Conservatorismo
Di Noel O'Sullivan - Enciclopedia delle scienze sociali (1992)
Conservatorismo
Sommario: 1. Definizione di conservatorismo: il conservatorismo come difesa di una 'politica limitata'. 2. La critica conservatrice della politica rivoluzionaria. 3. Tradizioni nazionali nel pensiero conservatore. 4. La crisi del conservatorismo nel XX secolo. 5. La ricerca di una nuova identità conservatrice. 6. La Nuova Destra. 7. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Definizione di conservatorismo: il conservatorismo come difesa di una 'politica limitata'Volendo dare una definizione di conservatorismo, possiamo attribuire a questo termine il significato di atteggiamento soggettivo di ostilità verso il cambiamento; si tratta allora di una tendenza che può essere riscontrata in ogni tempo e in ogni luogo. Ma se gli attribuiamo il senso di filosofia ben definita che si basa su un'esplicita teoria dell'uomo e della società, allora il conservatorismo è un fenomeno prettamente moderno. Poiché il nostro articolo verterà sul conservatorismo in questa sua seconda accezione, è importante individuare il momento preciso in cui si è manifestato. Esso è apparso negli anni immediatamente successivi al 1789, come critica del nuovo modo rivoluzionario di fare politica che era stato introdotto nel mondo occidentale dalla Rivoluzione francese. Il termine 'conservatore' è stato usato per la prima volta in questo senso moderno - come sinonimo, cioè, di opposizione al nuovo modo di fare politica - allorché Chateaubriand chiamò "Le Conservateur" il giornale da lui pubblicato per propagandare la causa della Restaurazione clericale e politica in Francia. Questo termine venne ben presto adottato da molti altri gruppi che si opponevano al progresso rivoluzionario. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli American National Republicans già nel 1830 si definivano 'conservatori', e nel 1832 anche il partito tory in Gran Bretagna assunse questo nome.
Le ragioni per le quali i conservatori si opponevano alla nuova politica rivoluzionaria verranno spiegate più in dettaglio in seguito, ma per definire il termine conservatorismo con maggior precisione può essere utile delineare brevemente la situazione. Il principale assunto sostenuto dai fautori del nuovo modo di fare politica era che solo un radicale cambiamento sociale e politico avrebbe reso possibile la totale liberazione dell'uomo. I conservatori, invece, hanno sempre insistito sul fatto che la libertà e la felicità dell'uomo si possono preservare solo grazie a un modo di fare politica 'limitato', mentre i mutamenti radicali causano immancabilmente la distruzione della 'politica limitata'. Più in generale, i conservatori hanno tentato di difendere la 'politica limitata' rifiutando come utopistica la fiducia nella perfettibilità umana su cui si basa il sogno di liberazione dei radicali. A loro avviso, una filosofia politica realistica deve per prima cosa accettare l'idea che l'imperfezione o il conflitto sono componenti ineliminabili della condizione umana.
Il conservatorismo può pertanto essere definito come un modo per tutelare la politica limitata sulla base di una filosofia che mette l'accento sull'imperfezione umana. Quest’ultima definizione ha diversi meriti. In primo luogo si adatta al concetto di conservatorismo quale è stato sviluppato da Edmund Burke (cfr., ad esempio, Reflections on the revolution in France, 1790), che viene generalmente ritenuto il padre del conservatorismo moderno. In particolare, è stato Burke a identificare le sei caratteristiche principali della politica limitata, e cioè:
1) una costituzione mista o bilanciata;
2) il principio di legalità;
3) una magistratura indipendente;
4) un sistema di governo rappresentativo;
5) l'istituto della proprietà privata;
6) una politica estera diretta a promuovere l'indipendenza politica attraverso il mantenimento dell'equilibrio del potere a livello internazionale. In secondo luogo, questa definizione distingue il conservatorismo dalla 'reazione', che è caratterizzata invece dall'avversione per il mutamento in quanto tale, e che implica sempre il richiamo a una situazione utopica (passata o futura) in cui si gode di perfetta stabilità.
Il conservatorismo, al contrario, non si oppone al mutamento in quanto tale, ma solo a quel tipo di mutamento che è incompatibile con la tutela della politica limitata. Dato che le condizioni necessarie all'attuazione di una politica limitata ovviamente variano a seconda dei tempi, la posizione conservatrice implica un buon grado di flessibilità. Ciò che viene comunque escluso, tuttavia, è proprio quel tipo di utopia alla quale aspirano i reazionari: la convinzione dei conservatori che la natura umana è imperfetta è incompatibile con brame distruttive per ciò che è impossibile. In terzo luogo, definendo il conservatorismo in termini di politica limitata e imperfezione umana, si riconosce la parziale sovrapposizione tra conservatorismo e liberalismo, e allo stesso tempo si mette in evidenza la differenza tra questi due concetti. Per ciò che riguarda la loro sovrapposizione, bisogna ricordare che Burke stesso era strettamente legato all'ideologia classica liberale connessa alla riforma costituzionale del 1688 (cfr. Appeal from the new to the old Whigs, 1791). Egli si discostava invece da questa tradizione in quanto respingeva il razionalismo che ne era la caratteristica principale. In seguito il conservatorismo respinse anche l'ottimistica fede nel progresso che gradualmente aveva permeato la filosofia liberale nel XIX secolo, data la sua incompatibilità con la concezione conservatrice relativa alla ineliminabile imperfezione umana. In quarto luogo, questa definizione permette di effettuare una chiara distinzione tra conservatorismo da una parte, e movimenti politici estremistici come il nazismo e il fascismo dall'altra; molto spesso, infatti, tali movimenti sono confusi col conservatorismo. Nazismo e fascismo, contrariamente al conservatorismo, rifiutano la politica limitata, e inoltre attribuiscono alla volontà umana una certa capacità di plasmare la storia, idea che, come vedremo, è del tutto estranea alla filosofia conservatrice.
2. La critica conservatrice della politica rivoluzionariaCiò che dobbiamo ancora spiegare in modo più dettagliato è la natura precisa della critica conservatrice del nuovo modo rivoluzionario di fare politica affermatosi col 1789. Le caratteristiche essenziali di tale critica vengono messe in luce nella maniera più chiara se si individuano i principali assunti intellettuali relativi all'uomo e alla società che avevano contrassegnato la modalità d'azione rivoluzionaria. Il primo assunto è il razionalismo, ossia il convincimento che le consuetudini e le istituzioni possono venire legittimate solo tramite l'uso consapevole della ragione umana. Il conservatorismo considera empio il razionalismo perché fa sì che qualsiasi ordine sociale esistente possa venir completamente sovvertito, indipendentemente dal fatto che coloro che vi sono soggetti l'abbiano trovato insoddisfacente, solo perché il riformatore razionalista considera che tale ordine sociale non corrisponde a ideali astratti quali i diritti dell'uomo o l'utopia comunista. I filosofi conservatori, da Burke a Michael Oakeshott (v., 1962), hanno sempre sostenuto che questo genere di ideologia politica attribuisce alla ragione una funzione che essa in realtà non può adempiere. In particolare, essi sostengono che gli schemi ideologici sono sempre un 'compendio' (abridgment, per usare la terminologia di Oakeshott) di una tradizione storica preesistente, e che la ragione non è assolutamente in grado di definire dei programmi prescindendo da tale tradizione, come invece asseriscono i razionalisti. Qualunque tentativo di imporre alla società un programma astratto, secondo i conservatori, sarà soltanto una formula per l'esercizio di un potere arbitrario. Il risultato sarà la distruzione dei legami sociali volontari creati dal costume e dalla tradizione e l'insorgere della coercizione come unico mezzo per tenere unita la società. A sostegno di questo punto di vista i conservatori sottolineano il fatto che tutte le rivoluzioni dal 1789 in poi sono sfociate nel dispotismo. Il secondo assunto dello stile politico rivoluzionario è una nuova teoria del male, che il conservatorismo contesta. Secondo questa teoria, che fu formulata per la prima volta con chiarezza negli scritti di Rousseau e in particolare nel Contratto sociale, il male ha origine nell'ingiusta organizzazione della società, e può pertanto essere eliminato, almeno in teoria, attraverso un appropriato mutamento sociale e politico. Secondo la filosofia conservatrice, invece, il male è una componente ineliminabile della condizione umana, e la politica ha solo il compito di cercare dei palliativi, non delle soluzioni radicali.
La teoria radicale del male è intimamente connessa con il terzo assunto dello stile rivoluzionario, che consiste in una certa tendenza a trasformare la politica in una crociata quasi religiosa contro quelle che vengono considerate le forze dell'oscurantismo. La politica, in altre parole, viene tramutata in una faccenda in cui tutti i partecipanti sono o santi o peccatori e in cui tutte le questioni sono o bianche o nere. Il conservatorismo rifiuta l'inflessibilità e il dogmatismo della politica ideologica, nella quale non c'è spazio per una pragmatica conciliazione dei conflitti di interesse e delle passioni. Il quarto assunto è uno sconfinato ottimismo riguardo al fatto che l'uomo sia capace con la sua volontà di plasmare il proprio futuro conformandolo a qualunque programma ideologico egli possa aver elaborato. Il culto della volontà e l'estremismo politico che questo determina sono invece essenzialmente estranei alla filosofia conservatrice, che sottolinea i limiti obiettivi che le ineluttabili tensioni dell'esistenza umana pongono alla volontà. L’ingenua fede nella sovranità popolare è l'ultimo assunto che caratterizza il nuovo modo rivoluzionario di fare politica: l'autogoverno, si sostiene, è di per sé garanzia di buon governo. Il conservatorismo rifiuta questa equazione in quanto fa sì che i governi possano portare avanti qualsiasi tipo di politica, per quanto in contrasto con la libertà e la felicità essa possa essere, semplicemente sulla base del fatto che agiscono in rappresentanza del popolo o in adempimento di un mandato elettorale.
Dal 1789 fino alla fine della seconda guerra mondiale, la principale preoccupazione che ha assillato il pensiero conservatore è stata la paura che il nuovo modo rivoluzionario di fare politica potesse avviare un'era contrassegnata da anarchia morale, sterilità culturale e forme dispotiche di governo. Nell'ambito di questa generale preoccupazione dei conservatori, è possibile individuare tre diverse scuole di pensiero; benché nessuna di queste sia specificamente riconducibile a una particolare nazione, tuttavia esse riflettono, rispettivamente, le diverse tradizioni intellettuali di Francia, Germania e Gran Bretagna.
3. Tradizioni nazionali nel pensiero conservatoreLa caratteristica che distingue la tradizione conservatrice in Francia è l'uso che essa ha fatto della più antica fonte dell'ispirazione conservatrice, cioè la visione cristiana dell'universo. Secondo questa visione, i limiti posti all'azione umana sono dovuti al fatto che il mondo costituisce un insieme ordinato e organizzato gerarchicamente nel quale qualunque cosa, incluso l'uomo, occupa il posto specifico che gli è stato assegnato da Dio, creatore dell'universo. Nella visione cristiana viene data particolare rilevanza alla capacità dell'uomo di commettere deliberatamente il male, che si spiega con la 'caduta' causata dal peccato di Adamo.
È proprio questo pessimismo a caratterizzare la tradizione reazionaria francese che fa capo a Joseph de Maistre (cfr. Considérations sur la France, 1796) e a Louis de Bonald (cfr. Théorie du pouvoir politique et réligieux dans la société civile, 1796), i quali ritenevano che l'avvento della moderna democrazia di massa fosse un totale disastro dal quale l'uomo poteva esser salvato solo grazie alla restaurazione del potere monarchico ed ecclesiastico. In forma secolarizzata, questo stesso tipo di pessimismo si riscontra in alcuni pensatori reazionari del XX secolo come Charles Maurras (cfr. L'enquête sur la monarchie, 1900), il fondatore dell'Action Française.
Il cristianesimo ha avuto un ruolo rilevante anche nel pensiero di conservatori moderati come Burke, ma ciò che contraddistingue la posizione reazionaria è l'ossessiva insistenza sull'estrema fragilità di qualsiasi ordine unita a una concezione del tutto statica dell'armonia sociale, un'armonia così pura che nessuna società storica potrebbe mai soddisfare le condizioni della sua realizzazione. Ne risulta non solo un'utopia di tipo conservatore, ma anche una certa tendenza a impiegare dei mezzi di azione politica al di fuori della costituzione, dato che il rispetto delle forme costituzionali viene scartato dai reazionari (come dai rivoluzionari) perché ritenuto un mezzo per perpetuare un ordine sociale illegittimo. Di conseguenza, benché il reazionario spesso dichiari di essere un difensore della 'politica limitata', il suo concetto di politica tende in realtà a sovvertire profondamente proprio quel modo di fare politica.
In Germania la caratteristica peculiare del pensiero conservatore è di aver sostituito l'interpretazione teologica della condizione umana con un metodo totalmente diverso di stabilire la realtà dell'imperfezione. Invece di far ricorso a un mondo creato da Dio di valori assoluti e sopra-storici come origine dei limiti posti alla volontà umana, la filosofia conservatrice si è basata sulla tesi che nella storia possono essere individuate delle leggi obiettive di mutamento e di sviluppo. Lo scrittore che ha esercitato la maggiore influenza sul conservatorismo tedesco negli anni immediatamente precedenti e successivi alla Rivoluzione francese è stato Johann Gottfried Herder (cfr. Sämtliche Werke, 1877-1913), anche se i suoi interessi non possono essere considerati di tipo specificamente conservatore. Furono pensatori come Friedrich Schleiermacher che utilizzarono il metodo storico a fini più direttamente polemici. Il preciso punto di connessione tra filosofia della storia e conservatorismo viene chiaramente spiegato da Schleiermacher in questi termini: "Poiché lo Stato [...] è una creazione dell'uomo stesso, si è pensato [...] che l'uomo avrebbe potuto creare lo Stato perfetto in conformità con un modello teorico. Dobbiamo subito dichiarare che questa è un'illusione; perché ciò che viene realizzato attraverso la natura umana viene spesso erroneamente inteso come ciò che l'uomo fa. Mai è stato fatto uno Stato, neppure il più imperfetto [...].
Questa illusione, tuttavia, è stata la ragione per la quale gli Stati sono stati considerati di gran lunga troppo poco come formazioni storiche naturali, e sempre, invece, come oggetti sui quali l'uomo deve esercitare la propria ingegnosità" (da una conferenza del 1814, in Sämtliche Werke, 1834-1864, vol. III, t. 2, pp. 246-286). Una teoria di questo tipo era senz'altro implicita già in Burke, ma essa divenne un tema centrale della discussione filosofica solo nel pensiero conservatore tedesco. Schleiermacher sviluppò inoltre una fenomenologia della coscienza politica basata su ciò che egli definì 'metodo genetico'.
Tale metodo ha assunto oggi un particolare interesse, poiché può essere considerato un diretto precursore delle obiezioni mosse attualmente alla scienza sociale positivista nella letteratura in certo qual modo esoterica sull'ermeneutica. Il nuovo metodo storico, tuttavia, fin dall'inizio ha rappresentato un'arma a doppio taglio per la teoria conservatrice; infatti, stabilendo una connessione tra conservatorismo e filosofia della storia, i filosofi tedeschi hanno reso i principî conservatori ambigui, mutevoli e instabili quanto il flusso della storia stesso. Come un conservatorismo di questo tipo possa ritorcersi contro se stesso risulta evidente dal fatto che un modo di pensare orientato in senso storicistico fu ben presto strettamente collegato col marxismo. L'ambiguità della tradizione conservatrice tedesca divenne ancora maggiore per il fatto che fu subito associata a una dottrina nazionalista che poneva i requisiti necessari per una società organica al di sopra di quelli della 'politica limitata' (cfr. J.G. Fichte, Reden an die deutsche Nation, 1808, e Adam Müller, Die Elemente der Staatskunst, 1809). Ma il fatto più deleterio è stato che la filosofia conservatrice tedesca è sembrata talvolta fondarsi in definitiva su un ideale di libertà o di autonomia così estremo da essere incompatibile con qualsiasi limite posto dall'esterno (cfr. George Santayana, Egotism in German philosophy, 1916). Pertanto la tradizione conservatrice tedesca, analogamente a quella francese, si è prestata a interpretazioni estremistiche che spesso non erano assolutamente nelle intenzioni dei suoi principali esponenti.
Per metterla in termini un po' diversi, il problema è sempre stato che le aspirazioni a una società organica, all'unità nazionale, alla libertà assoluta, quando sono state messe tutte insieme, hanno talmente estraniato i conservatori tedeschi dalla situazione reale da renderli poco critici nei confronti delle promesse di chiunque si sia offerto di 'pulire le stalle di Augia'. Gli elementi che giocarono a favore di Hitler, ad esempio, furono la conseguenza di questo ingenuo idealismo, più che di una calcolata perversità.Per ciò che riguarda la tradizione culturale conservatrice in Gran Bretagna, solo in pochi casi i suoi esponenti si sono rivelati all'altezza dei colleghi continentali. In genere, la ricerca di razionalizzazioni teologiche e di sistemi filosofici è stata qui sostituita da un atteggiamento scettico e pragmatico il cui grande merito è stato quello di voler porre ordine nella inevitabile confusione, tensione e in definitiva incoerenza della vita politica. Solo raramente, tuttavia, il pragmatismo britannico è degenerato in mero opportunismo privo di principî. Anzi, l'elemento comune a tutta la tradizione britannica è stato (fino a tempi relativamente recenti) l'impegno volto a mantenere una costituzione mista o bilanciata. Senza dubbio vi sono sempre stati pensatori conservatori inglesi, come Thomas Carlyle (cfr. On heroes, hero-worship and the heroic in history, 1841, e Latter-day pamphlets, 1850), che hanno respinto questo ideale come un assurdo residuo medievale, del tutto inadeguato alle esigenze della moderna società industriale di massa; ma l'orientamento prevalente, da Burke a Samuel Taylor Coleridge (cfr. On the constitution of the Church and State according to the idea of each, 1830), attraverso Benjamin Disraeli (cfr. Vindication of the English Constitution, 1835), e lord Salisbury (cfr. Disintegration, 1883, in Smith, 1972), fino a filosofi del XX secolo come Michael Oakeshott, è stato quello che considerava il mantenimento della costituzione mista il principale obiettivo della vita politica britannica. Tuttavia i pensatori conservatori già molto prima della prima guerra mondiale avevano riconosciuto quali difficoltà si incontrino nel perseguire questo ideale. Lord Salis~bury, ad esempio, sosteneva che l'avvento della democrazia di massa e la richiesta di riforme di tipo socialista determinavano tre pericoli quasi insuperabili. Il primo era il trionfo della dottrina della sovranità popolare, che si manifestava nella concentrazione dell'autorità suprema nella Camera dei Comuni, a spese della tradizionale eguaglianza di status che la Costituzione riconosceva a monarchia e aristocrazia. Il secondo pericolo derivava dal nuovo sistema di governo delle moderne democrazie, basato su partiti politici di massa.
Se ogni governo doveva assicurarsi il supporto delle masse attraverso i partiti politici, allora era molto probabile che gli affari della nazione in generale, e in particolare le questioni relative alla Costituzione, avrebbero dovuto essere sacrificati agli interessi dei partiti. Il terzo pericolo era di natura sia sociale che politica.
Salisbury, al pari di Alexis de Tocqueville (cfr. De la démocratie en Amérique, 1835-1840), sottolineava il fatto che la moderna democrazia si preoccupava più dell'eguaglianza che della libertà. Eguaglianza significa dissoluzione delle classi sociali, ma il risultato finale di tale dissoluzione sarà non la società senza classi sognata dai radicali, quanto piuttosto un ritorno al conflitto primario che ha distrutto le democrazie dell'antichità, il conflitto, cioè, tra abbienti e non abbienti. Il riformista radicale si presenta come il difensore del povero contro il ricco, ma egli "non dice ai suoi seguaci come faranno a vivere se l'industria langue, o come le industrie e le imprese possano prosperare se gli uomini sono presi dal timore che la messe di ricchezze seminata, mietuta e messa da parte da loro stessi o dai loro congiunti possa per avventura essergli strappata dai politici. [...]
Per coloro che hanno il dono dell'eloquenza in politica, è facile dipingere la spoliazione coi colori della filantropia" (cfr. Disintegration, 1883, in Smith, 1972, p. 352). Durante il XX secolo dubbi come quelli espressi da Salisbury dovevano ulteriormente acuirsi a causa di una serie di eventi che modificarono la natura della politica conservatrice in tutto il mondo occidentale.
4. La crisi del conservatorismo nel XX secoloDurante il XX secolo il corso del conservatorismo doveva venir alterato da due nuovi avvenimenti. In primo luogo, lo scoppio delle due guerre mondiali determinò un livello di accentramento e di 'collettivizzazione' nella politica degli Stati europei che sarebbe stato ritenuto impensabile prima d'allora. Il secondo avvenimento fu la nascita di un nuovo nemico per i conservatori. Prima della prima guerra mondiale il conservatorismo era stato definito principalmente in contrapposizione al liberalismo, mentre dopo di allora esso fu essenzialmente contrapposto al socialismo. Dovendo cercare il sostegno delle masse contro questo nuovo nemico, il conservatorismo gradualmente cedette alla tentazione di ottenere voti vestendosi, almeno in parte, dei panni del nemico. Questa strategia, naturalmente, produsse una spinta ancora maggiore verso il 'collettivismo’.
Durante gli anni trenta la tendenza conservatrice verso il 'collettivismo' fu favorita da chi, come Harold Macmillan, lo considerò come l'unico mezzo per evitare da un lato i problemi economici della società capitalista, e dall'altro il tipo di vita rigidamente ordinata necessario a una società completamente pianificata. In un saggio intitolato The middle way, del 1938, Macmillan tentò di dare una forma teorica coerente a questo compromesso conservatore. Purtroppo egli affrontò alla leggera, senza riuscire quindi a eliminarlo, il problema della conflittualità tra la politica limitata e il tipo di governo manageriale che questo tipo di 'collettivismo' avrebbe richiesto. Anche se l'ideale di una "via intermedia" fu condiviso solo da una piccola minoranza, tuttavia i conservatori ebbero grandi difficoltà a proporre un'alternativa credibile.
Numerose voci si levarono per lamentare i molti difetti della società di massa, e tra queste una delle più notevoli fu quella di T.S. Eliot, che individuava nel declino della religione e della cultura la causa che aveva determinato una "terra desolata" (cfr. The waste land, 1922); egli sosteneva inoltre (cfr.The idea of a Christian society, 1939) che l'ethos materialista delle democrazie occidentali le rendeva meno spirituali dei loro antagonisti totalitari, le cui ideologie almeno si ponevano dei fini ideali anche se - come Eliot ammetteva - distorti. In Germania Oswald Spengler (cfr. Der Untergang des Abendlandes, 1918-1922) manifestava sentimenti analoghi e profetizzava "il tramonto dell'Occidente" e l'avvento del cesarismo. In Spagna Ortega y Gasset ridusse ai suoi termini minimi la risposta elitaria alla democrazia moderna, annunciando che era vicino il tempo "in cui la società, dalla politica all'arte, si [sarebbe riorganizzata] in due ordini o livelli: gli illustri e i volgari" (cfr. La deshumanización del arte, 1925). In Francia Jacques Maritain (cfr. Humanisme intégral, 1936) elaborò l'idea di un "umanesimo integrale", individuando il problema della moderna società di massa in un falso "umanesimo antropocentrico" che ha estraniato l'uomo da Dio e che si manifesta in modo particolare nel totalitarismo. Anche se Maritain aveva mostrato una qualche propensione per il socialismo, la sua insistenza sulla necessità di autorità e guida e il suo desiderio di ripristinare i tradizionali valori cristiani della civiltà europea lo pongono tra gli intellettuali conservatori.
Comunque, fu proprio il compromesso della 'via intermedia' a dominare la politica conservatrice per circa tre decenni dopo la seconda guerra mondiale. Questo deciso spostamento in direzione 'collettivista' si spiega in base a tre motivi. Il primo fu l'apparente successo ottenuto in tempo di guerra dalle autorità nel porre fine alla massiccia disoccupazione degli anni trenta, un successo che incoraggiò una acritica fiducia nell'efficacia politica di una programmazione economica generale. Il secondo fu l'introduzione del Welfare State e il successivo impegno di tutti i governi del periodo postbellico ad adottare la politica economica detta di 'perfetta sintonia' (fine tuning) così da assicurare la piena occupazione.
Tale impegno trovava la sua legittimazione nella stretta osservanza di una teoria economica postbellica, ispirata dall'opera di John Maynard Keynes General theory of employment, interest and money (1936), imperniata sull'accettazione incondizionata del disavanzo pubblico come tecnica base della politica finanziaria del governo.
Il terzo motivo fu il fatto che la via intermedia risultò un metodo efficace per ottenere il successo elettorale. Questi tre motivi furono così efficaci nel fugare qualsiasi dubbio, che coloro, come Friedrich von Hayek (cfr. The servile State, 1944), che ritenevano la via intermedia solo un mezzo per istituzionalizzare la pressione inflattiva e tale da favorire l'incontrollato aumento del potere esecutivo furono del tutto ignorati o considerati degli eccentrici. Questa situazione si mantenne immutata fino agli anni sessanta, allorché divenne chiaro che il conservatorismo si era spostato tanto a sinistra che gli elettori trovavano sempre più difficile capire se esisteva ancora una precisa identità 'conservatrice'. Nel 1973 un autorevole politico laburista inglese, Anthony Wedgwood Benn, esaltava le scelte politiche del primo ministro conservatore Edward Heath, che rimase in carica dal 1970 al 1974, in quanto avevano creato "il più ampio apparato di controlli statali sull'industria privata mai escogitato, di gran lunga superiore a quello ritenuto necessario dall'ultimo governo laburista" ("The Sunday Times", 25 marzo 1973). Ma ciò che risultò ancor più dannoso fu l'opinione che il risultato principale del compromesso della via intermedia dei conservatori fosse la graduale creazione di uno Stato di tipo corporativo. Alcuni commentatori, giocando deliberatamente sulle connotazioni fasciste di quel concetto, arrivarono a suggerire che si trattava di un "fascismo dal volto umano" (cfr. R.E. Pahl e J.T. Winkler, The coming corporatism, in "New society", 10 ottobre 1974). Anche se un linguaggio vago ed emotivo di questo tipo può essere ignorato, è tuttavia chiaro che l'ideale della 'politica limitata', che rappresentava un punto focale nella tradizione occidentale del governo parlamentare, veniva rimpiazzato da un nuovo sistema di governo nel quale le vecchie istituzioni rimanevano sì in piedi ma con funzioni completamente diverse. In Inghilterra un ben noto pubblicista conservatore, Samuel Brittan, chiarì la natura di questo cambiamento in un articolo intitolato Dangers of the corporate State, pubblicato sul "Financial Times" del 19 ottobre 1972. L'articolo, che attaccava il sistema di governo che si veniva affermando, basato su incontri trilaterali informali tra governo, rappresentanti sindacali e rappresentanti del mondo industriale, si chiedeva: "È davvero compito dei sindacati contenere i salari, o dei datori di lavoro tener bassi i prezzi? Questo è il compito dei sindacati nel blocco sovietico".
5. La ricerca di una nuova identità conservatriceAll'inizio degli anni settanta i conservatori non potevano ormai nascondersi il fatto che il compromesso della via intermedia era risultato fallimentare, e proprio in questo decennio, in tutto il mondo occidentale, si cercò una nuova identità conservatrice. L'elemento che accomunava tutti coloro che si erano impegnati in questa ricerca era soprattutto la violenta critica del 'collettivismo' postbellico. A ispirare questa critica fu soprattutto un'affermata dottrina politica liberale, sostenuta a livello internazionale da intellettuali quali gli economisti della Scuola di Chicago diretta da Milton Friedman (cfr. Capitalism and freedom, 1962) e dalla Società Mont Pèlerin in Svizzera, di cui è stato presidente Friedrich von Hayek (che è stato anche il suo più autorevole rappresentante inglese). Una caratteristica interessante degli anni settanta è stata lo sviluppo di un forte legame tra i conservatori britannici e quelli americani, dopo che Anthony Lejeune nel 1970 aveva richiamato l'attenzione degli intellettuali inglesi (nella rivista "Solon") sull'analoga ricerca condotta dai loro colleghi negli Stati Uniti. La ricerca degli americani, condotta in riviste quali "The national review", "The new republic" e "The public interest", era stata originariamente stimolata dall'ideale proclamato dal presidente Johnson di una 'grande società', dai movimenti per i diritti civili e di liberazione delle donne e dai provvedimenti contro qualsiasi tipo di discriminazione sul posto di lavoro.
Tra gli appartenenti al movimento americano ricordiamo William F. Buckley jr. (direttore della rivista "The national review" e autore di libri quale Up from liberalism, del 1959), Russell Kirk (v., 1953), Ayn Rand (v., 1961), Clinton Rossiter (v., 1955), e Peter Viereck (v., 1949).
Da un'analisi della letteratura internazionale, i principali argomenti sostenuti dalla critica al 'collettivismo' possono essere raccolti in sei gruppi.
1. In primo luogo, era opinione comune che i governi democratici del periodo postbellico avessero alimentato l'illusione che praticamente tutti i mali discendessero da una causa politica e che pertanto potessero trovare una soluzione politica. Di conseguenza, lo Stato moderno risultava gravato in modo quasi intollerabile dalla responsabilità di soddisfare delle aspettative assolutamente non realistiche. A posteriori questa tesi non risulta del tutto convincente, perché i dati a disposizione possono essere interpretati come dimostrazione di una tendenza dei cittadini moderni sia verso un eccessivo stoicismo sia verso eccessive aspettative, di fronte ai progetti e alle richieste dei loro politici.
2. Veniva sostenuto anche, e questo è più credibile, che il successo ottenuto dal 'collettivismo' nel periodo postbellico era determinato dall'ingenuo convincimento che la crescita economica si sarebbe verificata d'ora in avanti in modo quasi automatico, e che pertanto sarebbe stata una caratteristica costante della vita moderna; si trattava soltanto di trovare una soluzione a problemi di distribuzione. Ci si dimenticava, però, fra le altre cose, la possibilità che la ricerca di giustizia sociale uccidesse inavvertitamente la gallina dalle uova d'oro.
3. Strettamente connessa con questa ingenua convinzione era, secondo la critica, un'altra convinzione, altrettanto ingenua, secondo cui la prosperità generale avrebbe automaticamente garantito la felicità generale. Non veniva neppure presa in considerazione la possibilità che la prosperità portasse invece noia, uso di droghe, aumento dei divorzi e delle nascite illegittime, pornografia, violenza.
4. I critici si spinsero ancora oltre sostenendo, sulla base di un gran numero di ricerche empiriche, che anche i programmi assistenziali elaborati con le migliori intenzioni spesso si rivelavano in pratica controproducenti. Si affermava, ad esempio, che invece di creare una società senza classi i governi stavano creando una nuova sottoclasse, la cui mentalità servile rischiava di ridurla in una condizione di perpetua dipendenza.
5. Tuttavia, quello che fornì alla critica la sua arma più appuntita fu l'affermazione che l'ideale della via intermedia, cioè di una posizione di equilibrio tra il capitalismo e il socialismo, era stato fin dall'inizio frutto di pura fantasia. In Gran Bretagna, per esempio, Hayek (v., 1960), sostenne che la programmazione non può terminare a un teorico punto intermedio, ma deve procedere costantemente così da assicurare l'attuazione dei piani che sono stati elaborati. La via intermedia, pertanto, non può essere considerata come una situazione di stabilità, bensì come un fiume impetuoso la cui corrente travolge chiunque vi si immetta (per riprendere l'analogia usata nell'articolo di fondo del "Times" del 10 luglio 1985, The middle way or muddle way). Mentre si può considerare con un certo scetticismo l'affermazione di Hayek che la programmazione conduce inesorabilmente al totalitarismo, non sembra esagerato sostenere che essa possa compromettere l'affidabilità politica rendendo le scelte del governo una questione riservata a esperti non soggetti a interferenze politiche di qualsiasi genere.
6. Infine la critica ha sottolineato il fatto che l'inflazione ha origini più morali e politiche che economiche. In un sistema elettorale democratico, si è sostenuto, si determina inevitabilmente una preferenza dei politici per misure finanziarie 'morbide' piuttosto che 'rigide': una volta ottenuto il controllo delle risorse monetarie, cioè, quasi sempre essi cedono alla tentazione di manipolare la politica economica per guadagnare il favore degli elettori con offerte 'disinteressate’. Questa è, per grandi linee, la critica che ha demolito l'ortodossia 'collettivista' postbellica. Tuttavia una critica è ben altra cosa che una concezione alternativa e praticabile relativa al modo di governare. Il più importante sviluppo che si è verificato all'interno del conservatorismo durante l'ultimo decennio è stato il tentativo della cosiddetta Nuova Destra di mettere a punto un'alternativa adeguata.
6. La Nuova DestraVa detto subito che la Nuova Destra non rappresenta assolutamente un movimento omogeneo che condivide un'unica dottrina. Al suo interno esistono tre diverse (e in ultima analisi incompatibili) scuole di pensiero che, ai fini della nostra analisi, possiamo definire scuola economica, radicale e politica. La tesi sostenuta dalla scuola economica è che una società libera richiede un libero mercato. La tesi della scuola radicale è che nelle attuali condizioni di decadenza della società non si può stabilire un ordine politico senza che vi sia stata prima una rigenerazione spirituale.
La scuola politica, infine, mette l'accento sui problemi costituzionali, anche se al suo interno i suoi esponenti si dividono in convinti sostenitori del pluralismo, da un lato, e fautori della necessità di creare innanzitutto un ordine sociale organico, dall'altro.
Non si tratta naturalmente di temi nuovi; la novità consiste semmai nel fatto che vengono per la prima volta associati al pensiero conservatore, e anche nel contesto nel quale essi tornano a essere attuali.
Sembra opportuno prendere adesso in considerazione in maniera più dettagliata la dottrina di ognuna di queste scuole, facendo riferimento in particolare alle conseguenze che esse hanno determinato su quel modo di far politica che abbiamo definito 'limitato' e che è stato tradizionalmente proprio del conservatorismo moderato.
Prenderemo in considerazione per prima la scuola economica, dato che essa rappresenta non solo la parte più nota della Nuova Destra, ma anche quella che ha maggiormente influenzato la politica dello scorso decennio. L'argomento centrale sostenuto da questa scuola è, come abbiamo detto, che una società libera richiede un libero mercato. Per dirla in altre parole, la 'politica limitata' è possibile solo in un sistema capitalista, ossia, per usare un'espressione ancora più concisa, la libertà non è divisibile.
Nel presente articolo ci limiteremo a esaminare il pensiero di Friedrich von Hayek, nei cui scritti questa tesi viene sostenuta nella maniera più sistematica. Non ci soffermeremo sul modo paradossale in cui l'originario asserto marxista del primato dell'ordine economico su quello politico è stato trasformato dalla Nuova Destra in un'arma per combattere il marxismo stesso; ciò che ha maggiore importanza è l'ambiguità diffusa, evidente negli scritti di Hayek, con cui la scuola economica porta avanti la sua difesa della 'politica limitata'. Questa ambiguità - che consiste nel fatto che non è mai chiaro se Hayek sostenga la 'politica limitata' perché intrinsecamente valida o perché serve a promuovere la prosperità e il progresso - risulta particolarmente evidente, per esempio, nel modo in cui egli cerca di giustificare l'importanza data al principio di legalità.
Sotto il profilo etico, il principio di legalità deve garantire la libertà e la dignità dell'uomo abolendo il potere arbitrario; ma Hayek purtroppo nasconde il fondamento etico di questo principio cercando invece di sostenerlo in base a due argomentazioni, nessuna delle quali è in grado di conferirgli un valore intrinseco.
Una di queste argomentazioni è di tipo naturalistico, e anzi in realtà non è tanto un'argomentazione quanto un richiamo costante ad analogie tra l'adattamento organico al proprio ambiente, riscontrabile in tutti gli animali, e il tipo di adattamento spontaneo che Hayek ritiene sia determinato negli uomini da un mercato regolato esclusivamente dal principio di legalità.
L'altra argomentazione è un richiamo estremamente sofisticato al valore epistemologico del libero mercato, inteso non tanto come puro sistema economico che favorisce l'efficienza degli scambi, quanto piuttosto come delicato sistema per memorizzare e trasmettere informazioni. Secondo Hayek, il merito di queste argomentazioni consiste in quella che egli ritiene essere la loro natura scientifica; tuttavia è proprio la loro pretesa natura 'scientifica' che toglie a queste argomentazioni qualsiasi connotazione etica.
In generale, quindi, il punto debole della scuola economica è che, anche se essa riuscisse a fornire un'analisi convincente del rapporto tra capitalismo e 'politica limitata', il tipo di conservatorismo da essa sostenuto non conferirebbe comunque alcuna base logica agli ideali etici a cui implicitamente o esplicitamente si richiama. Mentre la scuola economica della Nuova Destra ha avuto un certo seguito a livello internazionale, la scuola radicale è rimasta un fenomeno esclusivamente continentale. In Germania i suoi esponenti sono gli ultimi fautori della 'rivoluzione conservatrice' originariamente propugnata da Moeller van den Bruch nel libro Das Dritte Reich, del 1923.
In Italia essa è rappresentata dalla Nuova Destra. Il suo più noto rappresentante, tuttavia, è forse il pensatore francese Alain de Benoist, che ha divulgato le idee della scuola radicale attraverso due giornali, "Éléments" e "Nouvelle école". De Benoist, come quasi tutti gli esponenti della scuola radicale, parte dalla convinzione che il mondo occidentale moderno sia entrato in uno stato di profonda decadenza, di cui la cultura e la politica degli Stati Uniti forniscono l'esempio più chiaro. La scuola radicale, però, sarebbe disposta a tutto pur di porre termine a questa decadenza, poiché - per usare le parole di de Benoist - "qualunque dittatura è un male, ma qualunque decadenza è un male ancora peggiore".
Questa propensione all'estremismo viene tuttavia nascosta dietro una strategia che distingue immediatamente la Nuova Destra dalla destra reazionaria tradizionale, mentre allo stesso tempo la lega ai metodi rivoluzionari sostenuti da teorici di sinistra come Antonio Gramsci (cfr. Quaderni del carcere, 1929-1935). Secondo questa strategia bisogna rinunciare a qualsiasi aspirazione politica diretta per concentrarsi invece sulla rigenerazione culturale, senza la quale è naturalmente impossibile por fine alla decadenza.
Altre tre caratteristiche distinguono in modo rilevante la scuola radicale dalla vecchia destra. In primo luogo, la scuola radicale rifiuta l'eredità cristiana dell'Occidente, e cerca invece di far rivivere e di preservare l'eredità 'pagana'. Non sorprende il fatto che questo 'nuovo paganesimo', che si esprime nelle note aspirazioni romantiche all'atto eroico, implichi notevole simpatia per Nietzsche e, più in generale, per una concezione dell'uomo di tipo 'esistenziale', in base alla quale la natura umana non è definita o fissa, ma è soggetta a un continuo processo di creazione. In secondo luogo, la scuola radicale ricerca una identità europea che sia transnazionale, considerata l'unico modo di proteggere la civiltà occidentale dalla minaccia americana da una parte e russa dall'altra.
Tale identità transnazionale viene in genere teorizzata in termini di razza, in particolare facendo riferimento alle origini indoeuropee. In terzo luogo, la Nuova Destra radicale ha trovato un elemento di unità nel sostegno a quelli che sono considerati i popoli oppressi del Terzo Mondo, non tanto per bontà d'animo quanto per procurarsi un eventuale appoggio per rovesciare l'ordine capitalista internazionale che favorisce la decadenza. Anche in questo caso è sorprendente come i temi della Nuova Destra radicale e quelli della Nuova Sinistra finiscano paradossalmente per convergere.
La scuola politica cerca di svincolare il conservatorismo sia dalla 'politica economica' della prima scuola, sia dai programmi globali di rigenerazione spirituale della seconda. Lo scopo della scuola, i cui esponenti sono prevalentemente americani e inglesi, è stato delineato con chiarezza da uno dei principali accademici inglesi, Maurice Cowling (v., 1978): la scuola si propone di creare una forma di conservatorismo che sia allo stesso tempo 'meno liberale e più populista' della via intermedia, e 'meno liberale e più politico' del liberalismo economico perseguito dal governo Thatcher. All'interno dell'unità di intenti relativa al perseguimento di tale obiettivo, tuttavia, possono essere individuati due modi molto diversi di affrontare i principî fondamentali della filosofia conservatrice. Uno è la scettica versione libertaria del conservatorismo costituzionale di Michael Oakeshott; anche se la sua opera è precedente alla nascita della Nuova Destra, il rifiuto del 'collettivismo' le ha conferito ai nostri giorni una nuova importanza.
Per Oakeshott, la politica è essenzialmente una questione poco importante, che ha a che fare con il mantenimento di una struttura formale di norme all'interno delle quali il cittadino può perseguire l'obiettivo che meglio gli aggrada. Pertanto, come rileva Oakeshott, "non è assolutamente incoerente essere conservatore per ciò che riguarda il governo e radicale per ciò che riguarda quasi ogni altro tipo di attività" (v. Oakeshott, 1962, p. 195). Mentre l'idea generale all'origine di questo tipo di conservatorismo, secondo Oakeshott, si desume nella maniera migliore da pensatori come Montaigne, Pascal e Hume, la sua essenza politica è data da una concezione del ruolo del governo come artefice e custode del diritto non strumentale. Nell'adempiere questo compito il governo può intervenire attivamente nella vita della società, così da promuovere quella separazione dei poteri dalla quale dipende la politica limitata. Esso può anche promuovere attivamente delle misure assistenziali, purché siano a beneficio di coloro che sono realmente bisognosi. Ciò che non è consentito al governo è di abbandonare il proprio ruolo non finalizzato, per divenire un provvidenziale dispensatore di benefici alla società. Anzi, se al governo vengono assegnate delle funzioni manageriali, queste devono essere chiaramente distinte e tenute ben separate dalle attività che gli sono proprie in quanto governo. Anche se il governo nell'esercizio delle proprie funzioni può a buon diritto reclamare una funzione che è in qualche modo economica, tuttavia ~Oakeshott la caratterizza in termini negativi: in nessun caso deve compromettere la stabilità monetaria.
La seconda linea di pensiero presente all'interno della scuola politica ha il suo rappresentante più autorevole in Roger Scruton, direttore di "The Salisbury review". Secondo Scruton, lo scopo dell'attività politica va ben oltre quello stabilito da Oakeshott. In un saggio del 1980, The meaning of conservatism, egli auspicava la creazione di una società organica in grado di porre termine all'alienazione dell'uomo moderno. Oltre che da questa esigenza neo-hegeliana di 'totalità' e comunità, il pensiero di Scruton è connotato da un lato dall'adesione all'ideale nazionalista e dall'altro dall'affermazione della validità di un ordine civile pluralista basato su istituzioni autonome. Ciò che rendeva ancor più conflittuali gli elementi di questa sintesi proposta da Scruton, era il suo insistere sull'idea che la società civile si basa su una unità prepolitica in cui l'identità razziale ha un ruolo essenziale. Inoltre, si può individuare un'ambigua tendenza potenzialmente anticostituzionale nell'affermazione di Scruton che la costituzione, e in particolare il parlamento, sono solo uno strumento per raggiungere "gli scopi opportunistici di una limitata classe di professionisti - la classe dei politici" (v. Scruton, 1980, p. 24): da ciò si può dedurre che la "fondamentale unità sociale" della nazione può esser messa in luce nella maniera migliore da portavoce privi di posizione o responsabilità nel sistema politico vigente. Benché Scruton si sia sempre dichiarato assolutamente favorevole a certe condizioni necessarie per la 'politica limitata' quali il principio di legalità e l'autonomia delle istituzioni sociali, egli non è finora riuscito a conferire alla Nuova Destra inglese quella identità coerente che essa talvolta sostiene di possedere. Negli Stati Uniti influenti esponenti di queste linee di pensiero interne alla Nuova Destra sono Irving Kristol (v., 1972) e Robert Nisbet (v., 1986).
7. ConclusioniNell'ultimo decennio abbiamo assistito a una notevole rinascita del conservatorismo, che ha fatto seguito all'insuccesso del 'collettivismo' socialdemocratico dei decenni successivi alla fine della guerra. L'aspetto più positivo di questa rinascita consiste nell'aver determinato la fine di quella tendenza verso una programmazione sempre più accentuata che era sembrata quasi inevitabile e irreversibile durante gli anni settanta. Alla fine degli anni ottanta il successo del thatcherismo aveva obbligato persino gli ideologi socialisti ad adottare la retorica dell'economia di mercato. Ma una volta che si sia riconosciuto questo successo, cominciano a sorgere dei dubbi sulla reale natura e la portata dei risultati ottenuti dal conservatorismo.
È fuor di dubbio che il rifiuto dell'esagerata fiducia riposta nella programmazione come soluzione di tutti i mali, e della conseguente convinzione della maggiore razionalità dell'attività pianificata rispetto a quella non pianificata, non ha portato con sé quel nuovo spirito di individualismo a cui aspiravano i fautori del libero mercato. Anzi, le analisi non solo dimostrano che si continua a credere nel Welfare State, ma indicano altresì un crescente livello di indebitamento del consumatore che mal si concilia con i discorsi ottimistici sulla nascita di una classe media dalla mentalità indipendente, generata dalla proprietà privata e dall'attività imprenditoriale in un libero mercato.
Non meno preoccupanti sono le statistiche che cominciano a essere pubblicate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti sulla crescita di una nuova sottoclasse che sembra destinata a dipendere perpetuamente dall'assistenza pubblica. E adesso che la Nuova Destra sta per concludere il primo decennio della sua esistenza, si dubita addirittura che esista davvero quella crescita economica che avrebbe dovuto essere il risultato più consistente e tangibile del nuovo conservatorismo. In Gran Bretagna, almeno, si comincia a sospettare che la 'rivoluzione thatcheriana' non sia altro che una vuota formula che nasconde una riduzione disastrosa della capacità produttiva e che ha determinato un bilancio commerciale deficitario come mai in precedenza nonostante un avanzo di bilancio. Il dilemma che pesa adesso sull'ideologia del libero mercato della Nuova Destra è se, di fronte a questi risultati, la fiducia nel libero mercato sarà sostituita da un ritorno a un interventismo del tipo di quello della via intermedia, adottato a malincuore da un governo conservatore o entusiasticamente da uno socialista.
Più in generale, le ipotesi su quale corso potrà seguire il conservatorismo in futuro devono prendere in considerazione il fatto che l'influenza esercitata dalla Nuova Destra negli anni ottanta non è riuscita ad arrestare la principale tendenza politica presente nel mondo occidentale, e cioè quella verso una società manageriale in cui si considera tutto in termini esclusivamente strumentali. Questa tendenza è particolarmente pronunciata in Gran Bretagna, dove un decennio di thatcherismo ha visto la rapida dissoluzione dell'indipendenza (o, per esser più precisi, di ciò che ne rimaneva) di autorità locali, giuristi, sindacati, scuola, università.
È stata minacciata anche la libertà dei mezzi di comunicazione, col pretesto della difesa della sicurezza nazionale, e l'indipendenza della Chiesa d'Inghilterra, che si era eretta a tutore (secondo molti impropriamente) della coscienza sociale. Vi è stato, infine, un tipo di leadership che, unito all'assenza di una reale opposizione politica, ha reso praticamente inesistenti i vincoli imposti dalle consultazioni di gabinetto e dal governo parlamentare.
Sono proprio considerazioni di questo tipo - che mettono in evidenza l'acuirsi della tendenza manageriale in politica e la concomitante crescita del potere dell'esecutivo, anche se non si tratta più di un potere direttamente interventista - che spiegano l'aspetto più incoraggiante della politica inglese attuale (1989), che consiste nella generale convinzione, espressa oggi sia dalla destra che dalla sinistra, della necessità di riconsiderare alcune questioni costituzionali essenziali o forse addirittura di introdurre una costituzione scritta.
Se questo recente risveglio di interesse per i problemi costituzionali trova espressione adeguata nell'attuale gestione politica, allora forse potrà essere mantenuto il tradizionale legame tra conservatorismo moderato e difesa della politica limitata.
Ma se il conservatorismo non riuscirà a impedire il progresso incontrollato della tendenza manageriale - e questo, purtroppo, è quello che è successo finora - allora la nuova identità conservatrice potrebbe esprimersi in termini che hanno poco a che fare con la preservazione di una società libera. Questo pessimismo non è fuor di luogo, in particolare se serve a rievocare i timori di Alexis de Tocqueville riguardo al futuro delle moderne democrazie di massa.
Egli riteneva infatti che le democrazie di massa, amando l'eguaglianza, la sicurezza e la prosperità più della libertà, offrissero ben poca resistenza a ciò che oggi definiamo come governo manageriale; ed essendo indifferenti alle forme procedurali che rappresentano l'unico mezzo che l'uomo ha a disposizione per proteggersi dal potere arbitrario, realizzassero quando è ormai troppo tardi di non aver più niente che li difenda. Noi non dovremmo, rilevava Tocqueville, consolarci troppo col pensiero che una condizione servile al giorno d'oggi può essere comoda e offrire protezione, perché sono proprio queste condizioni che renderanno più facile ridurre l'uomo in schiavitù.
(V. anche Autoritarismo; Cultura politica; Tradizione).
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Da - Da -
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