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« Risposta #75 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:52:35 am » |
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Jody Williams: «Ora siamo sette donne Nobel con lei otto»
Umberto De Giovannangeli
«Il più grande premio per Ingrid Betancourt è poter riabbracciare i propri cari e poter riprendere, da persona libera, quella battaglia di libertà che ha sempre condotto con grande generosità. La sua liberazione è un segnale di speranza innanzitutto per il popolo colombiano che vede in Ingrid il simbolo di coraggio e di un riscatto collettivo. Ingrid libera potrà dare un grande contributo al rilancio del dialogo. Per quanto mi riguarda, penso che il Nobel per la Pace sia il giusto riconoscimento ad una donna che ha messo in gioco se stessa, la sua vita, per il più alto e nobile degli ideali: la pace». A sostenerlo è Jody Williams, premio Nobel per la Pace nel 1997, fondatrice della Campagna per il Bando delle Mine Antiuomo. Assieme a Shirin Ebadi, Jody Williams ha creato la «Nobel Womens Initiative» riunendo le sette donne Nobel per la Pace viventi, Wangari Maathai, Mairead Maguire, Rigoberta Menchu, Betty Williams, Aung San Suu Kyi. «Alla fine - rimarca Jody Williams - Ingrid ha vinto la sfida con i suoi carcerieri. E non solo perché è tornata in libertà, ma perché Ingrid è restata “libera” anche in questi lunghi, terribili anni di prigionia. Libera nella mente. Libera nel restare fedele ai principi che hanno ispirato la sua battaglia politica. Libera nel non odiare i suoi aguzzini».
Dopo oltre sei anni di prigionia nella giungla, Ingrid Betancourt è tornata in libertà. «È una notizia fantastica che mi riempie di gioia. Ingrid Betancourt ha combattuto per i diritti del popolo colombiano e lo ha fatto con gli strumenti della democrazia. Alle armi dei suoi carcerieri ha contrapposto la forza delle sue idee, la sua determinazione non violenta. Ingrid ha interpretato l’anelito di libertà e di giustizia del popolo colombiano, per questo era ed è temuta da quanti intendono perpetuare i propri privilegi e dai falsi propugnatori dell’utopia armata».
La forza delle idee contro la brutalità delle armi... «È proprio così. Questa è stata la sfida di Ingrid. E alla fine ha vinto. Non solo perché è tornata in libertà, ma perché lei era “libera” anche negli anni di prigionia. Libera nella mente. Libera nel continuare a battersi pacificamente, attraverso le sue struggenti lettere, per i propri ideali. Libera di non odiare i suoi carcerieri. In condizioni disumane, Ingrid ha saputo mantenere intatta la propria dignità, facendosi carico anche della condizione degli altri ostaggi...».
Ed ora? «Il conferimento del Nobel per la Pace rafforzerebbe la sua battaglia di libertà e alimenterebbe la speranza a quanti nel mondo si battono per far prevalere le ragioni della vita contro i seminatori di morte. Mi lasci aggiungere che Ingrid era ed è una donna scomoda perché ha ben chiaro che pace va coniugata con giustizia sociale, con l’estensione dei diritti della persona, con la difesa delle minoranze. Perché la violenza non è solo quella delle armi, violenza è anche l’arbitrio del potere, è la corruzione contro cui Ingrid si è sempre battuta, svelando anche i rapporti di malaffare tra esponenti dell’amministrazione governativa e i potenti cartelli del narcotraffico che continuano a condizionare pesantemente la vita politica colombiana. Mi auguro che il futuro della Colombia abbia il volto di Ingrid e la sua passione civile».
Le foto di Ingrid danno conto della fragilità de l suo corpo dopo gli anni di prionia... «Dietro la fragilità di quel corpo c’è la forza, la determinazione di una donna che non si è mai arresa. È quella fragilità apparente, che non si piega; la fragilità dei forti. Come lo era quella del Mahatma Gandhi o di Aung San Suu Kyi...».
Con la sua sofferenza e il suo coraggio, Ingrid Betancourt ha mantenuto l’attenzione internazionale sulla vicenda della Colombia. Lei in questi anni si è battuta per un’altra tragedia colpevolmente dimenticata: quella del Darfur. Un impegno che le fa onore.. Le chiedo: perché questa immane tragedia sembra non interessare la comunità internazionale? «Questo stato di cose testimonia il completo, colpevole fallimento della comunità internazionale nell’assumersi la cosiddetta “responsabilità di protezione”, a partire dalla protezione dei propri cittadini dalle epurazioni etniche, dai crimini di guerra e dalle menzogne sui genocidi perpetrati dallo Stato stesso. Quando uno Stato non riesce a proteggere i propri cittadini, è la comunità internazionale che deve assumersi questa responsabilità. Ma in Darfur continuiamo ad assistere ad una fuga di responsabilità da parte della comunità internazionale a fronte di un governo (del Sudan) che ha orchestrato e partecipato ai crimini di massa».
Lei è stata responsabile del gruppo speciale delle Nazioni Unite chiamato a investigare le condizioni dei diritti umani in Darfur. Il rapporto licenziato dal gruppo Onu è stato durissimo nei confronti delle autorità sudanesi. «Quel rapporto documentava una realtà terribile. Una realtà che io e i miei quattro colleghi abbiamo ricostruito parlando con numerosi sopravvissuti all’epurazione etniche portata avanti dal governo sudanese che si è reso complice di questi crimini per aver armato e addestrato le milizie janjawwd (i jianhjaweed sono i miliziani del regime rabo del nord che dal 2003 hanno lanciato campagne di terrore contro la popolazione civile di origine africana, ndr.). Siamo entrati nei campi dei rifugiati in Ciad e abbiamo parlato con chi ci vive, raccogliendo racconti raccapriccianti che parlano di gigantesche e sistematiche violazioni dei diritti umani e gravi strappi alla legge internazionale. E tutto questo, lo voglio sottolineare, è avvenuto e continua ada accadere nel silenzio della comunità internazionale. Un silenzio complice».
Un silenzio che lei ha avuto il coraggio di rompere. Così come è estremamente significativa un’altra iniziativa che la vede protagonista: la «Nobel Womens Iniziative», che riunisce le sette donne Nobel per la Pace viventi... «Che spero possano diventare presto otto, con Ingrid Betancourt...».
Qual è il senso di questa iniziativa? «Dal Darfur alla Bosnia. ogni pagina atroce nella storia recente dell’umanità, vede le donne come le prime vittime di una violenza brutale. Ma al tempo stesso, sono sempre di più le donne che si ribellano ad una condizione di sfruttamento, di violenza spesso istituzionalizzata: donne che rivendicano i propri diritti, che contestano pratiche sanguinarie e mortificanti della propria sfera sessuale, come l’infibulazione; donne in prima fila nel pretendere dignità e rispetto. L’associazione a cui ho dato vita assieme a Shirin Ebadi (la premio Nobel per la Pace iraniana, ndr.) vuol essere uno strumento al servizio di tantissime donne coraggiose che non hanno la possibilità di far sentire al mondo la loro voce».
Una voce che ha anche il timbro di Ingrid Betancourt... «Il timbro e il contenuto...Perché Ingrid ha lanciato anche un altro messaggio importante: c’è un’alternativa che paga tra il silenzio e il rumore sinistro delle armi. È l’alternativa non violenta».
Pubblicato il: 04.07.08 Modificato il: 04.07.08 alle ore 13.18 © l'Unità.
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« Risposta #76 inserito:: Luglio 05, 2008, 04:54:30 pm » |
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Frattini: il Nobel a Betancourt legame più forte con il Sudamerica
Umberto De Giovannangeli
Un riconoscimento ad una donna coraggiosa. Un investimento per un futuro di dialogo in America Latina. Le ragioni del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt secoondo il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Signor ministro, l'Unità ha lanciato una campagna per l'assegnazione del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt che sta registrando un vasto e qualificato consenso. Perché oggi avrebbe un significato forte questo riconoscimento alla Betancourt?
«Credo per quello che rappresenta la signora Betancourt: una persona che nonostante abbia sofferto una lunga prigionia ha saputo esprimere parole di non risentimento verso i suoi rapitori, ma soprattutto una persona che continua a voler lavorare per il suo Paese, per il bene della Colombia e per la riconciliazione. È evidente che questa è una impostazione che dovrebbe in qualche modo essere premiata, perché premia chi questa lunga prigionia l'ha sofferta per essersi messa al servizio del suo Paese: non va dimenticato che Ingrid Betancourt è stata rapita quando si era candidata alla presidenza della Colombia, e questa decisione è alla base del suo rapimento. E aggiungo un altro argomento che motiva il Nobel per la Pace: la sua azione molto chiara contro ogni forma di violenza e di sopraffazione, è stata una delle ragioni della sua vita politica».
Come valuta l'iniziativa che ha portato alla liberazione di Ingrid Betancourt?
«Si è trattato di una operazione sicuramente esemplare: userei le parole della stessa Betancourt: una operazione perfetta, così l'ha definita e io sono pienamente d'accordo con lei. Una operazione che senza spargimento di sangue è riuscita a liberare lei e gli altri prigionieri americani, dimostra che c'è stata una forte intelligence e che il presidente Uribe ha fatto bene a scommettere su una attività di prevenzione per liberare la signora Betancourt, piuttosto che cedere al ricatto delle Farc, dei trafficanti di droga».
Ingrid Betancourt si pone come una donna di dialogo in un continente ancor oggi segnato da contraddizione esplosive come l'America Latina. In questa chiave, che ruolo può svolgere l'Italia?
«L'Italia, a mio avviso, può dare un contributo forte al dialogo, basato sul fatto che il nostro Paese conosce e ama i popoli sudamericani, e i popoli sudamericani conoscono e amano l'Italia, anche per i rapporti storici che legano i nostri popoli: quanti italiani, o persone di origine italiana, vivono nel continente latinoamericano,e quante occasioni di incontro hanno i nostri italiani nel mondo, le nostre comunità; quanti membri del Parlamento abbiamo che sono eletti in Sud America: questi sono tutti dei "ponti" che noi abbiamo e di questo reciproco riconoscimento di amicizia ho avuto testimonianza diretta: mi riferisco al mio viaggio a Lima in occasione del vertice Ue-America Latina, avvenuto due giorni dopo la mia nomina a ministro degli Esteri, nel corso del quale sono stato ricevuto in bilaterale da tutti i presidenti, al di là delle regole del protocollo. Sono stato ricevuto da Lula, da Chavez, da Morales, dalla signora Kirchner. Presidenti di grandi Stati del Sud America che hanno incontrato il nuovo ministro degli Esteri per dirgli: vogliamo lavorare con l'Italia».
Ingrid Betancourt, e prima di lei Rigoberta Menchu e Aung San Suu Kyi: perché le donne sono divenute il simbolo di grandi battaglie di libertà?
«Pensiamo anche alla premio Nobel per la Pace iraniana, Shirin Ebadi. Io credo perché possono essere l'espressione, al tempo stesso, della moderazione e della tranquillità femminile, ma anche della determinazione; probabilmente una donna si spezza meno di un uomo, e quindi è in grado di assorbire magari sofferenze orribili come sei anni di prigionia, come Ingrid Betancourt, e poi tornare e dire io sono pronta a correre di nuovo per la presidenza della Colombia. Questa è una cosa straordinaria».
L'Europa ha avuto un ruolo importante in termini di pressioni diplomatiche sulle autorità colombiane. Non ritiene che far sentire una voce unica rafforzi il peso dell'Europa sullo scenario internazionale?
«Questo vorrebbe dire avere delle linee di politica estera europea che purtroppo in molti settori non abbiamo: non l'abbiamo avuta e non l'abbiamo tuttora sullo Zimbabwe; non l'abbiamo avuta sulle Olimpiadi di Pechino; abbiamo avuto delle reazioni certamente univoche sulla Birmania ma senza che questo si sia tradotto, ad esempio, in una sola parola critica verso il moltiplicarsi degli investimenti imprenditoriali in Birmania di grandi Paesi europei, compresa l'Italia. Questo, purtroppo, è il prezzo di non avere ancora una visione comune in politica estera, perché se c'è un Paese che ha un problema tutti gli altri si fermano. Questa è la realtà».
Lei ha più volte manifestato una attenzione particolare verso il tema dei diritti. Le chiedo: a livello dei rapporti bilaterali ma soprattutto multilaterali, pesa quanto dovrebbe il tema della difesa dei diritti ovunque sotto qualunque «latitudine» politica?
«Io vedrei questa come una delle missioni politiche dell'Europa nei prossimi cinquant'anni. Ormai l'Europa ha realizzato gli obiettivi dei padri fondatori: pace e prosperità al suo interno; ha realizzato il mercato interno, che certamente è stato un grande risultato, ma è l'Europa dei mercati. Se io dovessi guardare ad una missione politica dell'Europa, direi che questa missione deve tendere a promuovere i diritti fondamentali della persona umana in tutto il mondo, in modo ovviamente non aggressivo, senza imporre soluzioni precotte ma facendo crescere, lievitare una cultura ed una pratica conseguente del rispetto dei diritti della persona: questa è davvero una missione altamente politica. Una nobile missione».
Può essere questo anche un tratto distintivo dell'ultima parte del biennio di presenza italiana nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite?
«Può esserlo certamente. Io sono convinto che in questa fase noi abbiamo delle carte da giocare proprio su questo tema».
Pubblicato il: 05.07.08 Modificato il: 05.07.08 alle ore 16.18 © l'Unità.
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« Risposta #77 inserito:: Luglio 15, 2008, 10:20:27 pm » |
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Medio Oriente, la carta siriana
Umberto De Giovannangeli
Puntare su Bashar per isolare il «folle di Teheran». Riabilitare un regime dispotico per provare a disinnescare la bomba (nucleare) iraniana. Un azzardo, ma un azzardo calcolato. «La pace non è mai stata così vicina»: un’affermazione impegnativa, fin troppo. Tanto più se a pronunciarla è un leader in caduta libera nel suo Paese, come lo è il premier israeliano Ehud Olmert. Ma quella materializzatasi a Parigi è qualcosa di più di una fragile speranza. È la consapevolezza che se la pace non si avvicina, ad avvicinarsi, a grandi passi, è la guerra. Una guerra che rischierebbe di far esplodere la polveriera nucleare mediorientale. Per questo l’Europa, ancor più che un’assente America, a Parigi ha provato a giocare la «carta siriana». Per provare a dividere Damasco da Teheran, innanzitutto. Il tempo non lavora per la pace: lo sanno bene i leader che si sono riuniti a Parigi.
Come sanno che in Medio Oriente il vuoto dell’azione diplomatica è sempre riempito dal sinistro linguaggio delle armi. E del terrore. Una cosa appare certa: l’attuale status quo non regge più. Non regge sul fronte israelo-palestinese, e ancor più su quello iraniano. Fuori dai sorrisi, dalle strete di mani, dagli abbracci e dalle frasi roboanti, spenti i riflettori, a restare viva è la consapevolezza che la posta in gioco, nei prossimi mesi, è di quelle che fanno tremare le vene dei polsi: evitare la guerra. E per farlo, occorre un di più di politica. Aprire a Damasco per dare un segnale di speranza a Gerusalemme (un accordo con Israele «forse entro sei mesi» non è da escludere, dichiara Assad). E per parlare a quella componente del regime degli ayatollah che pur di evitare la guerra, e salvare la nazione, potrebbe essere disposta anche a rimettere in discussione alcuni capisaldi della rivoluzione khomeinista. Dimostrando che è possibile ritornare nel gioco, politico-diplomatico, del Grande Medio Oriente. Come sta accadendo per la Siria di Bashar el-Assad. La diplomazia internazionale è costretta a muoversi. Costretta, perché le notizie che giungono da quella tormentata, e nevralgica, area del mondo dicono che uno strike aereo israeliano contro l’Iran è qualcosa di più di una opzione: è una prospettiva ravvicinata.
La pace non sarà più vicina, di certo non può più attendere, o restare confinata a conferenze tanto pubblicizzate quanto prive di concreti sviluppi sul campo. E la pace, più che da Ramallah, passa oggi per Gerusalemme, Damasco, Teheran. E da questa triangolazione è possibile far discendere, una soluzione della stesa vicenda israelo-palestinese. Per questo ha senso tirar dentro il giovane Assad. L’esito positivo è tutt’altro che scontato, ma vale la pena provarci. È quello che aveva cercato di fare il governo di centrosinistra italiano. Il governo di Romano Prodi. Ieri, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha voluto vicino a sé, nel giorno della festa nazionale, Bashar el-Assad. Poco distante, nella tribuna d’onore, c’era Silvio Berlusconi. Nessuno ha menato scandalo. Così non era stato quando Romano Prodi, e l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema, avevano sollecitato un impegno siriano nella difficile stabilizzazione del Libano dopo la devastante guerra dei 34 giorni di due estati fa. Allora, fu un fuoco di fila di critiche, di invettive da parte dell’opposizione di centrodestra, ora al governo, contro un «premier irresponsabile» e un ministro degli Esteri «amico degli Hezbollah». Ora a Beirut gli Hezbollah sono parte decisiva del nuovo governo libanese. Ora chi dialoga con Assad non è considerato un «irresponsabile» ma un politico accordo, lungimirante. E chi prova a farsi da tramite, come Sarkozy o il premier turco Erdogan, viene considerato un amico di Israele. Va ricordato. Non per spirito di polemica. Ma perché la politica estera non dovrebbe mai essere piegata alla miseria della polemica interna.
Pubblicato il: 15.07.08 Modificato il: 15.07.08 alle ore 8.42 © l'Unità.
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« Risposta #78 inserito:: Luglio 16, 2008, 09:57:32 pm » |
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Medio Oriente, la sfida delle prime donne Umberto De Giovannangeli Belle. Eleganti. Moderne. Buoni studi e ottime letture. C’è chi ha servito nel più agguerrito servizio segreto del mondo (il Mossad), Chi ha lavorato con successo presso la sede londinese della Deutsche Bank e successivamente alla J.P.Morgan. Chi ha inaugurato il suo sito web visitato in soli due giorni da oltre 150mila utenti. Asma. Rania. Tzipi. La «rivoluzione rosa» in Medio Oriente. Hanno conquistato le copertine dei settimanali spesso oscurando mariti re, presidenti e (Tzipi) premi ministri che si vorrebbe spodestare. I tre volti di un Medio Oriente che guarda al futuro: sono loro le «ambasciatrici» del cambiamento. ASMA al-ASSAD. La moglie «inglese» per il rais di Damasco, Bashar el-Assad. Colta, indipendente, nata in Gran Bretagna, figlia di un noto cardiologo siriano, Fawaz Akhras, Asma e Bashar si sono conosciuti a Londra, quando il giovane delfino di Hafez el Assad studiava da oculista. La loro, racconta, è stata una travolgente love story, un vero colpo di fulmine: con Bashar è bastato uno sguardo: «Ho saputo che mi sposava il giorno prima delle nozze». Hanno una comune passione: le nuove tecnologie. Asma è laureata in informatica e affascinata dalla new economy. Laureata in informatica e letteratura francese, la first lady siriana (33 anni l’11 agosto), ha lavorato nel 1997 presso la sede londinese della Deutsche Bank come analista nel ramo vendita ed acquisto degli «hudge fund», occupandosi dei clienti nell’Estremo oriente e in Europa. È poi passata, un anno dopo,, alla J.P. Morgan dove è rimasta per tre anni, fino al matrimonio. Madre di tre bambini, Asma interpreta dinamicamente il ruolo di first lady: ha dato vita a progetti per lo sviluppo economico della Siria, tra cui la prima Ong siriana per lo sviluppo rurale, il Fund for Integration Rural Development, ed oggi continua ad occuparsi anche di educazione femminile nel mondo arabo e del ruolo delle donne imprenditrici, della diffusione dei libri per bambini, dello sviluppo dell’informatica. La sua attività a sostegno di eventi culturali, ed in particolare storici ed artistici, le è valso il conferimento, da parte dell’Università La Sapienza di Roma, di una laurea honoris causa in archeologia. RANIA di GIORDANIA. L’identità cosmopolita è l’interfaccia della sua passione per Internet. «Sono araba dalla testa ai piedi, ma parlo anche un linguaggio internazionale...l’incontro con culture e tradizioni diverse mi ha dato molta forza e una certezza: non considero più nessuno come straniero». Bella ed elegante. Nuova icona dello stile e grandissima fans della moda italiana. Rania (38 anni il 31 agosto), la dolce regina (dal 1999) di Giordania, è già considerata la Jacqueline Kennedy del Terzo Millennio. Con la first lady siriana condivide la passione per l’informatica. Chi la conosce da vicino, parla di lei come una persona intelligente, ambiziosa, determinata. Uno spirito libero, fiero e indipendente. Una donna dal fascino indiscutibile: è stata considerata, nel 2005, dal magazine inglese Harpers and Queens come la terza donna più bella del mondo. Moderna come poche, Rania parla ora attraverso il web. Nei primi due giorni on line, il suo video è stato visto da oltre 150mila utenti che hanno postato ben 500 commenti. Rania, che gestiva già dal 2005 il suo sito www.queenrania.jo, ha spopolato con il suo videomessaggio su Youtube. In esso si rivolge prevalentemente al popolo occidentale a cui dice: «In un mondo in cui è così facile essere connessi, restiamo ancora così disconnessi...». Le conversazioni via e-mail sono il naturale proseguimento dei colloqui diretti con al gente che sono nell’agenda quotidiana della regina. Il suo sogno, ha più volte affermato, è aiutare la pace e la prosperità del Medio Oriente dotando di computer ogni casa, ogni scuola, ogni luogo pubblico in Giordania e nel resto del mondo arabo: «Con i computer, Internet e le opportunità offerte dall’informazione multimediale non ci si può più isolare. La pace non può limitarsi alle scelte e al coraggio dei leader. In Medio Oriente non c’è ancora il pieno coinvolgimento della gente. Ma quando la pace rientra nei tuoi interessi, esaltati dalla cooperazione, il rischio di conflitti si allontana, fino ad annullarsi». Sulla sua scrivania, nella semplice palazzina a due piani dove abitava con Abdallah ancor prima di ascendere al trono, situata sulla vetta della collina di Baraka, il computer della regina è sempre acceso. Per Rania il computer è più che uno strumento di potere, è la speranza di una vita migliore. Migliore per il popolo di cui è divenuta regina, e per il popolo di cui, Rania, si sente fiera di essere parte: il popolo palestinese. TZIPI LIVNI. È la seconda donna nella storia di Israele ad aver guidato la diplomazia dello Stato ebraico. La prima fu Golda Meir. Chi la conosce, parla di lei, Tzipi (Tzipora all’anagrafe) Livni, nei termini in cui definisce la sua diplomazia: efficace, intelligente, a tratti un po’ fredda: un mix tra aggressività e dolcezza. Oggi, Tzipi Livni è considerata il secondo politico più potente di Israele: nelle primarie di Kadima, previste per la metà di settembre, è l’avversaria più ostica per il premier Ehud Olmert. Sposata con due figli, avvocata di successo, Tzipi (50 anni) nasce da una famiglia dell’aristocrazia della destra storica israeliana: suo padre, Eitan Livni, è stato un combattente dell’indipendenza israeliana, militante nell’Irgun durante gli anni del mandato britannico sulla Palestina. Eletta per la prima volta alla Knesset nel 2001 con Likud (la destra israeliana) prima di divenire titolare degli Esteri, ha ricoperto, tra le altre, le cariche di ministra dell’Immigrazione e, successivamente, della Giustizia. Nel 2007 la rivista Time l’ha inserita fra le 100 persone che stanno trasformando il mondo. Rispetto ad Asma e Rania, Tzipi ha più stile che fascino, lo stile - raccontano i suoi collaboratori - di chi è stato luogotenente di Tzahal e servito per quattro anni nelle file del Mossad, il servizio segreto israeliano. Sulla lapide del padre è incisa una mappa d’Israele che include le due rive del Giordano, ma oggi, Tzipi è decisa sostenitrice di una «pace nella sicurezza», fondata sul principio «due popoli, due Stati». Quanto alla Siria, è stata lei, ben prima di Olmert a sostenere la necessità di dar credito alle aperture di Assad. Pubblicato il: 16.07.08 Modificato il: 16.07.08 alle ore 8.26 © l'Unità.
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« Risposta #79 inserito:: Luglio 28, 2008, 11:14:06 pm » |
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Yehoshua: Obama può essere un presidente di pace
Umberto De Giovannangeli
Un leader in ascesa, Barack Obama. Un Paese, Israele, in grave deficit di leadership politica; fenomeno, quest’ultimo, che investe anche il campo palestinese. E sullo sfondo, uno sfondo sempre più inquietante, la minaccia iraniana. L’Unità ne parla con il più grande scrittore israeliano contemporaneo. Abraham Bet Yehoshua. «Nel suo discorso di Berlino - riflette Yehoshua - Obama ha parlato di una sfida comune: abbattere i Muri di odio e di incomprensione tra Stati, popoli, razze e religioni. Una sfida affascinante, estremamente impegnativa. Una sfida che deve partire dal “Muro”, non solo fisico, che separa israeliani e palestinesi. E quel “Muro” si può abbattere solo realizzando una pace nella sicurezza per due popoli e due Stati. Una pace che non può più attendere».
«Al mondo serve un grande presidente». Così Shimon Peres si è rivolto a Barack Obama durante la recente visita in Israele del candidato democratico alla Casa Bianca. Obama ha i requisiti giusti per esserlo, un grande presidente? «Non sono assolutamente in grado di dire se Barack Obama, qualora venga eletto, sarà un grande presidente o solo un buon presidente o perfino un pessimo presidente. Quello che posso dire è che la scelta di un leader non è solo legata alle sue qualità carismatiche, ma è il risultato di alcuni elementi: innanzi tutto il carattere del popolo che lo sceglie e che egli deve guidare; le necessità che è chiamato a risolvere; le circostanze che lo portano a spiccare proprio in quel momento. Nel caso di Obama non c’è dubbio che siamo di fronte ad un fenomeno che è frutto di delusione e reazione degli americani verso l’operato di Bush e dei circoli che lo hanno influenzato e dei cui interessi egli si è sempre preoccupato. Una protesta portata avanti sia su un piano operativo che ideologico. Le qualità di un grande leader? Saper prendere decisioni riuscendo allo stesso tempo a non distaccarsi dai processi storici, sociologici, spirituali e culturali che avvengono nel proprio popolo. Questo per quanto riguarda la gestione interna. Ma nel caso del presidente degli Usa, la questione è molto più ampia. Oggi è molto comune parlare di mondo globale. Ed è vero che anche molti dei problemi che magari potrebbero anche essere definibili geograficamente come locali o regionali, superano la loro valenza nazionale e assumono una importanza internazionale. A questo punto anche la ricerca della soluzione diventa affare non più dei leader locali - che vanno rafforzati e spronati - ma dello sforzo e dell’aiuto portato da capi di varie nazioni. È il caso del conflitto mediorientale che, a mio parere, potrà essere risolto solo con l’aiuto e l’influenza di leader delle nazioni più influenti, prima fra tutte gli Usa. Obama ha espresso in questo tutta la sua disponibilità a dare il contributo, e per il momento non possiamo che prenderne atto sperando che questa disponibilità si trasformi in atti concreti, da Presidente della pace fra israeliani e palestinesi».
Un Paese in trincea, come Israele, può permettersi una leadership politica mediocre? «Purtroppo dovrà farlo fino a che non cambieranno le condizioni che sono alla fonte di questa situazione. Di fronte a scelte di particolare importanza esistono anche strumenti come il referendum, anche se personalmente non lo incoraggerei molto. Comunque da noi, lo spazio per un fenomeno del tipo di Obama è molto ristretto, quasi inesistente, soprattutto per la pochissima apertura che il sistema politico lascia a personaggi che vengono da mondi che siano diversi da quello politico-partitico. La guida del Paese ruota sempre intorno a una rosa molto ristretta di nomi: Olmert è nella politica da decenni, Nethanyahu è già stato primo ministro, lo stesso per Ehud Barak e così via per tutti gli altri che sostanzialmente si scambiano le loro poltrone ministeriali al cambio di ogni governo, con pochissime nuove entrate. Ma anche quando i leader arrivano alle loro posizioni di potere, la configurazione politica di Israele, da decenni non produce partiti di potere ma al massimo partiti che possono guidare coalizioni così ristrette da non permettere respiro politico. Sono passati i tempi in cui Ben Gurion, Levi Eshkol, Golda Meir guidavano governi con ampie maggioranze e imprimevano al Paese svolte drammatiche. All’origine di questo ci sono due fattori: il primo è che fin quando non verrà risolta la questione israelo-palestinese che divide il popolo e i suoi rappresentanti alla Knesset, non potremo avere una situazione differente da quella di oggi. Fino a quando la sorte di un governo può essere legata - non a una concessione, ma anche solo a una dichiarazione di voler fare una concessione - non esistono le condizioni per un leader forte. Il secondo fattore è che Israele è un Paese e una democrazia ancora giovane e assolutamente particolare. Il popolo che lo compone e che sta ancora oggi contribuendo alla costruzione del Paese, è da soli 60 anni una democrazia, dopo essere stato per 2000 anni abituato a vivere nella diaspora, sotto leggi di altri popoli. Per tutto questo lunghissimo periodo, si doveva comportare in base a leggi e a decisioni politiche in cui esso giocava un ruolo totalmente passivo. Dalla nascita dello Stato d’Israele l’Ebreo, insieme alla costruzione del Paese, deve costruire una parte della sua personalità come cittadino e - dopo 2000 anni - deve decidere della sua sorte e accettare che siano altri Ebrei a decidere tanto del suo quotidiano quanto del suo futuro. L’"Ebreo totale" è ancora in fase di costituzione».
Un problema di leadership è presente anche tra i palestinesi. Chi ha vinto le elezioni, Hamas, non è considerato da Israele un interlocutore con cui dialogare, mentre chi si ritiene "affidabile", il presidente Abu Mazen, non gode di un grande seguito popolare. «Nel loro caso il problema è ancora più profondo. Si tratta di convincere il popolo palestinese che una certa via è migliore di un’altra. Questo non può essere fatto con l’imposizione o la violenza, ma con un’opera di convincimento che deve essere frutto di una collaborazione internazionale. Quando parlavo prima del coinvolgimento dei leader delle grandi nazioni nella risoluzione di problemi che pur essendo regionali hanno implicazioni globali, pensavo soprattutto al nostro conflitto. Tutte le parti devono far confluire i loro sforzi nel far rendere conto ai palestinesi che la via del dialogo non solo è l’unica ma è anche la migliore soluzione al conflitto con Israele. Aiutarli ad avere una vita migliore, uno sviluppo economico, far capire loro che la loro speranza per il futuro è nella vita e non nel martirio. Oggi il problema non è quasi più l’accordo - i cui termini sono più o meno chiari alle due parti - ma spingere i due popoli, soprattutto quello palestinese, ad accettarlo».
Tra le emergenze dell’oggi, la più urgente è senz’altro quella dell’Iran. C’è chi, dentro e fuori Israele, perora l’opzione militare. Israele può avventurarsi in un’operazione del genere con una leadership traballante? «Senza entrare nella questione della necessità o meno di un’azione militare, posso dire che se è vero che situazioni di drammatica emergenza e minaccia esterna impongono alla leadership decisioni difficili, è anche vero che uniscono la popolazione e creano generalmente un consenso che mette a tacere le divisioni e la corrosività delle critiche. Quanto più è grave la situazione, tanto più i leader godono dell’appoggio del popolo. Così è sempre stato in tutte le situazioni vitali di Israele: prima si combatte, si supera il pericolo e dopo - solo dopo - si mettono in discussione le decisioni prese. In ogni caso, qui la situazione è differente perché il pericolo iraniano non riguarda solo Israele ma tutto il mondo e mi aspetto che sia la leadership mondiale ad affrontare e risolvere il problema».
Pubblicato il: 28.07.08 Modificato il: 28.07.08 alle ore 8.47 © l'Unità.
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« Risposta #80 inserito:: Luglio 29, 2008, 06:35:24 pm » |
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Haniyeh: il soldato Shalit è vivo, Israele tratti con noi di Hamas
Umberto De Giovannangeli
«Gli autori degli attacchi criminali dei giorni scorsi non sfuggiranno alla giustizia: tutti coloro che vogliono versare sangue palestinese subiranno processi esemplari. Non permetteremo che il caos torni a regnare a Gaza». A parlare, in questa intervista esclusiva a l’Unità, è il premier di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh. «Il presidente Abbas (Abu Mazen) - dice il leader di Hamas - deve liberarsi una volta per tutte di quei personaggi che tramano contro la resistenza in combutta con il nemico sionista». Il riferimento è all’ex uomo forte di Al Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan. A l’Unità, Haniyeh dice che Hamas è disposta ad accettare il dispiegamento di una forza araba nella Striscia di Gaza integrata da elementi scelti dei «nostri servizi di sicurezza». Haniyeh parla anche delle trattative per la liberazione di Gilad Shalit, il giovane caporale israeliano rapito due anni fa ai confini tra la Striscia e Israele: «A quanto ci risulta - afferma il leader di Hamas - il soldato israeliano è in vita. Israele ha in mano da tempo la lista dei prigionieri palestinesi di cui si chiede la liberazione in cambio di Shalit. Il meccanismo è lo stesso dello scambio avvenuto tra Israele e Hezbollah». E nell’elenco di prigionieri palestinesi da liberare c’è anche il nome di Marwan Barghuti, segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania. Haniyeh lo conferma a l’Unità: «A differenza di altri - sottolinea il premier di Hamas - noi non facciamo differenze tra prigioniero e prigioniero. Barghuti è un dirigente della resistenza e per questo merita di tornare in libertà».
Attentati, arresti di massa a Gaza e in Cisgiordania. Nei Territori torna l’incubo della guerra civile? «L’attentato dei giorni scorsi a Gaza è stato un atto criminale ordito dai nemici della resistenza. Costoro puntano a ricreare il caos nella Striscia, ma non raggiungeranno il loro obiettivo. Chiunque si macchia di sangue palestinese subirà processi esemplari».
Il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) nega un coinvolgimenti di Al Fatah nell’attentato sulla spiaggia di Gaza e accusa Hamas di averlo preso a pretesto per operare arresti di massa di dirigenti e militanti di Fatah. «Il presidente Abbas sa bene che a Gaza agiscono ancora personaggi che avevano tentato, senza riuscirci, di ribaltare con le armi i risultati delle elezioni che avevano sancito la vittoria di Hamas. Costoro non demordono e continuano la loro opera di destabilizzazione. Vogliono far piombare la Striscia nel caos Adesso dicono che gli arresti sono la seconda fase di un golpe: stiamo solo cercando gli assassini».
La parola dialogo è definitivamente bandita tra Hamas e Al Fatah? «La nostra disponibilità a dar vita a un nuovo governo di unione nazionale non è venuta meno, ma perché ciò possa accadere prima il presidente Abbas deve far pulizia all’interno di Fatah».
Cosa significa "fare pulizia"? «In Fatah è aperto uno scontro tra coloro che sono disposti al dialogo con Hamas e una fazione che punta sulla resa dei conti armata. Il presidente Abbas rischia di rimanere ostaggio di quest’ultimi. La nostra posizione non è mutata: rispettiamo Abu Mazen e lo consideriamo il presidente dei palestinesi, allo stesso tempo lui deve rispettare la volontà popolare che con le elezioni del 2006 ha dato la maggioranza ad Hamas».
Nei giorni scorsi ci sono stati scontri a fuoco anche tra le forze di sicurezza di Hamas e miliziani dell’"Esercito islamico" di ispirazione qaedista. Al Qaeda vuole assumere la leadership della resistenza armata palestinese? «Nessuno può impartire lezioni al popolo palestinese su come resistere all’occupazione sionista, né accetteremo mai che la causa palestinese venga strumentalizzata per altri fini».
Cosa ne è stato del caporale Gilad Shalit? I suoi familiari disperano di poterlo riabbracciare in vita. «Il soldato israeliano (rapito due anni fa da un commando dell’intifada, ndr.) è ancora in vita. Israele ha in mano da tempo la lista di prigionieri palestinesi da liberare in cambio del suo soldato. Lo hanno fatto con Hezbollah, è quella la strada da seguire».
Può confermare che nell’elenco consegnato al governo israeliano c’è anche il nome di Marwan Barghuti? «Sì, c’è anche il suo nome. Hamas ha sempre lavorato per costruire un fronte comune di resistenza tra tutte le componenti palestinesi. Marwan Barghuti è un dirigente di Al Fatah ma prima di tutto è un dirigente della resistenza. Ha combattuto l’occupazione israeliana, per questo è stato imprigionato. E per questo ne chiediamo la liberazione».
Ma le autorità israeliane hanno sempre negato la libertà a Barghuti come agli altri detenuti palestinesi con "sangue sulle mani". «Questo principio non è valso nello scambio con Hezbollah (Israele in cambio della restituzione delle salme di suoi soldati ha liberato Samir Kuntar, un miliziano libanese condannato al carcere a vita per aver partecipato ad un’azione terroristica in cui fu sterminata una famiglia israeliana, tra cui una bimba di 4 anni, ndr.). Lo ripeto: Israele dovrà pagare il prezzo per la liberazione di Shalit. Il prezzo della messa in libertà di uomini della resistenza palestinese».
Il dialogo riparte dal "fronte del carcere"? «Può ripartire dalla convinzione, non solo nostra, che il vero problema del popolo palestinese è l’occupazione israeliana. E tutto ciò che può rafforzare la resistenza è benvisto da Hamas».
Il cessate il fuoco concordato con Israele reggerà ancora a Gaza? «Abbiamo dimostrato di saper rispettare i patti. Sta a Israele fare altrettanto».
L’iniziativa araba ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale in Libano… «È un’esperienza da ripetere anche in Palestina. Sì il nuovo "modello libanese" potrebbe funzionare anche a Gaza».
(ha collaborato Osama Hamdan)
Pubblicato il: 29.07.08 Modificato il: 29.07.08 alle ore 8.17 © l'Unità.
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« Risposta #81 inserito:: Luglio 31, 2008, 03:04:54 pm » |
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Fausto Pocar: «Un monito per tutti i potenti. Con un processo rapido e giusto»
Umberto De Giovannangeli
«Oggi (ieri per chi legge, ndr.) è un giorno importante, un giorno di festa per la giustizia internazionale. L’estradizione all’Aja di Radovan Karadzic è un atto di giustizia e non di vendetta. Ed è anche un monito per tutti coloro che nel mondo, fossero anche capi di Stato o alte personalità di governo, si sono macchiati di crimini contro l’umanità: alla fine, la "campana" della giustizia suona per tutti». A sostenerlo è il professor Fausto Pocar, presidente del Tribunale penale internazionale (Tpi) per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, davanti al quale comparirà l’imputato Radovan Karadzic. «Per le vittime dei crimini di cui è imputato Karadzic - rimarca il professor Pocar - sia sottoposto a giudizio, rappresenta un motivo di riparazione anche se questa riparazione avviene a distanza di anni». «Il fatto che la Serbia - rimarca il presidente del Tpi - abbia proceduto alla consegna di Karadzic, rappresenta un segno tangibile della cooperazione da parte di Belgrado, anche se ciò è avvenuto molto dopo l’atto di accusa che risale al 1996». Ora l’attenzione su altro ricercato «eccellente», tristemente tale, del Tpi; Ratko Mladic. «Mi auguro - afferma in proposito Fausto Pocar - che Mladic venga consegnato presto, e come lui anche l’altro ricercato dal Tpi, Goran Hadzic (ex presidente della Repubblica serba auto-proclamata di Krajina, ndr.). Spero che vengano presto all’Aja per permettere al Tribunale di concludere il più rapidamente possibile la sua missione».
Professor Pocar cosa rappresenta per il Tpi la consegna da parte delle autorità serbe di Radovan Karadzic?
«Io ho sempre sostenuto davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che il Tribunale che ho l’onore di presiedere non poteva chiudere fino a quando tutti gli imputati, in particolare quelli accusati dei crimini più gravi e ai più alti livelli nella gerarchia della Repubblica Serska di Bosnia, non fossero finiti davanti al Tribunale dell’Aja e giudicati. Con l’arresto e l’estradizione di Karadzic siamo sulla buona strada».
Qual è il valore della consegna di Karadzic al Tpi?
«Il Tribunale si regge, come del resto tutti i Tribunali internazionale, sulla cooperazione degli Stati. Non vi è dubbio che la consegna di Karadzic all’Aja sia una manifestazione di questa cooperazione, imposta dal Consiglio di Sicurezza nella risoluzione che ha adottato lo strumento del Tpi ma che gli Stati spesso hanno difficoltà a mettere in pratica. Il fatto che la Serbia abbia proceduto alla consegna di Karadzic rappresenta un segno tangibile di cooperazione da parte di Belgrado; un segno che va riconosciuto e apprezzato, sebbene ciò si avvenuto molto tempo dopo l’atto di accusa che risale al 1996».
Ed ora è la volta di Ratko Mladic?
«Io mi auguro che Mladic venga consegnato presto. Sono ancora due - Mladic e Hadzic - i ricercati ancora a piede libero. Spero che vengano presto all’Aja per permettere al Tribunale di concludere il più rapidamente possibile la sua missione».
In una recente intervista a l’Unità, il professor Antonio Cassese, che è stato per sei anni presidente del Tpi, pensando al processo a cui sarà sottoposto Karadzic, ha auspicato che non si ripetano gli errori commessi con Milosevic.
«Certamente la vicenda Milosevic ha portato a un processo troppo lungo, mentre è importante che i processi davanti al Tpi siano condotti nel pieno rispetto delle garanzie processuali ma anche rapidamente, perché la durata non eccessiva del processo è una componente fondamentale del principio dell’equo processo, come peraltro ha più volte sottolineato anche la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo».
C’è chi prevede che Karadzic utilizzerà l’aula del tribunale come una tribuna politica.
«Non mi sento di fare previsioni di questo tipo. Al momento, sembra solo che Karadzic abbia manifestato l’intenzione di difendersi personalmente».
Il processo a cui sarà sottoposto Radovan Karadzic riporterà alla memoria e all’attenzione internazionale alcune delle pagine più terribili della guerra nella ex Jugoslavia. Questo processo cosa può rappresentare per quanti portano ancora i segni, nel fisico e soprattutto nella mente, di quelle vicende così drammatiche e ripugnanti?
«Per le vittime credo che il fatto di aver sottoposto a giudizio una delle persone di cui si allega la responsabilità per i crimini- - crimini di guerra e contro l’umanità - debba essere un motivo di riparazione anche se questa riparazione avviene a distanza di anni».
Guardando oltre al Tpi. Questo successo può rafforzare gli organismi, non solo giudiziari, internazionali?
«Il credo di sì. Ritengo che il fatto che questi atti d’accusa, sia pure dopo un certo tempo, portino alla cattura degli accusati, ciò rafforzi la posizione delle istituzioni internazionali deputate ad assicurare che l’impunibilità non sia più un principio che protegge coloro che commettono crimini internazionali, indipendentemente dal fatto che si tratti di capi di Stato o di alte figure nel governo statale. Il messaggio è chiaro: chi si è macchiato di crimini di guerra, contro l’umanità, anche se costui ricopre importante incarichi di Stato o di governo, non può ritenersi imperseguibile dalla giustizia internazionale».
Professor Pocar, quella di oggi (ieri,ndr.) può essere considerata dal Diritto internazionale come una tappa importante, miliare, per la sua concretizzazione?
«Il discorso investe la vicenda Karadzic ma riguarda un bilancio complessivo dell’intera attività fin qui svolta dal Tribunale dell’Aja. Il fatto che il Tpi - che è, è bene ricordarlo, il primo del genere nella storia ad essere istituito dalla comunità internazionale intera - abbia mostrato e stia mostrando di essere in grado di far funzionare effettivamente la giustizia penale internazionale, costituisce uno sviluppo del Diritto internazionale senza precedenti e di importanza davvero significativa per la condotta degli Stati e dei loro governi nelle relazioni internazionali e all’interno degli stessi Stati».
Pubblicato il: 31.07.08 Modificato il: 31.07.08 alle ore 10.13 © l'Unità.
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« Risposta #82 inserito:: Agosto 03, 2008, 12:26:44 pm » |
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Rosa Villecco Calipari: «La destra sbaglia, in Libano stiamo lavorando bene»
Umberto De Giovannangeli
«Mai come in questo momento la missione Unifil nel Sud Libano ha bisogno di un forte sostegno della comunità internazionale e dell’Italia in particolare. Perché non va mai dimenticato che nella missione Unifil sono impegnati 2700 nostri soldati, percepiti positivamente dalla popolazione locale oltre che dalle autorità libanesi». Lo dice Rosa Villecco Calipari, capogruppo Pd alla Commissione difesa della Camera, reduce da una missione parlamentare nel Sud Libano.
Lei è reduce da una missione parlamentare in Sud Libano. Quale impressione ha ricavato?
«La più forte è che ci troviamo di fronte ad una vera missione di pace. A testimoniarlo è anche il doppio ruolo ricoperto dal generale Graziano: comandante dell’intera missione militare Unifil e al tempo stesso responsabile di tutta la parte che compete, in quella nevralgica area del Libano, la cooperazione e la ricostruzione civile. Questa è la vera, positiva, atipicità di questa missione rispetto alle altre. La sua positività è anche nel fatto che la sovranità del territorio è pienamente nelle mani del governo libanese. Non c’è sottrazione di sovranità, ma c’è un sostegno importante alle forze armate libanesi, come peraltro previsto dalla stessa risoluzione 1701 delle Nazioni Unite».
Lei ha fatto riferimento al sostegno sul campo operato dal contingente Unifil nel quale l’Italia ha il comando e la presenza quantitativa più rilevante.
«È un sostegno che si manifesta in più direzioni. Tutte estremamente importanti e impegnative. I nostri soldati, sotto egida Onu, sono impegnati in compiti specifici che contemplano anche l’uso della forza ma esso è legato alla protezione dei civili e del personale delle organizzazioni non governative. E questo avviene nel rispetto della legislazione nazionale libanese e di quella internazionale».
Ma c’è chi sostiene, dentro e fuori in Italia, in particolare Israele, che i nostri soldati e il comando del generale Graziano sarebbero troppo "compiacenti" nei confronti dei miliziani di Hezbollah.
«Non mi sembra affatto che le cose stiano così. Nel corso della nostra missione, siamo stati nella cosiddetta "Linea blu" e siamo arrivati fino a tre chilometri dal confine con Israele. Ebbene, abbiamo notato l’equilibrio e la grande capacità operativa dei nostri militari, che, anche questo è bene ricordarlo, hanno subito attacchi diretti, l’ultimo quello del gennaio 2008 in cui rimasero feriti due dei nostri soldati. È evidente, e di questo siamo stati informati nei nostri incontri, che c’è una forte reattività da parte israeliana che si manifesta con sorvoli quotidiani dello spazio aereo libanese che hanno trovato picchi notevoli a partire dal marzo 2008. Resta il fatto che i nostri militari si sono sempre mossi nell’ambito del mandato definito dalla risoluzione 1701, mettendo in questo una capacità, professionale e umana, che ci fa solo onore».
Può farci un esempio?
«Mi ha molto colpito la testimonianze delle nostre 65 soldate impegnate nel contingente. Ragazze straordinarie che ci hanno raccontato di come siano riuscite a stabilire un rapporto positivo non solo con donne cristiane che vivono in alcuni villaggi del Sud Libano ma anche con tante donne musulmane. All’inizio erano un po’ diffidenti ma dopo hanno preteso che prima dei medici ad assisterle fossero le nostre soldate. E poi c’è un altro fronte su cui i nostri soldati sono impegnati con risultati notevoli: la bonifica del territorio dalle cluster bomb, lascito terribile della guerra dell’estate 2006. Ad oggi, i nostri soldati hanno bonificato 34,5 milioni di metri quadri di territorio, e se è diminuito considerevolmente il numero dei civili, in maggior parte bambini, feriti o uccisi dalle cluster bomb, ciò è dovuto in buona parte all’impegno dei militari italiani».
Ma in Italia, nelle fila del centrodestra, c’è chi adombra una modifica, in senso "combattente" delle regole d’ingaggio se non addirittura di una diminuzione dell’impegno italiano in Unifil.
«È una posizione sbagliata e irresponsabile. Attualmente la situazione è sotto il controllo di Unifil ma permangono tutta una serie di problematiche inquietanti relative ancora alla presenza di armi illegali e attività ostili nell’area di responsabilità Unifil, come all’attività dell’ala militare di Hezbollah che è "sotterranea" ma in grado di alzare rapidamente il suo livello di minaccia. Altro che disimpegno. Mai come in questo momento la comunità internazionale, e in essa l’Italia per il ruolo di stabilizzazione che sta svolgendo, devono sostenere la missione Unifil. Una vera missione di pace».
Pubblicato il: 02.08.08 Modificato il: 02.08.08 alle ore 12.53 © l'Unità.
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« Risposta #83 inserito:: Agosto 15, 2008, 11:26:30 pm » |
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D’Alema: «Praga ’68 così diventammo antisovietici»
Umberto De Giovannangeli
Un viaggio nel tempo. Una riflessione a cavallo della testimonianza personale di chi visse in presa diretta quelle drammatiche giornate di quarant’anni fa e le riflessioni maturate nel corso del tempo da quel ragazzo allora diciottenne divenuto un leader politico e di governo: Praga ’68 nelle considerazioni di Massimo D’Alema. Considerazioni che partono dall’oggi e dal conflitto che, quarant’anni dopo, vede ancora impegnati i carri armati russi.
Quarant’anni dopo l’agosto di fuoco a Praga, di nuovo un conflitto armato, quello con la Georgia, vede protagonista la Russia. Qual è la tua valutazione di una crisi che non può dirsi ancora conclusa?
«Innanzitutto speriamo che l’iniziativa politica e diplomatica riesca effettivamente a fermare la violenza e ad evitare un’escalation del conflitto. È evidente che i conflitti di oggi hanno una natura fondamentalmente diversa. Allora fu determinante l’elemento ideologico, e cioè la volontà di stroncare sul nascere un esperimento di socialismo democratico che avrebbe potuto destabilizzare l’impero sovietico e i Paesi dell’Est. Oggi è la difesa di una sfera d’influenza russa in aree geograficamente ed economicamente strategiche, in particolare nell’Asia centrale. E rimane una forte carica nazionalista che è anche il lascito di una lunga stagione imperiale.
Naturalmente non si può accettare una politica di ingerenza e l’uso indiscriminato della forza da parte della Russia. L’Occidente è stato, in realtà, sostanzialmente passivo anche di fronte alla tragedia della Cecenia. Tuttavia anche il nazionalismo georgiano non può essere sostenuto in modo acritico. È stato un errore dare la sensazione di una politica di allargamento della Nato che portava con sé forzature come quella del sistema antimissile che hanno accentuato la sensazione di un accerchiamento della Russia, rafforzando le posizioni più militariste e antioccidentali al suo interno. In una regione che è un mosaico di nazionalità e luogo di potenziali (e in parte già in atto) terribili conflitti religiosi, l’unica politica ragionevole è quella del dialogo e del rispetto di tutte le minoranze, sia da parte deLla Russia che dei nuovi Stati ex sovietici».
Gli sforzi diplomatici in atto per dare soluzione alla crisi tra Mosca e Tbilisi vedono l’Italia in una posizione defilata. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, in vacanza alle Maldive, si difende sostenendo che durante la guerra in Libano, due estati fa, l’allora premier Romano Prodi anche lui era in ferie...
«Con buona pace del ministro Frattini, non mi pare che il governo Berlusconi possa assumere un ruolo di primo piano né una qualche iniziativa politico-diplomatica paragonabile a quella che l’Italia assunse durante la crisi israelo-libanese. Allora vi fu certamente anche una situazione di difficoltà in cui si trovava la Francia e una presidenza dell’Unione Europea affidata alla Finlandia, abbastanza estranea alla vicenda mediterranea. Giocò positivamente anche la credibilità che il centrosinistra aveva non solo nei confronti di Israele ma anche verso il mondo arabo. Per tornare alle vicende in questione, non si possono dimenticare le parole con cui Berlusconi - durante il semestre di presidenza italiana dell’Ue - giustificò senza alcuna remora la repressione russa in Cecenia. Suscitando l’indignazione di tanta parte dell’opinione pubblica europea... In ogni caso voglio sottolineare il ruolo positivo che il presidente Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner stanno svolgendo per conto dell’Europa».
Torniamo a quei giorni di quarant’anni fa. Quando i carri armati sovietici e del Patto di Varsavia entrarono a Praga tu eri lì...
«Era il 1968, ero un ragazzo, e, dopo aver concluso una sessione d’esami particolarmente faticosa, perché veniva dopo una stagione di lotte (era l’anno accademico 67-68), andai a Praga attratto dal mito di quello che lì stava accadendo. C’era per la prima volta nel mondo il socialismo dal volto umano: ricordo la gente che discuteva nelle strade, partecipe di uno dei più grandi eventi di quell’anno straordinario. Tempo dopo abbiamo ragionato, riflettuto sul significato che aveva avuto quella rottura storica, la sconfitta della speranza di fare vivere il socialismo diversamente dal modello sovietico. Ma in quei momenti così emozionanti e drammatici, a prevalere fu il dolore, lo shock. Quando tornai in Italia, ricordo che rimasi alcuni giorni senza parlare per quello che era accaduto, per quella tragedia. Praga fu la ragione per la quale la mia generazione divenne "antisovietica", per quanto lo si potesse essere come membri di un Partito comunista. Certamente maturò una frattura incolmabile nei confronti dell’Urss».
Cosa ha rappresentato per quella generazione la fine traumatica della Primavera di Praga?
«Sicuramente fu un discrimine epocale. Ricordo che a fine settembre ’68 andai, stavolta come membro di una delegazione della Fgci guidata da Giulietto Chiesa, a Francoforte ad assistere al congresso di scioglimento della Lega degli studenti socialisti tedeschi. Fu un congresso drammatico. Dentro la Lega c’erano diverse componenti: una più estremista (che aveva tra i suoi leader Rudi Dutschke, che aveva subito un attentato, e Wolfgang Lefewre), una componente comunista, una socialdemocratica. La Lega si spaccò proprio sulla Cecoslovacchia, perché i comunisti rifiutarono di condannare l’intervento del Patto di Varsavia. La Lega cessò di esistere travolta dal ’68: dalla rivolta giovanile e dai i fatti di Praga».
Praga, il ’68 e il Pci...
«Il Pci fece fatica a rapportarsi a quell’esperienza. Nel ’68, all’interno del partito, si aprì un dibattito faticoso. In realtà il rapporto con l’Unione Sovietica, malgrado la cesura del ’68, continuò a trascinarsi in un modo abbastanza ambiguo per almeno un decennio. Fu solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, con la famosa questione dell’"esaurimento della spinta propulsiva", che si completò lo strappo. Oggi si potrebbe dire che in effetti Praga poteva rappresentare l’occasione per lo strappo, perché con Praga la speranza di un’autoriforma del comunismo si era definitivamente esaurita. Questa è la verità. Insomma, a mio parere, le ragioni del nostro legame erano venute meno».
Guardando a quell’esperienza con gli occhi dell’oggi. Di quel tentativo portato avanti da Dubcek di un socialismo dal volto umano, che cosa resta?
«Rimane il rapporto essenziale tra il socialismo e la democrazia. La verità, in definitiva, è che noi dopo Praga arrivammo faticosamente a inventarci una Terza via tra socialismo reale e socialdemocrazia. In realtà il nesso tra socialismo e democrazia c’era già nell’esperienza della socialdemocratica europea. Questo è il punto vero, questo fu il passo ulteriore che mancò. A noi mancò la forza di prenderne atto in quel momento. D’altra parte l’unica Terza via che ha funzionato e che ha saputo costruire il socialismo reale è quella tra capitalismo economico e dittatura, non tra economia statale e democrazia. Oggi resta una domanda: era possibile una riforma del socialismo reale in senso democratico? È difficile dirlo, la Storia non si fa con i se. Tuttavia non è neanche vero che tutto ciò che è reale è razionale. Non bisogna essere hegeliani fino al punto di pensare che se il ’68 praghese fallì è perché non poteva essere altrimenti. Non fu possibile dentro quei determinati rapporti di forza, che erano quelli della Guerra fredda. Anche perché se l’Unione Sovietica schiacciò la Primavera di Praga, di certo l’Occidente non la difese. La realpolitik prevalse sulle ragioni del popolo ceko. Da questo punto di vista, il destino di quella speranza, e il suo fallimento, erano scritti nella logica della Guerra fredda, per la quale da questa parte comandavano gli Americani e dall’altra parte i Russi. Se qui si muoveva qualcosa c’erano le "trame nere" e Gladio, di là più rozzamente i carri armati».
Ma anche il movimento del ’68 di cui tu eri parte, non finì anch’esso per abbandonare Praga al suo destino segnato?
«Il movimento si divise. Certo, un’ala stalinista considerò Dubcek e i suoi compagni dei revisionisti, mentre quella parte della generazione che s’innamorò di Praga finì soprattutto nella sinistra storica, nel Pci e anche nel Psi. Gli altri che dissero: "No, non è Praga il modello, il modello è invece la rivoluzione culturale cinese", finirono nell’estremismo extraparlamentare».
Alexander Dubcek, Michail Gorbaciov: posso essere definiti degli eroi tragici?
«Ho incontrato Dubcek molti anni dopo. Siamo stati insieme un’intera serata, abbiamo parlato di quell’epoca. Era un uomo estremamente semplice, che affrontò con grande dignità una sorta di esilio in patria. Visse una condizione di emarginazione, con l’orgoglio di essere stato protagonista di una pagina importante della storia del mondo. Abbiamo rievocato quel tempo. Dubcek è stato certamente un eroe tragico, fino in fondo comunista anche nel modo come accettò la sconfitta. In fondo avrebbe potuto cercare rifugio in Occidente, magari un rifugio dorato, invece preferì tornare ad una vita modesta nel suo Paese...».
E Gorbaciov?
«Una volta rivolsi a Gorbaciov una domanda assolutamente irrituale, durante una cena in forma privata con lui, Raissa Gorbaciova, Vladimir Zagladin e mia moglie. Raissa stava parlando molto male della Russia di Eltsin. Allora io feci una domanda impertinente a Gorbaciov, di quelle che non si dovrebbero fare. Gli chiesi: compagno Michail Sergeevic, visti i risultati, voi non siete pentito di avere abbattuto il comunismo in Russia?...».
E lui?
«Lui, invece di prenderla a ridere come fosse una battuta, mi dette una risposta serissima: "Io - mi disse - ho riflettuto su questo. Ma guarda: qualsiasi cosa sia accaduta dopo, quel regime andava abbattuto, perché era mostruoso e perché la identificazione fra gli ideali della sinistra e quel regime era per noi un danno intollerabile».
Pubblicato il: 15.08.08 Modificato il: 15.08.08 alle ore 8.06 © l'Unità.
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« Risposta #84 inserito:: Agosto 18, 2008, 11:22:16 pm » |
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Piero Fassino: Roma sottovaluta il rischio Caucaso
Umberto De Giovannangeli
Piero Fassino, ministro degli Esteri del «governo ombra» del Pd, qual è la reale posta in gioco nel conflitto tra la Russia e la Georgia?
«Si sbaglierebbe a ridurlo a un “conflitto locale”. Non solo perché nell’epoca della globalizzazione, più nessuna guerra può essere definita “locale”. Ma anche perché il Caucaso è un’area strategica per la sicurezza e la stabilità del mondo intero. Il Caucaso è una di quelle aree cruciali che i politologi definiscono di “cerniera”, dove si incontrano mondi molto diversi». «Europa ed Asia, tra Est ed Ovest, Cristianità e Islam. È una regione caratterizzata dalla compresenza di gruppi etnici, nazionali e religiosi diversi ed è attraversata dagli oleodotti e dai gasdotti che portano l’energia in Occidente. Intorno al Caucaso, stanno Paesi che si chiamano Afghanistan, Iran, Iraq, Turchia; poco distante c’è il Medio Oriente, e sopra la Russia. Tutto questo ci dice che è un’area particolarmente cruciale, critica, e che la stabilità e la sicurezza di quest’area è interesse non soltanto, come è ovvio che sia, dei popoli e delle nazioni che vivono lì, ma in realtà la sicurezza e la stabilità del Caucaso è interesse più generale perché investe la sicurezza e la stabilità del mondo. Per questo è necessario avere una strategia efficace che, per rivelarsi tale, deve fare i conti con almeno tre contraddizioni che ci vengono dalla storia...».
Quali sono queste contraddizioni? «La prima, affonda le radici in una storia molto lontana, e cioè la decisione di Stalin di “russificare” il Caucaso, inserendo forti comunità russe in quella regione; comunità che fino a quando esisteva l’Unione Sovietica erano parte della maggioranza, russa, della popolazione dell’Urss. E oggi invece sono minoranze, spesso non riconosciute o comunque sopportate. Il secondo problema da affrontare è il modo caotico, convulso con cui si dissolse l’Unione Sovietica nel 1991. In quella stagione così drammatica, Armenia, Georgia, Azerbaijan si proclamarono indipendenti con un atto sostanzialmente unilaterale, senza alcun negoziato che definisse le relazioni tra Mosca e i nuovi Stati. Terza contraddizione che ci portiamo dietro è quella che viene dalla tragedia dei Balcani, dove la dissoluzione della Jugoslavia ha lasciato campo alla nascita di nuove nazioni fondate sul principio dell’omogeneità etnica; un principio che fino a quel momento non era stato mai assunto e che, se riproposto ogni volta che c’è un conflitto, rischia di innescare un gioco del domino al termine del quale ben pochi degli Stati attualmente esistenti nel mondo sopravvivrebbero».
Come affrontare e provare a risolverle queste contraddizioni? «Nell’immediato, è evidente che dobbiamo preoccuparci di consolidare la tregua, ottenendo che l’esercito russi ritorni sulle posizioni antecedenti alla guerra e che da parte georgiana non si compia nessun nuovo atto di ostilità verso l’Ossezia e l’Abkhazia. In queste ore è urgente anche far affluire gli aiuti umanitari necessari alla popolazione. E poi bisogna lavorare da subito per trasformare la tregua in una pace vera tra Georgia e Russia, sulla base dei sei punti della piattaforma proposta dalla presidenza francese dell’Unione Europea. In particolare, riaffermando la sovranità della Georgia e al tempo stesso individuando forme di autonomia amministrativa per le aree russofone. Ma attenzione: consolidare la pace sollecita a definire un assetto condiviso e riconosciuto per tutto il Caucaso, dando corso, come ha proposto il Parlamento europeo, ad una Conferenza regionale per la stabilità che, con l’assistenza dell’Onu, dell’Osce e dell’Unione Europea, coinvolga tutti gli Stati della regione».
Da Tbilisi, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha affermato: «La Georgia sarà membro della Nato, se lo vuole, ed è questo ciò che vuole». Ma è questa la strada da seguire? «Quando ero al governo tra il ‘96 e il ‘98, mi sono occupato a lungo dell’allargamento della Nato, che ebbe la sua prima, importante concretizzazione nel giugno ‘98. Questo tema, estremamente delicato, può avere una doppia lettura...».
Quale? «Una è concepire l’allargamento come strategia di accerchiamento e contenimento della Russia. Una impostazione che non garantisce stabilità, sicurezza e pace in Europa, perché è evidente che la Russia, come qualsiasi altro Paese che si trovasse di fronte all’eventualità di un accerchiamento, non lo accetterebbe e reagirebbe. L’altra interpretazione possibile è quella che io ritengo più corretta e che va perseguita: la Nato fino al 1989, era l’organizzazione militare e di sicurezza di una parte dell’Europa contro i rischi che potevano derivare dall’”altra Europa”. Ma caduto il Muro di Berlino e allargatasi ai Paesi dell’Est, la Nato ha cambiato configurazione, e da organizzazione di una parte dell’Europa deve diventare sempre di più l’organizzazione di sicurezza e di difesa dell’Europa intera. Il che significa che ogni allargamento a nuovi membri, va fatto accompagnandolo contemporaneamente da una evoluzione in positivo dei rapporti tra la Nato e la Russia. In questa strategia, decisivo è il ruolo dell’Unione Europea. Proprio l’esperienza degli anni scorsi, ci dice che l’allargamento della Nato è stato meno traumatico perché, parallelamente, accompagnato dall’allargamento dell’Ue. Anche oggi è utile mantenere questa bussola: l’inclusione nell’Unione Europea dei Paesi balcanici può portare a compimento la stabilità di quella regione. E anche per il Caucaso, l’intensificazione dei rapporti tra l’Ue e quelle nazioni, e il contemporaneo rafforzamento dei rapporti tra Bruxelles e Mosca, può rendere più accettabile per la Russia che la Nato si estenda fino ai suoi confini. Se questo deve essere l’impianto, certamente non ha aiutato il modo in cui si è mosso il presidente georgiano Saakashvili, perchè ha dato dell’allargamento della Nato l’interpretazione più conflittuale possibile».
Da queste considerazioni, oltre che da una qualsiasi iniziativa diplomatica, il governo italiano sembra avulso. «In queste settimane di guerra. ho evitato qualsiasi polemica verso il governo e ho più volte espresso la posizione del Partito Democratico con uno spirito costruttivo che concorresse a sollecitare un ruolo positivo dell’Italia. Sono convinto che sia stato giusto tenere questa linea perché di fronte a migliaia di morti, una grande forza anche di opposizione non deve immeschinire la propria politica e deve misurarsi con la drammaticità di un conflitto e concorrere a fermare le armi e ricercare una soluzione di pace. Adesso però che la criticità dei giorni scorsi sembra essere passata, credo si debba esprimere un giudizio severo nei confronti del governo italiano. Intanto, è ridicola la campagna propagandistica che vuol fa credere agli italiani che Berlusconi, con qualche telefonata dalla sua villa in Sardegna, abbia giocato un qualche ruolo. Un ruolo l’hanno giocato e bene Sarkozy e Kouchner a nome dell’Ue; un contributo vero l’hanno dato altre capitali influenti, a partire da Berlino, certamente è stato un attore, quale che sia la valutazione che si vuole dare delle sue scelte Washington, ma, al di là dell’impegno personale di Frattini, non mi pare che Roma abbia svolto alcun particolare ruolo. In ogni caso non l’ha giocato Berlusconi. L’idea che si possa fare la politica estera con qualche telefonata e sulla base dell’amicizia personale, è francamente strampalata. Non credo che Putin assuma una posizione piuttosto che un’altra sulla base di chi gli telefona o di una barzelletta o una pacca sulle spalle... La politica estera la si fa sulla base di una valutazione razionale dei rapporti di forza, degli interessi in gioco, degli obiettivi che ogni Paese si pone. Su queste basi, ritengo che il ministro Frattini, che pure è stato in contatto con tutte le capitali europee e la presidenza francese, abbia compiuto un errore a non andare alla riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue. Questa assenza ha trasmesso l’idea di una sottovalutazione e di un minore impegno italiano, che non è utile al nostro Paese e non è giusto. Anche perché, invece, l’Italia può giocare un ruolo attivo. Storicamente il nostro Paese ha sempre avuto rapporti intensi con Mosca. E peraltro l’Italia ha sviluppato in questi anni rapporti sempre più stretti con Georgia e Armenia, a cui ci lega anche una comune cultura latina, e con l’Azerbaijan, dove l’Eni è una delle principali compagnie petrolifere. È un patrimonio di rapporti che l’Italia deve mettere a disposizione dell’Unione Europea consentendo così all’Ue di proseguire l’azione di mediazione di queste settimane per giungere a una vera stabilità nella regione. Insomma, serve una conduzione meno approssimativa. Anche il fatto che la maggioranza abbia deciso di convocare le Commissione Esteri di Camera e Senato con l’audizione del titolare della Farnesina, soltanto il 26 settembre, non mi pare un segnale positivo. Quello che emerge è per ora una inadeguatezza molto forte del governo a misurarsi con le sfide dello scenario internazionale.E anche su questo fronte, il Partito Democratico intende incalzare la maggioranza, avanzando proposte credibili e impegnative per un ruolo incisivo dell’Italia nel mondo».
Pubblicato il: 18.08.08 Modificato il: 18.08.08 alle ore 6.19 © l'Unità.
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« Risposta #85 inserito:: Agosto 19, 2008, 11:03:04 pm » |
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Vittorio Strada: «Non siamo di fronte a una riedizione della Guerra Fredda»
Umberto De Giovannangeli
«Il conflitto tra Russia e Georgia non va letto come un ritorno alla Guerra Fredda, bensì come espressione di una fase diversa, e nuova, del confronto tra la Russia e l’Occidente». A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi del «pianeta russo»: il professor Vittorio Strada. Per quanto riguarda il ruolo fin qui giocato dal governo italiano in questo scenario di crisi, Strada rileva: «Se rapportato all’attivismo di Francia e Germania, non v’è dubbio che l’Italia abbia sin qui svolto un ruolo marginale».
Qual è la vera posta in gioco nel conflitto tra Mosca e Tbilisi? «La posta in gioco è il controllo su alcune aree di importanza geostrategica ed economica, che vanno al di là della Georgia, e che in questo caso riguardano l’area caucasica e quelle contigue del Mar Nero e dell’area caspita. Si tratta di aree di interesse mondiale, in particolare per la Russia. Tanto più che accanto alla questione georgiana per Mosca ne esiste una ancora più importante: la questione ucraina».
Molti analisti riferendosi al conflitto tra Russia e Georgia parlano di un ritorno alla Guerra Fredda. «È un immagine indubbiamente ad effetto ma che non dà conto delle novità presenti in questo tipo di conflitto. In realtà ci troviamo a dover fare i conti con una fase diversa, e nuova, del confronto tra la Russia e l’Occidente».
Perché nuova? «Perché la Federazione russa non è più l’Unione Sovietica, perché il conflitto ideologico - quello tra comunismo e capitalismo - è storicamente venuto meno, e in atto, o in potenza, si manifestano conflitti di potenza militare ed economica. Io uso il termine "geoguerra", intendendo con questo una serie di conflitti locali - come quello iracheno ed anche quello georgiano - e parallelamente un conflitto permanente che si manifesta anche con un gioco delle alleanze: da un lato, quella tra gli Stati Uniti, i Paesi ex comunisti dell’Europa orientale e del Baltico, ed ex Repubbliche sovietiche come la Georgia e l’Ucraina. E da parte di Mosca, una serie di rapporti di collaborazione, anche militare, come quelli stabiliti, ad esempio, con il Venezuela, l’Iran, la Siria. Su questo "doppio binario" si inserisce poi il grande problema del terrorismo jihadista come, peraltro, il nodo strategico del rapporto tra Russia e Cina. Un quadro estremamente complesso che non può essere certo ricondotto ad una pura e semplice riedizione della vecchia Guerra Fredda».
A proposito di alleanze: la leadership di Tbilisi insiste per un ingresso della Georgia nella Nato. Una richiesta che Mosca vede come un atto ostile. Qual è in merito la sua valutazione? «Si tratta di decisioni che vengono assunte autonomamente da questi Stati sovrani, come è stato nel caso dei Paesi baltici. La Russia può dolersi di questo fatto ma non ha il diritto di limitare la sovranità e le libere scelte di questi Paesi. Se poi si vuol discutere sul fatto che questa sia la via giusta per la stabilizzazione di quell’area, direi che questa è una via realisticamente inevitabile, perché questi Paesi ritengono in tal modo - entrando a far parte della Nato - di tutelarsi rispetto a una egemonia, quella russa, che essi ritengono ancora come imperiale. D’altro canto, Mosca ha considerato "rivoluzioni" - quali quella "arancione" in Ucraina e quella delle "rose" in Georgia - come il frutto di un’azione di guerra sotterranea da parte degli Stati Uniti in funzione antirussa. E questa lettura degli avvenimenti da parte della leadership russa è parte della a "geoguerra" in atto».
Professor Strada, come valuta l’atteggiamento e l’impegno fin qui manifestati dal governo italiano nella ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto tra Russia e Georgia? «Si tratta, a mio avviso, di valutare l’atteggiamento del governo italiano comparativamente a quello degli altri grandi Paesi europei, in particolare Francia e Germania. Parigi e Berlino hanno dimostrato un attivismo diplomatico forse fin troppo prudente nei riguardi della Russia ma certamente capace di far presente a Mosca che l’Unione Europa non è indifferente rispetto a quello che sta avvenendo in Georgia. Una riprova è la determinazione della cancelliera tedesca Angela Merkel che l’altro ieri a Tbilisi ha riconosciuto la volontà di adesione della Georgia alla Nato, superando così le precedenti pregiudiziali da parte tedesca che avevano rallentato questa adesione. In questa luce comparativa, l’Italia ha svolto una funzione marginale: la nostra presenza non è certo stata così diretta ed evidente come quella di Francia e Germania. Resta il fatto che l’Ue debba fare di più nella difesa degli interessi di Paesi come la Georgia e l’Ucraina. E nell’agire in questo senso l’Unione Europea può fare gli interessi della Russia stessa, nel senso di spingere Mosca ad assumere un atteggiamento più aperto, di collaborazione, con l’Europa e gli Stati Uniti».
Pubblicato il: 19.08.08 Modificato il: 19.08.08 alle ore 8.22 © l'Unità.
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« Risposta #86 inserito:: Agosto 21, 2008, 06:39:35 pm » |
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Anis Rahmani: «La guerra santa vuole unificare le trincee, da Algeri a Kabul»
Umberto De Giovannangeli
«Ogni scenario di guerra jihadista ha una sua specificità. Ma è altrettanto vero che dall’Algeria all’Iraq, dall’Afghanistan al Pakistan c’è un filo conduttore che non va sottovalutato: il tentativo di unificare in un unico fronte le "trincee" mediorientali con quelle del Maghreb e dell’Afghanistan». A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi dei movimenti integralisti e jiahidaisti islamici: Anis Rahmani, direttore del quotidiano algerino specializzato in movimenti integralisti, «Ennahar». Per ciò che riguarda l’ondata di attacchi terroristici che ha investito l’Algeria, essa, rimarca Rahmani, «è il segno che la strategia della Riconciliazione perseguita dal presidente Bouteflika è finita da tempo e che il confronto con i gruppi jihadisti è ritornato sul terreno di sempre: quello militare». «Quella messa in atta dai gruppi che fanno riferimento alla galassia qaedista - sottolinea Rahmani - è una strategia di attacco che mira a destabilizzare non solo l’Algeria ma l’intera area del Maghreb».
L’Algeria è di nuovo al centro di una impressionante offensiva terroristica. Quale lettura dare a questi attacchi? «È una lettura duplice: da un lato, questa offensiva dimostra che la strategia politica della Riconciliazione attuata da Bouteflika è giunta da tempo al capolinea; dall’altro lato, siamo di fronte ad una strategia mirata alla destabilizzazione non solo dell’Algeria ma dell’intero Maghreb».
Cosa significa che la politica di Riconciliazione perseguita dal presidente Bouteflika è giunta al capolinea? «Significa che ora la parola d’ordine è tornata ad essere quella della guerra al terrorismo. Ogni mezzo viene fornito alle forze di sicurezza per raggiungere questo obiettivo».
Con quali risultati? «Significativi. Gli ultimi attacchi sono anche una risposta all’azione in profondità dell’esercito che negli ultimi mesi ha eliminato una decina di terroristi tra cui diversi emiri. L’iniziativa dell’esercito se non ha debellato i gruppi qaedisti ne ha comunque circoscritto il raggio d’azione: i gruppi armati continuano infatti a colpire nel triangolo Bouira-Boumerdes, Tizi Ouzou senza riuscire ad estendere in altre zone il loro raggio d’azione».
C’è una strategia regionale che muove le fila dell’offensiva terroristica? «L’obiettivo è chiaro e sono gli stessi documenti o proclami qaedisti, veicolati soprattutto attraverso Internet, a evidenziarlo: è quello di unificare la "trincea" jihadisti mediorientale, a partire dall’Iraq, con quella dell’Afghanistan e del Maghreb. Se così è, va da sé che la risposta non può essere frammentata ma deve mettere in campo un comune lavoro di intelligence».
Questa strategia è solo militare? «No, deve combinare necessariamente l’aspetto militare e di intelligence con quello della politica. Perché è anche su questo terreno che si sconfiggono i gruppi jihadisti, cercando di svuotare quel "mare" di insoddisfazione e di malessere sociale, di frustrazione e di assenza di futuro per le giovani generazioni, in cui i jihadisti cercano di far proselitismo, ricordando peraltro all’Occidente che il primo obiettivo da colpire per gli integralisti in armi è l’Islam laico, moderato, quello che cerca di coniugare modernità e tradizione. Il migliore aiuto che si potrebbe dare ai jihadisti è demonizzare, criminalizzandolo l’Islam in quanto tale erigendo nuovi Muri di ostilità».
Dall’Algeria all’Afghanistan, passando per il Pakistan. C’è una sola regia dietro questa nuova ondata di attacchi terroristici? «Sbaglia chi considera Al Qaeda come una organizzazione piramidale e verticistica. Non è più così. Ormai da tempo, Al Qaeda è il "marchio" di una rete di organizzazioni, gruppi e movimenti, ognuno dei quali mantiene la propria autonomia operativa e cerca di calare l’ideologia jihadista nel proprio specifico. Al Qaeda offre semmai una copertura mediatica unificante e un riferimento ideologico che è quello del Jihad globalizzato contro l’Occidente "crociato" e i regimi arabi e musulmani "apostati". In questa chiave, lo stesso Osama Bin Laden non ricopre più il ruolo dello stratega, ma quello di predicatore. In molte realtà, peraltro, Al Qaeda si configura - penso alla Somalia - come un vero e proprio anti-Stato in grado di controllare, anche attraverso alleanze tribali, fette di territorio. Un sistema che va spezzato "conquistando" con gli strumenti della politica e del benessere economico quelle popolazioni locali che vedono ancora l’Occidente come portatore di guerra e non di giustizia ed emancipazione. È il caso dell’Afghanistan: la sconfitta dei Talebani non potrà mai essere solo affidata alle armi. Il banco di prova si chiama ricostruzione».
Pubblicato il: 21.08.08 Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.07 © l'Unità.
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« Risposta #87 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:36:33 pm » |
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Giovanna Melandri: «La politica ha perso la chance di aiutare il dialogo sul Tibet»
Umberto De Giovannangeli
«La tregua olimpica è stata infranta. In Tibet come in Georgia. E questo è un fatto politicamente molto grave». A sostenerlo è Giovanna Melandri, ministra delle Comunicazioni nel governo ombra del Pd, già titolare del dicastero per le Politiche giovanili e le Attività sportive. «I potenti della Terra - rileva Melandri - hanno sbagliato a presenziare alla cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici. Il loro "omaggio" al governo cinese ha contribuito a derubricare la questione del rispetto dei diritti umani in Cina e la tragedia del Tibet». Una critica che investe direttamente il governo italiano: «Berlusconi non ha presenziato ma lo ha fatto il ministro degli Esteri, Franco Frattini - rileva la "ministra-ombra" del Pd - e la sua presenza è politicamente censurabile». «Ora - aggiunge - la comunità internazionale deve sostenere lo sforzo del Dalai Lama di riannodare il filo del dialogo e del negoziato con il governo cinese».
L´Avvenire titola: luci su Pechino, buio sul Tibet. Il mondo si è dimenticato della tragedia tibetana?
«Il calvario del popolo tibetano continua. Dopo le parole del Dalai Lama a "Le Monde" abbiamo compreso che quel calvario non si è interrotto nemmeno nei giorni della tregua olimpica. Io penso che la parata dei leader politici che hanno preso parte all´inaugurazione dei Giochi olimpici abbia contribuito a innalzare questa cortina di silenzio sul dramma del Tibet come sul mancato rispetto dei diritti umani da parte delle autorità cinesi. Quell´"omaggio" dei potenti della Terra a Pechino non doveva essere fatto. Quella parata ha contribuito a derubricare il problema dei diritti umani e della vicenda tibetana. E c´è di più...».
Cosa «di più»?
«Poche ore dopo che gli atleti di tutte le nazioni sfilavano nello stadio olimpico di Pechino, la Russia attaccava la Georgia...Lo ha detto molto bene una grande atleta, Valentina Vezzali, che ci ha fatto appassionare in queste settimane: la tregua olimpica non è stata rispettata. E questo è un fatto politicamente molto grave».
E l´Italia?
«Sarebbe stato molto meglio se il governo italiano avesse deciso di non accompagnare, sul piano istituzionale, i nostri atleti che peraltro stanno conducendo ancora le loro gare. È vero che Berlusconi non è andato, ma lo ha fatto il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Tutto questo non ha aiutato e non non sta aiutando non solo la causa tibetana ma direi anche quella del dialogo e del negoziato tra il Dalai Lama e la Cina. La comunità internazionale, anche attraverso lo spirito olimpico, poteva aiutare a riannodare il filo del dialogo e della trattativa tra il Dalai Lama e il governo cinese; mi pare che invece questo non solo non è avvenuto ma non vediamo alcun segnale di una riapertura di dialogo e di negoziato. I dati politici sono noti: i tibetani non chiedono l´indipendenza. Chiedono il riconoscimento di un´autonomia culturale e religiosa che non mette a repentaglio l´integrità territoriale o la sovranità nazionale della Cina. Io ho sempre pensato che non bisognava caricare sugli atleti scelte politiche e istituzionali che competono ai governi. Per questo mi è sembrata una uscita infelice quella della ministra Meloni che chiedeva agli atleti di non sfilare il giorno della inaugurazione; così come mi pareva sbagliato chiedere agli atleti di boicottare i Giochi olimpici. Sono tutte sciocchezze. Perché gli atleti si misurano ogni quattro anni con questa grande prova. Mentre invece mi sarei aspettata che la comunità internazionale, a cominciare dall´Europa, e anche il nostro governo fossero ben più fermi e decisi nell´assumere una posizione politica, che compete alle istituzioni e al mondo politico e non agli atleti, dimostrando una volontà di farsi parte attiva nella ripresa del dialogo tra il Dalai Lama e il governo cinese. Purtroppo questo impegno non c´è stato. Perchè da Sarkozy a Frattini sono tutti accorsi a Pechino...».
E adesso?
«Adesso credo che bisogna assolutamente sostenere gli sforzi del Dalai Lama per riannodare i fili di un negoziato che faccia dell´autonomia culturale del Tibet un punto di confronto con le istituzioni cinesi».
Pubblicato il: 23.08.08 Modificato il: 23.08.08 alle ore 10.54 © l'Unità.
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« Risposta #88 inserito:: Agosto 25, 2008, 12:31:04 am » |
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Carol Tarantelli: «Origine operaia, esperto di esteri: il numero due perfetto»
Umberto De Giovannangeli
«Per la sua storia, per la sua competenza in politica estera, per le sue origini sociali, Joe Biden può "integrare" Barack Obama. Per questo ritengo positiva la sua scelta per la vicepresidenza». A sostenerlo è Carol Tarantelli, profonda conoscitrice del «pianeta Usa». «Hillary non ce l´ha fatta - riflette Tarantelli - non tanto perché era una donna ma per il peso politicamente ingombrante di suo marito ed ex presidente Bill Clinton».
Come valuta la scelta compiuta da Barack Obama del senatore Joe Biden come suo vice nella corsa alla Casa Bianca?
«Prima di tutto Biden è un uomo di vasta esperienza. È stato varie volte presidente della Commissione esteri del Senato. È una personalità che può integrare quella di Obama...».
In che senso integrarla?
«Per una questione anagrafica. Perché Biden viene da una famiglia umile, operaia, ed è identificabile dagli operai come uno di loro. Inoltre, Biden ha una esperienza in politica estera uguale se non superiore a quello di McCain».
I repubblicani hanno in tempo record comminato uno spot in cui si riportano le critiche sferzanti che durante la campagna per la nomination democratica Biden aveva rivolto ad Obama.
«È sufficiente che i democratici rispondano con uno spot nel quale vengono riportate le accuse al veleno che Mit Romney aveva scagliato contro McCain durante la campagna per la nomination repubblicana. Ed ora McCain sembra volere Romney come suo vicepresidente...».
L´investitura del senatore Biden avviene alla vigilia della Convention democratica di Denver. Che cosa si aspetta da questa Convention?
«La vera notizia politica sarà se Hillary Clinton si "spenderà" davvero con convinzione ed entusiasmo a sostegno di Obama. Questo è l´unico punto interrogativo: quanto Hillary appoggerà Obama. Il resto è scontato».
C´è chi sperava in una donna alla Casa Bianca. Ma una donna non può ambire neanche alla vicepresidenza?
«Non era possibile. E lo dice una che ha sostenuto Hillary Clinton nella corsa alla nomination. Non poteva e non tanto perché è una donna ma per il suo essere identificata, a torto o a ragione, come l´ex first lady, la signora Clinton. A giocare contro la investitura di Hillary alla vicepresidenza c´è soprattutto la figura politicamente e mediaticamente ancora ingombrante di Bill Clinton: anche perché Bill ha dimostrato di non saper "moderare" se stesso rispetto ai commenti politici che fa. Per Obama sarebbe stato come avere una "bomba ad orologeria" sul suo cammino presidenziale. Bill Clinton indebolirebbe troppo oggi l´Obama candidato e un domani, se vincesse le elezioni, l´Obama presidente».
In questi giorni lei è negli Stati Uniti. Qual è la percezione diretta che si è fatta di questa corsa alla presidenza?
«Che la partita è del tutto aperta. I repubblicani hanno cominciato a cercare di definire Obama in modo negativo. I democratici ci hanno messo un po´ di tempo ma alla fine, ed era inevitabile, hanno risposto sullo stesso piano. Quello che potrà succedere è davvero imprevedibile».
Quanto potrà pesare la presidenza Bush in questa corsa?
«Dovrebbe pesare di più e se pesa di più McCain è spacciato. Fin qui McCain è riuscito a non dissociarsi da Bush e al tempo stesso ha saputo non far pesare che le sue politiche sono eguali. Ha fatto un capolavoro politico. Sta a Obama, con il prezioso apporto di Biden, riuscire a stabilire una continuità, che c´è, tra McCain e Bush, McCain ha chiuso. La popolarità di Bush è ai minimi storici e se qualcuno aveva ancora dei dubbi sulla sua fallimentare politica estera, come sta gestendo la vicenda della Georgia, quei dubbi dovrebbero essere scomparsi...».
Se lei dovesse puntare su un segmento elettorale decisivo da conquistare da parte di Obama, a quale penserebbe?
«La classe operaia bianca. Ed è innanzitutto in questa direzione che lavorerà Biden».
Pubblicato il: 24.08.08 Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.35 © l'Unità.
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« Risposta #89 inserito:: Agosto 31, 2008, 10:41:27 pm » |
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Dalia Rabin: il sogno di Obama sia quello di mio padre
Umberto De Giovannangeli
L’uomo del nuovo «sogno americano» e la lezione dell’uomo che per un grande «sogno», la pace, ha sacrificato la propria vita. Barack Obama e Yitzhah Rabin. Nel suo viaggio in Israele del luglio scorso, il candidato democratico alla Casa Bianca ha reso omaggio al coraggio di quel generale che morì per aver scelto la pace. «Barack Obama evoca un mondo senza Muri razziali, religiosi, etnici. In questo sua sfida rivedo mio padre, che aveva scelto di abbattere il "muro" di odio tra israeliani e palestinesi». A parlare è Dalia Rabin Filosoff, la figlia maggiore del primo ministro laburista assassinato, il 4 novembre 1995, da un giovane zelota dell’ultradestra ebraica. «La lezione di mio padre non è andata perduta. La lezione di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa di Israele, in prima fila sui campi di battaglia, quando gli eserciti arabi minacciavano la nostra esistenza; così come è stato in prima fila nell’avviare il dialogo con la controparte palestinese, sapendo bene, da generale e statista, che la sicurezza di Israele non sarà mai garantita dalla sola forza del suo esercito. Tredici anni dopo, questa verità non è stata cancellata. Mio padre non si è mai piegato ai ricatti della violenza e del terrorismo ma era consapevole che occorreva dimostrare ai palestinesi che esisteva un’altra strada per conquistare i propri diritti. La strada del dialogo e del compromesso. Per questo ha combattuto e per questo è stato ucciso».
Barack Obama ha evocato un mondo senza più Muri razziali, etnici, religiosi. Visto da Israele, è un sogno irrealizzabile? «No, è una sfida affascinante, e insieme una via obbligata per quanti credono davvero nel dialogo e nella ricerca di un compromesso che tenga in conto non solo le proprie ragioni ma anche le ragioni dell’altro. Ho ascoltato con attenzione il discorso di Obama a Denver: confesso di essermi emozionata. Per la passione che lo animava, per il coinvolgimento che reclamava. Mi ha colpito il suo richiamo all’etica della responsabilità che ogni individuo deve esercitare. E, soprattutto, ho ritrovato nel suo discorso il richiamo ad un Paese "normale" da costruire, in cui i talenti dei giovani non vengano più sacrificati su un campo di battaglia ma valorizzati e messi al servizio del benessere comune. Questa idea di "normalità" era anche quella che accarezzava mio padre, Yitzhak Rabin. A Obama si rinfaccia il fatto di essere un’idealista. La stessa accusa fu rivolta a mio padre. Ma essere mossi da ideali è una virtù non una pecca. L’importante, per chi ha responsabilità di governo, è calare questi ideali nella realtà quotidiana, conquistando nell’agire concreto il consenso, e la partecipazione, delle donne e degli uomini che sono chiamati, ognuno di loro, a essere parte attiva nella realizzazione di quegli ideali condivisi».
Barack Obama si è detto amico di Israele. «Non dubito che lo sia anche il senatore McCain. Il legame tra gli Stati Uniti e Israele non è in discussione chiunque sarà il nuovo presidente americano. Ciò che mi auguro è che sia Obama che McCain, chi di loro vincerà le elezioni di novembre sappia interpretare in modo dinamico questa amicizia, sostenendo con forza e continuità gli sforzi di quanti, israeliani e palestinesi, si battono per un accordo di pace che porti a compimento quel percorso che mio padre iniziò con gli accordi di Oslo-Washington. Al nuovo presidente americano chiedo coraggio, fantasia, lungimiranza. E una visione nuova delle relazioni tra i popoli. Una visione di cui il senatore Obama è portatore».
Obama ha parlato di un mondo senza più Muri. Anche quello tra israeliani e palestinesi? «Il primo “muro” da abbattere è quello del pregiudizio, della demonizzazione. E lo si abbatte abbinando la diplomazia dall’”alto”, quella dei leader politici, con la crescita di un dialogo “dal basso” che metta in relazione le due società civili. Se questa commistione virtuosa si realizzerà, il resto, ne sono convinta, verrà da sé».
A proposito di visioni. C’è chi sostiene che gli eventi di questi anni hanno dimostrato il fallimento della «visione» che animò l’azione di Yitzhak Rabin. «È vero l’esatto contrario. Mio padre non era un pacifista romantico, un illuso. Per tutta la vita aveva combattuto per la sicurezza di Israele. Ma da questa esperienza aveva tratto la convinzione che la sicurezza di Israele non poteva essere affidata alla sola forza del suo esercito. Occorreva la politica, aprire un percorso negoziale, offrire alla controparte palestinese una possibilità di riscatto. Senza cedimenti ma con la consapevolezza che una pace duratura, una pace nella sicurezza, dovesse essere ricercata ad un tavolo negoziale, riconoscendo anche le ragioni e le aspirazioni della controparte. Tredici anni dopo i fatti hanno dimostrato che questa lezione è ancora del tutto valida, perché non esiste una scorciatoia militare alla soluzione del conflitto israelo-palestinese».
Lei ha fatto riferimento agli accordi di Oslo; quegli accordi, sostengono i loro detrattori, avevano messo in secondo piano la questione cruciale della sicurezza. «Non è così. Mio padre aveva a cuore la sicurezza di Israele, per la quale aveva combattuto per tutta una vita. Per questo aveva voluto che al primo punto della Dichiarazione di Oslo-Washington vi fosse il rigetto da parte palestinese dell’uso della violenza per affrontare i contenziosi ancora aperti...».
Tredici anni dopo, in molti vorrebbero archiviare l’eredità di Yitzhak Rabin. «No, questa eredità politica e morale non deve essere archiviata, poiché non appartiene al passato bensì al presente di Israele, anche se i successori di mio padre alla guida del Paese non hanno portato a termine la sua opera». Cosa resta della lezione di suo padre? «Molto di più di quanto si possa credere all’esterno. E non mi riferisco solo al ricordo di mio padre che ancora oggi vive in tantissime iniziative in Israele e nel mondo. Mi riferisco anche alla convinzione propria della maggioranza degli israeliani, che per aprire una pagina nuova nella storia del Medio Oriente occorra dare una soluzione politica alla questione palestinese che passi anche attraverso la creazione di uno Stato, smilitarizzato ma indipendente. No, la lezione di Yitzhak Rabin non è andata perduta anche se il vuoto politico che lui ha lasciato nel Paese continua a pesare sul presente d’Israele». (ha collaborato Cesare Pavoncello)
Pubblicato il: 31.08.08 Modificato il: 31.08.08 alle ore 17.30 © l'Unità.
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