economiche, ma riduce molti degli squilibri sociali che abbiamo accumulato negli anni precedenti. E infatti i primi a pagare la crisi sono gli speculatori, i manager che hanno male amministrato le loro aziende, i ceti elevati (il cui portafoglio ha una quota maggiore di azioni e titoli a rischio), i lavoratori autonomi che hanno gonfiato i prezzi e ora fanno i conti con il calo dei consumi e i primi segnali di deflazione (nel bimestre settembre-ottobre l’indice dei prezzi è sceso rispetto al livello di agosto). La crisi, naturalmente, genera anche nuove diseguaglianze ma il saldo complessivo è una riduzione degli squilibri fra Paesi e interni ai Paesi: chi è vissuto chiedendo denaro in prestito (come governo e consumatori americani) dovrà restituire una parte dei propri debiti, chi ha costruito imperi di carta vedrà ridimensionati il proprio potere e la propria ricchezza.

Ma c’è anche un secondo senso in cui la crisi è un’opportunità. La crisi può essere l’occasione che ci costringe a compiere finalmente le scelte che avremmo dovuto già fare nei periodi di prosperità ma che, senza la crisi, non avremmo mai trovato la forza di fare. Anche questo può apparire paradossale, ma la realtà è che le scelte coraggiose i nostri governi non sono mai riusciti a farle quando sarebbero costate di meno (ad esempio nel 2006-2007, quando l’economia era tornata a crescere), ma sono invece stati talora indotti a compierle sotto la spinta degli eventi, ossia proprio quando costavano di più (ad esempio nel 1992-1995, durante l’ultima grande crisi della lira: ricordate la «stangata» di 90 mila miliardi del governo Amato?). Quello che stiamo attraversando è uno di questi momenti, in cui intervenire costa di più, ma nello stesso tempo è più facile perché ci si rende conto che certe scelte non possiamo più rimandarle.

Quali scelte?

Fondamentalmente due, una negativa e l’altra positiva. Quella negativa è stata descritta chiaramente, qualche giorno fa, dall’economista Alberto Bisin su questo giornale: «Le recessioni sono momenti in cui il sistema economico “si ripulisce”. Le imprese che non producono reddito falliscono e liberano risorse che sono riallocate alle imprese più produttive. Questo processo è necessario perché un’economia sia sana e produttiva nel lungo periodo: non va assolutamente impedito».

Ma evitare gli aiuti di Stato inutili o controproducenti non basta. La scelta positiva che non possiamo più ritardare è quella di trasformare il nostro Stato assistenziale in un vero Stato sociale. Gli sprechi nella pubblica amministrazione, secondo le stime più prudenti, ammontano a 80 miliardi di euro l’anno. Recuperandone, gradualmente, anche solo la metà, potremmo assicurare ai cittadini le quattro cose essenziali che sono tuttora drammaticamente carenti in Italia: asili nido, assistenza agli anziani (e ai non autosufficienti), politiche contro la povertà, ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori e non solo per chi ha la fortuna di lavorare in una grande impresa. Quest’ultimo punto, probabilmente, è il più importante in questo particolare momento, in cui le prime imprese cominciano a chiudere, le ore di cassa integrazione aumentano, la disoccupazione torna pericolosamente a salire: proprio perché, per riprendere a crescere, le imprese inefficienti vanno lasciate al loro destino, è essenziale garantire a chi perde il lavoro una rete di protezione universale, facendo cadere una volta per tutte l’odiosa distinzione fra lavoratori di serie A, difesi dalla legge e dai sindacati, e lavoratori di serie B, dimenticati da Dio e da tutti.
 
da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 15, 2008, 12:18:41 pm »

15/11/2008
 
Università, due vie senza uscita
 
LUCA RICOLFI

 
Lunedì il governo ha varato un decreto-legge sull’Università che accoglie, sia pure parzialmente, alcune delle critiche che le forze di opposizione avevano sollevato nei mesi scorsi. Le «conquiste» principali sono quattro: minori tagli per gli atenei efficienti, misure per il diritto allo studio (edilizia e borse), 530 milioni assegnati in base ai risultati, sorteggio delle commissioni di concorso. A queste misure, già incassate, nei giorni scorsi il ministro Gelmini ha aggiunto la promessa di ulteriori concessioni future, specie in materia contrattuale. E’ poco? E’ tanto?

Secondo i rettori, secondo la Cisl, secondo lo Snals, secondo la Ugl, è un buon inizio: i tre sindacati hanno quindi revocato lo sciopero dell’università, che si è svolto ieri. Secondo la Cgil (cui si è unita la Uil), come per gli studenti in lotta, le misure varate dal governo sono invece «del tutto insufficienti»: di qui la conferma dello sciopero e della manifestazione, che si è svolta tranquillamente ieri a Roma.

Naturalmente tutti hanno ragione, dal loro punto di vista. La Cgil pensa che i tagli previsti dalla finanziaria siano evitabili e che l’eventuale trasformazione delle università in Fondazioni sia un male per la didattica e la ricerca.

Date queste premesse, è logico che chieda il ritiro integrale dei tagli e si batta per vietare la trasformazione delle Università in Fondazioni (la legge voluta dal governo, tuttora priva dei decreti attuativi, non impone la trasformazione in Fondazioni ma semplicemente la consente a certe condizioni).

I fautori del dialogo, come Bonanni (leader Cisl) e la conferenza dei rettori, non negano gli sprechi ma pensano che tagli pesanti come quelli annunciati a partire dal biennio 2010-2011 (oltre 1 miliardo di euro, su una base di circa 7) non possano aiutare la guarigione dell’Università ma solo accelerarne la morte. Date queste premesse, plaudono ai primi timidi tentativi di limitare gli sprechi, ma si battono per attenuare l’entità dei tagli.

Quanto al governo, pare convinto che gli sprechi siano così ampi e diffusi da giustificare il piano di tagli draconiani varato da Tremonti con la Finanziaria 2009. Se ha ceduto, un po’ è perché è stato convinto (ad esempio sull’opportunità di differenziare i tagli), un po’ è perché è stato costretto dalla piazza, ovvero dalla paura di perdere consensi. E’ difficile che conceda ancora molto.

Ma come stanno effettivamente le cose nelle università?

A me pare che, se si analizzano senza pregiudizi i bilanci e i risultati (cose entrambe possibili, grazie ad anni di lavoro di varie istituzioni e comitati), si arrivi inesorabilmente a una conclusione che non può piacere a nessuno dei tre attori politici in campo: né ai duri e puri della Cgil, né ai dialoganti, né al governo. E’ una conclusione drammatica, che quindi risulterà sgradita a tutti, ma mi sembra l’unica compatibile con i dati di cui disponiamo. Ebbene la conclusione è questa: è vero che l’Università pubblica non è in grado di sopravvivere ai tagli di Tremonti, ma è contemporaneamente vero che ne meriterebbe di ancora più profondi.

Provo a spiegare i due pilastri della mia conclusione. L’università non può sopravvivere ai tagli dei fondi pubblici perché il peso degli stipendi è così forte (circa l'89% del finanziamento ordinario, a sua volta un po’ meno del 50% del budget), e soggetto ad automatismi così implacabili, che nemmeno il blocco totale del turnover (con conseguente esclusione delle nuove leve) consentirebbe di garantire anche solo la metà delle economie previste dalla Finanziaria. La massa stipendiale che l’università risparmia ogni anno per i pensionamenti, infatti, è dello stesso ordine di grandezza degli aumenti più o meno automatici legati a scatti di anzianità e inflazione, e quindi è destinata a rimanere sostanzialmente invariata nel tempo anche se d’ora in poi non venisse assunto più nessuno. Fin qui hanno ragione gli oppositori ragionevoli del governo.

C’è però anche l’altra faccia del problema, ovvero gli sprechi. Negli ultimi dieci-quindici anni l’università non solo è cresciuta male, nel senso che non ha reclutato i migliori (ed è un grande merito di studenti e mass media averlo denunciato), ma è cresciuta troppo, nel senso che si è preoccupata molto delle carriere e poco del reclutamento e dei servizi agli studenti. Questa iper-crescita è stata generalizzata, ma in alcuni territori e in alcuni atenei ha raggiunto livelli assolutamente abnormi, sfasciando i conti e creando veri e propri carrozzoni. I confronti fra istituzioni sono sempre difficili da condurre in modo rigoroso, ma provando e riprovando in vari modi possibili (con il passato, con altri paesi, fra atenei) ho maturato la convinzione che le risorse economiche di cui l’università italiana può disporre sono poche rispetto al prodotto interno lordo, ma sono tantissime rispetto a quello che produce (quantità e qualità dei laureati). Non arrivo a sostenere, come fa Roberto Perotti nel suo bel libro (L’università truccata, Einaudi 2008), che la nostra spesa per studente sia fra le più alte del mondo, ma non posso non rilevare che il nostro output, misurato nel modo più elementare, ossia come percentuale di giovani che conseguono la laurea, è poco più della metà della media Ocse. La conclusione è amara ma inevitabile: se in passato avessimo adottato pratiche più virtuose, oggi potremmo avere il medesimo output con molti meno quattrini, o avere un output decisamente maggiore a parità di risorse. Da questo punto di vista ha perfettamente ragione il governo a stigmatizzare il cattivo uso che gli atenei hanno fatto della loro autonomia.

Il problema politico, dunque, è che c’è molto di vero sia nella diagnosi degli oppositori dialoganti (à la Bonanni) sia in quella dei ministri ragionevoli (à la Gelmini). E’ vero che l’università non può reggere i tagli previsti, ma è anche vero che - per essere efficiente - dovrebbe farne ancora di più. Come se ne esce ?

Personalmente penso non se ne uscirà, perché sia il governo sia i suoi oppositori hanno una sola vera stella polare: massimizzare il consenso, conservare il potere di cui dispongono. Se però se ne volesse uscire una via ci sarebbe. E’ il tempo il fattore chiave. Il governo deve rendersi conto che le razionalizzazioni richiedono tempo, molto tempo, tanto più in un paese in cui la macchina burocratica rallenta qualsiasi processo, virtuoso o vizioso che sia. Gli atenei, a loro volta, non possono pretendere di ottenere ulteriori risorse prima di aver mostrato di essere capaci di tagliare i rami secchi (dove ci sono, naturalmente) e di fare qualche sacrificio (magari partendo da stipendi e carriere). Decidano come farlo, si prendano il tempo necessario, ma lo facciano. Altrimenti nessuno potrà difenderli dal discredito che si sono attirati in questi lunghi anni di follia.

da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Novembre 24, 2008, 02:11:04 pm »

24/11/2008
 
L'agonia dello Stato minimo
 
LUCA RICOLFI

 
In questi giorni tutti i giornali parlano della tragedia di Rivoli, ma non vorrei che ce ne dimenticassimo troppo presto, come purtroppo è successo tante volte in passato.

Perché tendiamo a dimenticare? E perché, soprattutto, non impariamo mai dall’esperienza? Lo stato disastroso dei nostri edifici scolastici era noto da tempo, come è documentato da varie accurate rilevazioni del ministero della Pubblica Istruzione (vedi i servizi alle pagine 2 e 3), nonché dalla lunga serie di interventi legislativi che in materia di edilizia e di sicurezza si sono susseguiti nell’ultimo quindicennio, a partire dalla legge 626 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Nonostante ciò, e a dispetto di alcune lodevoli eccezioni (tra cui quella del Comune di Torino), pochissimo è stato fatto. Lo stato delle nostre scuole, specie nel Mezzogiorno ma anche in parecchie realtà del Centro-Nord, è spesso poco degno di un Paese civile: difettano protezioni contro i sismi, gli incendi, i cedimenti strutturali, i cortocircuiti elettrici, ma mancano anche, semplicemente, le condizioni minime di decoro, tutto ciò che può ricordare ai ragazzi che il luogo in cui studiano non è un luogo qualsiasi ma è un’istituzione, che merita il loro pieno rispetto. Un analogo degrado pervade in misura inaccettabile quasi tutti i grandi pilastri della vita sociale. Gli ospedali, ad esempio, alle volte malandati perché troppo vecchi, a volte malandati perché mai nati (sono oltre 100 gli ospedali finanziati e mai completati). O le caserme, i posti di polizia, i palazzi di giustizia, gli uffici che ti fanno sentire suddito più che cittadino.

Per non parlare delle aule universitarie ricavate in cinema, capannoni, o semplici alloggi. O delle carceri, che tutti i governi hanno lasciato in uno stato di deplorevole degrado. O delle strade pericolose, delle ferrovie antiquate, delle discariche illegali. Dei treni sudici, dei bagni sempre guasti, delle strade coperte di immondizia. Non è solo la scuola che è in stato di abbandono, ma lo sono quasi tutte le grandi infrastrutture fisiche del paese. È di qui che dobbiamo ripartire se vogliamo che tragedie come quella di Rivoli o di San Giuliano non si ripetano più. Quel che dobbiamo chiederci non è semplicemente perché tante scuole siano fatiscenti, ma è come mai, lentamente, le grandi strutture materiali del Paese - il suo hardware, verrebbe da dire - si stiano sbriciolando come grissini.

Una prima ovvia risposta è che l’hardware si sbriciola perché pensiamo quasi soltanto al software. Da almeno quindici anni, ossia da quando il debito pubblico è diventato la priorità delle priorità, la politica economica risparmia sistematicamente sulla manutenzione delle infrastrutture fisiche (l’hardware del sistema Italia), e dilapida le poche risorse disponibili in spese improduttive e stipendi pubblici (il software del sistema Italia). La storia sarebbe lunga da raccontare tutta quanta e nei dettagli, ma la realtà è che negli ultimi quindici anni - quale che fosse il colore politico dei governi - in quasi tutti i settori della pubblica amministrazione la maggior parte delle risorse disponibili sono state convogliate sugli avanzamenti di carriera e sottratte agli investimenti e agli acquisti.

È accaduto così che tra avanzamenti automatici, corsi di formazione più o meno fasulli, lauree facili (primo fra tutti lo scellerato programma «laureare l’esperienza»), la piramide gerarchica della pubblica amministrazione è stata stravolta, con due conseguenze fondamentali: una contrazione delle ordinarie risorse per il funzionamento (dalla benzina, alla carta, ai computer) e una grave perdita di efficienza organizzativa (perché un esercito di generali non combatte). In questa triste vicenda la scuola è stata colpita due volte: come gli altri settori della pubblica amministrazione è rimasta a corto di ossigeno sul versante degli investimenti edilizi e su quello delle risorse per il funzionamento, ma a differenza degli altri settori della pubblica amministrazione non ha potuto beneficiare di significativi avanzamenti perché non esiste una vera e propria carriera degli insegnanti, come ne esistono invece per i medici, i professori universitari, i magistrati, i militari, i poliziotti, i burocrati.

Dobbiamo dunque prendercela con i politici, ciechi di fronte ai veri interessi del paese?

Forse no, se riflettiamo su come funziona l’opinione pubblica e su cosa davvero riesce a scuotere la cosiddetta società civile. L’opinione pubblica dimentica con sorprendente rapidità le tragedie collettive, quelle che oggi ci fanno stringere intorno alle famiglie dei ragazzi di Rivoli, ma è estremamente vigile sugli interessi particolari delle innumerevoli categorie, corporazioni, lobby che si contendono quel che resta della nostra povera Italia. Se i politici, quando hanno 100 euro da spendere, ne destinano così pochi all’hardware del paese e così tanti al suo software, è perché hanno capito che quest’ultimo ci interessa molto più del primo. Possiamo indignarci quando crolla una scuola, quando deraglia un treno, quando un ospedale è invaso dagli scarafaggi, ma non siamo disposti a rinunciare a un pezzettino del nostro modesto benessere per vivere in un paese in cui queste cose non succedano più. I consumi privati ci interessano di più degli investimenti pubblici, lo Stato sociale, fatto di sanità, pensioni e assistenza, ci interessa di più dello Stato minimo, fatto di infrastrutture fisiche e funzioni fondamentali.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe se un ministro dicesse: la messa in sicurezza delle scuole costa 5 miliardi, per finanziarla propongo di bloccare tutti gli aumenti retributivi nel pubblico impiego (ad esempio: 1 anno gli stipendi bassi, 2 quelli medi, 3 quelli alti). Ci sarebbe una sollevazione, e mille eloquenti argomentazioni e sottili distinguo farebbero immediatamente naufragare la proposta, o qualsiasi altra idea consimile. I politici l’hanno capito, sanno perfettamente che l’agonia dello Stato minimo non è la prima delle nostre preoccupazioni. Sta a noi dimostrare che si sbagliano.
 
da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 29, 2008, 09:54:24 am »

29/11/2008
 
Il sentimento del Nord
 
LUCA RICOLFI

 
E’ un bel po’ di anni che se ne parla, ma nell’ultima settimana - dopo l’intervista di Sergio Chiamparino a questo giornale - se ne discute di più. Di un partito del Nord distinto dalla Lega, relativamente libero nelle sue alleanze, si cominciò a ragionare più o meno quindici anni fa, quando la Lega di Bossi fece cadere il primo governo Berlusconi (1994), e per circa cinque anni rimase «in sospensione» fra sinistra e destra, fino al rientro nell’alveo del centro-destra (2000). Poi il tema scivolò fuori del dibattito, salvo riaffacciarsi timidamente nel 2007, dopo le sconfitte della sinistra nelle elezioni amministrative di primavera. Pochi mesi dopo, con la costituzione del Partito democratico (autunno 2007) il tema pareva di nuovo e definitivamente sepolto, perché tutti i leader del Nord, compresi quelli che ora vagheggiano un distacco dal Pd romano, preferirono accontentarsi della promessa veltroniana di una «forte struttura federale» piuttosto che lanciarsi nell’avventura di un partito veramente autonomo. Non ho mai capito perché, allora, Cacciari, Chiamparino, Penati e gli altri principali dirigenti del Nord si siano lasciati incantare da Veltroni: che la confluenza nel Pd fosse uno schiaffo alle aspirazioni del Nord era più che evidente a qualsiasi osservatore disincantato. Quindi, pur essendo fra quanti hanno ripetutamente caldeggiato la nascita di un Partito del Nord, capisco ancora meno l’improvvisa conversione di questi giorni. Chissà, forse è solo una questione di voti, che ieri ci si illudeva di agganciare con la nuova creatura veltroniana, e oggi si è compreso benissimo che non torneranno mai più all’ovile.

Al di là delle beghe interne al Partito democratico, tuttavia, la domanda resta: vale la pena dar vita a un partito del Nord distinto dalla Lega? Dipende. In termini di carriere politiche è sicuramente indispensabile: la sinistra aveva perso la maggioranza dell’elettorato del Nord già nel 1948, e dopo il 1994 non ha fatto che perdere ulteriore terreno. Chi vuole fare politica al Nord senza confluire né nella Lega né nel partito di Berlusconi è dunque costretto a pensare a un contenitore nuovo. Ma per noi elettori è veramente utile? O meglio ancora: c’è spazio, oggi, per una nuova formazione politica che abbia il suo baricentro nel Nord e non sia l’ennesimo partitino? Secondo me sì, anche se tale spazio - per ora - non è grandissimo (diciamo che è fra il 10% e il 20% dei voti validi). Lo spazio si è creato poco per volta, ma le vicende politiche degli ultimi anni lo hanno notevolmente allargato. Oggi è molto più chiaro di ieri che né la destra né la sinistra attuali sono in grado di entrare in sintonia con il sentimento centrale delle regioni settentrionali, uno stato d’animo che è ampiamente diffuso nel Nord ma, sia pure in diversa misura, è presente in tutte le aree del Paese e in tutti gli strati sociali. Ci sono molti modi di mettere a fuoco tale sentimento, ma quello più chiaro a me pare efficacemente racchiuso in un’espressione di Lucia Annunziata ai tempi del governo Prodi, quando ebbe a parlare di un «generale senso di ingiustizia» serpeggiante nel Paese. Tale sentimento è particolarmente diffuso nel Lombardo-Veneto perché, qualsiasi campo si consideri, la scuola, l’università, la sanità, l’assistenza, la burocrazia, quei territori sono al tempo stesso i più virtuosi del Paese e i meno rappresentati dalla politica (a dispetto dei lombardi presenti nel governo nazionale). Ma è diffuso anche altrove, ovunque ci si rende conto che il merito è calpestato, gli sprechi e i privilegi sono inestirpabili, gli umili soccombono ai prepotenti, gli onesti sono calpestati dai furbi. Il Paese non chiede semplicemente meno tasse e migliori servizi, ma più equità e più responsabilità individuale. Di fronte a questa domanda, che spira impetuosa dal Nord ma esiste ovunque, un cittadino si aspetta dagli altri quel che pretende da sé stesso, le forze politiche si mostrano incapaci di fornire risposte convincenti. Nessuna di esse ha interesse a ripulire le istituzioni dall’invadenza dei partiti, come mostrano le non-riforme in campi vitali quali la sanità, la Rai, ma soprattutto i servizi pubblici locali, che solo Linda Lanzillotta provò (invano) a sottrarre alla voracità dei politici locali. L’azione della destra è paralizzata dal peso degli interessi egoistici e clientelari del Mezzogiorno, che hanno già indotto la Lega stessa ad annacquare enormemente il suo modello di federalismo fiscale. La sinistra, anziché combattere questa deriva conservatrice della destra, la asseconda in nome di un malinteso principio di solidarietà, che la porta a tutelare i territori inefficienti e a ignorare la domanda di equità che proviene da quelli virtuosi. La sinistra, in altre parole, confonde l’equità con la solidarietà, e sembra non capire che il Nord non è nemico della solidarietà, ma della sua versione incondizionata: se le risorse sono scarse, non puoi donare senza condizioni, ma hai il dovere civile di pretendere che non vadano dissipate. Queste, a mio parere, sarebbero le sole ragioni per far nascere un partito del Nord. Un partito del Nord ha senso se riesce a essere, al tempo stesso, più aperto e più rigoroso della Lega. Più aperto con l’altro, a partire dagli immigrati e dai «non padani». Più rigoroso sui temi del merito e della giustizia territoriale, ossia più e non meno federalista della Lega. Ma il conservatorismo mentale della sinistra e dei suoi uomini è così grande, che dubito che una rivoluzione simile possa essere compiuta nel breve volgere di una stagione politica.

da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 08, 2008, 09:54:57 am »

8/12/2008 - I GUAI DEL PD
 
Le parole tra noi leggere
 
LUCA RICOLFI
 

Genova, Firenze, Perugia, Roma, Napoli. Per non parlare dell’Abruzzo e della Calabria. Da Nord a Sud, ma specialmente nelle regioni rosse e nel Mezzogiorno, le inchieste giudiziarie stanno travolgendo il partito di Veltroni.

Gli elettori di sinistra sono, per l’ennesima volta, sgomenti e stupefatti. Eppure non dovrebbero esserlo più di tanto. Lo spettacolo cui oggi assistiamo, infatti, non è iniziato nelle ultime settimane, ma continua ad andare in scena da anni. Ed era largamente prevedibile, perché le sue radici non stanno in qualche errore dell’oggi, ma in meccanismi e scelte politiche che risalgono molto indietro nel tempo.

La reazione a Tangentopoli (1992), innanzitutto. Se oggi siamo a questo punto è anche perché la politica - tutta la politica, non solo quella della sinistra - anziché reagire a Tangentopoli tentando un’autoriforma preferì battere un’altra strada: la legalizzazione dell’abuso di potere. Un tassello dopo l’altro, un intero sistema di norme penali e amministrative venne riconfigurato per rendere possibile il finanziamento e l’espansione del potere dei partiti anche senza violare la legge: chi è curioso di sapere come questo capolavoro normativo venne messo a punto può leggere l’eccellente ricostruzione fornita già qualche anno fa da Salvi e Villone nel loro libro Il costo della democrazia (Mondadori, 2005; vedi in particolare i capitoli 6, 7, Fico. La bellezza di questa ricostruzione, dovuta a due docenti di diritto, entrambi di sinistra ed entrambi provenienti dalle file dei Ds, è che essa spiega sia l’aumento dei comportamenti contrari all’interesse generale, sia la loro scarsa perseguibilità da parte della magistratura.

All’analisi di Salvi e Villone, che già allora profetizzavano l’imminente impantanamento morale del futuro Partito democratico, è forse il caso di aggiungere che la storia continua, e continua in termini rigorosamente bipartisan: proprio perché il ceto politico è innanzitutto una corporazione, né la destra né la sinistra hanno mai provato a cambiare veramente le regole della sanità, né a varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, come mostra la triste storia del disegno di legge Lanzillotta. Se lo avessero fatto, avrebbero chiuso, o perlomeno inaridito, i due principali rubinetti da cui il ceto politico locale trae le «risorse» per autofinanziarsi e per espandere il proprio potere. L’importanza dell’analisi di Salvi e Villone, come di altre metodologicamente consimili (penso ad esempio al recente libro di Roberto Perotti L’università truccata, o al volume Toghe rotte di Bruno Tinti, procuratore aggiunto a Torino) è che esse non si limitano a denunciare la disonestà dei protagonisti, ma mostrano come certe macchine che non funzionano - le amministrazioni locali, la magistratura, l’università - non falliscano semplicemente perché ci sono in giro troppi disonesti, bensì perché sono «programmate per non funzionare», come ha giustamente rilevato Marco Travaglio nell’introduzione al libro di Tinti.

Ci sono poi le scelte politiche e culturali. Nonostante Tangentopoli, e a molti anni di distanza, né la sinistra nel suo insieme né il Partito democratico hanno mai rinunciato veramente al mito di un primato morale della sinistra. Non lo ha fatto Fassino, non lo ha fatto Prodi, ma non lo ha fatto nemmeno Veltroni, che anzi per certi versi ha rilanciato l’idea che la «bella politica» - fatta di onestà e trasparenza, democrazia interna e partecipazione - potesse essere la marca distintiva del partito nato dalla fusione di Ds e Margherita. Questo è stato un errore madornale, perché certe parole non si possono pronunciare invano: se un partito è fatto di gente capace e disinteressata non ha bisogno di proclamarlo, ma se lo proclama non può assolutamente permettersi di non esserlo. Soprattutto non può permettersi quel che Veltroni ha permesso in questo primo anno di guida del Pd: non solo decisioni verticistiche e beghe correntizie, ma sostanziale rinuncia a fare pulizia in casa propria, ossia l’unica cosa che un partito può tentare finché le regole restano quelle che sono.

Spiace ritornare sul punto più spinoso, quello delle candidature e degli eletti, ma occorrerà pure farsi qualche domanda. Perché, quando si è trattato di scegliere i candidati alle ultime elezioni politiche, il Pd non ha deciso di escludere non dico tutti gli inquisiti, ma tutti i rinviati a giudizio, o almeno tutti i condannati? O dobbiamo pensare che l’opinione che i dirigenti del Pd hanno della magistratura è così negativa, e così diversa da quella proclamata in pubblico, da suggerire di ignorare completamente gli indizi che emergono dalla sua attività? Non ci si rende conto che, specie con una legge elettorale che sottrae ai cittadini-elettori ogni possibilità di scelta dei candidati, mettere in lista persone condannate, prescritte o rinviate a giudizio contraddice i propositi di moralizzazione così copiosamente sbandierati in campagna elettorale? O basta a consolare i dirigenti del Pd il pensiero che le file della destra sono ancora più inquinate delle loro?

Per non parlare del caso Bassolino, e più in generale del disastro della Campania, a partire dallo scandalo dei rifiuti. Veltroni e i suoi hanno una vaga idea di quel che passa per la mente di un elettore di sinistra quando, a più riprese e senza smentita, deve leggere sui giornali che il Pd pensa di far dimettere Bassolino in cambio di un seggio di parlamentare europeo, dove potrà riposarsi percependo qualcosa come 200 mila euro l’anno? Da quanto tempo ormai sappiamo in che condizioni il sistema di potere di Bassolino ha ridotto la Campania?

Non sono tra coloro che rimpiangono lo stalinismo, e non vorrei mai sentire la parola espulsione. Ma sento una sproporzione, uno stridore insopportabile, fra il trattamento di Bassolino e quello di Villari, reo di non essersi dimesso dalla presidenza della commissione di Vigilanza della Rai. Il partito di Veltroni è così debole che dopo anni di malgoverno della Campania non riesce nemmeno a sospendere Bassolino dal Pd, mentre impiega pochi giorni a espellere il «cattivo» Villari, senza dargli nemmeno il tempo di malgovernare la Rai?

Così, alla fine, non posso non sottoscrivere le meste parole con cui ieri, sul Corriere della Sera, Arturo Parisi descriveva la situazione del Partito democratico: «Son le parole che con troppa leggerezza abbiamo lanciato verso il cielo, a ricadere come macigni pesanti sulle nostre teste». Già, certe parole - onestà, democrazia, trasparenza, etica, bella politica - non si possono dire spensieratamente, pensando di non essere presi in parola. L’elettorato di sinistra, specie quello militante, è spesso ingenuo e idealista, ma proprio per questo non è preparato alle sorprese più amare.

da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 15, 2008, 05:57:24 pm »

15/12/2008
 
Occorre una visione del futuro
 
LUCA RICOLFI
 

Zig-zag. Stop and go. Tatticismo. Navigazione a vista. Politica degli annunci. Gioco delle tre carte. Incursioni e marce indietro. Potete usare le parole che preferite, però l’impressione resta quella: il governo appare in preda a continui «strattonamenti», che trasmettono all’elettorato una sensazione di precarietà e sostanziale debolezza. È il caso, per citare esempi recenti, delle più o meno effettive marce indietro su università, scuola, sconti fiscali per le ristrutturazioni «ecologiche».

Ma è anche il caso dei ripetuti rinvii della riforma della giustizia, del disegno di legge delega sul federalismo fiscale, per non parlare della riforma organica del Welfare, in particolare in materia di ammortizzatori sociali.

Di fronte a questo spettacolo, l’interpretazione che prevale nei commenti è che il centro-destra si stia rendendo conto che, senza concedere qualcosa a opposizione e sindacati, sia difficile mantenere il consenso dell’elettorato. Di qui il passaggio da una stagione di riforme dall’alto, imposte con blitz legislativi, a una stagione di riforme balbettate, abbozzate o «facoltative», come le ha sarcasticamente bollate Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. L’interpretazione tatticista, per cui il governo agirebbe come agisce essenzialmente per non far salire troppo la tensione nel Paese, è più che ragionevole (nessun governo può prescindere completamente dal consenso) ma non mi convince fino in fondo. La mia impressione è che l’erraticità del comportamento del governo abbia radici al tempo stesso più banali e più profonde.

Radici banali, innanzitutto. Sarò forse un ingenuo, ma a me certi «errori» legislativi paiono semplicemente frutto di fretta, superficialità e impreparazione tecnica. Voglio dire che certe marce indietro non mi paiono vere concessioni all’opposizione, bensì semplici tributi al buon senso, ossia correzioni di errori che si sarebbero tranquillamente evitati se i ministri studiassero i problemi prima di decidere, e disponessero di staff tecnici più competenti.

Faccio solo tre esempi di provvedimenti chiaramente mal concepiti, ma successivamente corretti: il blocco uniforme del turnover nell’università, che puniva anche gli atenei «virtuosi»; la riduzione degli incentivi fiscali alle ristrutturazioni «ecologiche», che aveva persino aspetti aberranti, come la retroattività e il silenzio-diniego; le riforme scolastiche, prive di garanzie esplicite alle famiglie (tempo pieno) e di una dettagliata valutazione tecnica dei tempi e dei modi di attuazione (con conseguente rivolta degli enti locali).

A questi tre esempi di fragilità tecnica se ne dovrebbe forse aggiungere un quarto, di enorme importanza: a tutt’oggi sembra ancora in alto mare la costruzione di quella «base di dati condivisa» che giustamente il ministro Tremonti vede come precondizione di avvio del federalismo. In breve, a me sembra che di fatto il governo stia facendo un po’ come quei produttori di software che, dovendo rispettare una certa data per mettere sul mercato nuovi prodotti, o nuove versioni dei prodotti precedenti, usano gli utenti come cavie, contando di riparare i «bachi» in un secondo momento, quando le cavie avranno segnalato tutti i malfunzionamenti dei nuovi sistemi. Fuor di metafora: non sarebbe meglio che i governi (il discorso vale anche per il passato) studiassero attentamente l’impatto delle norme prima di vararle, anziché ricorrere sistematicamente a emendamenti del governo stesso, più o meno suggeriti dall’opposizione e dalla piazza?

Ma non c’è solo questo, forse. L’erraticità dell’azione di governo ha anche radici più profonde. Anche qui potrei sbagliarmi, ma la mia sensazione è che il governo di centro-destra non abbia né la convinzione né le capacità - la cultura, verrebbe da dire - che sarebbero necessarie per difendere le proprie scelte, o meglio ancora la propria visione del futuro del Paese. Se tanto spesso il governo è indotto a rivedere le proprie decisioni, comunicando così una sensazione di debolezza, non è solo perché si trova costretto a correggere ex post errori commessi per fretta o superficialità, ma perché questo governo, o forse sarebbe meglio dire questa destra, riesce ad avere torto anche quando ha sostanzialmente ragione. Certe marce indietro sono dovute al fatto che, arrivato al dunque, il governo si rende conto che l’opinione pubblica non capirebbe, e non capirebbe perché non è preparata a determinate scelte. Ma perché l’opinione pubblica non è preparata?

È qui che le spiegazioni del governo diventano carenti. Berlusconi dice che sono stati fatti errori di comunicazione. La Gelmini dice che è colpa dell’informazione, che non fa il suo mestiere. Hanno entrambi ragione, come non ho mancato di rilevare più volte io stesso quando ho denunciato il mare di falsità che sindacati, opposizione e stampa partigiana hanno diffuso in questi mesi sulla riforma della scuola. Però accusare gli altri non basta: i timori delle famiglie sul tempo pieno, o sul destino dei ragazzi nel pomeriggio, non possono essere dissolti solo con comunicati, interviste, conferenze stampa, se poi quelle assicurazioni non hanno un riscontro preciso e inequivocabile nelle norme di legge. Altrimenti succede quel che è successo nei giorni scorsi in materia di riforme scolastiche: il governo mantiene l’80% di quel che aveva deciso (compreso maestro unico e abolizione del «modulo», ossia dei 2 insegnanti per 3 classi), ma quel che passa nell’opinione pubblica è che l’opposizione avrebbe costretto il governo alla ritirata, quando la realtà è molto più prosaica: la riforma Gelmini non è mai stata brutta come l’opposizione amava dipingerla, e già prima della presunta retromarcia era evidente (almeno a chi avesse avuto la pazienza di fare i conti) che i risparmi di spesa consentiti dall’eliminazione delle compresenze erano sufficienti ad aumentare il numero di classi a tempo pieno.

Insomma, a me pare che il governo stenti a capire quanto importante sia oggi preparare l’opinione pubblica alle riforme, ben prima e al di là della doverosa informazione sulle singole leggi e riforme. Non solo perché la cultura riformista è minoranza nel Paese, ma perché in un periodo di crisi la gente ha più che mai bisogno di ragionevoli certezze, di sapere dove il timoniere intende portare la nave. Visione, la chiamerebbe forse Tremonti; egemonia, l’avrebbe chiamata Gramsci. Se non c’è tutto questo, è inutile invitare la gente a sperare, ad avere fiducia, a essere ottimisti, e tanto meno a investire e spendere in regali di Natale.
 
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