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Autore Discussione: EUGENIO OCCORSIO -  (Letto 4085 volte)
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« inserito:: Dicembre 24, 2007, 11:07:38 am »

POLITICA

Prima puntata dell'inchiesta di Repubblica su dove è possibile tagliare la spesa pubblica

Monito del ministero del Tesoro: "Servono subito misure alternative alla detenzione"

Troppi tribunali, agenti usati male

Giustizia, ecco come evitare sprechi

di EUGENIO OCCORSIO


 ROMA - Gli uffici giudiziari sono troppi, disposti irrazionalmente, con una produttività del tutto insufficiente, e per di più dialogano con mezzi arcaici e troppo costosi. Le guardie carcerarie sono troppe in rapporto al numero dei detenuti. Le procedure di recupero dei soldi delle condanne non funzionano, e si spende più di quanto si recupera. Le intercettazioni, giuste o sbagliate che siano, costano troppo. Le procedure di esecuzione, i depositi giudiziari, il regime dei beni confiscati, tutto è gestito in modo antiquato e farraginoso, e si presta a sostanziali recuperi di efficienza. E' impietosa la fotografia della Giustizia italiana, anche dal punto di vista amministrativo.

Gli uffici di via XX settembre sono attenti a distinguere le loro competenze e circoscriverle all'ambito economico. E' implicita in ogni loro riflessione la consapevolezza che toccano punti sui quali la revisione dovrà essere politica. Però, per il loro compito, sono puntuali. Prendiamo le intercettazioni: "E' urgente procedere alla forfettizzazione dei compensi agli operatori di telecomunicazioni, semplificando la contabilizzazione e il controllo", scrive il rapporto, che arriva a dire che si potrebbe arrivare ad imporre "la gratuità delle prestazioni, come già avviene in realtà statali simili alle nostre".

Altro intervento urgente, quello sulle carceri. Gli agenti di custodia sono troppi rispetto alle esigenze, e in buona parte dispersi in adempimenti amministrativi. I detenuti in Italia, segnala lo studio, erano quanti in Francia prima dell'indulto, poi sono diventati nettamente meno (sono scesi da 60 a 45mila). Eppure gli agenti restano quasi 42mila, contro i 30mila della Francia, paese che ci dà lezioni anche per le misure alternative alla detenzione, che interessano ben 150mila condannati. Dal punto di vista sanitario, lo studio si chiede perché a trent'anni dalla legge Basaglia siano ancora aperti molti manicomi giudiziari (Aversa, Napoli, Pozzo di Gotto, Reggio Emilia e altri) e non si siano trasferite le competenze alle Asl.

C'è poi la madre di tutte le questioni, i processi. Intanto, vanno ridotti: va introdotta, suggerisce la commissione, la norma che prevede la cancellazione dai ruoli se l'udienza va deserta anche una sola volta.
Recuperare le somme delle condanne è talmente complicato (il 3% del totale inflitto) che in molti casi, come gli extracomunitari di cui non si conosce neanche l'indirizzo, è meglio lasciar perdere, almeno per piccole somme (2-300 euro, suggerisce la commissione).

E poi la lentezza dei processi è tale da aggiungere al danno sociale la beffa degli oneri connessi con l'equa riparazione prevista dalla legge Pinto del 2001, che dà diritto a chi è danneggiato da un processo che supera il "termine ragionevole" di rivalersi sullo Stato: ben 20.390 procedimenti aggiuntivi che sono costati 41,5 milioni di euro negli ultimi 5 anni, di cui 17,9 nel 2006. Il problema cresce esponenzialmente: visto che quasi tutti i 50mila ricorsi civili superano i cinque anni di pendenza, calcola il rapporto, ogni anno vi sono 100mila soggetti con diritto all'indennizzo (hanno diritto entrambe le parti): ipotizzando un risarcimento medio di 4000 euro e un rimborso spese di 1000, si può arrivare a 500 milioni di euro annui.

Ancora: il 72% dei tribunali è sottodimensionato, ma avere un tribunale, tutti edifici di proprietà comunale per i quali lo Stato paga nel 2007 in affitti e rimborsi 227,2 milioni di euro, è considerata "un'occasione di prestigio localistico". Se si aggiunge l'urgenza di rivedere la figura dei giudici di pace, che percepiscono la discreta somma di 72mila euro l'anno ma sono utilizzati in modo discontinuo e disorganizzato, si capisce la "necessità di rivedere la geografia degli uffici giudiziari" con l'accorpamento dei tribunali minori.

Il rapporto arriva a proporre "eventuali modalità alternative di erogazione del servizio di giustizia su base locale in assenza di una sede di tribunale". Sopravvivono poi nell'amministrazione giudiziaria mezzi di comunicazione antichi. Un'elementare riforma sarebbe l'uso generalizzato dell'e-mail: per rispondere all'esigenza di sicurezza, si può installare la posta elettronica certificata di recente introduzione.
(1-continua)

(24 dicembre 2007)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Luglio 22, 2013, 06:21:15 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:18:13 pm »

I licenziati hanno superato il milione

L'Italia è il paese della disoccupazione

Siamo entrati in possesso dei dati che illustrano, per la prima volta, i danni provocati dalla crisi del lavoro.

Nella fotografia nazionale spiccano in testa Sicilia, Puglia e Campania. 

Dal 2008 al primo trimestre di quest'anno in Italia si è passati da 23 milioni 405 mila occupati a 22 milioni 374 mila.

Un dramma che si aggiunge a quello dei giovani che non trovano impiego: un totale di tre milioni

di EUGENIO OCCORSIO

ROMA - Il numero dei nuovi disoccupati creati dalla crisi ha superato il milione: per la precisione sono 1.031.151 le persone che hanno perso il lavoro fra il 2008 e il primo trimestre 2013. Si aggiungono ai due milioni di disoccupati "preesistenti" e quindi portano il totale a tre milioni di persone in cerca di lavoro nel nostro Paese. Sono gli ultimi dati dell'Istat, le estrapolazioni non ancora elaborate né pubblicate che Repubblica ha potuto vedere, a confermare questo dramma. In totale, se ancora nel 2008 lavoravano 23 milioni e 405mila italiani, questo numero si è ridotto nei primi mesi di quest'anno a 22 milioni 374mila. E, come si vede dai grafici che pubblichiamo, non c'è settore che si sia salvato, né l'industria manifatturiera, né il commercio, né tantomeno l'edilizia.

Ecco l'aspetto più drammatico della recessione che continua incessante a penalizzare il nostro paese ormai da oltre cinque anni, quello su cui sta concentrando i suoi sforzi il governo Letta. Che non perde occasione per insistere presso i suoi colleghi europei sull'assoluta urgenza degli interventi. Se ne è parlato nel vertice nel consiglio dei ministri del Lavoro europei a Roma la settimana scorsa, si cercherà di varare misure concrete a livello europeo nel vertice dei capi di governo a Bruxelles il 26 e 27 giugno. E sul piano nazionale è in pieno svolgimento il confronto fra il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, e i sindacati sul "pacchetto" di misure più urgenti, dagli sgravi sulle assunzioni alla caduta dei vincoli sull'apprendistato.

L'Italia è il paese più colpito dalla disoccupazione è arrivata al 12,8% nella media nazionale, ma se si va a vedere la fascia giovane, cioè dai 18 ai 24 anni, è già al di sopra del 40%. E al Sud la disoccupazione giovanile supera ormai il 50%. Un ragazzo su due nel Mezzogiorno non trova lavoro. I crolli, a leggere le cifre, sono devastanti: nella sola Campania gli occupati sono scesi da 1 milione e 680mila a un milione e 578mila: un crollo secco di oltre 100mila unità, pari quasi all'8%. In Puglia, la terra dell'Ilva (dove sono a rischio 20mila posti), la caduta è già stata, in poco più di quattro anni, di 108mila occupati: da 1 milione 286mila a un milione 178mila, ovvero quasi il 9%. Ma ovunque, anche al Nord, gli effetti della recessione sono drammatici: in Veneto sono andati persi 75mila posti, in Toscana 70mila, in Lombardia 60mila, in Piemonte ben 88mila.

Scendendo ancora più in dettaglio, i particolari sono agghiaccianti: nel settore delle costruzioni, tanto per fare un esempio, in Campania gli occupati sono scesi da 158mila a 97mila fra il 208 e il 2013. Nello stesso periodo in Sardegna, guardando stavolta al settore industriale in senso lato, cioè compreso sia il manifatturiero che l'edilizio, i lavoratori sono crollati da 131mila a 99mila. Quale miracolo dovrà mai avvenire per permettere di recuperare oltre 60mila dipendenti nell'edilizia in Campania o 32mila nell'industria in Sardegna? La Cgil è stata accusata di eccessivo pessimismo quando ha detto che serviranno 63 anni per raggiungere di nuovi i livelli pre-crisi, ma queste cifre le danno ampiamente ragione.

Le cronache restituiscono giornalmente dati da bollettino di guerra. Perfino nella sede del Pdl, il partito che doveva creare "un milione di posti di lavoro" e invece ha contribuito a bruciarne in egual misura, 200 dipendenti protestano perché saranno licenziati con la fine del finanziamento pubblico dei partiti. Le cifre in gioco sono ben peggiori, da un angolo all'altro della penisola. Alla fine della settimana scorsa al presidio organizzato a Milano da Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil, le tre confederazioni degli edili, si è appreso che la crisi del settore in Lombardia è ancora più profonda di quanto dicano le cifre. "Oltre ai 50mila lavori persi l'indotto ha visto ridursi i dipendenti di circa 90.000 unità - puntualizza Battista Villa, segretario generale Filca Lombardia - senza disporre degli ammortizzatori sociali". A Taranto i dipendenti dell'Ilva continuano a lavorare con la spada di Damocle del fallimento del gruppo, che ora è affidato a un commissario con i proprietari sotto processo. E se l'Ilva chiude torna in discussione l'intero piano siderurgico nazionale e i lavoratori coinvolti diventano 40mila, senza contare la minaccia di un profondo ridimensionamento anche della Fiat di Melfi, che a Taranto compra l'acciaio. La stessa Fiat tra l'altro ancora deve gestire la reindustrializzazione di Termini Imerese, in Sicilia, dove 1300 operai hanno perso il posto e sono tuttora in cassa integrazione.

E che dire della Sardegna? L'Alcoa miracolosamente non ha chiuso, ma ora c'è il nuovo limite a novembre che torna a inquietare 900 dipendenti, e poco lontano c'è la Carbosulcis, dove come riferisce il segretario provinciale della Uiltec dell'Iglesiente, Mario Crò, "la Regione, in attesa di conoscere le decisioni Ue sulle misure a sostegno per garantire gli stipendi è costretta a ricorrere ai fondi per la messa in sicurezza della miniera". Le crisi si accavallano: nel Lazio, vicino Rieti, la multinazionale francese dell'elettronica Schneider minaccia di chiudere la fabbrica lasciando a terra 181 dipendenti, e ad Anagni (Frosinone) l'indiana Videocon ha già abbandonato lo stabilimento licenziando tutti i 780 lavoratori e lasciando agli enti locali e al consorzio industriale della provincia l'immane compito di trovare una soluzione.

E poi mille crisi locali, fronteggiate con coraggio e disperazione: quelli che  hanno portato le operaie della Mabro di Grosseto, fabbrica di abiti in agonia, a lavorare per mesi senza stipendio dormendo in mensa per paura di essere estromesse dalla proprietà, oppure gli operai specializzati di Casalbertone, periferia romana, a riconvertire a loro spese l'impianto un tempo prestigioso chiuso dalla Wagon Lits. Per non parlare della cintura torinese, dove un intero "pianeta" industriale, quello dell'indotto Fiat, è stato travolto dalla crisi dell'auto e dell'azienda-faro. Nomi gloriosi come la De Tomaso di Grugliasco, ex Pininfarina rischiano di essere cancellati dalla mappa dell'economia italiana.

È uno stillicidio senza fine: il tasso di disoccupazione in aprile, ultime stime ufficiali, ha raggiunto il 12,8%, il dato peggiore da quando vengono rese note le serie storiche, cioè dal 1977. Nel Sud si supera ormai il 20% di disoccupazione. Nell'ultimo anno si sono persi 475mila posti, portando il totale dall'inizio della crisi come si è visto ad oltre un milione, e il numero dei senza lavoro a ben più di 3 milioni. Fra i giovani (18-24 anni) il dato nazionale medio è sconcertante: 41,9% di disoccupati, il peggiore d'Europa alla pari con Spagna e Grecia.

La peggior situazione in assoluto è per le donne del Mezzogiorno: 56,1%, molto più della metà. E come sempre questi dati non tengono conto della massa di precari senza alcuna garanzia né certezza, di chi ha rinunciato a cercare un posto, degli "inattivi" che vanno avanti con piccoli lavoretti in nero, di chi stenta a sopravvivere con una miserrima pensione sociale, insomma di chi esce dalle statistiche per un motivo o per l'altro. In totale, calcola l'Ires della Cgil, l'"area della sofferenza" riguarda in Italia non meno di 9 milioni di persone. "Solo negli ultimi 12 mesi - ricorda Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Trentin della stessa Cgil - c'è stato un incremento del 10,3% in questa stima, pari a 818mila unità, e rispetto al quarto trimestre 2007 l'aumento è del 46,4% pari a 2,8 milioni". Le realtà locali sono allarmanti: "Nell'isola il fenomeno della povertà investe 400mila persone", dice per esempio Mario Medde, leader della Cisl sarda.

Altrettanto drammatiche le cifre sulla cassa integrazione. "Tra gennaio e aprile 2013 hanno chiesto aiuto alla sola cassa integrazione straordinaria oltre duemila aziende", spiega Giampiero Castano, un passato da sindacalista della Fiom, oggi capo dell'unità di crisi al ministero dello Sviluppo economico. I cassintegrati non figurano ancora ufficialmente come disoccupati, in qualsiasi delle tre categorie ricadano: la cassa ordinaria, quella attribuita nel caso di conclamate crisi di settore, quella straordinaria che riguarda i casi di ristrutturazione aziendale, e quella in deroga.
È quest'ultima la categoria più a rischio perché, a differenza delle prime due, non è finanziata da un fondo rotatorio basato sui contributi delle stesse aziende e gestito dall'Inps (che risulta ancora oggi miracolosamente in attivo) ma deve essere continuamente rifinanziata dallo Stato: creata nel 2009 appunto per reagire alla crisi economica che stava piombando sul sistema Italia, la cassa in deroga è servita per sovvenzionare tutti i settori finora esclusi: le aziende con meno di 15 dipendenti, gli artigiani, i commercianti, i dipendenti del settore turistico e così via. Prima la finanziavano le regioni, da quest'anno direttamente lo Stato, e l'Inps funge anche in questo caso da ente erogatore: non senza polemiche perché proprio la settimana scorsa l'ente presieduto da Antonio Mastrapasqua si è lamentato che non può continuare ad anticipare allo Stato, come sta succedendo, importi sempre più cospicui.

Nel complesso, considerando le tre categorie e calcolando non tutti i cassintegrati sono a zero ore, cioè non lavorano per niente, ma più spesso lavorano meno ore e si alternano in modo da non restare più di tre mesi lontani dal posto di lavoro, la cassa integrazione interessa oggi circa 500mila lavoratori. Se si aggiungessero ai tre milioni di disoccupati le cifre sarebbero ancor più da brivido. Ci provò proprio nel 2009 la Banca d'Italia, osservando appunto che i cassintegrati sono da equiparare ai disoccupati e rifacendo i conti: uscì fuori che il tasso "vero" non era il 7,5% di allora ma si arrivava al 10%. Apriti cielo: gli allora ministri Giulio Tremonti (Tesoro) e Maurizio Sacconi (Lavoro) insorsero, accusando la Banca d'Italia di diffondere cifre inappropriate, e da allora di questi calcoli ufficialmente non se ne sono fatti più. Ma la sostanza resta.

Insomma la crisi del lavoro assume sempre più, ogni giorno che passa, i toni di un'emergenza nazionale. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, la ricorda con allarmante sistematicità. Il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, l'ha posta in testa alle priorità nelle Considerazioni Finali lette il 31 maggio all'assemblea. Il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, all'assemblea degli industriali di una settimana prima aveva parlato di "situazione tragica". Il premier Enrico Letta assicura che proporrà ai partner europei un grande piano comune per l'occupazione al vertice annuale di fine giugno, ora che grazie alla chiusura della procedura per deficit eccessivo l'Italia può tornare a far sentire la sua voce. Nel frattempo, conferma il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, il governo è impegnato a utilizzare con il massimo risultato possibile i fondi europei che la chiusura stessa della procedura ha reso disponibili, e raccomanda di "usare i margini che si sono aperti, gli stessi che quest'anno vengono assorbiti dalla restituzione dei debiti alle imprese, per programmi di occupazione giovanile".

Ma quale diabolica coincidenza di fattori si è intrecciata per penalizzare così tanto il lavoro nel nostro Paese? Le cause vengono da lontano, ammonisce Gary Pisano, il docente di management ad Harvard che è considerato uno dei più prestigiosi studiosi del settore e ha fatto da consulente a Barack Obama per risolvere la disoccupazione in America. "Negli ultimi vent'anni in tutto il mondo - spiega Pisano - si è sottovalutata l'importanza della manifattura come fonte stabile e sicura di lavoro. Si è scelta la finanza o i servizi, dimenticando che solo dalle gloriose fabbriche, per quanto tecnologicamente evolute, viene l'apporto-lavoro più significativo di lungo periodo". Che una bella fetta delle colpe sia da attribuire alla finanza, "e alla sua illusione di poter diventare ricchi in fretta", lo pensa anche Fabrizio Pezzani, economista della Bocconi: "Anche fiscalmente, si è sempre più penalizzato il lavoro, sia dal punto di vista dell'impresa che da quello del dipendente, rispetto alle imposte su rendite e grandi patrimoni. Nel 1929 le imposte sul reddito erano il 22% e quelle sulla successione il 20%, oggi sono il 10% sul reddito e praticamente zero sulla successione".

Proprio su una riformulazione del sistema fiscale si basano le speranze del governo italiano di ricavare i fondi per l'occupazione innanzitutto giovanile: finanziando per esempio periodi di apprendistato, riducendo il carico contributivo e fiscale per chi assume dipendenti minori di 25 anni, fornendo contributi speciali a tasso agevolato alle aziende che s'impegnano ad occupare giovani (o anche ad assumere tout court). Tutte misure urgentissime ma altrettanto insidiose: il pericolo, ha ammonito la settimana scorsa il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, è che gli esborsi pubblici necessari finiscano col far ripiombare l'Italia nella situazione di "deficit eccessivo", la procedura di cui si parlava prima, con la riapertura dell'istruttoria che è stata chiusa con grandissima fatica e forte entusiasmo pochissime settimane fa. E allora per l'Italia si riaprirebbe ancora una volta il baratro. Su questo sottilissimo crinale il governo e i sindacati sono costretti a camminare.

17 giugno 2013

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da - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2013/06/17/news/pi_di_un_milione_di_licenziati_apertura-61240460/
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 30, 2015, 06:38:07 pm »

Dallo spread alla crescita, cosa rischia il nostro Paese

Di EUGENIO OCCORSIO
29 giugno 2015

I mercati riaprono con lo spettro della Grexit e il pericolo di uno shock. A preoccupare non è l'effetto-contagio diretto, per limitare il quale esistono solidi strumenti in mano a Draghi, ma la rottura del fragile equilibrio fra riforme fatte e prospettate, fiducia che si sta riaffacciando e condizioni oggettive favorevoli (bassi tassi, cambi), che stanno riportando il Paese sulla via della crescita. Come nel caso Lehman per l'America, lo shock greco rischia di avere conseguenze a catena.

1) I TITOLI DI STATO.
Allarme speculazione, interessi più elevati.
Nessuno si aspetta di rivedere lo spread a quota 500, ma con ogni probabilità l'ulteriore aggravamento della crisi non passerà indolore sul mercato dei titoli di Stato italiani. «Una volta messa in dubbio l'irreversibilità dell'euro, e direi che a questo punto ci siamo, il contagio è probabile, anche se, come ha promesso, Draghi accentuerà gli acquisti dei titoli nei Paesi "periferici"», spiega Angelo Baglioni, economista della Cattolica. Venerdì lo spread era a 140, cosa dobbiamo aspettarci? «Tutto è possibile. Ovviamente se la conclusione sarà la Grexit, le conseguenze saranno più pesanti. Un aumento di 100 punti base, in un Paese che ha 2000 miliardi di debito, vale 20 miliardi. Visto che ogni anno vengono rinnovati 3-400 miliardi di debito, fanno 3-4 miliardi in più di interessi. Poi però la crescita è esponenziale perché i titoli si accumulano e l'onere già dal secondo anno è di 5-6 miliardi. In cinque-sei anni si arriva appunto a 20, ovviamente sempre che non si sia riusciti ad abbattere nuovamente gli interessi». Sul debito pubblico pesa anche l'incognita della restituzione dei crediti alla Grecia: 48 miliardi fra diretti (10 miliardi prestati da Roma ad Atene all'inizio della crisi) e quelli indiretti, veicolati tramite il Fondo salvastati, tutti in scadenza fra il 2022 e il 2029. Ma si superano i 60 miliardi considerando le partite di giro che ruotano intorno alla Bce per il meccanismo del "target 2". L'unica certezza è che non rientreranno tutti.

2) I MERCATI AZIONARI
A Piazza Affari temono l'alt alla luna di miele
C'è il rischio che s'infranga, con il ritorno dell'Italia fra i Paesi front line nella crisi greca, quella che Francesco Daveri, docente alla Bocconi School of Management, chiama «la luna di miele» degli investitori internazionali nei confronti della Borsa di Milano. E' quella che è cresciuto di più dall'inizio dell'anno: l'indice Ftse-Mib è infatti in salita del 25% (più del 18,4% che è la media dell'Euro Stoxx) contro il 20,1 di Francoforte, il 17,4 di Parigi, il 14% di Madrid. Per i dodici mesi che finiscono domani, peraltro, il guadagno di Piazza Affari è più contenuto (11,6%), anche se ci sono stati balzi notevoli, primo di tutti il titolo Fca (+83,2%). Quello che ha circondato fino a venerdì la Borsa, abbastanza sorprendente visto che le contrattazioni avvengono da mesi col fiato della trattativa greca sul collo, è un clima di fiducia e tranquillità: «I mercati vedono con favore la volontà riformatrice del governo Renzi», spiega Daveri. «Delle riforme che ha messo in campo ha realizzato solo il Jobs Act, però il pacchetto delle "promesse", dalla pubblica amministrazione alla giustizia, risponde a quello che chiedono gli investitori internazionali». Ora tutto questo torna a rischio e si farà più stretto il sentiero per la politica e la finanza. L'occhio attento e la volontà di arricchirsi degli speculatori, guarderanno con maggior attenzione all'Italia e non perdoneranno il benché minimo passo falso.

3) LA CRESCITA
La ripresa, già fragile, di nuovo in pericolo
Il precipitare della crisi greca coglie l'Italia all'alba di una soffertissima ripresa: +0,7% il Pil nel 2015 secondo il Documento economico-finanziario del 10 aprile scorso, poi +1,4 nel 2016 e ancora di più nel 2017. Che ne sarà di queste previsioni? «E' una ripresa così fragile che rischia seriamente di venir compromessa», puntualizza Brunello Rosa, capo economista del Roubini Global Economy con base a Londra. «Manca ancora il fattore fiducia dei consumatori. Senza una sostenuta domanda interna non c'è ripresa solida. E ora con questa situazione, l'incertezza che torna a dominare e la speculazione probabilmente all'attacco, chi avvierà importanti programmi di consumi e investimenti?» L'impatto negativo più immediato sulla crescita sarà probabilmente l'aumento dell'intera struttura dei tassi come conseguenza dell'aumento di quelli dei Btp. E quindi l'ennesima difficoltà per le imprese a finanziarsi, proprio mentre si stava uscendo dagli anni della stretta creditizia grazie al quantitative easing e alle misure collaterali della Bce. La stessa Bce dispone, oltre al Qe, degli Omt, gli acquisti illimitati di titoli pubblici annunciati da Draghi nel luglio 2012. Ma per accedervi un Paese deve fare richiesta al Fondo Salvastati e sottoscrivere un memorandum di impegni che può essere pesante e comportare una anche massiccia cessione di sovranità. E a Palazzo Chigi non vogliono neanche sentirne parlare.

4) LE BANCHE
Niente contagio diretto. Affari misti al minimo
Sulle banche italiane non ci sarà un contagio diretto, nel senso che ormai più nessuna fa affari con la Grecia (a differenza di quelle tedesche e francesi) e le posizioni sono state praticamente tutte chiuse. Le uniche misure amministrative che la Banca d'Italia potrebbe prendere in caso di Grexit sarebbero i controlli sui capitali o il bank holiday forzato come quello in corso in Grecia, «ma non siamo assolutamente a quel livello», dice Brunello Rosa dell'Rge. «Però è importante tener presente che per le banche l'uscita della Grecia dall'euro non sarebbe una passeggiata, come in tanti fanno intendere, ma un Vietnam». Dal punto di vista strettamente finanziario preoccupa innanzitutto l'effetto dell'attuale tensione sullo spread, con la conseguente caduta dei valori dei buoni in bilancio. «Ancora non si è sciolto il vincolo perverso fra salute delle banche, tuttora sovraccariche di Bot e Btp, e titoli di Stato», osserva Paolo Guerrieri, economista della Sapienza nonché senatore Pd. «E' questo uno degli scopi dell'Unione bancaria, la cui implementazione però procede a rilento. Il meccanismo di vigilanza, che entrerà in vigore solo nel gennaio prossimo, e soprattutto quelli di risoluzione della crisi con un fondo comune che andrà a regime fra dieci anni, sono stati per ora solo varati, e neanche in tutti i Paesi. In Grecia, per quello che può servire, non sono stati neanche approvati».

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29 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/06/29/news/l_italia-117903239/?ref=HREA-1
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