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Autore Discussione: Elezioni Usa, l'ora del cialtrone più lunga di sempre  (Letto 1134 volte)
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« inserito:: Novembre 10, 2020, 03:37:39 pm »

Elezioni Usa, l'ora del cialtrone più lunga di sempre

Un collega con il quale ho lavorato negli anni del Riformista diceva giustamente che appena si chiudono le urne comincia sempre “l’ora del cialtrone”. Intendeva l’affollarsi di politici, giornalisti, opinionisti e semplici passanti determinati a trarre una rapida morale prima non solo di aver avuto i dati necessari a una seria analisi ma anche di possedere le indicazioni minime sull’effettivo risultato delle urne. Con queste storiche elezioni americane, ancora senza un vincitore ufficiale a tre giorni dall’election day, l’ora del cialtrone si è dilatata come mai prima: le ore a disposizione per giudizi in libertà sono diventate 12, 24, 72 e al momento continuano a correre.

Cosa caratterizza l’ora del cialtrone? Non solo la sventatezza di esprimere un giudizio al buio o di fidarsi scioccamente dei primi exit poll. La vera cifra del cialtronismo, da anni la quota meglio rappresentata in ogni maratona tv, è la tentazione di restare sul proprio pregiudizio e bacchettare con sarcasmo quanti non hanno voluto riconoscerne in anticipo la mirabile lungimiranza. La corsa, insomma, a vedere confermate le opinioni di partenza dissociandole in modo sempre più schizofrenico dal principio di realtà. Nel caso delle presidenziali Trump vs. Biden abbiamo assistito a storica, forse insuperabile fiammata del fenomeno. Hanno eccelso stavolta soprattutto i commentatori del genere, ormai frequentato più della trap, “la sinistra non capisce il popolo”. Quale miglior occasione, per loro, di cavalcare i primi parzialissimi responsi dagli Stati Usa per rivestire i panni di Ruggero Mazzalupi (il meraviglioso Ennio Fantastichini in Ferie d’agosto)? Tutti pronti a lanciarsi in un soddisfatto “perché voi intellettuali non ce state più a capì un cazzo, ma da mò!”. Non pareva loro vero: nella notte di martedì il presunto vantaggio di Trump in molti Stati era la prova dell’ennesimo abbaglio della "sinistra ztl da centro storico".

E giù le solite accuse: vi fidate dei sondaggi, non capite il popolo, siete avulsi dalla realtà. Da molti, quelli a tendenza più sovranista, è partito subito il parallelo attacco al mainstream, ai giornaloni, ai radical chic, insomma tutto quel repertorio lessicale che dovrebbe testimoniare l’alterità di chi lo usa e invece è quasi sempre la prova della sindrome catacombale di cui soffre una certa destra che non riesce a liberarsi del suo storico di complesso di inferiorità, nemmeno in tempi in cui le sue tesi sono le più gettonate al bar e in ascensore. Amano sentirsi fuori dal coro, come quando loro o i loro padri e madri frequentavano presumibilmente il Fronte della gioventù o le sezioni del Msi, mentre invece sono coristi per eccellenza, e pure da quarta fila, pappagalli del luogo comune dominante.

Per i trumpisti nostrani The Donald è il "vincitore morale" della contesa, anche se si avvia a perdere con soli 232 grandi elettori, lontanissimo dalla meta, sotto di più di 4 milioni di voti nel voto popolare complessivo (saranno quasi sicuramente più di 5 alla fine), nonostante sia solo uno dei 4 (quattro) casi in un secolo di presidente in carica che fallisce la rielezione. Eppure sono ancora tutti lì, sui social e sulle gazzette salviniane o meloniane, a incensare la performance del tycoon. E continuano a sparare contro il "mainstream" che non ha previsto lo slancio del loro candidato e i giornaloni che hanno propalato sondaggi farlocchi, senza rendersi conto che l’unica cosa che dimostrano è di non aver letto un giornale negli ultimi due mesi. La rassegna stampa recente è zeppa di analisi e reportage che spiegavano bene la possibilità di Trump di restare comunque in partita grazie al meccanismo di voto delle presidenziali. E che, soprattutto, avvertivano sul rischio del red mirage, il miraggio rosso, cioè la possibilità che in molti casi il massiccio ricorso al voto postale, prerogativa degli elettori dem (Trump, del resto, ha passato buona parte della campagna elettorale a demonizzarlo), facesse sì che nelle prima fase dello spoglio - riservate al voto in presenza - il repubblicano risultasse molto più avanti dello sfidante dem. Un’illusione ottica che i sovranisti avrebbero potuto soppesare, se solo avessero letto quei giornaloni che tanto disprezzano. Niente da fare. Per tutti costoro Trump doveva straperdere (in realtà lo hanno deciso loro che doveva andare così, non i sondaggisti o altri), e siccome non ha straperso hanno ragione. Peraltro, a spoglio ormai quasi completato la sconfitta di Trump è tutt’altro che di misura. E dire che abbia stra-perso è legittimo.

Ma l’ora del cialtrone è trasversale. Non è mica solo un fenomeno della destra. Ci sono pure i riformisti, tendenza saperla lunga, tendenza anti-sinistra sempre e comunque. E i massimalisti, tendenza anti-centro sempre e comunque. Biden non aveva ancora perso, anzi, si era in pieno in miraggio rosso, e già era pieno di soloni che contestavano l’essere Biden troppo moderato ovvero troppo liberal ovvero troppo establishment. A ognuno il suo delirio personalizzato. Ho letto tweet che invitavano il Partito democratico americano a sciogliersi per manifesta incapacità di cogliere il senso dei tempi, editoriali nei quali si diffida la sinistra italiana dal seguire il modello Biden, nel senso mai più un candidato debole e moderato. Moderato, Biden lo è senz’altro, forse davvero anche troppo. Ma si può parlare di debolezza, di impresentabilità, di distanza dall’America profonda (quest’ultima un’espressione chiave per stanare i più ineffabili e sedicenti esperti di cose Usa), per un candidato che si avvia a entrare alla Casa bianca con il record assoluto di voti, che ha conquistato Stati dove i democratici non vincevano da decenni? L’ormai probabile vittoria di Biden in Georgia non si verificava dal 1992, con Bill Clinton, che peraltro riuscì nell’impresa solo grazie al fatto che l’anarco-capitalista Ross Perot andò in doppia cifra rubando caterve di voti ai Repubblicani.

Le uniche altre due volte negli ultimi 60 anni in cui la Georgia si era colorata di blu erano fuori gara, diciamo così: il candidato dem era il georgiano Carter. Trump, il “vincitore morale” non ha vinto un solo Stato diverso da quelli conquistati nel 2016, in compenso si avvia perderne 6 o 7. Vi pare un pareggio? Vi pare la fotografia di un Paese ancora egemonizzato da Trump? Per non parlare dei dati provenienti dalle grandi città. Non parlo solo di New York o Los Angeles. Biden stravince, mai sotto il 60 per cento, più spesso oltre il 70 o l’80 per cento, sia in capitali e grandi centri degli Stati che si è aggiudicato (Boston, Detroit, Chicago, Seattle, Denver e via dicendo) sia in capitali e grandi centri dove pure ha perso lo Stato (Dallas, Austin, San Antonio, Memphis, Cleveland, New Orleans e tante altre ancora).

Però l’America profonda è con Trump. I numeri sono inutili. Agli orfani di Trump, a destra come a sinistra, non piacciono. E Trump sarebbe orgoglioso di loro, se avesse tempo di dedicarsi ad altro che alla sua catastrofica sconfitta da presidente in carica.


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