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Autore Discussione: Il titolo del nuovo libro di Mario Calabresi, "Quello che non ti dicono".  (Letto 1077 volte)
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« inserito:: Ottobre 24, 2020, 07:54:36 pm »

Hanno tutti ragione | Quello che non ti dicono

Stefano Cappellini - La Repubblica 11:02 (22 minuti fa)

Hanno tutti ragione - La distanza tra le parole e la politica

23 ottobre 2020

Care abbonate, cari abbonati, ecco il diciassettesimo numero di Hanno tutti ragione.

Quello che non ti dicono
Quando ho saputo il titolo del nuovo libro di Mario Calabresi, Quello che non ti dicono, lì per lì ho pensato potesse essere un lavoro sull’informazione, sulle fake news, cronache sul rapporto sempre più diffidente tra politica, giornalismo e opinione pubblica. È stato un pensiero istintivo, perché quell’espressione e molte altre affini (quello che sai è falso, quello che nessun giornale ti farà mai sapere, e via così) sono da anni utilizzate dalla sedicente controinformazione per spacciare “verità alternative”, cioè quasi sempre bufale complottistiche, deliri dietrologici, in una spirale paranoide che ormai è in grado di sfidare e talvolta prevalere sull’evidenza dei fatti. Invece il titolo non ha nulla a che fare con tutto ciò. O meglio, non nel senso in cui pensavo. Ma ci arriverò.

Quello che non ti dicono è, nel libro, la frase che esprime il rammarico per la rimozione privata di una tragedia: a pronunciarla è una figlia che non ha potuto conoscere il padre né avere di questa mancanza una spiegazione più soddisfacente di silenzi e mezze parole. Una vicenda familiare avvolta da un lutto soffocato e omertoso cui i sopravvissuti si sono adeguati per paura, imbarazzo, inerzia. Una vicenda che però, al tempo stesso, è tutt’altro che privata: nasce e ruota intorno a un fatto pubblico, un dimenticato episodio di cronaca nera politica degli anni Settanta: il sequestro e l’uccisione del ventiseienne Carlo Saronio.

In pochi oggi ricordano o conoscono la vicenda. Essendo nato nel 1974, un anno prima dei fatti che portarono alla morte di Saronio, scoprii per la prima volta la sua storia in un libro di Giampaolo Pansa, L’utopia armata, che lessi da ragazzino nell’edizione Oscar Mondadori (Sperling lo ha rieditato qualche anno fa). Mi colpì subito moltissimo il fatto, che era quasi incredibile. Saronio era figlio di un importante industriale della chimica, ai primi posti nella classifica dei contribuenti milanesi. Lui stesso si era laureato in Ingegneria chimica ed era un brillante ricercatore. Ma il ragazzo, intelligente e inquieto, dopo aver frequentato il mondo dei cattolici del dissenso, era diventato un militante di Potere operaio, uno dei principali gruppi comunisti extraparlamentari nati sull’onda del Sessantotto. Tra i suoi contatti più stretti in quel mondo c’era tale Carlo Fioroni, detto il professorino, un po’ per via della professione reale e molto di più per la saccenza dei modi. Fioroni non era un militante qualunque. A lui era intestata l’assicurazione del furgoncino con il quale nel 1972 l’editore e rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli si era recato sotto un traliccio dell’alta tensione a Segrate, rimanendo dilaniato dallo scoppio prematuro dell’ordigno che avrebbe dovuto provocare un black out. Il miliardario Feltrinelli, nome di battaglia Osvaldo, era un terrorista dei Gap, Gruppi di azione partigiana, ed era in contatto stretto con altre formazioni dell’ultrasinistra. Soprattutto Potere operaio che a Feltrinelli, strappato dalla morte il velo sulla sua militanza clandestina, dedicherà la copertina del giornale omonimo: “Un rivoluzionario è caduto”. Dopo lo scioglimento di Potere operaio Saronio e Fioroni avevano continuato a militare in quella che si chiamava all’epoca area dell’Autonomia, una galassia di collettivi, sigle e giornali che nel loro caso faceva capo soprattutto al magistero di Toni Negri, professore all’università di Padova, già dirigente e ideologo di Pot. Op. Fu proprio l'amico e compagno Fioroni a ideare il sequestro di Saronio per finanziare l’attività clandestina del suo gruppetto. All’epoca il sequestro di persona era uno dei principali canali di finanziamento delle bande criminali. I sequestri, in tutto il Paese, si contavano a centinaia l’anno. Perché non usare il metodo anche per la causa rivoluzionaria? Per realizzare l’opera, Fioroni si servì della manovalanza di un gruppo di criminali comuni che all’epoca flirtavano con la sovversione. Saronio fu dunque sequestrato da un gruppo misto di banditi e terroristi, questi ultimi suoi compagni di militanza fino a un attimo prima del ratto. Saronio morì, secondo una delle molte versioni poi fornite dagli assassini, la più attendibile e comunque quella poi accreditata in sede di verità giudiziaria, la sera stessa del sequestro, perché nel tentativo di sedarlo fu usato uno straccio imbevuto di una sostanza tossica, il toluolo, che gli provocò una grave reazione.

Nonostante la morte dell’ostaggio, i rapitori si fecero avanti per il riscatto. La prima richiesta alla famiglia fu di 5 miliardi di lire. Quella finale, pagata con una valigia di contanti lasciata sul bordo di una strada di provincia, 470 milioni. Saronio, nel frattempo, era già sotto terra. In un campo del milanese adiacente a un canale dove verrà ritrovato, quel che ne rimaneva, quattro anni dopo il sequestro, nel 1979, quando il capo dei criminali complici di Fioroni, Carlo Casirati, porterà gli inquirenti sul luogo del sotterramento simulando uno dei tanti dubbi pentimenti di cui è costellata l’indagine sull'omicidio.

Il caso Saronio è un pugno nello stomaco. Una storia che eccelle in spregevolezza persino in un contesto come quello dei Settanta, ricco di atrocità. E a renderla ancora più tragica ha contribuito per anni una ricostruzione alternativa, molto accreditata all’epoca negli ambienti dell’ultrasinistra, che lo stesso Pansa cita senza peraltro sposarla, e cioè che Saronio potesse essere d’accordo con i suoi rapitori, che si fosse prestato al sequestro per estorcere alla famiglia denaro di cui, altrimenti, non avrebbe avuto disponibilità. Solo un incidente imprevisto, insomma, la garza col toluolo, avrebbe impedito la realizzazione di un piano di cui il ragazzo era pienamente complice.

La ricostruzione di Calabresi smentisce nettamente questa ipotesi. Anzi, la capovolge di netto. Le testimonianze da lui raccolte suggeriscono che Saronio sia stato rapito anche perché intenzionato ad allontanarsi dal gruppo, di cui era già generoso finanziatore (nella trama spicca il racconto del furto della sua Porsche, lui giovane extraparlamentare ma amante delle auto sportive, furto che secondo un amico di Saronio rintracciato da Calabresi fu tutt’altro che casuale e imprevisto). Ma la scintilla che accende il racconto di Quello che non ti dicono è un’altra. Pur avendo letto molti libri che toccavano la storia ignoravo, credo in larga compagnia, un particolare sconvolgente. La fidanzata di Saronio, Silvia, era incinta di un mese quando lui fu rapito e ucciso. Silvia partorì una bambina il giorno della vigilia di Natale del 1975. La chiamò Marta e dopo qualche anno riuscì anche a darle il cognome del padre, il quale era morto senza neanche sapere che stava per diventarlo. Il motore narrativo è proprio un incontro di Calabresi con Marta e con suo zio Piero, prete missionario e cugino di Saronio (figlio della sorella della madre). Sono loro i mandanti dichiarati dell'indagine di Calabresi, decisi a spazzare via la coltre di omertà familiare e oblio collettivo sulla tragedia. Entriamo tutti così in un’altra città sommersa, dopo quella del bellissimo libro di Marta Barone di cui abbiamo parlato qualche tempo fa su Hanno tutti ragione. Un'altra indagine sui padri.

I corpi del passato si muovono tra la residenza borghese della famiglia Saronio in corso Venezia a Milano e i palazzoni di Quarto Oggiaro, dove il giovanissimo Carlo va a fare azione sociale. Riemergono preti rivoluzionari, animati dallo spirito della teologia della liberazione cara ai vescovi sudamericani, agit prop, sbandati, missionari delle periferie, aspiranti tupamaros, i guerriglieri uruguayani che molti volevano imitare tra le brume del milanese, modello dichiarato anche dei primi brigatisti rossi. E non sempre, anzi quasi mai, c’è una cesura netta tra un mondo e l’altro, tra una figura e l’altra. È questo l’impasto di umanità varia nel quale Saronio si getta per convinzione ma anche, forse, nel tentativo di espiare la sua colpa atavica, la ricchezza di famiglia. Accumulata anche grazie al collateralismo del padre con il regime fascista che si servì delle produzioni dei Saronio per la sciagurata impresa etiope nella quale l’esercito italiano usò sul campo armi chimiche. L’espiazione è probabilmente il sentimento che cementava le due anime di Saronio, quella evangelica e quella extraparlamentare, ed era potente in lui fin dall’adolescenza, come testimonia la lettera di una sua professoressa, una delle tante missive private cui Calabresi ha avuto accesso grazie al patto con questo ramo fin qui ignoto della famiglia Saronio. È angosciante, ripensando alla formazione cattolica di Carlo, il senso di condanna al sacrificio che pervade la sua breve vita, la traiettoria ineluttabile disegnata per lui dalle scelte personali e dalla congerie storica: un ragazzo che certo non voleva morire e che però ha di fatto costruito passo dopo passo la più crudele e geometrica delle immolazioni.

Quello che non ti dicono, il rimosso familiare, si rivela il rimosso più sociale che possa esistere. C’è in quel ragazzo inghiottito dalla storia tutto il dolore e il senso di inadeguatezza e lo smarrimento e persino l'innocenza che animava il suo tentativo di trovare un posto nel mondo, in quella società degli uomini e delle donne che può essere salvezza o martirio o tutti e due insieme. Nel caso di Saronio, un tentativo disperato, destinato a lasciare dopo di lui una vita, quella della figlia, condannata a rivivere in modo ancora più crudele la rottura generazionale, la soluzione di continuità tra padri e figli che già aveva spezzato una volta i legami di famiglia di casa Saronio. Una questione privata? Neanche per idea. Ed è a questo punto che ho pensato, dopo aver finito il libro, che in fondo quel pensiero istintivo e fuorviante sul titolo conteneva una suggestione utile a proiettare la storia di Saronio nel nostro tempo, i suoi tormenti novecenteschi nell'era digitale.

Spesso è proprio la difficoltà a fare i conti con quel grumo di sofferenza esistenziale e con le sue conseguenze a giustificare molte delle azioni con cui scegliamo di stare al mondo. Fare i conti, intendo, non solo a livello personale ma anche quando venirne a capo presuppone uno sforzo di memoria collettiva e condivisa che in questo caso è proprio il terreno che manca. Gli anni Settanta, con il loro carico di vita e morte, ne sono un esempio massimo. Molti di coloro che li hanno vissuti intensamente hanno scelto di uscirne bruscamente, come da una sala cinematografica nella quale non si vuole più mettere piede ma ripromettendosi di non esprimere mai un giudizio sul film. Le reticenze su quegli anni, l'omertà, i vincoli di lealtà o di assoluzione degli ideali giovanili sono sopravvissuti anche alla morte dei corpi e delle vecchie idee. A parlare sono rimasti spesso solo gli acritici esaltatori, una cadente genìa di dannunziani fuori tempo massimo, o i pentiti in senso giudiziario, quasi mai coincidenti con i pentiti in senso morale. Pentiti come Fioroni, ispiratore con le sue dichiarazioni di più indagini e processi, compreso il famigerato teorema Calogero che il 7 aprile 1979 portò all'arresto di Negri e dei vertici dell'Autonomia, certo responsabili di molti reati ma accusati (senza alcun fondamento) di essere i capi occulti delle Br. Lo stesso Fioroni, uscito dal carcere grazie ai benefici per i collaboratori di giustizia nel 1982. Sette anni dopo aver messo Saronio nelle mani dei suoi aguzzini. Un personaggio così piccino e ambiguo, sia prima che dopo, da non meritare nemmeno la mano tesa di Piero, il cugino prete di Saronio, che sceglie di incontrarlo ma, racconta Calabresi, esce talmente deluso e amareggiato dalla pochezza del personaggio da rinunciare definitivamente allo slancio di riconciliazione.

Il complottismo che avvelena il nostro tempo disilluso è figlio anche della scorciatoia che per primi imboccarono molti reduci di quella guerra, delle migliaia di diserzioni individuali rispetto alla ricerca di un nuovo percorso comune. Ognuno perso dentro ai fatti suoi, esattamente come quarant'anni fa pareva obbligatorio il contrario, perdersi nei fatti degli altri, imboccare un senso unico ideologico anche quando - come nel caso Saronio - annullava ogni confine tra bene e male, vittima e carnefice.

I tempi sono cambiati, e quanto, ma il disagio, il risentimento hanno solo cambiato strada e si sono dispersi in mille rivoli velenosi. Finito il tempo dei dogmi e della teleologia rivoluzionaria, a tanti è rimasto solo di affidare a teorie e tesi, le più bizzarre, il compito di darsi una risposta sul proprio posto in società, specie quando è sgradito. Come lo era a Saronio, che aveva trovato scampo dal tormento per il suo privilegio di censo nella teologia che gli offriva il suo tempo selvaggio: la rivoluzione. Oggi lo scampo è offerto da tante piccole pseudo-dottrine, pillole omeopatiche del nulla per un unico effetto placebo: la comodità e la rassicurazione di pensare che quel che ci è toccato in sorte sia il disegno di una qualche entità misteriosa e ostile. Un grande censore che reprime e nasconde, mistifica e confonde. Quello che sai è falso. Quello che non ti dicono (il governo, il potere, i media, le multinazionali). Eppure quello che non ci è stato detto quasi sempre avevamo bisogno di sentirlo dalle persone a noi più vicine. E non sono state capaci loro di dircelo. E non siamo stati capaci noi di chiederlo. Il mondo costruito da ognuno di noi – la politica, il lavoro, gli affetti, in una parola: la società – è prima di ogni altra cosa il regalo di quel non detto. Accorgersi quantomeno di dover scartare quel regalo è l’unico modo di provare a trovare un filo. Carlo non ha fatto in tempo ad acciuffarlo. Marta l'avrà trovato con questo libro, speriamo.

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