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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 101667 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Settembre 02, 2008, 12:18:02 am »

Fassino: «Una “Helsinki 2” per la sicurezza in Europa»

Umberto De Giovannangeli


Piero Fassino, ministro degli Esteri del governo ombra del Pd, cosa attenderci dal vertice straordinario di Bruxelles?
«È un vertice molto importante perché è la prima volta che l’Unione Europea prende nelle sue mani una crisi politica internazionale che nè gli Stati Uniti né altre potenze sono in grado di dirimere. Lo potrà fare se si muoverà su due fronti...».

Quali?
«In primo luogo, si tratta di trasformare la fragile tregua nel Caucaso in una pace condivisa da tutte le parti in conflitto. Bisogna convincere i protagonisti di quella crisi a interrompere la pratica degli atti unilaterali contrapposti e ad accettare invece di imboccare la strada del negoziato, della ricerca consensuale di un assetto in cui tutti possano riconoscersi e veder riconosciuti i propri diritti. Questa possibilità c’è se l’Unione Europea richiama le parti in conflitto alle loro responsabilità...».

Per dire in concreto che cosa?
«Che la sovranità d Georgia, Azerbaijan e Armenia è intangibile, e l’Europa se ne fa garante, e che queste nazioni non possono essere messe in discussione. E anche la Russia deve riconoscere la loro sovranità...».

E da Tbilisi l’Europa cosa deve esigere?
«A Tbilisi e alle capitali caucasiche bisogna chiedere di riconoscere alle minoranze che vivono nei loro confini forme di autonomia amministrativa che consentano a queste minoranze di vedersi rispettate nelle loro identità, senza essere spinte alla rivendicazione dell’indipendenza. Ottenere questi due risultati significa non accontentarsi di dichiarazioni di principio ma promuovere un percorso negoziale che metta attorno ad un tavolo tutte le parti in causa, promuovendo una Conferenza regionale per la stabilità del Caucaso».

E l’altro fronte dell'iniziativa europea?
«Il conflitto del Caucaso è la spia di una crisi di “governance” in Europa e non solo in essa. Dall’89 ad oggi nel nostro Continente tutto è cambiato: l’Urss e il suo impero non ci sono più; dai Balcani al Baltico al Caucaso sono nate nuove nazioni; Ue e Nato si sono allargate fino ai confini della Russia; e Mosca torna a volere un ruolo di leadership. Si tratta di costruire una nuova architettura di sicurezza che sia capace di dare stabilità al Continente e di garantire ad ogni nazione europea, grande o piccola che sia, la sua sovranità e di poter vivere sicura e libera del proprio destino. Serve in altri termini una “nuova Helsinki”, all’altezza della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa che si svolse nella capitale finlandese a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, che permise di costruire un sistema di sicurezza in grado di promuovere, da Vancouver a Vladivostok, stabilità. pace e riconoscimento dei diritti. C’è bisogno di mettere in campo un esercizio politico-diplomatico della stessa ambizione, Un disegno strategico che aiuti gli Stati Uniti ad uscire dall’unilateralismo in cui li ha rinchiusi Bush, e, al tempo stesso, offra a Mosca una interlocuzione positiva e e una cooperazione politica ed economica che aiuti la Russia a liberarsi di ogni presunzione di autosufficienza, e a integrarsi pienamente nella comunità internazionale. condividendone principi democratici, diritti e legalità».

E l’Italia che ruolo può giocare?
«Mi auguro che il governo italiano comprenda il carattere strategico del passaggio che l’Europa sta vivendo e sia l’Italia a farsi promotrice sia della proposta di una Conferenza per il Caucaso sia dell’avvio del cantiere che ci porti ad una nuova Helsinki. Sarebbe peraltro un comportamento coerente con la responsabilità di presidente di turno del G8 che dal gennaio 2009 l’Italia assumerà».

Pubblicato il: 31.08.08
Modificato il: 01.09.08 alle ore 13.08   
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« Risposta #91 inserito:: Settembre 02, 2008, 09:58:14 pm »

Frattini: «La Ue è restata unita, non si poteva isolare la Russia»

Umberto De Giovannangeli


«La vittoria dell’Italia, e della presidenza francese dell’Ue, è nell’aver operato perché la posizione comune dell’Europa non portasse ad un isolamento della Russia». A sostenerlo, nell’intervista a l’Unità, è il titolare della Farnesina, Franco Frattini.

Signor ministro, come valuta le conclusioni del Vertice di Bruxelles?

«Anzitutto, considero importante che l’Europa abbia tenuto la sua coesione approvando all’unanimità un documento, dimostrando così di voler contare sulla scena internazionale. Questo in sé è molto positivo perché l’Italia aveva sempre sostenuto la linea dell’equilibrio e il sostegno a Sarkozy è stato oggi (ieri per chi legge, ndr.) importante per far prevalere la soluzione equilibrata proposta dalla presidenza Ue».

In questa ottica, qual è il punto più significativo della presa di posizione comune emersa da Bruxelles?

«Il punto più significativo è quello che non c’è nel documento: cioè non c’è né una sospensione del partenariato Europa-Russia; non c’è una ipotesi, e neanche un cenno, alle sanzioni. L’altro punto significativo, che invece c’è nel documento, è quello di un mandato al presidente Sarkozy di andare a Mosca il prossimo 8 settembre, assieme a Barroso e a Solana, per monitorare la concreta situazione relativa al ritiro delle truppe russe. Un punto è importante per quel che manca (nel documento) e un punto è importante per quel che nel documento finale del Vertice c’è». «Su una materia come questa - rileva il ministro- è importante stabilire una forte sintonia tra il governo e la maggiore forze di opposizione, il Partito democratico».

Il fatto che nel documento non ci siano esplicitate sanzioni nei confronti della Russia, si può ritenere una vittoria dell’Italia?

«Dell’Italia e degli altri Paesi, anzitutto la presidenza francese dell’Ue, che ritenevano indispensabile tenere con la Russia un canale di dialogo aperto ma anche vivo. L’idea di sanzioni avrebbe fatto irrigidire la Russia, e siccome quel che noi vogliamo è il pieno rispetto dell’accordo del 10 agosto, non avremmo ottenuto proprio quel risultato. Ecco perché la vittoria italiana è quella di aver fatto prevalere un messaggio che io lanciai il 10 agosto scorso: e cioè non dobbiamo isolare la Russia. Questo messaggio oggi è al centro del documento del Consiglio Europeo».

Lei è in partenza per una missione molto delicata che la porterà prima a Tbilisi e il giorno dopo a Mosca. Ritiene che la posizione europea possa aver gelato le aspettative della Georgia?

«La Georgia ha ottenuto un grande risultato. È stato detto che noi decidiamo di rafforzare il partenariato Europa-Georgia, ivi compresi il regime dei visti e la creazione di una zona di libero scambio tra Europa e Georgia. Quindi la Georgia, a mio avviso, può ritenersi molto soddisfatta. Ma abbiamo inserito anche dei punti che la Russia può accettare. Sono convinto di portare a Tbilisi e a Mosca un messaggio equilibrato e che otterrò dei riscontri positivi, anzitutto sul ritiro dei circa 500 militari russi che sono sul terreno».

Lei ha rimarcato il fatto che l’Europa abbia parlato questa volta con una sola voce. È il segnale di un modo diverso di intendere la partnership con gli Stati Uniti?

«Io credo che gli Stati Uniti hanno in questa partita giocato in stretto rapporto con noi, con Sarkozy, con Berlusconi. Ed è evidente che gli Stati Uniti hanno capito che noi Europa abbiamo potuto fare, con questa decisione, di più. Quindi è stato importante decidere come oggi (ieri, ndr.) abbiamo deciso».

In una intervista a l’Unità, il ministro degli Esteri del governo ombra del Pd, Piero Fassino, ha rilanciato la proposta di una Conferenza a Roma sulla sicurezza e la stabilità del Caucaso. Può essere questo un terreno di incontro tra il governo e il Partito democratico?

«Io credo che sia importante, su una materia come questa, avere una forte sintonia con la principale forza dell’opposizione, in questo caso con il Partito democratico. Ecco perché ho volentieri condiviso con l’onorevole Fassino anche delle informazioni costanti sull’evoluzione della crisi. Come è noto io ho informato sempre il ministro-ombra. Quanto all’idea della Conferenza, che io avevo addirittura convocato in luglio per il 13 novembre, questa Conferenza oggi trova, a mio avviso, nuova linfa. È evidente che bisognerà capire se questa Conferenza può essere soltanto sullo scenario politico o se non dobbiamo lavorare per una Conferenza sulla ricostruzione, e quindi dei donatori, come altri hanno proposto. Comunque noi confermiamo la disponibilità e in questo evidentemente la prima cosa che dobbiamo fare, è lavorare in sintonia con la presidenza francese che ha fatto così bene nelle ultime settimane».

Lei ha recentemente affermato che isolare Mosca avrebbe avuto avuto ricadute negative anche su uno scenario particolarmente importante: quello mediorientale.

«Lo confermo. Oggi (ieri, ndr.) è stato detto da molti capi di governo quello che aveva detto l’Italia: primi ministri che hanno evocato l’Afghanistan o il dossier nucleare iraniano come esempi del perchè bisogna lavorare con la Russia. Cose che io condivido pienamente, e che il presidente Berlusconi ha espresso nel suo intervento».

Pubblicato il: 02.09.08
Modificato il: 02.09.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #92 inserito:: Settembre 11, 2008, 08:58:31 am »

Ebrei e antisemitismo: staffetta della memoria

Umberto De Giovannangeli


Sul braccio porta il marchio indelebile di una ferita che non si rimargina: A-5506. A imprimerglielo furono le SS ad Auschwitz. Piero Terracina, 80 anni, è un testimone di quella tragedia; un testimone, lucido, appassionato, giovane nello spirito, che non accetta che l’oblio della memoria rimuova una Storia che va ricordata perché non si ripeta. Tobia Zevi, ha 24 anni. È un giovane impegnato ma è anche parte di una generazione che si vorrebbe priva di memoria. Ed è proprio il diritto-dovere alla memoria, e il passaggio tra le generazioni, il filo conduttore del nostro incontro. Un viaggio tra passato e presente, tra un dolore che si rinnova e una necessità, spesso inevasa, di conoscere. Di capire, da parte dei giovani d’oggi, cosa c’è dietro quel «A-5506» che Piero Terracina porta con sé, porta su di sé. Voglia di capire. Nella consapevolezza che «senza memoria non c’è futuro». Un futuro di cui i ragazzi come Luca vogliono essere protagonisti. Con l’aiuto di coraggiosi, instancabili, testimoni come Piero Terracina.

L’UNITÀ La memoria del fascismo torna di attualità e incrocia la polemica politica. Ma questa memoria è un peso o è un investimento sul futuro per il nostro Paese?

PIERO TERRACINA È una cosa e l’altra. Comunque difficile. Ricordare è un po’ rivivere. E questo è pesante, molto pesante.

Ma è un sacrificio che noi testimoni dobbiamo fare per trasmettere ai giovani la memoria di ciò che è stato, perché nessuno possa più dire: “io non sapevo...”. E nell’aver ascoltato chi ha vissuto quella tragedia, possano a loro volta diventare testimoni, facendo propri quei fatti. Perché possano dire: “Io lo so, perché ho parlato con un testimone, e lui mi ha raccontato...”. Non è facile rinnovare quei ricordi. A volte nel vedere il turbamento, la commozione dei ragazzi non riesco ad andare avanti. Devo fermarmi, bere un sorso d’acqua, fare finta di pensare. Non vorrei dar prova di debolezza, ma non ci posso far niente. Il dolore del ricordare a volte è insopportabile, anche a distanza di tanti anni. Ma poi mi dico: “Piero, devi farlo, devi andare avanti, anche per tutti quelli che da quei lager non sono più usciti...».

L’UNITÀ. Male giovani generazioni sono pronte davvero ad ascoltare queste testimonianze o le vivono come un fastidio?

TOBIA ZEVI. «Non direi che tra noi giovani ci sia un fastidio o una reticenza ad ascoltare ed apprendere. Piero Terracina e gli altri ex deportati che molto spesso fanno questa esperienza nelle scuole o nei viaggi organizzati con gli studenti, traggano l’impressione di un interesse sincero dei ragazzi. Quello su cui varrebbe la pena interrogarsi è sulla qualità di questa memoria. La sfida per tutti noi è quella di riuscire a declinare l’emozione che si crea nel momento in cui c’è il rapporto diretto con il testimone, organizzando quell’emozione in una pratica di vita quotidiana, civile, sociale, umana in grado di migliorare questa società sulla base della conoscenza delle esperienze, e delle tragedie, del passato. Da questo punto di vista, qualche rischio c’è...

L’UNITÀ Quale sarebbe questo rischio?

TOBIA ZEVI. « Uno è il fatto che, a fronte di tutto questo lavoro, quello che si vede nelle inchieste, o pseudo tali, che vengono condotte su questi temi tra i giovani, a emergere è una ignoranza tremenda, dilagante, a volte tragicomica, quando viene chiesto se sapete cosa è Auschwitz, e la risposta è “una discoteca”, o “La notte dei cristalli” è un “festival”... Il rapporto col testimone non può essere disgiunto da uno studio sistematico, attento, rigoroso della storia ai vari livelli di istruzione, perché è questo il bilanciamento necessario. E per noi giovani comprendere perché quella tragedia si è compiuta, significa ragionare sul fatto che anche se non necessariamente nelle stesse forme o proporzioni, e non necessariamente qui e oggi, quella tragedia potrebbe riaccadere. Come peraltro è gia accaduto , anche se non nella stessa gravità, negli ultimi i cinquant’anni. Primo Levi nei suoi libri parla proprio di questo. L’altro aspetto della qualità, è quello di tradurre questo lavoro di conoscenza in un approccio attivo delle nuove generazioni. Ciò significa dire: io ho sentito questa storia drammatica, ho sentito che c’è stata questa ingiustizia terrificante perpetrata verso miei coetanei dell’epoca, persone innocenti, ebbene, io cosa avrei fatto se fossi stato non tanto una vittima, con la quale è facile immedesimarsi perché non pone sensi di colpa, ma se fosse stato il compagno di banco di quel bambino ebreo che nel 1938 si allontanava dalla scuola perché non poteva più studiare in quella scuola in quanto ebreo?»

PIERO TERRACINA. Nelle scuole deve entrare la Storia, a cui noi testimoni possiamo portare il contributo di una esperienza diretta. Una Storia rigorosa. È quello che la scuola deve pretendere, che tutti noi dobbiamo esigere. E io dico che, tutto sommato siamo fortunati. Ci sono tanti insegnanti che sono motivati e tantissimi ragazzi che vogliono sapere e che non sanno. Quando sono tra loro, vedo nei loro occhi la commozione, tocco con mano il loro interesse...Mi si stringono intorno, vogliono ancora sapere. E mi dicono: “Io non sapevo”. E non sapevano, questi ragazzi, perché questo non fa parte dei programmi della scuola. E invece conoscere il passato è importante. È importante perché certe tragedie terribili che sono accadute, se non si conoscono ci si può ricadere. È importante conoscere, e riflettere, sul passato, perché senza memoria non c’è futuro...».

TOBIA ZEVI: «E c’è chi sul non sapere, imposto, costruisce una sub cultura politica...».

PIERO TERRACINA. «A me è capitato di andare in alcune scuole in cui gli insegnanti mi avevano messo in guardia: “Signor Terracina attento, perché qui i ragazzi sono schierati...Devo dire che sono state le scuole dove ho ottenuto i risultati migliori, dal mio punto di vista. Quando un ragazzo mi dice: “Io non sapevo”, beh, vuol dire che ho raggiunto il mio scopo»

TOBIA ZEVI. Ha ragione Piero a insistere sull’importanza di uno studio rigoroso della Storia. Una Storia studiata seriamente, sulla base di valutazioni scientifiche, di un interesse scevro da strumentalizzazioni politiche, è uno studio che non fa, o non dovrebbe far paura a nessuno, anche nelle possibili verità che talvolta può descrivere. Questo vuol dire fare Storia. Vuol dire attribuire, non sulla base del pregiudizio o sull’ignoranza, ma su una seria ricerca documentale, colpe e ragioni. Il cortocircuito che spesso si crea è il fatto che, in realtà, una verità storica, acclarata non soltanto da valutazioni scientifiche e da racconti di testimoni ma anche ormai da una tradizione consolidata di studi, viene invece presentata, e politicamente strumentalizzata, come la “verità dei vincitori”. Allora si dice: adesso vi diciamo come è andata per davvero... E senza saper nulla, senza leggere nulla, senza studiare nulla, adesso cambio visione. È una scorciatoia molto pericolosa che fa leva sull’ignoranza».

L’UNITÀ. Ma oggi c’è chi vorrebbe diluire fine a cancellare torti e ragioni del ventennio fascista. E questo ci porta alle considerazioni ultime del sindaco Alemanno..

PIERO TERRACINA. «Le leggi razziali in Italia sono state un anello della catena di violenze che c’è stata fin dall’inizio, dalla Marcia su Roma. Altro che fatto isolato! Non ci dimentichiamo che in quell’epoca circolavano canzonacce fasciste, come quella che diceva “fascisti e comunisti giocavano a scopone, e vinsero i fascisti per l’asso di bastone...”. Non era questo insegnare e praticare la violenza? Se non ci fosse stato il fascismo non ci sarebbero state le leggi razziali. Ritornado alla storia, voglio dire che un testimone, quale io sono, e come lo sono tutti i sopravvissuti ai campi di sterminio nazifascisti, noi non ci sostituiamo al lavoro dello storico. Mi limito, ci limitiamo a raccontare la quotidianità della vita e della morte nei campi di sterminio, dove si entrava soltanto per morire. Erano luoghi senza speranza...Sapevamo perfettamente, e i carnefici ce lo ricordavano in ogni momento, che “uscirete soltanto attraverso il fumo dei camini”».

L’UNITÀ Noi abbiamo parlato di diritto-dovere alla memoria. Del ruolo della scuola. E quello della politica quale dovrebbe essere?

TOBIA ZEVI. «Ci sono due richieste: una alla politica, l’altra a noi stessi. Quella alla politica è cercare di darsi, anche se mi rendo conto che è difficile, un respiro un po’ più ampio. Per essere significativa, la politica dovrebbe evitare di parlare troppo spesso alla “pancia” più retriva della gente, di ognuno di noi: quella che, ad esempio, tende a identificare nel “diverso” il primo bersaglio possibile del proprio malcontento. La “bella politica” è quella che è in grado di indirizzare, di guidare anche se questo può voler dire pagare dei prezzi. La politica deve fare i conti con un dato che contraddistingue la mia generazione rispetto. o quella precedente, rispetto alle passate: il fatto che sono crollate completamente non tanto le ideologie come tali quanto gli schemi di comprensione della realtà. Ecco, la politica dovrebbe aiutarci a ricostruire, rinnovandoli se è il caso, questi schemi».

L’UNITÀ. E l’altra richiesta?

TOBIA ZEVI «L’altra riguarda noi giovani. Da giovane interessto alla politica, penso che noi giovani non dobbiamo sempre assumere una prospettiva esclusivamente rivendicativa verso la politica, ma dobbiamo “sporcarci le mani”, impegnarci, provando ad affermare quelle che sono le grande esigenze della nostra generazione ed anche di una società che si stra trasformando ma che ha dentro di sé dei rischi che c’erano nel passato. E qui mi fa piacere ricordare che proprio Piero Terracina, testimone di quell’epoca tragica, è stato una delle rare, e più forti e significative voci che si sono levate nelle polemiche di qualche settimana fa sulla vicenda dei rom. Io penso che su un tema come questo, la tutela dei diritti delle minoranze, noi giovani, soprattutto quelli che si riconoscono in un’area progressista, dovremmo essere protagonisti di una grande battaglia di civiltà...».

PIERO TERRACINA. A proposito di quello che diceva Tobia, io ritengo che bisogna tornare al rispetto degli altri. E particolarmente al rispetto per i “diversi”. Anche qui, la memoria ci aiuta: allora, se un ebreo commetteva una colpa, la colpa era di tutti gli ebrei; ed oggi se un extracomunitaria, un rom, un sinti, commette un reato, questo è colpa di tutti gli extracomunitari, di tutti i rom, di tutti sinti. Questa è un’altra delle cose sulle quali dovremmo riflettere molto. Tornare al rispetto per tutti, e in particolare per i “diversi”. Quelli che noi consideriamo “diversi” ma che poi non lo sono. Perché siamo tutti uguali. E alla politica chiedo anche di contribuire all’educazione dei giovani. Supportando adeguatamente la scuola e le famiglie. Aiutando i giovani a riscoprire quei valori che si sono persi. E non per colpa loro».

Pubblicato il: 10.09.08
Modificato il: 10.09.08 alle ore 9.55   
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« Risposta #93 inserito:: Settembre 13, 2008, 05:32:54 pm »

Israele pronto a liberare i capi di Hamas

Umberto De Giovannangeli


La libertà per i capi politici di Hamas in cambio del soldato Shalit. È più di una ipotesi. È l’approdo, da mettere a punto, di una lunga trattativa mediata dall’Egitto tra Israele e il movimento islamico palestinese vincitore delle elezioni (gennaio 2006) nei Territori e che dal giugno 2007 ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. La lista è pronta. L’Unità ha avuto modo di prendere visione del documento. La fonte che lo ha permesso è uno dei più stretti collaboratori del leader di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh. Ciò che emerge è un cambio di strategia negoziale da parte di Hamas: la scelta, infatti, è quella di puntare innanzitutto al ritorno in libertà dei 40 deputati legati al movimento integralista che Israele ha arrestato nel corso di ripetute incursione, nella Striscia e in Cisgiordania, successive al rapimento (giugno 2006) del caporale Gilad Shalit ad opera di un commando di Hamas. Il primo della lista dei politici da liberare è Aziz al Dweik, speaker del Consiglio legislativo palestinese (Clp, il Parlamento dei Territori). Dweik, come gli altri parlamentari di Hamas, non è accusato di crimini di sangue, ed è la ragione per la quale le autorità israeliane non hanno posto un veto alla sua liberazione. Altri nomi di spicco della lista sono quelli dei parlamentari di Hamas Ibrahim Hamad; Hassan Salame Abdullah Barghouti; Daoud Abu Seir; Rahman Zeidan (già ministro dei Lavori pubblici). Dietro la scelta di Hamas c’è un calcolo politico che investe anche gli equilibri di potere in campo palestinese. La scarcerazione dei 40 deputati, potrebbe infatti portare alla fine del mandato del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nel gennaio 2009 grazie al cambiamento degli equilibri in Parlamento. Abu Mazen rimarrebbe probabilmente in carica di fatto, ma ciò minerebbe la sua legittimità. L'uscita di prigione dei 40 deputati significherà che Hamas tornerà ad avere la maggioranza in seno al Clpe, con 74 seggi su 132. Il Parlamento precedente, dominato da Fatah, aveva allungato a cinque anni il mandato di Abu Mazen ovvero fino al gennaio 2010, quando sono previste le elezioni parlamentari e presidenziali. Hamas ha sempre contestato questa estensione, sottolineando che la legge fondamentale prevede un mandato di quattro anni e può essere cambiata solo con il voto dei due terzi dell'assemblea. Di nuovo maggioritari, i deputati del movimento islamico torneranno probabilmente al mandato di quattro anni che si conclude nel gennaio 2009. «La liberazione di tutti i prigionieri detenuti nelle carceri israeliane è una delle priorità della resistenza. E in questo contesto, ottenere la liberazione di parlamentari eletti dal popolo palestinese vuol dire ribadire la nostra sovranità oltre che ricostruire le istanze rappresentative della volontà popolare», dice a l’Unità Nasser al-Shaer, vice premier nell’esecutivo guidato da Haniyeh. Al Shaer rappresenta l’anima pragmatica, sociale di Hamas. È stato più volte incarcerato da Israele, anche quando ricopriva la carica di vice premier. Liberare i 40 parlamentari rappresenterebbe un indubbio successo politico per Hamas. Tanto più significativo se rapportato alle crescenti difficoltà incontrate dalla leadership moderata dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). A darne conto è lo stesso Abu Mazen. In occasione del 15.mo anniversario degli accordi di riconoscimento reciproco fra Israele e Olp, il rais palestinese ha rilasciato al quotidiano israeliano Haaretz una intervista improntata a scetticismo in cui ha riferito che nei negoziati con il premier Ehud Olmert «non sono stati registrati successi» e che nelle questioni principali sono solo state messe sul tavolo «proposte diverse». L'obiettivo di raggiungere un accordo definitivo entro il 2008 - secondo gli accordi della conferenza di Annapolis - resta lontano, Abu Mazen continuerà comunque a negoziare con Olmert fino all'ultimo giorno che resterà in carica, poi proseguirà con il suo successore, sulla base dell'esito delle elezioni primarie del partito Kadima del 17 settembre. Ma le posizioni sono distanti e forse - suggerisce - sarebbe il caso di riprendere in mano la iniziativa presentata dall'Arabia Saudita nel 2002 a Beirut. Prevedeva la normalizzazione delle relazioni fra Israele e il mondo arabo, in cambio di un ritiro totale di Israele dai territori occupati (Gerusalemme est inclusa) e di una soluzione concordata della questione dei profughi. Un progetto che - ricorda - fu ben visto allora anche dall'Iran. Esprimendosi con grande senso autocritico, Abu Mazen ammette ancora una volta che i palestinesi hanno sbagliato, nel 2000, quando hanno intrapreso una rivolta armata. «Farò tutto il possibile per impedire una terza intifada, armata», promette. Ma ha bisogno che Israele gli dia una mano. Quella mano che sarebbe pronta a firmare la scarcerazione dei 40 parlamentari di Hamas, in cambio del soldato Shalit.

(ha collaborato Osama Hamdan)

Pubblicato il: 13.09.08
Modificato il: 13.09.08 alle ore 7.54   
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« Risposta #94 inserito:: Settembre 19, 2008, 05:45:04 pm »

Livneh: «Per Israele Tzipi è il cambiamento, come Barack»

Umberto De Giovannangeli


Scrittrice e firma di punta di Haaretz, Neri Livneh, ha tratteggiato sul quotidiano progressista di Tel Aviv un ritratto non formale, ma ricco di spunti, della donna più potente (politicamente parlando) di Israele: Tzipi Livni, ministra degli Esteri, vincitrice, sia pure sul filo di lana, delle primarie di Kadima. «Più che l’Hillary Clinton d’Israele - osserva - Tzipi Livni può rappresentare per Israele ciò che Barack Obama sta rappresentando per l’America: la speranza di un cambiamento possibile».

È tempo di accostamenti. È il tempo di Tzipi Livni. C’è chi guarda agli Stati Uniti e vede nella Livni una sorta di Hillary Clinton israeliana.
«Comprendo l’accostamento di genere, ma non credo che le ragioni del successo di Tzipi possano trovare spiegazione in quelle che hanno portata all’ascesa, ma anche alla sconfitta, di Hillary. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra pubblico e privato delle due. Tzipi Livni ha custodito gelosamente la sua sfera privata, evitando qualsiasi politicizzazione, mentre Hillary ha dovuto fare i conti con un legame che era immediatamente pubblico e politico. Piuttosto, se accostamenti vanno ricercati, ne trovo più corretto un altro...».

Quale?
«Quello con Barack Obama. Non tanto per una comunanza di idee, quanto per come la Livni e Obama vengono percepiti dalle rispettive opinioni pubbliche: vale a dire come aria nuova in una politica vecchia che ripropone sempre gli stessi protagonisti».

Sempre a proposito di accostamenti. Per restare a Israele, c’è quello con Golda Meir?
«Trentaquattro anni dopo, Israele potrebbe, anche se è molto difficile, riavere un primo ministro donna. Ma il rapporto tra Tzipi e Golda finisce qui. Su ciò che ha significato Golda Meir per Israele sono stati scritti decine di libri. Per Tzipi Livni è ancora troppo presto. C’è però da notare una cosa che va a favore della Livni...».

A cosa si riferisce?
«A come sono state scelte. Per la prima volta nella storia di Israele, una donna è stata eletta alla guida di un partito. Eletta e non scelta, come lo fu Golda Meir, da una commissione ristretta. Tzipi Livni ha vinto una concorrenza agguerrita, che non le ha risparmiato colpi bassi. Una donna ha sconfitto due generali (Shaul Mofaz e e Avi Dichter, ndr.)- Due uomini che hanno cercato di farsi forti del loro passato militare, in una chiave molto “machista”, contro una donna “normale”. Ma è stata proprio questa normalità a rappresentare una delle ragioni di maggiore appeal di Tzipi Livni non solo e tanto rispetto agli iscritti di Kadima, quanto all’opinione pubblica israeliana che vede in lei la più valida alternativa al ritorno al potere della destra e del suo leader, Benjamin Netanyahu».

Cosa incarna oggi Tzipi Livni?
«Una speranza di cambiamento. Che va verificata, certamente, ma che esiste. E questo è un bene. Per Israele e per le donne israeliane che dimostrano di poter conciliare pubblico e privato. Forse non dovremo attendere ancora tanto tempo per vedere i tre poteri di Israele - giudiziario, legislativo, esecutivo - guidati da tre donne. Quello sarà un gran giorno per Israele».

Pubblicato il: 19.09.08
Modificato il: 19.09.08 alle ore 8.09   
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« Risposta #95 inserito:: Settembre 29, 2008, 11:57:24 pm »

Incubo coloni ultrà come ai tempi di Rabin

Umberto De Giovannangeli


Non è buon segno quando una democrazia deve «blindare» i suoi intellettuali per difenderli da attentati e minacce di morte. È un inquietante campanello d’allarme quello che scatta quando i servizi di sicurezza devono rafforzare le misure di protezione attorno alla premier incaricata di formare il nuovo governo. Israele è un Paese in trincea. E non solo per le minacce esterne, prima fra tutte quella iraniana. Dopo l’attentato a Zeev Sternhell, Israele s’interroga sul nemico interno: i gruppi dell’estrema destra. S’interroga e non sottovaluta la minaccia. Lo ha chiarito il premier dimissionario, ma ancora in carica, Ehud Olmert nella riunione domenicale del governo: «Spira un vento cattivo di estremismo, di odio, di malvagità, di insubordinazione, di illegalità, di disprezzo verso le istituzioni dello Stato», denuncia Olmert. «Tutto ciò rappresenta una minaccia per lo Stato», rileva ancora il premier (dimissionario). secondo cui non è escluso che nell’ombra agisca «un nuovo gruppo clandestino» di estrema destra. «C’è un filo conduttore fra Emile Grinzweig (un pacifista ucciso da una bomba a mano a Gerusalemme nel 1983, ndr), la terribile uccisione di Ytzhak Rabin (1995) e l’attacco dei giorni scorsi a Sternhell», osserva Olmert. Dello stesso tenore le considerazioni della ministra degli Esteri e premier incaricata, Tzipi Livni: «Quanto avvenuto al professor Sternhell - rileva la Livni - non può essere tollerato. Israele è un Paese in cui deve regnare la legge e l’ordine. Il prossimo governo che verrà formato, indipendentemente dalla sua composizione politica, dovrà non solo condannare fenomeni del genere, ma anche combatterli. Se (i zeloti oltranzisti, ndr.) hanno colpito soldati ed agenti in Cisgiordania, possono colpire anche qua». «Negli insediamenti più estremisti vengono fatte cose inaccettabili che possono mettere in pericolo l’autorità dello Stato - incalza Tzipi Livni -. Il governo - insiste la premier incaricata - ha la responsabilità e il dovere di cambiare le cose e di imporre, costi quel che costi, il rispetto della legge».

Politica. Sicurezza. Conoscenza della galassia dell’oltranzismo ebraico. Se c’è un uomo che oggi in Israele racchiude nella sua biografia questi tre campi d’azione, l’uomo in questione è Avi Dichter, dal 2000 al 2005 capo dei servizi segreti interni, lo Shin Bet, l’organizzazione che con il Mossad salvaguarda la sicurezza d’Israele. Attuale ministro della Sicurezza interna dello Stato ebraico, Dichter dopo aver sfidato Tzipi Livni nelle recenti primarie di Kadima, è divenuto il più stretto alleato della premier incaricata. «Tzipi può farcela - dice Dichter a l’Unità - a dare a Israele un governo stabile e capace di portare avanti una politica di pace nella sicurezza».

Signor ministro, Lei ha usato parole durissime nel condannare l’attentato al professor Sternhell.
«Le ho usate a ragion veduta. Per la gravità dell’atto in sé e per il messaggio che coloro che l’hanno perpetrato intendevano lanciare. È un attacco che ci porta per molti versi, indietro di anni, ai giorni che precedettero l’assassinio di Rabin. Tanto le forze dell’ordine quanto l’apparato legale, non devono riposare fin quando non avranno messo le mani su questi terroristi e non li avranno sbattuti in prigione. Questo è quanto meritano persone che appoggiano l’assassinio di quanti non a pensano come loro».

Lei ha parlato anche, a proposito dell’attentato al professor Sternhell, come di un avvertimento lanciato alla premier incaricata Tzipi Livni.
«Questo gruppo di fanatici intende impedire il normale svolgimento della vita democratica e chi ha la massima responsabilità di garantirla è visto come un potenziale nemico, a cominciare dal primo ministro. In questo senso ritengo quell’atto terroristico anche un avvertimento alla signora Livni; la quale, conoscendola bene, non si lascerà intimorire».

Lei ha fatto riferimento all’assassinio di Rabin. Un assassinio che l’estrema destra più radicale continua a ritenere un atto di giustizia…
«La loro è una sfida a Israele, alla nostra democrazia, alle sue istituzioni rappresentative. Una democrazia è tale se rispetta e difende la libertà di opinione e il pluralismo di idee, ma una democrazia non può subire ricatti né mostrarsi incerta, titubante di fronte alle minacce, e agli atti ostili, che provengono dai suoi nemici, esterni e interni. Israele non sarà mai ostaggio di una minoranza di fanatici».

Da capo di Shin Bet, Lei ha dovuto fare i conti a più riprese con l’estrema destra più radicale. Lei denunciò un complotto ordito da un gruppo di zeloti per attentare alla vita dell’allora primo ministro Ariel Sharon.
«Ricordo bene quella vicenda. Si trattava di una ventina di elementi ispirati da una ideologia integralista e antidemocratica. Attorno a questi ideologi operavano un centinaio di altri estremisti, che erano riusciti a procurarsi armi e munizioni sottraendole all’esercito. Allora riuscimmo a svenare il piano contro Sharon, si era alla vigilia del ritiro da Gaza (agosto 2005, ndr.) ma quell’episodio sta a dimostrare che non è possibile abbassare la guardia contro questi fanatici disposti a tutto».

Non è la sola volta che grazie ai servizi di sicurezza da Lei diretti sono stati sventati piani terroristici dei gruppi oltranzisti ebrei…
«Il problema è dotarsi degli strumenti, anche di legge, necessari per affrontare questa minaccia. Quando ci troviamo a fronteggiare il terrorismo palestinese e abbiamo notizia di imminenti attentati, i presunti terroristi possono essere sottoposti ad arresti amministrativi, preventivi. C’è bisogno di adeguate misure anche verso il pericolo interno. Non dimentichiamo che questi fanatici sognano di far saltare a Gerusalemme la Moschea Al Aqsa e l’attiguo Duomo della Roccia (terzi luoghi sacri dell’Islam, ndr.). Il loro obiettivo è di scatenare una Guerra di religione, ponendo Israele contro l’intero mondo musulmano. Allora sostenni che la destra estremista rappresenta una minaccia strategica per Israele perché al suo interno agiscono elementi senza scrupoli. A distanza di tempo, resto di questa convinzione, ma con la certezza che Israele ha tutti i mezzi, la determinazione e l’unità necessari per far fronte a questo pericolo».

Quando parla di unità, si riferisce anche al tentativo messo in atto dalla premier incaricata Tzipi Livni di dar vita ad un governo di unione nazionale con dentro anche il Likud (destra) di Benyamin Netanyahu?
«Israele ha di fronte a sé sfide difficili, impegnative, che mettono in gioco il futuro stesso del Paese. Mi riferisco in primo luogo alla minaccia, sempre più incombente, iraniana. Guai che calcoli di parte facessero venir meno la percezione di questi pericoli. I calcoli elettorali devono essere accantonati quando in gioco è il destino di Israele».

Ritiene che la comunità internazionale abbia piena consapevolezza della minaccia iraniana?
«Purtroppo no. E questo è un errore che può rivelarsi tragico perché l’Iran con l’arma nucleare in mano a un regime di fanatici, è un pericolo mortale non solo per Israele ma tutto il mondo libero».




Pubblicato il: 29.09.08
Modificato il: 29.09.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #96 inserito:: Ottobre 01, 2008, 12:02:12 am »

Zeev Sternhell: «Non è in gioco la mia vita ma il futuro di Israele»

Umberto De Giovannangeli


Le ferite che fanno più fatica a rimarginarsi sono quelle dell’anima. Dalla finestra del suo studio, Zeev Sternhell fa un cenno di saluto agli uomini della polizia che, ventiquattr’ore su ventiquattro, dal giorno dopo l’attentato presidiano il palazzo in cui lo storico e la sua famiglia risiedono. Zeev Sternhell ha aperto all’Unità, unico giornale italiano, la sua casa «blindata». Con la memoria ritorna a quei momenti drammatici dell’attentato e ripete: «Al mio posto avrebbe potuto esserci un mio familiare; no, non perdonerò mai chi ha messo quell’ordigno». Il telefono squilla ininterrottamente: la Cnn lo vorrebbe in diretta, così la Bbc e Al Jazira. Mentre parliamo, telefona da Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen): chiede notizie sul suo stato di salute, lo ringrazia per il suo impegno a favore del dialogo. Lo stesso fa la premier incaricata, Tzipi Livni:«È una donna molto determinata, credo nella sua volontà di combattere l’estremismo della destra radicale», osserva lo storico. A ravvivare l’atmosfera è il caos festante dei suoi nipotini. La stanza in cui Sternhell ci riceve è colma di libri, non solo negli scaffali, ma sui tavoli, intorno al computer, dappertutto. È il campo di «battaglia» di un intellettuale coraggioso, scomodo, e per questo da eliminare. «In gioco - dice Sternhell - non è solo la mia vita, ma il futuro stesso di Israele e della nostra democrazia». «Non ho la tempra dell’eroe - dice sorridendo lo storico - ma una cosa è certa: non mi farò intimidire».

Professor Sternhell, torniamo a quel mercoledì notte….
«Il ricordo di quei momenti non mi abbandonerà più… Era circa a mezzanotte, e prima di andare a dormire sono andato a chiudere il cancello esterno della porta di casa. Aperta la porta c’è stato lo scoppio e ho capito che si trattava di una carica esplosiva. Non posso pensare cosa sarebbe successo se ad aprire la porta fosse stato uno dei miei nipotini che era lì fino a poco prima..».

Chi può essere stato?
«Non essendo membro di alcuna famiglia mafiosa, non vedo altra possibilità che chi mi ha fatto questo appartenga al gruppo sul quale dico da 40 anni cose dure e scomode. Non so se è un singolo, una cellula di due o tre persone o magari i membri di un intero insediamento che hanno deciso di saldare il conto con me».

Lei ha detto che se si tratta di una organizzazione, ciò potrebbe essere il segnale dell’inizio della fine della democrazia israeliana.
«Ho dedicato molti anni allo studio di questo genere di processi politici e sociali. Società, anche illuminate e europee, si sono trovate in questo tunnel. Il problema non è tanto nel gruppo che compie gli atti, ma nel modo in cui la società reagisce. C’è chi fa un mezzo sorriso di compiacimento o magari una smorfia di disaccordo. C’è chi allarga le braccia dicendo "che si può fare?". Nella mia attività di studioso troppe volte ho visto verso i coloni un sorriso indulgente, una strizzatine d’occhio. Ricordo che negli scorsi anni 80 il premier Shamir (Likud) disse di un gruppo terroristico di coloni che erano dei "gran bravi ragazzi". Per lui, primo ministro d’Israele, si trattava di patrioti pieni di buone intenzioni, non di criminali come essi erano….Quando ciò accade, quando si banalizza questo fenomeno o peggio ancora si giustificano questi "patrioti", allora siamo di fronte all’inizio dello sfaldamento della democrazia che, di per sé stessa, è una forma fragilissima di regime, da tenere continuamente sotto protezione. Se si ledono le fondamenta di questa struttura, tutto l’edificio può crollare. Di queste fondamenta, la più importante è forse quella della libertà di parola che deve essere esercitata in una atmosfera in cui la violenza non la metta in pericolo. Le idee, tutte le idee, hanno il diritto di essere espresse e ascoltate, senza che nessuno lo impedisca, tanto meno facendo uso della violenza - e alla fine la maggioranza deciderà, difendendo anche i diritti della minoranza».

Pur condannando l’atto di cui Lei è stato vittima, la destra più moderata non le perdona alcune dichiarazioni, come quando disse anni fa, che i se i palestinesi ragionassero meglio, indirizzerebbero la loro lotta contro le colonie e non all’interno dei territori consensuali di Israele.
«Innanzitutto ho più volte detto che questa mia dichiarazione, in quanto a chiarezza non è certo stata delle migliori. L’ho spiegata un infinito numero di volte chiarendo che non c’era ovviamente nessuna intenzione di dare un via libera morale ai Palestinesi ad assassinare coloni. Ma prendendo come punto di partenza proprio questa mia dichiarazione, e in generale tutto il mio pensiero totalmente negativo sugli insediamenti, possiamo arrivare a capire ancor meglio la pericolosità della situazione per la democrazia: l’estrema destra, soprattutto quella negli insediamenti dei territori occupati, vede nelle mie parole dette e scritte, un pericolo, e abbandonando le regole della democrazia, decide di reagire con la violenza, l’intimidazione o forse peggio, con l’eliminazione. La mia forza è nelle parole e queste parole - non dimentichiamolo - oggi sono in buona parte condivise dalla maggioranza degli israeliani».

Nei giorni successivi all’attentato, Lei aveva rivolto un’accusa generale ai coloni e aveva parlato del pericolo che essi rappresentano per la democrazia israeliana.
«Ho sempre parlato delle frange più estreme dei coloni. Facciamo un attimo chiarezza su questo punto, anche per farlo ben capire al pubblico che non conosce bene questa realtà. Oggi vivono nei Territori circa 250.000 ebrei. Di questi, circa 200.000 non sono lì per motivi ideologici ma per varie altre ragioni - migliore qualità della vita, abitazioni più economiche ecc.... Anche dei restanti 50.000, la maggioranza è gente con la quale divergo ideologicamente in modo profondo, ma con la quale possiamo intrattenere un dialogo civile. Il problema è che all’interno della seconda e terza generazione di nati nei Territori, si sono sviluppate quelle frange estremiste alle quali mi riferisco. Un pugno di persone che non riconosce nessun potere costituito, nemmeno quello della loro leadership interna - il Consiglio di Giudea e Samaria - visto come un manipolo di traditori che dialoga con "il nemico" (lo Stato ebraico). Questo pugno di persone calpesta la legge e fa uso di violenza tanto contro palestinesi quanto contro rappresentanti del potere costituito ebraico - soldati, poliziotti e funzionari - che spesso sono lì solo per proteggerli».

E lo Stato fa abbastanza per affrontare questo pericolo?
«Non è necessario che sia io a dare la risposta; basta leggere i rapporti dei magistrati dell’Avvocatura di Stato, in cui si dice espressamente che nei Territori le leggi non vengono applicate, o meglio, ci sono nei Territori due modelli legali paralleli - uno per i palestinesi e uno per i coloni. E da parte mia, continuerò a dire e a sostenere che nei Territori c’è una forma di regime coloniale che va abbattuto. L’inizio di questo è l’applicazione della legge anche ai coloni. L’indulgenza nei loro confronti ha portato ad una situazione degenerativa in cui ciò che mi è stato fatto si inserisce in modo del tutto ovvio e naturale. In fondo è solo stato "esportato" al di qua della Linea verde un metodo di comportamento che quando viene compiuto contro palestinesi nei Territori, viene tollerato, spesso neppure indagato e comunque non approfondito».

Ma contro questi oltranzisti e contro il fenomeno delle «due leggi, una per i palestinesi e una per i coloni» si sono lanciati l’altro ieri anche Olmert, Tzipi Livni e Haim Ramon. Forse da un male potrà uscire un bene?
«Non posso che sperarlo. Il problema che questa situazione è davanti ai nostri occhi da anni. Non si doveva certo aspettare un attentato a Zeev Sternhell per togliersi il paraocchi. E poi un governo, di qualsiasi colore sia, è lì per agire e non per parlare.
La solidarietà e le parole di condanna e di buoni propositi sono una cosa; trasformare tutto questo in operativo è tutt’altra storia. Bisogna dare gli ordini in modo chiaro e categorico; bisogna appurarsi che tutta la catena sia pronta e capace ad applicarli, dal premier, agli ultimi dei poliziotti, dei soldati e dei giudici; bisogna confrontare l’opposizione politica di quelle forze che da sempre vogliono conferire ai coloni l’impunità di fronte ad atti illegali compiuti contro i palestinesi. Se veramente tutto questo avverrà, potrò dire che sarà valsa la pena di subire ciò che ho subito».



Pubblicato il: 30.09.08
Modificato il: 30.09.08 alle ore 8.56   
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« Risposta #97 inserito:: Ottobre 01, 2008, 05:00:52 pm »

Israele, sul bus della morte tra paura e sogni di pace

Umberto De Giovannangeli


Si sono sposati giusto dopo una terza guerra e hanno avuto un figlio prima o dopo la guerra successiva», sintetizza con efficacia Nahum Barnea, prima firma di Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano d’Israele.

È così. Ma nonostante questa amara verità, Israele resta una fortezza ma non è mai stata una guarnigione. È una società militarizzata ma mai pervasa da una cultura, da una ideologia militarista. Un anno fa, in occasione del Capodanno ebraico, il quotidiano Ma’ariv aveva chiesto ai suoi lettori di cosa fossero più orgogliosi come israeliani: le conquiste scientifiche e tecnologiche venivano prima delle forze armate. Un popolo in trincea che non smette di sperare di poter vivere, un giorno non lontano, una vita normale in un Paese normale. Non sarà facile. Perché non è facile liberarsi dal peso di una memoria collettiva segnata da lutti, guerre, terrore. E da una ferita che resta aperta: quella della Shoah. Una memoria che spiega molto delle paure e i pregiudizi, le passioni, le sofferenze e l’orgoglio che continuano a far girare la vita pubblica.

Con me, sul «bus della morte», ho una copia, ingiallita dal tempo, dell’ultima pagina del 2 aprile 2002 di Haaretz, il giornale progressista israeliano. Una pagina dedicata ai morti, nella quale sono riportati i loro nomi in bianco su sfondo nero, fitti fitti, perché ci stessero tutti nella pagina. E a piè di pagina c’è scritto: morti dal 27 settembre 2000 fino a ieri, primo aprile 2002. Tutti morti per strada, al ristorante, al bar, andando a scuola, facendo la spesa. Dilaniati dalle bombe umane, dai kamikaze palestinesi. Molti di loro, donne, giovani, anziani, viaggiavano su un bus della linea 18. Ricorda Manuela Dviri, scrittrice coraggiosa, che ha saputo trasformare un dolore indicibile - la morte in combattimento in Libano del figlio Jonathan - in energia positiva, spesa nel dialogo con altre donne, israeliane e palestinesi, segnate dallo stesso dolore: «424 nomi, nessuno può ricordare 424 nomi, 424 facce di donne, uomini, bambini apparse per un attimo alla televisione o sulle pagine dei giornali e poi ripiombate nell’anonimato e dimenticate per sempre. 424 storie, una diversa dall’altra, e ognuna - osserva Manuela - sarebbe potuto essere la mia. Se avessi fatto quella strada e non quell’altra, se fossi andata al supermarket invece che dal fruttivendolo, se invece di stare a casa avessimo deciso di andare al ristorante del pesce… Quante volte il mio nome sarebbe potuto finire nella lista». «Ma siccome non c’è finito ho imparato come tutti a convivere con la paura. E ci si convive - osserva ancora Manuela Dviri - con , alla buona, con un po’ di fatalismo e una buona dose di classica scaramanzia». Convivere con la paura. Senza restarne schiacciati, annichiliti, annientati dal di dentro dell’anima. Scommettere sulla vita. Una vita normale. Senza Nemici da annientare o disegni di grandezza da realizzare. È il coraggio dell’Israele che non si arrende. L’Israele che scommette sul dialogo con i palestinesi non per un astratto senso di giustizia ma per un ben più concreto, salutare, insopprimibile bisogno di normalità. È l’Israele di Zeev Sternhell. Era l’Israele di Yitzhak Rabin, Può essere l’Israele della «nuova Golda Meir»: Tzipi Livni, anche lei entrata nel mirino dei fanatici oltranzisti sostenitori di «Eretz Israel». È l’Israele di Adel Misk e Rami Elhanan. Adel Misk ha perso il padre, ucciso davanti a casa senza alcuna ragione da un colono israeliano. Rami Elhanan, ha perso Yael, la figlia quattordicenne, in un attentato kamikaze a Gerusalemme. Adel e Rami fanno parte dell’associazione Parents Circle che riunisce oltre 500 famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso dei famigliari a causa del conflitto. Avere la guerra negli occhi. E nel cuore un dolore indicibile. Convivere con una ferita dell’anima che sai non potersi più rimarginare. E poi.Poi ricominciare una lenta, eroica risalita dall’inferno. Trasformare una pena in energia positiva. Riuscire a non essere travolti dall’odio e cercare, invece, di far nascere da uno strazio condiviso una esperienza collettiva di riscatto: è il messaggio di speranza incarnato dalle famiglie di Parents Circle. «Stiamo cercando di far arrivare ai nostri leader un messaggio: è importante fare presto per non far soffrire altre persone. E se noi, che siamo quelli che hanno pagato il prezzo più alto, possiamo ancora parlarci l’ un l’ altro, allora chiunque lo può fare», dicono Adel Misk e Rami Elhanan. Adel e Rami sono convinti che gli individui hanno il potere di arrestare la violenza anche in una regione così devastata dalla disperazione, anche correndo il rischio, reale, di essere considerati dei traditori da parte di gruppi estremisti o che credono alla politica del dente per dente. Traditori da entrambe le parti. Ma loro insistono, perché «il dolore di una madre è universale, e la perdita di un figlio devasta chiunque», come dice Adel. E Rami aggiunge: «Bisogna elaborare il dolore, riconoscerlo nell’altro, non volere vendetta ma giustizia, essere insieme non solo per dialogare ma per contribuire a risolvere l’ingiustizia e l’illegalità dell’occupazione militare israeliana, riuscire a vivere in pace tra palestinesi e israeliani». Ma perché questo «miracolo» possa avverarsi occorre che Israele faccia i conti, fino in fondo, con l’ambiguità della sua «doppiezza». Perché oggi esistono due Israele, come rimarca anche un documentato rapporto pubblicato dal New York Times Books Review: uno dentro la frontiera del 1967, l’altro oltre questa linea, nei Territori occupati. Il primo è una democrazia vibrante, con arabi membri del Parlamento, professori universitari e avvocati, reginette di bellezza e soldati. Non ci sono strade separate per arabi ed ebrei, non villaggi inaccessibili, non posti di blocco né barriere di sicurezza. Ma oltre la linea c’è un altro Paese: non Israele né Palestina ma un luogo senza legge dove il colono ebreo, fucile in una mano e libro delle preghiere in un’altra, è il re indiscusso. Gli insediamenti sono illegali, in contravvenzione all’articolo 49 della Quarta convenzione di Ginevra che impedisce a una potenza occupante di trasferire la sua popolazione civile nei territori occupati.

Ma per coloro che rivendicano un mandato divino, la Convenzione di Ginevra è solo carta straccia. Scavare nel dolore, nelle paure, nelle speranze di israeliani e palestinesi, significa cogliere l’essenza di un conflitto che si protrae da decenni:

«Alla base di tutto - riflette Amos Elon, tra i più impegnati scrittori israeliani - vi è una disastrosa lotta tra due diritti, uno scontro tra due necessità insopprimibili, l’essenza stessa della tragedia». L’unico modo per risolvere il conflitto, l’unica soluzione giusta e praticabile - sottolinea Elon - «sarebbe quella di dividere il Paese tra i due contendenti».

La pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. La pace dei coraggiosi. Ne abbiamo incontrati molti, in Israele e nei Territori. A unirli c’è la consapevolezza che quella che si sta combattendo da una vita è la guerra che non si può vincere. E che l’unica strada per conquistare la pace è quella del dialogo, dell’incontro, del riconoscere, reciprocamente, il diritto dell’altro.

È la convinzione che anima l’esperienza umana e intellettuale di David Grossman. «Israeliani e palestinesi - ci dice - devono rafforzare chi fra loro, e anche fra gli appartenenti all’altro popolo, è davvero interessato alla pace, chi è maturo per un sofferto compromesso». «Se non lo faremo - avverte lo scrittore - il campo sarà definitivamente occupato dagli estremisti, dai violenti, dai guerrafondai. Se non lo faremo, i nostri figli potranno solo vagamente ricordare per cosa vale la pena di combattere e a cosa possono aspirare».

È una scommessa sul futuro. Un investimento collettivo. «La pace - sottolinea Grossman - è l’unica opportunità che abbiamo di vivere una vita piena. In condizioni difficili, certo, privi di illusioni e dolorosamente consapevoli di tutti i nostri volti e di tutte le nostre cicatrici. Ma vivere, finalmente, non solo sopravvivere fra una tragedia e l’altra».

Pubblicato il: 01.10.08
Modificato il: 01.10.08 alle ore 11.11   
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« Risposta #98 inserito:: Ottobre 03, 2008, 05:57:19 pm »

Yehoshua: «Livni coraggiosa Israele fermi la destra fanatica»

Umberto De Giovannangeli


«Di fronte all’attentato a Zeev Sternhell cresce in me la convinzione che uno Stato di diritto non può pensare di reggere a lungo intrecciandosi con un regime di occupazione esercitato alle porte di casa. Questa situazione ha finito per creare una sorta di "terra di nessuno", nei territori occupati e "insediati", in cui frange di oltranzisti hanno ritenuto, purtroppo spesso a ragione, di godere di una assoluta impunità. Ed ora pensano di poter dettare la loro "legge", fatta di furore ideologico e di violenza, anche dentro Israele». Israele, le sue paure e le sue speranze. Siamo ad Haifa, la «città del dialogo», per incontrare il più affermato scrittore israeliano contemporaneo, Abraham Bet Yehoshua. Il suo studio è, come sempre, stracolmo di libri; un caos «ordinato», scherza lo scrittore, sul quale regna sovrana la «donna della mia vita»: la moglie Rivka, psicologa e psicanalista.

Israele s’interroga sul pericolo interno: quello dell’estrema destra. Qual è la sua opinione?
«Per troppo tempo si è sottovalutato questo fenomeno, come se fosse marginale, residuale. Non è così. E l’attentato a Zeev Sternhell ne è una tragica riprova. Per troppo tempo questi fanatici estremisti hanno goduto di comprensione e di impunità. Spero che le cose cambino e al più presto, e le dichiarazioni di Tzipi Livni (la premier incaricata, ndr.) mi sembrano in questo senso incoraggianti. Ma per sconfiggere questi oltranzisti occorre rilanciare con forza il negoziato di pace….».

Quale nesso esiste tra la pace e la sconfitta dell’estrema destra radicale?
«La pace con i palestinesi, e la fine del regime di occupazione nei Territori, non è una gentile concessione al "nemico", ma è la condizione fondamentale per preservare il nostro sistema democratico e quei valori che ne sono a fondamento; sistema e valori contro cui si scagliano coloro che ancora plaudono all’assassinio di Yitzhak Rabin».

Insisto su questo punto: perché la fine dell’occupazione può divenire un efficace antidoto contro l’affermarsi di una cultura e di una pratica estremista in Israele?
«Perché spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi tende a mettere tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi che sono a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette che coloni che risiedono in insediamenti illegali possano compiere atti provocatori contro i palestinesi senza per questo incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro altri cittadini israeliani. Questa logica colonialista e militarista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. L’emergenzialismo diviene sinonimo di impunità; e l’impunità porta con sé la convinzione che tutto sia lecito, anche attentare alla vita di chi la pensa diversamente. Come è accaduto con Rabin, come poteva ripetersi con Sternhell…».

La premier incaricata Tzipi Livni ha avuto parole durissime contro i gruppi oltranzisti dopo l’attentato al professor Sternhell.
«È stata una presa di posizione netta, coraggiosa. Ora mi attendo che alle parole seguano atti concreti. Una minoranza di fanatici non può tenere in scacco un intero Paese e la sua vita democratica».

In Cisgiordania vivono oltre 230 mila coloni. Lei ritiene davvero possibile una loro evacuazione come è avvenuto con quelli di Gaza?
«Credo che molti di loro, quelli che sceglieranno di non rientrare in Israele, potranno rimanere dove sono, come cittadini ebrei di uno Stato palestinese. Nel mondo ci sono tante minoranze etniche che vivono sotto la giurisdizione di un altro Stato. Perché dobbiamo escludere questa possibilità per il futuro del Medio Oriente?».

Negoziare la pace. Qual è per Lei la questione davvero cruciale tra le tante che caratterizzano questo interminabile conflitto?
«La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Mi lasci aggiungere che la definizione dei confini non è solo un esercizio diplomatico ma è, per noi israeliani, anche qualcos’altro, di molto più profondo…».

In cosa consiste questo «altro»?
«Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si realizzava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popolo, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che "normalità" non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari - come lo è ogni popolo - senza preoccuparci di perdere l’identità. D’altro canto, l’abbattimento del "Muro" che riguarda noi israeliani e i palestinesi non può portare con sé l’idea di una unificazione tra due entità nazionali che restano comunque separate. Voglio essere ancora più esplicito: l’opposto del "Muro", la sua alternativa non è uno Stato binazionale, che era e resta una soluzione impraticabile».

Su cosa fonda questa valutazione?
«Alla base vi sono ragioni molteplici e di diversa natura. In questo conflitto israeliani e palestinesi hanno rafforzato le rispettive identità nazionali, oltre che una diffidenza reciproca. Alla fine, spero e credo, ci sarà pace ma mai "amore". Se pace sarà, sarà la pace dei generali, come Yitzhak Rabin, che combatterono per una vita contro il nemico e da questa esperienza trassero la convinzione che non esiste una via militare alla sicurezza e alla normalità per Israele. E poi alla base della separazione in due Stati c’è anche un’altra ragione che investe l’essenza di Israele, che rimanda alla sua identità ebraica. Ed è proprio per preservare questa identità, insieme ai suoi caratteri democratici, che occorre separarci riconoscendo all’altro, ai palestinesi, il diritto, che porta con sé anche obblighi e doveri, ad un proprio Stato. Mi lasci aggiungere che oggi sono sempre di più gli israeliani consapevoli di quanto sia insensata la presenza di colonie che rischiano di imprigionare israeliani e palestinesi in uno Stato a doppia etnia il quale, col tempo, potrebbe anche diventare a maggioranza palestinese. Il muro può benissimo esistere, ma solo lungo le frontiere legittime del 1967, riconosciute dal mondo intero. E del resto non lo chiamerei più Muro a quel punto, ma semplicemente frontiera».

Nei giorni scorsi, assieme ad altri importanti scrittori israeliani, Lei è stato tra i firmatari di un appello al premier (dimissionario) Olmert perché accetti di liberare 450 detenuti palestinesi in cambio del soldato Gilad Shalit, rapito nel giugno 2006 da un commando palestinese. Quell’appello ha suscitato polemiche…
«So bene che tra i palestinesi che dovrebbero essere liberati ve ne sono molti che sono stati coinvolti in gravi e dolorosi attentati. Ma la vita dei nostri soldati non è mai stata misurata in termini di prezzo ma di valore. E questo vale anche per il soldato Shalit».




Pubblicato il: 03.10.08
Modificato il: 03.10.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #99 inserito:: Ottobre 05, 2008, 12:38:12 am »

Una giornata con Tzipi Livni «Con me Israele cambierà»


Umberto De Giovannangeli


I mastodontici «angeli custodi» dello Shin Bet (il servizio segreto interno) la circondano, facendola quasi scomparire dalla vista. Dopo l’attentato a Zeev Sternhell, le misure di sicurezza attorno alla premier incaricata sono state raddoppiate e la sua è diventata una vita blindata. La vita di Tzipora (Tzipi) Livni, oggi la donna più potente in Israele e nel Medio Oriente. L’Unità ha avuto modo di seguirla in un giorno «normale».

Una «normalità» sfiancante. Scandita da riunioni di partito, incontri diplomatici (la Livni è ministra degli Esteri in carica), vertici con i leader delle forze politiche che dovrebbero far parte del nuovo governo. Per gli zeloti dell’ultradestra, Tzipora ha tradito gli ideali della sua famiglia, quelli per cui si era battuto suo padre, Eitan Livni, figura storica dell’Irgun e poi parlamentare del Likud per molti anni. A chi l’accusa di tradimento, Tzipi replica seccamente. Attaccando: «Sulla tomba di mio padre - dice - c’è scritto: qui giace il capo delle operazioni dell’Irgun, l’organizzazione clandestina che ha combattuto per la nascita dello Stato d’Israele. Sulla tomba è disegnata la mappa della Grande Israele. Molti - prosegue la premier incaricata - continuano a chiedermi se il compromesso territoriale è contro l’ideologia di mio padre. Ma lui mi ha insegnato a credere in Israele come uno Stato democratico dove tutti hanno gli stessi diritti. Ho dovuto accettare il fatto che le proprie idee non possono essere del tutto realizzate, ma si può scegliere quali sono le cose più importanti. Ed è quello che faccio». Infaticabile. Determinata. Non nasconde le sue ambizioni (già nel 2007 Time l’ha posta fra le 100 persone più influenti nel mondo e Forbes al 52 posto fra le donne) e al tempo stesso rivendica, e difende con passione, il suo ruolo di madre e di moglie.

La sua grinta si scioglie in un sorriso molto dolce quando parla dei suoi due figli e della fatica «ripagata» di riuscire a strappare uno spazio quotidiano per giocare con loro e aiutarli negli studi. La sua diplomazia familiare è messa a dura prova, ci confida una sua assistente, solo quando si tratta di decidere dove andare a mangiare: lei vegetariana contro i figli «carnivori». In questo bisogno di normalità, Tzipi Livni incarna la speranza di Israele: quella di riuscire, un giorno non lontano, a non vivere più in trincea con l’orecchio incollato alla radio per sapere se l’autobus su cui hai mandato i tuoi figli a scuola è stato fatto saltare da un kamikaze palestinese. Parla di normalità, Tzipi Livni, con le donne di Kadima. E promette loro di portare una ventata di aria «fresca, pulita» nella politica israeliana «ammorbata» da scandali sessuali e corruzione. Dice di lei Aluf Benn, editorialista di punta di Haaretz: «Tzipi Livni ha imparato ad ascoltare i consiglieri e ha saputo raccogliere attorno a sé, per la sua campagna nelle primarie, la maggior parte della squadra politica e comunicativa che fu di Ariel Sharon. Ma la Livni è ben diversa da Sharon. Appartiene a un’altra generazione e non è caratterizzata da quel cinismo, quell’umorismo graffiante e tutte quelle storie di guerra che erano i tratti tipici di Sharon.

Ama farsi capire, ma tende a non prendersela per ciò che la stampa dice di lei né a lamentarsi dei giornalisti, come sono soliti fare tanti altri politici. Per lei la cosa importante dimostrare fiducia in se stessa e un pizzico di distacco. Chi la incontra per la prima volta resta colpito dalla sua franchezza. Nei corridoi della Knesset è meno benvoluta «perché è stata classificata già da tempo come un’aspirante alla corona ambiziosa e temibile. La Livni - racconta Benn - mette per iscritto i suoi pensieri. La sua attenzione è meno concentrata sulle grandi idee e più sulla soluzione dei problemi. Tende a occuparsi dei dettagli. È così che ha imbastito quello che divenne noto come il «compromesso Livni», che permise a Sharon di far approvare al governo il disimpegno dalla Striscia di Gaza senza l’appoggio di Benjamin Netanyahu (il leader del Liud, destra, ndr.). È così che stese la bozza della piattaforma di Kadima, ed è così che suggerì a Ehud Olmert la via d’uscita politica dalla seconda guerra in Libano. Ma in tutti questi casi, c’era sempre qualcuno sopra di lei che prendeva la decisione finale, assumendosene la responsabilità. Ora non potrà più permettersi questo lusso. «Da adesso in avanti - conclude l’editorialista di Haaretz - questo sarà il lavoro di Tzipi Livni, e sarà messa alla prova dai suoi colleghi politici, dai mass-media e dall’opinione pubblica». Un apprendistato che Tzipora ha consumato presto. I suoi colleghi -avversari hanno imparato a conoscere la sua caparbietà, legata sempre a un disegno politico. Quello che la Livni ripete negli incontri pubblici come nelle, poche, uscite con la stampa. «Sono qui - è il tasto su cui batte con più forza - per perseguire un solo obiettivo, quello di uno Stato che sia ebraico e democratico; ecco perché sostengo la creazione di uno Stato palestinese, a condizione che esso rappresenti la soluzione nazionale per tutti i palestinesi esattamente come Israele rappresenta la soluzione nazionale per gli ebrei. A farci da guida (politica) in questa giornata con Tzipi è l’uomo che ha inventato la campagna elettorale di Tzipi Livni per la leadership di Kadima: Tzachi Hanegbi, presidente della Commissione esteri e sicurezza della Knesset, il Parlamento israeliano. Hanegbi ci ospita nella sua auto, anch’essa blindata, che chiude il corteo di vetture che accompagnano la Livni ad un meeting di partito. «Ho lavorato con lei per anni - ci dice -. Senz’altro Tzipi non ha l’esperienza di Netanyahu o Barak (il ministro della Difesa e leader laburista, ndr.), ma la loro storia è anche segnata da fallimenti. Tzipi ha esperienza sufficiente per stare al timone. Io credo che guiderà il Paese con responsabilità e con coraggio». Quel coraggio che la giovane Tzipora mise in mostra nei quattro anni in cui (poco più che ventenne) prestò servizio nel Mossad, il servizio segreto esterno israeliano. «Vai avanti, fai piazza pulita», le ripetono i giovani di Kadima che l’attendono in un albergo, super presidiato, sul lungomare di Tel Aviv. Ai giovani piace l’immagine di «Tzipi l’incorruttibile», non a caso la chiamano Mrs Clean, Signora Pulizia, alle ragazze «la sua capacità di saper coniugare idealità e concretezza, con una dose di sano buon senso che le donne hanno molto più dei maschi»., dice Yael, 22 anni, studentessa all’Università Bar Ilan.

La strada per formare il nuovo governo è tutta in salita e piena di ostacoli, sottoforma di gelosie personali e voracità di posti di potere. Tzipora lo sa bene ma non per questo si lascia smontare: «Di natura sono ottimista - afferma - e prima di gettare la spugna devo essere a posto con la mia coscienza». Tzipi vorrebbe trattenersi con i giovani che l’hanno attesa per ore. Ma gli impegni incombono. C’è un incontro a Gerusalemme con i capi di Shas, il partito ortodosso sefardita, e poi una cena di lavoro con Barak e consorte. Nel far rientro a Gerusalemme, abbiamo modo di conversare ancora con Tzachi Hanegbi, l’uomo che custodisce segreti e sogni (politici) della cinquantenne prima ministra in pectore. Spariamo a bruciapelo la domanda: «Lei che ha avuto modo di lavorare a stretto contatto con quattro primi ministri: Shamir, Netanyahu, Sharon e Olmert, ritiene che la Livni sia alla loro altezza?». La risposta, molto ponderata, arriva quando il corteo di auto a sirene accese, e zigzagando tra ruspe, posti di blocco e cantieri all’aperto, raggiunge la sede del ministero degli Esteri. Hanegbi riesce a fendere la barriera umana degli 007 e a presentarci alla Livni. Il tempo di un sorriso, una stretta di mano, una battuta, «spero che Tzachi non abbia esagerato nel raccontarmi». E una promessa: un’intervista a l’Unità da prima ministra, «se riuscirò in questa impresa titanica». «Le devo una risposta - dice Hanegbi prima di salutarci -: Tzipi è della stessa generazione di Netanyahu e Olmert, una generazione che un modo di vedere più moderno, orientato verso la vita civile, meno filtrato dalla divisa militare. Persone che fanno parte delle nuove generazioni comprendono il peso dei cambiamenti che stanno avvenendo nel Paese. Lei mi ha chiesto se Tzipi ha la forza mentale e l’elasticità possedute dai grandi leader che sono stati fondamentali nella costruzione dello Stato, come Shamir e Sharon, e ovviamente Rabin? Queste sono qualità che puoi scoprire solo in periodi di crisi». Tzipora ha lanciato la sua sfida. Una donna alla guida d’Israele. Trentaquattro anni dopo Golda. Per Israele sarebbe una svolta, un investimento sul futuro.

Pubblicato il: 04.10.08
Modificato il: 04.10.08 alle ore 12.34   
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« Risposta #100 inserito:: Ottobre 10, 2008, 05:20:14 pm »

Nobel della Pace, la Cina in Guerra

Umberto De Giovannangeli


È il Nobel più insidioso. Quello più politico. Il Nobel per la Pace. E quest’anno sembra esserlo ancora di più. Cina e Russia aspettano con trepidazione l’annuncio dei vincitori del Premio Nobel per la pace del 2008, anno nel quale si celebra il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. I principali candidati infatti sono dissidenti cinesi o russi.Tra i cinesi il nome che si sente più spesso è quello di Hu Jia, l’attivista democratico condannato la primavera scorsa a tre anni e mezzo di prigione per aver scritto articoli che costituirebbero «un incitamento a sovvertire i poteri dello Stato».

Gli altri nomi ricorrenti sono quelli dell’avvocato Gao Zhisheng, della dissidente uighura Rebiya Kadeer e dell’esiliato Wei Jingsheng. Secondo Stein Toennesson, direttore dell’Istituto di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, «il comitato del Nobel si interessa da anni alla Cina ma è possibile che finora non abbia trovato i candidati adatti o che non abbia voluto interferire con la preparazione delle Olimpiadi.

Ora i Giochi di Pechino si sono conclusi e sono stati un successo da molti punti di vista ma certamente non da quello dei diritti dell’uomo.

Nei giorni scorsi i portavoce del governo cinese hanno ripetuto ossessivamente di sperare che il Nobel vada «a qualcuno che lo merita veramente» e hanno minacciato rappresaglie contro il governo norvegese. Il gruppo internazionale Chinese Human Rights Defender (Chrd) afferma di aver ricevuto «due relazioni separate» sulla situazione di Gao Zhisheng, che sarebbe detenuto con la sua famiglia in una «prigione segreta» alla periferia di Pechino e sottoposto a continue torture e umiliazioni.

Il Chrd precisa di «non essere stato in grado di verificare in modo indipendente » questa notizia. In un comunicato il gruppo aggiunge che Hu Jia, che soffre di cirrosi epatica cronica, è sottoposto a un pesante regime carcerario, nel quale viene spesso punito per i suoi tentativi di difendere i diritti dei detenuti.

Chrd afferma che Hu, detenuto nella prigione di Chaobai, è stato rinchiuso per 10 giorni in cella d’isolamento a partire dal 13 agosto scorso. Il dissidente, che fu tra i primi a organizzare forme di assistenza per le migliaia di contadini che avevano contrattol’Aids nella provincia del Henan a causa di donazioni di sangue fatte senza rispettare le norme di sicurezza, viene abitualmente costretto a svolgere lavori pesanti.

Gli altri dissidenti cinesi sono l’ex imprenditrice uighura Rebiya Kadeer, 62 anni, e il promotore del Muro della Democrazia Wei Jingshen (58). Entrambi vivono in esilio negli Usa, Wei dal1997 e Kadeer dal 2005. Entrambi hanno trascorso lunghi periodi in prigione, 15 anni Wei e sette anni Kadeer. Quel Nobel sarebbe una provocazione, una intollerabile ingerenza negli affari interni della Repubblica popolare cinese, avvertono minacciosi i portavoce del governo di Pechino.

Fonti vicine al comitato dei Nobel confermano a l’Unità che nell’immediata vigilia della proclamazione del vincitore, vi sono state pressioni perché la scelta cadesse su candidati meno «pericolosi» sul piano politico. Ma non è solo Pechino a guardare con apprensione, e manifesta ostilità, alla cerimonia di oggi. Anche Mosca è nervosa. Tra i candidati russi è stato fatto il nome dell’avvocatessa cecena Lidia Yussupova, direttrice del gruppo umanitario Memorial. In questi anni, la Yussupova è stato in prima linea nel denunciare i crimini di massa, contro l’umanità, perpetrati dalle truppe russe nella martoriata Cecenia. Altri possibili vincitori sono il medico Denis Mukwege, fondatore di un ospedale per le donne vittime di violenza sessuale nel Congo, il leader dell’opposizione dello Zimbabwe, Morgan Tsvangirai, il diplomatico finlandese Martti Ahtisaari, negoziatore nella crisi del Kosovo.

Dalle speranze alle scommesse. Bookmaker concordi sul Nobel per la pace: il nome che ricorre in lavagna è quello di Hu Jia, dissidente cinese attualmente detenuto: Paddy Power e Unibet lo bancano fra 2,75 e 3 volte la giocata. Vicina al premio Ingrid Betancourt, a circa 8 volte la posta, Helmut Kohl viaggia a circa 30 contro 1, mentre Sarkozy è lontano a quota 80, dietro anche a Bono Vox quotato 65. Ancora più difficile che il riconoscimento vada a Vladimir Putin (250) o all’attuale presidente USA George W. Bush (500). Il riconoscimento potrebbe andare anche a un’organizzazione come la Fao, l’agenzia dell’Onu per l’agricoltura, o il Pam, il Programma Alimentare Mondiale.

L’attesa è febbrile nei circoli umanitari internazionali. Si spera, si prega, che il Nobel per la Pace 2008 sia un segnale chiaro, politicamente pesante, che dica che il rispetto dei diritti umani è al centro dell’attenzione del mondo.


Pubblicato il: 10.10.08
Modificato il: 10.10.08 alle ore 10.32   
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« Risposta #101 inserito:: Ottobre 14, 2008, 03:08:54 pm »

L’allarme di Blair: Gaza al collasso, Israele deve salvare la Striscia


Umberto De Giovannangeli


Gaza è sull’orlo del collasso. Migliaia di dipendenti pubblici resteranno senza stipendio, e a prosperare sarà l’«economia criminale», quella legata al traffico delle armi, al mercato nero e al riciclaggio del denaro. Un quadro inquietante, tanto più significativo perché a dipingerlo non sono personalità internazionali, come l’ex presidente Usa Jimmy Carter o il premio Nobel per la Pace sudafricano Desmond Tutu, considerate da Israele apertamente schierate con i palestinesi. Stavolta, a lanciare il grido d’allarme, è una personalità considerata amica dello Stato ebraico: l’ex premier britannico Tony Blair, inviato speciale del Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue) in Medio Oriente. La Striscia di Gaza si trova sull’orlo del collasso, afferma l’ex premier britannico. In una lettera inviata al ministero della Difesa israeliano, della quale l’Unità ha potuto prendere visione, l’ufficio di Blair sollecita il governo israeliano a stanziare 28 milioni di dollari ogni mese per fronteggiare la grave crisi economica in cui versa il territorio palestinese, controllato dal giugno 2007 da Hamas. Senza questi soldi - rimarca la lettera - l’Autorità palestinese non potrà pagare gli stipendi a migliaia di dipendenti pubblici e le attività illegali - come il commercio sul mercato nero e il riciclaggio di denaro, così come il contrabbando di armi - si espanderanno a Gaza, afferma la lettera. Israele teme però che i soldi inviati per Gaza possano finire nelle mani di Hamas. La lettera di Blair apre un nuovo squarcio di luce sulla tragedia di Gaza. Gaza, dove il 79% delle famiglie vive da tempo sotto la soglia di povertà (2 dollari al giorno) e non è in grado di provvedere al proprio sostentamento alimentare senza una qualsivoglia forma di aiuto esterno. Gaza, ovvero un territorio ostaggio dell’embargo, che ha peggiorato la povertà e la disoccupazione, reso inefficiente il sistema educativo, messo in ginocchio quello sanitario, distrutto l’apparato produttivo e reso dipendenti dagli aiuti 1,1 milione di persone, l’80% della popolazione. Gaza, dove il blocco israeliano ha fatto schizzare il prezzo della benzina a 5 euro al litro, come non accade in nessun altro posto al mondo. E le prime vittime sono i soggetti più deboli. I bambini - che rappresentano il 56% della popolazione della Striscia - sono quelli più a rischio. Recenti dati - rileva in un dettagliato rapporto Save the Children - rivelano un aumento esponenziale delle malattie croniche e della malnutrizione tra i bambini con meno di cinque anni che vivono nella Striscia di Gaza. In crescita anche il numero di quelli che soffrono d’insonnia , ansia e diarrea. La percentuale di bambini con problemi di anemia e diarrea ha subito un aumento rispettivamente del 40% e del 20% rispetto allo scorso anno. Altri dati agghiaccianti sono forniti dall’Oms (l’Organizzazione Mondiale della Sanità): il 40% delle donne di Gaza sono anemiche e 1 bambino su 3 è malnutrito. Alcuni di questi problemi sono strettamente legati alla qualità e alla quantità dell’acqua: ben il 40% della popolazione del territorio, ad esempio, ha accesso all’acqua solo per poche ore al giorno, anche a causa della mancanza di combustibile e pezzi di ricambio per far funzionare la rete di distribuzione, che rischia di collassate in ogni momento. Un sistema fognario inefficiente e l’impossibilità di ripararlo, sottolinea il rapporto di Save the Children, implica che circa 40milioni di litri di liquame vengano scaricati ogni giorno nel Mediterraneo, con il conseguente rischio di epidemie tra la popolazione e di problemi ambientali duraturi. Come non bastasse, i prezzi proibitivi che benzina e diesel hanno raggiunto sul mercato nero stanno provocando una spaventosa impennata nei costi di produzione (e quindi dei prezzi di vendita) per tutti i prodotti alimentari. Il prezzo del pomodoro è cresciuto del 1000%, arrivando a toccare quasi due euro. Il cocomero costa il 400%, il pesce azzurro (perché anche le barche funzionano a gasolio) il 500% in più. Prezzi folli in un’economia che già prima di questa crisi devastante era al collasso, con una disoccupazione che sfiora il 70%; dei 110mila dipendenti in passato impiegati nel settore privato ben 78mila sono ora senza lavoro; il 95% delle attività industriali sono sospese. Molti disoccupati hanno provato a reinventarsi un lavoro vendendo frutta e verdura porta a porta, con un asino e un carretto. Ma negli ultimi mesi anche il prezzo degli asini è salito del 60%, così come il costo del loro cibo. L’economia palestinese si configura sempre più come una «economia di baratto». Il Programma mondiale di alimentazione delle Nazioni Unite (Wfp), fissa a 1,60 dollari pro capite al giorno la soglia di «indigenza alimentare»; 1,60 dollari al giorno è il minimo richiesto per una alimentazione nutrizionalmente sufficiente. A Gaza, centinaia di migliaia di persone non mangiano altro che pomodori e pane. Per quanto riguarda la popolazione anziana, nell’ultimo anni i decessi conseguenti ad un «indebolimento organico irreversibile» (inedia) sono aumentati del 38% rispetto all’anno precedente Questa è Gaza oggi. Se non un lager, certo un inferno, una gabbia isolata dal mondo dentro la quale si consuma la tragedia di un popolo. La lettera di Tony Blair lo ricorda.

Pubblicato il: 14.10.08
Modificato il: 14.10.08 alle ore 8.50   
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« Risposta #102 inserito:: Ottobre 16, 2008, 12:10:05 am »

Ruffolo: «Destra Usa irresponsabile in economia, bene Barack»

Umberto De Giovannangeli


Professor Ruffolo, oggi ci sarà l’ultimo, attesissimo, faccia a faccia televisivo tra Barack Obama e John McCain. Al centro, il tema dei temi: l’economia.
«Premetto che io penso e spero che vinca Obama, non perché ritenga che il candidato democratico sia portatore di grandi idee ma perché segna una svolta storica rispetto al pregiudizio razzista, e una svolta politica rispetto alla politica irresponsabile della destra americana, specie per quanto riguarda l’economia e per la responsabilità enorme che ha assunto rispetto a questa crisi mondiale. Credo quindi che Obama abbia tutte le possibilità per una svolta decisa e penso che sia l’unico a poterla imprimere, non certo McCain per quanti sforzi faccia nel distinguersi dalla eredità di George W.Bush e dell’attuale governo repubblicano. Penso e spero anche che Obama abbia una concezione dell’economia mondiale assolutamente diversa da quella dell’attuale dirigenza americana, nel senso che si distacca dalla irresponsabilità totale che ha caratterizzato la condotta della politica americana negli anni Novanta e nei primi anni di questo secolo...».

Cosa accadde negli anni Novanta?
«In quegli anni c’è stato un boom che la finanziarizzazione dell’economia ha sopravvalutato, portando alle stelle il valore dei titoli e l’indebitamento dell’economia americana; un indebitamento colossale che ha raggiunto qualche tempo fa il 6-7% del prodotto interno lordo americano: la Nazione più ricca del mondo indebitata nei riguardi di tutto il mondo; un paradosso assurdo che il nuovo governo americano dovrà fronteggiare in qualche modo. Credo che la prima prova della nuova leadership se, come spero, sarà la leadership di Obama, dovrà essere quella di affrontare questa irresponsabile posizione americana che è molto diversa da quella che fu una volta l’egemonia americana nei primi anni immediatamente seguenti alla Seconda guerra mondiale: basti pensare ad atti di una responsabilità e di una lungimiranza straordinarie come l’instaurazione del sistema di Bretton Woods e la decisione del Piano Marshall, per vedere come fosse abissalmente diversa la leadership americana di allora da quella attuale».

Obama ha presentato il suo «piano di salvataggio per la middle class» che «comincia con una parola che sta nella testa di tutti: l’occupazione».
«L’occupazione è certamente un obiettivo fondamentale dell’economia reale. Oggi l’occupazione sta diminuendo negli Usa e aumenta la disoccupazione. Per affrontare una politica di piena di occupazione bisogna semmai tornare alla ricetta keynesiana e non alle derive del neoliberismo conservatore, della destra, che ha dimostrato di essere non solo incapace di mantenere la piena occupazione ma di essere fonte dell’instabilità economica e del disastro finanziario. La piena occupazione deriva dalla capacità di mantenere una domanda adeguata alla disponibilità delle risorse, e dunque un equilibrio macroeconomico che ai tempi dell’”età dell’oro” era garantita dalla politica macroeconomica keynesiana».

John McCain parla della volontà di non spendere 700 miliardi di dollari per aiutare banchieri e broker di Wall Street...
«Questa uscita non aiuterà di certo McCain a differenziarsi dall’amministrazione Bush. Innanzitutto bisognerebbe sapere da chi sono nati quei 700 miliardi e come si sia generato questo impegno che adesso McCain dice di non volersi accollare. Ma come farà a non assumerlo? Lascerà che i mercati degradino in una crisi totale devastante? Nonostante tutto l’intervento del governo americano è in questo momento quasi obbligato per ridare liquidità a un sistema che l’ha perduta completamente ed evitare un collasso. Questo contrasta nettamente con esigenze di equità e finisce per finanziare coloro che hanno provocata questa crisi. Ma per uscirne non basta punire i responsabili, e peraltro McCain si guarda bene dal dire come intende fare, ma rovesciare completamente la politica economica americana, che è stata una politica di indebitamento assurdo e di diseguaglianze. McCain dice di voler diminuire le tasse. Ma come farà a diminuirle e nello stesso tempo a sopportare questa crisi?»

Pubblicato il: 15.10.08
Modificato il: 15.10.08 alle ore 15.17   
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« Risposta #103 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:12:39 pm »

Nawal El Saadawi: «Ecco perché le donne fanno paura ai fondamentalisti»

Umberto De Giovannangeli


È l’autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. Medico, psichiatra. già docente alla Duke University, Nawal El Saadawi, 77 anni, è autrice di romanzi, racconti, commedie, memorie, saggi. Per le sue attività politiche e i suoi scritti a sostegno dei diritti delle donne, si scontra ripetutamente con il regime del Cairo e nel 1981, durante la presidenza di Sadat, viene incarcerata. Dalla metà degli anni Novanta vive in esilio: nel maggio 2008, vince la causa intentata contro di lei per apostasia. Le battaglie e i libri sulla condizione delle donne nella società egiziana e araba hanno esercitato una profonda influenza sulle generazioni degli ultimi trent’anni. Oggi, il suo nome compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni terroristiche. In Italia per presentare il suo ultimo libro: «Dissidenza e scrittura. Conversazione sul mio itinerario intellettuale» (Spirali), Newal El Saadawi argomenta con la consueta passione civile e lucidità intellettuale, una tesi che farà discutere: « Non c’è futuro per la religione - dice - perché la mente umana non può arretrare, la conoscenza è irreversibile. È come la luce. Se nel mio cervello c’è la luce, non può tornare il buio....». «L’Antico Testamento, il nuovo Testamento e il Corano - afferma decisa Newal El Sadaawi - non dovrebbero essere utilizzati in politica o in economia o nella morale o nella sessualità, se vogliamo una vera eguaglianza, in qualsiasi Paese. Se c’è vera eguaglianza non c’è spazio per la religione, che si basa invece sulla discriminazione. Quindi, non credo che si verificherà l’islamizzazione dell’Europa».

Cosa significa oggi lottare con l’«arma» della parola, delle idee per rivendicare diritti, eguaglianza, nel mondo arabo?
«Ritengo che il potere della scrittura sia molto importante. Anche se non abbiamo la libertà di parola, possiamo combattere per le idee in cui crediamo. Anche se siamo in prigione o in esilio, possiamo farlo. Ad esempio, quando io ero in carcere, riuscii a ottenere grazie ad una prostituta, della carta igienica e una matita per le sopracciglia. Con quella carta e quella matita sono riuscita a scrivere un libro: “Memorie in prigione”. Adesso sto insegnando negli Stati Uniti, e il corso riguarda in particolare la creatività e la dissidenza, e poi continuo a scrivere. Negli Stati Uniti ma anche in Egitto. La mia esperienza personale mi fa dire che anche sotto la dittatura più rigida, è possibile utilizzare il potere della scrittura».

Perché le donne fanno paura al potere come ai fondamentalisti?
«Fin dall’inizio della storia dell’umanità,i governanti, ma anche i fondamentalisti e gli stessi Dei maschili, erano contro le donne. Perché erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perché lei ha mangiato dall’albero della conoscenza, e quindi e diventata una peccatrice. Da lì sono cominciate due cose: è iniziata l’oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L’oppressione, la schiavitù sono iniziate con Evo e proseguite con Iside, la divinità femminile della conoscenza. Tutto questo accade perché gli uomini hanno paura delle donne, e hanno paura perché le donne sono più intelligenti degli uomini. Eva era più intelligente di Adamo...per questo si ha paura delle donne in una società che è, al tempo stesso, patriarcale e capitalista».

Nel 2005, Lei ha sfidato per la presidenza dell’Egitto, Hosni Mubarak, un leader sostenuto dagli Usa e dall’Europa. Ma possono essere personalità come Mubarak, da sempre al potere, un baluardo contro l’integralismo?
«Purtroppo l’Unione Europea si sta comportando come un’organizzazione imperialista come l’amministrazione di George W.Bush. Vi sono state molte speranze che questa nuova Europa unita potesse diventare una organizzazione diversa. E invece vediamo che si comporta esattamente come l’America, collaborando con essa. E lo fanno contro di noi. Ci trattano come quelli del Terzo mondo, un tutto indistinto che viene visto come una entità ostile, altroché inferiore. L’Europa e l’America collaborano con i nostri oppressori, con i dittatori. Pensiamo a Saddam Hussein: Saddam collaborava con gli americani ma quando ha detto “no” è stato ucciso. La stessa cosa può accadere con Mubarak. Nel momento in cui dirà di no, uccideranno anche lui, come è successo con Saddam. È questo il problema. Mi lasci dire che io sono venuta qui in Italia non per il governo italiano ma per il popolo italiano, per gli intellettuali, gli scrittori, per presentare il mio nuovo libro. Attualmente io insegno negli Stati Uniti, in una università progressista, però sono molto critica nei confronti di George W.Bush e la sua amministrazione mentre sono negli Usa. Per quanto riguarda Mubarak, il suo proposito dichiarato è di far ereditare il suo potere al figlio. E questo con il sostegno degli Stati Uniti. E stanno negoziando questo con gli Usa, perché Washington vede il potere di Mubarak prima, e di suo figlio dopo, come un’alternativa al fondamentalismo. Contemporaneamente, però, gli americani stanno negoziando con Mubarak da un lato e con i Fratelli Musulmani dall’altra. Davvero un bell’esempio di coerenza...».

Da donna, democratica, femminista, scrittrice araba che vive e insegna in America: come si schiera tra Barack Obama e John McCain?
«Spero vivamente che Obama vinca perché lui è molto meglio di McCain. Io vivo negli Stati Uniti da due anni e mezzo e ho seguito fin dall’inizio questa campagna presidenziale. Mc Cain è un imperialista, è un militare, lui potrebbe uccidere chiunque per i propri interessi o per denaro. Proprio come la Palin o George W. Bush, come tutti i repubblicani. Loro sono di destra, militari, imperialisti., e al 100% a favore di Israele. Barack Obama è sicuramente meglio anche se pure lui sostiene Israele. Nel sessantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele gli ho sentito dire che l’America è Israele, e che Israele è l’America. Questo assunto non mi piace affatto, e spero che Obama si ricreda. Detto questo, lo considero immensamente meglio di McCain e per questo voterò per lui».



Pubblicato il: 24.10.08
Modificato il: 24.10.08 alle ore 9.33   
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« Risposta #104 inserito:: Dicembre 21, 2008, 10:44:36 am »

L'esilio senza fine

di Umberto De Giovannangeli


È l’«esercito» dei senza diritti. Dei senza patria. Sono sei milioni. È il popolo dei rifugiati intrappolati da anni nel limbo dell’esilio senza possibilità di una soluzione. A ricordarne l’esistenza è l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) Antonio Guetteres. «Nella maggior parte di queste situazioni protratte - ricorda Gutteres aprendo a Ginevra un convegno internazionale - i rifugiati sono abbandonati, costretti a trascorrere i migliori anni della loro vita in campi trasandati e baraccopoli, esposti a ogni genere di pericolo e con gravi restrizioni ai propri diritti e alle proprie libertà. Molti rifugiati di lungo periodo non possono tornare a casa perché il proprio Paese è in guerra o perché i diritti umani sono gravemente violati. Solo una piccola parte ha la possibilità di sistemarsi in Paesi terzi. La meritoria opera dell’Unhcr ci permette di avere un quadro dettagliato di una sofferenza diffusa, angosciante. Rifugiati, vite nell’ombra. Un’ombra che l’ultimo rapporto dell’Agenzia Onu aiuta a diradare. Le Nazioni Unite definiscono un rifugiato come una persona che «temendo a ragione di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, apppartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese» (dalla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiato - Ginevra 1951).

Ogni rifugiato ha diritto a sicurezza di asilo, e inoltre ad usufruire dei diritti fondamentali e degli aiuti di cui gode ogni altro straniero che risieda legalmente nel Paese ospite; ha diritto alla libertà di pensiero e di movimento, alle cure mediche e ai benefici sociali ed economici, alla libertà dalle torture. Ha diritto al lavoro. Sulla carta.
Perché la realtà racconta di altre storie, fatte di diritti negati, di identità calpestate, di sfruttamento e vessazioni. Nessun bambino rifugiato dovrebbe essere privato del diritto di ricevere un’istruzione. Ma queste privazioni sono costanti e diffuse.
La condizione dei richiedenti asilo in Italia (circa 38 mila al 2007), ricorda il rapporto dell’Unhcr, è molto difficile. La mancanza di una legge sul diritto d’asilo, pure sancita dall’articolo 10 della Costituzione, ha prodotto in questi anni una situazione di estremo disagio per persone che sono state costrette a lasciare la propria terra. Tra queste persone vi sono molte donne, bambini e vittime di tortura o maltrattamenti nel loro Paese d’origine. In tutte le popolazioni di rifugiati, circa il 50% delle persone è costituito da donne e ragazze. Lontane dalla loro casa, dalla loro famiglia, senza la protezione del loro governo, le donne - sottolinea il rapporto - sono particolarmente vulnerabili. La maggior parte delle donne in fuga non arriva a chiedere asilo all’estero.

Tuttavia, per molte donne anche l’asilo non significa salvezza. Esse sono spesso soggette ad abusi da parte di poliziotti o altre persone. E ancor più vulnerabili. sono i bambini. I bimbi rifugiati: numeri da incubo. Più della metà dei circa 21 milioni di rifugiati in tutto il mondo sono bambini e adolescenti di età inferiore a 18 anni. Un’umanità che chiede rispetto. E diritti. Troppo spesso negati.

udegiovannangeli@unita.it



12 dicembre 2008     
 
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