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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 101471 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Maggio 05, 2008, 11:08:12 pm »

Del Boca: «Tripoli rimpiange la collaborazione con il governo Prodi»

Umberto De Giovannangeli


Se c’è un intellettuale che può aiutarci a capire i complessi, spesso drammatici, rapporti che nella storia moderna hanno l’Italia e la Libia, questo intellettuale è certamente Angelo Del Boca; tra i suoi tanti libri dedicati all’argomento, ricordiamo «A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini» (Baldini, Castoldi Dalai, 2007); «Gheddafi. Una sfida nel deserto» (Laterza, 2001); «Gli italiani in Libia» (Mondatori, 1997). «Uscite quali quelle di Calderoni - riflette Del Boca - non sono solo improvvide, sono pericolose perché fomentano atteggiamenti di ostilità nei confronti dell’Italia e degli italiani in Libia e non solo in essa. Certe uscite fanno il gioco degli estremisti arabi. Per questo mi attendo dal primo ministro in pectore, Silvio Berlusconi, un atto di responsabilità nel porre fine a esternazioni che, se reiterate, rischiano di provocare solo disastri».

In Italia ha fatto molto discutere la durissima presa di posizione di Gheddafi jr. sulla eventualità che nel nascente governo di centrodestra venga riproposto come ministro il leghista Calderoni. Come interpretare questa presa di posizione libica?

«Le affermazioni del giovane Gheddafi mi hanno lasciato un po’ sconcertato perché Sayf al-Islam, a cui il padre ha delegato importanti incarichi diplomatici (come la gestione dell’affare Lockerbie), sa perfettamente chi in Italia è serio e chi non lo è».

Tra i «poco seri» va annoverato anche Calderoli?

«A farlo apparire come tale sono le sue "sparate" che sono state interpretate come poco autorevoli, quasi un fatto di colore. Nelle fila del centrodestra ci sono, per fortuna dico io, ci sono altre persone più serie, autorevoli, responsabili, di questo personaggio. D’altro canto, va anche detto che Calderoli oggi ha sicuramente più potere, in quanto esponente di uno dei partititi usciti vincitori dalle elezioni di metà aprile, e questo contribuisce di per sé a dare più peso, anche se non sostanza culturale, alle sue considerazioni. Mi auguro che nella maggioranza uscita dalle urne si manifestino persone in grado di controbilanciare certi spropositi».

Resta la durezza della presa di posizione libica. Quale lettura politica è possibile darne?

«Nelle parole del giovane Gheddafi - che nelle sue prese di posizione appare più progressista del padre - si possono cogliere, al contempo, inquietudine per il futuro e rimpianto per il recentissimo passato».

Quale sarebbe questo rimpianto?

«Mi riferisco al rapporto che si era instaurato tra Tripoli e il governo di centrosinistra. Un rapporto collaborativo, fruttuoso. Non dimentichiamo che sia Romano Prodi che il ministro degli Esteri Massimo D’Alema si sono recati più volte in Libia in missioni ufficiali, "pacificando" prima e rafforzando poi le relazioni bilaterali. Sia Prodi che D’Alema avevano acquisito una decisa autorevolezza nei confronti della dirigenza libica. Autorevolezza e cooperazione che non sono rimaste solo parole: pensiamo infatti a progetti messi in campo molto importanti, investimenti cospicui: uno per tutti, la Litoranea, l’autostrada lunga oltre 2mila chilometri che si distende dal confine con la Tunisia a quello con l’Egitto. Basta e avanza per spiegare la delusione di Tripoli per i risultati delle elezioni in Italia».

Relazioni che restano estremamente delicate. Guardando all’immediato futuro, qual è a suo avviso la questione cruciale che il nascente governo italiano dovrà affrontare con le autorità libiche?

«Direi che occorra estrema chiarezza sulla questione dell’immigrazione, un problema che già il governo uscente aveva cominciato ad affrontare. Una immigrazione "fisiologica" va messa in conto, ma quando il fenomeno riguarda 20-25mila persone è chiaro che questo "esodo" se non stimolato di certo non è contrastato dalle autorità libiche».

Con una visione d’assieme, legando passato, presente e futuro, come leggere i rapporti tra Italia e Libia?

«Indubbiamente il nostro rapporto con la Libia è sempre stato molto fragile, con momenti di alta tensione e altri in cui sembrava vera amicizia; diciamo che questi rapporti sono stati alquanto altalenanti».

E in questa «altalena» ecco esplodere il «caso-Calderoli».

«Certe uscite finiscono solo fare il gioco degli estremisti arabi che non aspettano altro che di poter dipingere l’Occidente come Nemico dell’Islam. Chi assume o pretende di assumere ruoli politici di primo piano e addirittura di governo, è chiamato all’esercizio del senso di responsabilità, esercizio a cui Calderoli non sembra dedito. Mi aspetto che a farlo siano personalità politicamente più fori nel centrodestra, a cominciare da Silvio Berlusconi».

u.d.g.


Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 17.06   
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« Risposta #61 inserito:: Maggio 17, 2008, 12:17:17 am »

«Con i rom abbiamo un debito d´onore, no a nuove persecuzioni»

Umberto De Giovannangeli


«Terribili. Quelle immagini di campi Rom dati alle fiamme, quelle famiglie costrette a fuggire nella notte, ci riportano indietro nel tempo e danno corpo a paure che speravamo facessero parte di un tragico e irripetibile passato. Così non è». Il suo percorso culturale e umano è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell«inferno balcanico» di costruire «ponti di dialogo» tra identità etniche e religiose spesso violentemente contrapposte. Nato a Mostar (Bosnia-Erzegovina) da madre croata e padre russo, Predrag Matvejevic, saggista e professore di Slavistica all´Università La Sapienza di Roma, è emigrato all´inizio della guerra nella ex-Jugoslavia, scegliendo una posizione da «asilo ed esilio». È da questa condizione esistenziale Matvejevic riflette su quei campi Rom dati alle fiamme: «L´Europa - avverte lo scrittore - ha un debito d´onore con i Rom. Mai dovremmo dimenticare che gli zingari finirono assieme agli ebrei nelle camere a gas naziste. Quel debito d´onore va rispettato».

Professor Matvejevic, i campi Rom assaltati, lo «zingaro» identificato in sé come un criminale. Chi sono i Rom?

«In alcune regioni i Rom formano la maggioranza dei mendicanti. Ma non godono di alcuno di quei privilegi che solitamente vengono concessi alle cosiddette maggioranze. Fanno fatica a dichiararsi Rom per non esporsi ai sospetti, all´avversione dell´ambiente in cui vivono, al disprezzo e perfino alle persecuzioni. La parola "Zingaro" è diventata offensiva, per cui essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Una volta non lo era...».

L´ignoranza e la perdita di memoria storica. C´è anche questo dietro la «caccia al Rom»?

«Purtroppo è così. I Rom hanno vissuto le loro persecuzioni. Spesso si dimentica che furono sterminati a decine di migliaia nei lager nazisti, insieme agli Ebrei. Il loro modo di vivere non è vietato dalla legge, ma sono sottoposti a stretto controllo. In Europa ce ne sono dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero una popolazione più numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati del nostro continente. Non hanno un proprio territorio né un proprio governo. Hanno tutti un paese natale, ma non una patria. Sono parte di un popolo in mezzo al quale vivono, ma non una nazione. Non sono nemmeno una minoranza nazionale, sono transnazionali. Nella mia terra natale i Rom sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli "Zingari" mi rapissero portandomi via chissà dove - correvano le voci di rapimenti. Ma nessuno mi ha fatto male; invece ho imparato dai Rom molte cose utili. Essi imparano facilmente le lingue, forse più facilmente degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti riescano a conoscere la felicità, ma certamente sanno come si può essere meno infelici».

Resta il fatto che alcuni degli episodi di cronaca che più hanno colpito l´opinione pubblica italiana avevano come protagonisti dei Rom...».

«Comprendere non significa in alcun modo giustificare comportamenti criminali. I criminali, che si trovano in tutte le nazionalità, vanno processati ed espulsi, questo è fuori discussione. La comprensione è tutt´altra cosa del "giustificazionismo". Ma non si deve colpevolizzare una intera comunità per i misfatti di criminali individuali. La civiltà giuridica europea stabilisce che la responsabilità è sempre del singolo. Mi lasci aggiungere che una politica di disincentivo all´immigrazione clandestina nasce dai Paesi di origine, e spesso, penso alla Romania ma non solo ad essa. I Rom hanno subito pesantissime discriminazione se non vere e proprie persecuzioni. Malvisti nel Paese di origine, i Rom se ne vanno, con il loro carico di frustrazione che può sfociare in violenza. I paesi d´accoglienza dovrebbero capire meglio la loro situazione e premere su Bucarest perché finalmente vengano garantiti loro i più elementari diritti umani, civili, sociali».

L´Italia s´interroga su come agire...

«L´Italia è un grande Paese di emigrazione, la più numerosa emigrazione europea del secolo scorso partiva dall´Italia. Nessuna altra lingua europea ha tanti termini per designare lo straniero o l´esiliato: emigrati, profughi, fuggiaschi, rifugiati, sfollati, deportati, espulsi, espatriati, e aggiungo in un "istrionismo" italiano, "esodati"...E tutti questi si dividono adesso in clandestini e irregolari. In Italia indiscutibilmente c´è una tradizione cattolica. Per questo talvolta sono sorpreso, negativamente sorpreso, che questa tradizione venga brutalmente messa in discussione. Si legge nella Bibbia. "Ama il forestiero e dagli pane e vestititi...quando raccogli la messe nel campo e dimentichi un covone non tornare indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l´infermo, per la vedova affinché ti benedica il Signore tuo...". Io da laico rispetto questi precetti, e sono sgomento nel vedere tanti credenti che se ne infischiano».

Pubblicato il: 16.05.08
Modificato il: 16.05.08 alle ore 12.25   
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« Risposta #62 inserito:: Maggio 21, 2008, 05:39:26 pm »

Luzzatto: «I rom? Anche contro noi ebrei cominciò così»

Umberto De Giovannangeli


«Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere perseguitati, demonizzati, sterminati. Per questo, da ebreo italiano e da cittadino democratico, non posso che guardare con orrore e preoccupazione alla campagna d’odio verso i Rom». A parlare è Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.

Professor Luzzatto, cosa ha provato di fronte al fuoco appiccato ai campi Rom a Napoli?

«Ogni fuoco riporta alla memoria altri fuochi dei quali la storia europea è cosparsa: penso, ad esempio, ai roghi dell’Inquisizione, ai roghi dei libri maledetti, ai roghi dei campi di sterminio... In ultima analisi c’è da domandarsi cosa abbiano in comune questi roghi. E la risposta immediata e tragica è: distruggere, senza che resti traccia, tutto quello che dà fastidio al potere. In questa ottica, tutto viene ingigantito e generalizzato: all’interno di ciò che si vuole distruggere col fuoco si colloca molto di più di quanto sarebbe “strettamente necessario” proprio per essere sicuri di avere totalmente eliminato quello che s’intende distruggere. È terribile, ma è cosi».

In quale misura questo comportamento è collegato al razzismo?

«È abbastanza evidente: se si vede un uomo nero che ha violentato una donna bianca, per una induzione arbitraria, si ritiene che la violenza sia correlata al colore della pelle. E pur sapendo che la stragrande maggioranza dei neri non sono stupratori per far prima li stermino tutti, ritenendo così di aver fatto una “pulizia totale”. Il razzismo si è nutrito di queste generalizzazioni arbitrarie e di queste correlazioni sbagliate, e una volta innescato il meccanismo del rogo, questo si autoalimenta».

In questa autoalimentazione, perché i Rom?

«Prima di tutto, centrerei l’attenzione su un fenomeno sociale che comprende una serie di fattori negativi, fra i quali la precarietà del lavoro e dell’esistenza; la difficoltà di trovare alloggi adeguati, e la difficoltà di integrazione di popolazioni forestiere, soprattutto in fasi di migrazioni di massa. Il fenomeno del nomadismo va inserito in questa categoria di problemi. Isolare questo problema, e al suo interno addirittura quello dei Rom, significa rincorrere una soluzione illusoria e alquanto pericolosa. È forte la tendenza a superare quelle che sono contraddizioni, debolezze, timori, paure che colpiscono tutta la società contemporanea, selezionando quella che può essere una componente dall’immagine più facilmente riconoscibile e colpirla immaginando così di risolvere un problema molto più esteso e complesso. Coloro che appiccano il fuoco ai campi Rom sono al loro modo - un modo barbaro e criminale indegno di un Paese civile - interpreti di questo approccio sbagliato al problema. E in questo approccio, assieme parziale e colpevolizzante, inserirei anche l’ipotesi del commissariamento dei Rom...»

Una ipotesi, quella della creazione di un Commissario ai Rom, che il governo prende in seria considerazione.

«Questa ipotesi trova immediata rispondenza nelle iniziative violente e vandaliche che imputano problemi scottanti, anche di microcriminalità, non all’azione di singole persone ma alla presenza stessa di un singolo gruppo allogeno».

Quei fuochi portano alla memoria, come lei stesso ha sottolineato, i roghi dei campi di sterminio. In una intervista a l’Unità, Predrag Matvejevic ha ricordato che assieme a milioni di ebrei, nei lager nazisti furono massacrati tantissimi Rom.

«Questa è una verità storica. Un’amara, tragica verità. Noi stessi, noi ebrei, abbiamo subito sulla nostra pelle ripetutamente - fino alla più terribile persecuzione che è stata quella della Shoah - le conseguenze dell’essere prima di tutto indicati come stranieri irriducibili, poi progressivamente stranieri parassiti, quindi stranieri complottanti, infine assassini di bambini cristiani e in conclusione gruppi umani da espellere, da perseguitare, da sterminare. Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere vittime di pregiudizi che si trasformano in odio e in violenza “purificatrice”. Sappiamo cosa significhi essere additati come il “Male” da estirpare. E da ebreo, oltre che da cittadino democratico, mi sento a fianco di una comunità, quella Rom, che non può, non deve essere vittima di nuovi pogrom».

Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 12.52   
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« Risposta #63 inserito:: Maggio 22, 2008, 08:47:20 am »

Chi dialoga con Hamas

Umberto De Giovannangeli


«Hamas controlla un pezzo importantissimo del territorio palestinese e se si vuole la pace bisogna coinvolgere chi rappresenta una parte del popolo palestinese. E poi, non dimentichiamoci mai che Hamas vinse le elezioni...» Per averlo sostenuto, da ministro degli Esteri, Massimo D’Alema fu accusato delle peggiori nefandezze, la più tenera di essere un «amico dei terroristi islamici». Coinvolgere Hamas nel dialogo, anche perché era la pragmatica considerazione dell’allora titolare della Farnesina, «con chi si negozia la pace? Con i nemici, con gli amici non c’è bisogno di negoziare». Apriti cielo! Il predecessore di D’Alema alla Farnesina, Gianfranco Fini, spara ad alzo zero.

«È incontestabile - dichiara - che Hamas non ha mai ripudiato il terrorismo come strumento di lotta...Prodi ha il dovere di dire con chiarezza se le affermazioni di D’Alema sono condivise e sono la linea di governo...».

Chissà se oggi le stesse bordate verranno indirizzate al responsabile della diplomazione di un Paese, la Francia, il cui presidente non è certo da annoverare nel campo del centrosinistra europeo: Nicolas Sarkozy. E chissà se gli stessi toni scandalizzati, le stesse accuse al vetriolo, la stessa esibita indignazione che ha accompagnato in Italia le riflessioni di D’Alema, verranno oggi scagliati all’indirizzo del ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, capo della diplomazia di un governo di centrodestra. La notizia è che la Francia si avvicina a Hamas, Israele pure - ma senza dirlo pubblicamente - e lo stesso dicasi per diversi Paesi europei che cominciano a ritenere più utile alla pace l’avvio di «contatti» con il movimento islamico palestinese. «Non si tratta di rapporti, ma di contatti privati», puntualizza Kouchner. Ma i contatti sono bene avviati e, conferma il responsabile del Quai d’Orsay, , «non siamo gli unici ad averli».

La posizione francese non è esattamente in linea con quella ufficiale dell’Unione Europea, che ha inserito Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, e ha finora escluso l’eventualità di un dialogo diretto. Era stato Massimo D’Alema , da ministro degli Esteri, a dire in pubblico ciò che molti in privato pensano, e cioè una linea diversa dall’intransigenza pura. Tra questi non c’è Franco Frattini, suo successore alla Farnesina, che ha già annunciato come il nuovo governo italiano sia contrario a qualsiasi dialogo. Una linea dell’intransigenza che non avvicina Roma a Parigi. Spiega ancora Kouchner: «Dobbiamo essere in grado di parlare (anche con Hama) se vogliamo giocare un ruolo, se vogliamo che ai nostri inviati sia permesso di entrare a Gaza». Così pensa e agisce una diplomazia che vuole incidere sui fatti e orientare le dinamiche mediorientali. Né più né meno di quanto aveva cercato di fare, con indubbi risultati (vedi il Libano), l’azione diplomatica italiana del precedente governo. «È sbagliato regalare ad Al Qaeda movimenti come Hamas ed Hezbollah, ed è nell’interesse della comunità internazionale evitare di spingere questi movimenti nelle braccia dell’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden...». In questo approccio, condiviso nell’agire concreto anche dal governo di centrodestra francese, c’è un retroterra analitico capace di cogliere la sostanziale differenza tra movimenti islamo nazionali dal forte radicamento sociale, come sono Hamas e Hezbollah, dalla galassia dei gruppi jihadisti.

Sul Partito di Dio sciita, Frattini ha un ripensamento, annotando che «anche gli Stati Uniti si rendono conto, per consolidare la stabilità libanese e per eleggere un presidente, è evidente che ci vogliono tutte le fazioni in contrasto, compreso il partito politico di Hezbollah, che ha membri in Parlamento...». Affermazione importante che ricalca la seguente: «Hezbollah è un partito politico, con membri in Parlamento e ministri e, è vero, anche con missili katyusha...È un paradosso ma questa è la realtà, una realtà con molte contraddizioni. Il nostro obiettivo è il disarmo delle milizie e quello di obbligare Hezbollah a diventare una entità unicamente politica, affinché il Libano sia una democrazia normale...». Così D’Alema in una intervista (7 settembre 2006) al più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot. Affermarlo significa essere «amici dei terroristi»? Se è così, ad esserlo è anche Bernard Kouchner e con lui Nicolas Sarkozy...



Pubblicato il: 21.05.08
Modificato il: 21.05.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #64 inserito:: Maggio 22, 2008, 11:51:51 pm »

D’Alema: sugli immigrati norme incivili

Umberto De Giovannangeli


Medio Oriente, Iran, Stati Uniti. L’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema mette a fuoco alcune delle questioni cruciali dello scenario internazionale e avverte che «il rischio vero per l’Italia è quello di tornare ad essere irrilevante». Sul tema della sicurezza, poi, l’ex vice premier sottolinea: «Manca una politica di integrazione. Questo è un problema che riguarda l’Europa, non soltanto il nostro Paese. E chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida su cui ci dobbiamo tutti misurare». D’Alema, inoltre, definisce «incivile, giuridicamente insostenibile e criminogena» la norma sul reato di immigrazione clandestina voluta dal governo Berlusconi.

Partiamo dal Medio Oriente. La discontinuità nei confronti del «filo arabismo» di Massimo D’Alema è il concetto su cui il centrodestra, durante la campagna elettorale, ha molto insistito.

«E io credo che il rischio vero, al quale è esposto il nostro paese, sia quello dell’irrilevanza. E penso che un’Italia che si precludesse il dialogo con il mondo arabo - così come viene prospettato - non serva a nessuno, né ad Israele, né all’Occidente. Inoltre, sarebbe un atteggiamento gravemente lesivo dei nostri interessi nazionali. D’altra parte, il corso della politica è un altro».

Ovvero?

«Guardiamo proprio al Medio Oriente, dove due eventi dominano la scena. Da un lato, l’accordo in Libano lungo la strada che noi avevamo tracciato: un accordo che comprende Hezbollah... Altro che il cambio delle regole d’ingaggio. Dall’altro, i contatti con Hamas, avviati sia da Israele che li conduce attraverso l’Egitto, sia da diversi Paesi europei e non solo dalla Francia. Tutto questo non perché ci piaccia Hamas, ma perché vi è consapevolezza che solo coinvolgendo Hamas - vincolandola, naturalmente, al rispetto della sicurezza d’Israele - si possa raggiungere la pace. D’altro canto, la questione mediorientale non è riassumibile nella lotta al terrorismo, che è un aspetto di una vicenda ben più ampia. C’è una questione nazionale libanese, c’è una questione nazionale palestinese. Il terrorismo lo si sconfigge dando anche delle risposte ai problemi da cui esso trae origine o che sono utilizzati dai terroristi come pretesto. Né si possono ridurre a gruppetti di terroristi movimenti che sono rappresentativi di milioni di persone. Insomma, i problemi sono innanzitutto politici e non solo militari. Ricordo ancora una volta che Hamas ha vinto le elezioni e che Hezbollah è il partito che rappresenta la comunità sciita, la più grande del Libano. Al di là delle dichiarazioni, nella sostanza la diplomazia europea si muove nella direzione di costruire le condizioni di un processo di pace, il che lo si fa attraverso un dialogo in grado di coinvolgere il mondo arabo nelle sue diverse componenti. E una importante riprova dell’incisività di questa politica è l’avvio di colloqui di pace fra la Siria ed Israele, con la mediazione della Turchia».

Rimaniamo sulla discontinuità, spostandoci sullo scenario iraniano. Il nuovo ministro degli esteri Franco Frattini ha sostenuto che il governo chiederà di entrare a far parte del gruppo «5+1», recuperando un treno perso...

«Sì, certo, da loro... Ricordo, infatti, che l’Italia venne esclusa dal “5+1” nel 2003. Fu un grave errore del governo Berlusconi ed una chiara testimonianza di quel rischio di irrilevanza di cui ho parlato e che vedo correre anche oggi per il nostro Paese. L’esclusione da quel gruppo è stata gravemente dannosa agli interessi dell’Italia per diversi motivi. Intanto per ragioni di immagine, visto e considerato il valore simbolico che quell’organismo ha assunto, essendo composto dai Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dalla Germania che ne vuole entrare a far parte. Poi, perché è diventato un luogo di consultazione politica di primaria grandezza. Ma, soprattutto, perché lì si è discusso del contenuto delle sanzioni ed è evidente che chi era a quel tavolo si è preoccupato che le sanzioni non fossero lesive dei propri interessi nazionali. Non a caso, spesso noi siamo stati tra i paesi che hanno pagato il prezzo più alto. In questi anni, mentre il governo Prodi ha lavorato per cercare di tutelare gli interessi dell’Italia, la destra ci ha accusato di essere filo iraniani, mentre noi eravamo semplicemente filo italiani nelle condizioni difficili in cui ci aveva lasciato il governo Berlusconi, costretti a partire da un gradino più in basso. Nonostante questo, ci siamo fatti sentire e alla fine siamo stati coinvolti in un meccanismo di consultazione a livello tecnico e diplomatico, recuperando possibilità di incidere sulle scelte e arrivando a raggiungere risultati importanti. Spero che questa operazione si concluda positivamente con l’inclusione dell’Italia nel gruppo “5+1”. Se questo accadrà, sarà frutto di un lavoro avviato dal governo Prodi».

Più in generale, quale politica verso l’Iran?

«L’Italia ha sempre condiviso l’obiettivo di evitare che l’Iran si doti di armi nucleari, sostenendo in pieno le sanzioni e - ripeto - spesso pagandone i prezzi più alti. Detto ciò, continuo a pensare che non bastino le sanzioni o una politica muscolare. Occorre un approccio più aperto verso quel Paese. Insomma, una politica di sanzioni più ferma, ma, contemporaneamente, un’offerta politica più significativa e consistente di dialogo, di coinvolgimento e di riconoscimento del ruolo dell’Iran nella regione. D’altra parte, parliamo di un Paese essenziale per la ricerca di una soluzione dei problemi in Iraq, in Afghanistan e in Medio Oriente. A mio parere, solo in questo modo potremmo riuscire ad offrire una sponda internazionale alle forze riformiste e moderate, alla società civile di un Paese che non può essere paragonato all’Iraq di Saddam Hussein. Ciò che dico non è una eresia, ma è quello che sostengono anche i candidati democratici americani».

Berlusconi si è detto impegnato a «ricucire» lo strappo con gli Usa, provocato dalla vostra politica...

«Noi abbiamo sempre avuto rapporti corretti e leali con gli americani. Rapporti improntati all’amicizia e alla collaborazione, ma anche alla franchezza. Ad esempio, abbiamo sostenuto la necessità che gli Stati Uniti tornassero ad impegnarsi maggiormente per la pace in Medio Oriente, così come li abbiamo incoraggiati a riprendere la strada di un ragionevole multilateralismo, abbandonando la politica unilaterale delle “coalitions of willings”. Dunque, non c’è nulla da ricucire. Il problema, semmai, è il contributo che può dare un paese come l’Italia. Noi siamo nel cuore del Mediterraneo e il nostro ruolo, in un mondo che rischia uno scontro di civiltà, è essere crocevia del dialogo, dell’iniziativa politica, della ricerca del confronto. Questa è la nostra vocazione».

Questa «vocazione» come si concilia con le politiche che si preannunciano sul fronte dell’immigrazione?

«La destra ha cavalcato il tema della sicurezza, con argomenti e toni pericolosi che speriamo il governo corregga rapidamente. Evocare le ronde o affermare che i cittadini possano provvedere da soli, crea un terreno favorevole a gesti violenti come gli incendi dei campi rom. Sui temi della sicurezza, viceversa, occorre grande equilibrio. Naturalmente, servono fermezza contro la criminalità, procedure rapide per l’espulsione, insomma quelle misure ragionevoli per la sicurezza che già avevamo predisposto noi, con il pacchetto Amato, che poi, purtroppo, non è stato approvato. Sappiamo anche per responsabilità di chi e il prezzo elettorale che abbiamo pagato».

Il governo ha presentato il ddl sul reato di clandestinità...

«Sarebbe una norma incivile, giuridicamente insostenibile, contraria ai principi europei. In più, sarebbe totalmente controproducente, perché criminogena: spingerebbe la povera gente che viene nel nostro Paese per disperazione e miseria - e che nella grande maggioranza è onesta - a diventare manodopera per la criminalità. Il problema vero è che noi non abbiamo una politica dell’integrazione degna di questo nome. Si tratta di una grande questione europea, non soltanto italiana. Ma io domando: che razza di società democratica è quella in cui il 15% della forza lavoro che produce tra il 6 e il 10% del Pil non gode di diritti civili e politici? Che razza di democrazia è quella nella quale chi vive e lavora in Italia da 15 anni non ha diritti? In definitiva, è la sostanza della democrazia ad essere intaccata. A mio parere, società di questo tipo non si reggono. Ecco perché lo considero un problema cruciale, che - insisto - riguarda l’Europa e il suo futuro. E che chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida sulla quale ci dobbiamo tutti misurare. Una politica di sicurezza, con il rigore verso chi delinque e la certezza della pena, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è una coraggiosa strategia dell’integrazione, che punti sui diritti civili, sociali, politici e su una accelerazione delle procedure della cittadinanza. Così, a mio giudizio, una seria politica dell’integrazione diverrebbe fattore fondamentale della sicurezza. Altrimenti, temo che avremo una società squilibrata, in cui persino certi valori fondamentali come quelli democratici saranno fortemente intaccati».

Pubblicato il: 22.05.08
Modificato il: 22.05.08 alle ore 12.02   
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« Risposta #65 inserito:: Maggio 24, 2008, 10:34:40 pm »

Pocar: «Così si colpisce l’umanità sofferente»

Umberto De Giovannangeli


«Se un consiglio mi sento di poter dare ai legislatori, è di evitare ogni generalizzazione. Non si possono trattare tutte le situazioni allo stesso modo. E quando si parla di emigrazione clandestina occorre saper distinguere tra i trafficanti di uomini, che vanno colpiti duramente, da una umanità sofferente che di questi trafficanti è vittima». A parlare è una delle massime autorità nel campo del Diritto internazionale: Fausto Pocar, presidente del Tribunale penale internazionale dell’Aja - sui crimini nella ex-Jugoslavia, docente di Diritto internazionale all’Università Statale di Milano. Pocar condivide il rischio paventato dall’ex vice premier Massimo D’Alema nell’intervista all’Unità: «In effetti - afferma il presidente del Tpi dell’Aja - introdurre il reato di immigrazione clandestina potrebbe fare dell’irregolare una facile preda per la manovalanza criminale». E sui Rom, Pocar ricorda che «molti di quelli che hanno trovato riparo in Italia fuggivano dall’inferno balcanico».

Professor Pocar, in Italia si discute e si polemizza sulle misure da prendere, anche sul piano normativo. Nel campo dell’immigrazione. Ci aiuti a ditricarci in questa complessa matassa...

«Lo straniero che una volta nel territorio italiano commette un reato, è ovvio che sia soggetto alla giurisdizione per quel reato e come conseguenza, se il reato presenta una pericolosità sociale rilevante, potrebbe essere espulso per questo. Ma ciò vale anche se fosse entrato legalmente nel territorio italiano. Altra cosa, però, è dire che uno straniero che entra irregolarmente in Italia per ciò stesso commette un reato. Vi è poi un altro aspetto della questione che andrebbe tenuto ben presente...»

Di quale aspetto si tratta?

«In molti casi gli stranieri che entrano nel nostro Paese sono vittime di trafficanti e pensano di entrare regolarmente, pagando per questo, perché gli viene detto che così è, che tutto è regolare. In un caso del genere mancherebbe il dolo, e quindi non ci sarebbe reato. E poi bisognerebbe tener conto nel definire un reato di questo tipo, delle norme internazionali sul diritto d’asilo, sulla protezione dei rifugiati, sulla tutela dei diritti dell’uomo che impegnano l’Italia a non esporre le persone alla violazione dei loro diritti fondamentali. La definizione normativa di un reato in questa materia, è una questione complessa che richiede un attento approfondimento di tutti gli aspetti».

Tra gli aspetti da valutare c’è anche quello messo in rilievo dall’ex vice premier Massimo D’Alema che in una intervista a l’Unità a paventato il rischio «criminogeno» di una norma che introduce il reato di immigrazione clandestina?

«Questo rischio esiste e va preso nella dovuta considerazione».

Professor Pocar, ma la questione dell’immigrazione può essere affrontata solo in termini di sicurezza?

«Direi che la sicurezza è solo un aspetto, sia pur importante, di una problematica ben più complessa. Questi problemi, a mio avviso, debbono essere affrontati e possono trovare una soluzione investendo e facendo progredire lo stato di diritto nei Paesi da cui provengono la grande maggioranza delle persone che che emigrano spinte dalla miseria, da condizioni di vita insopportabili, dalla mancanza di diritti fondamentali... Vede, io penso sempre che l’emigrante non emigra per divertimento ma perché costretto a farlo... Se si creano nel Paese di origine condizioni accettabili gli emigranti non sono spinti ad andarsene. Si tratta di un investimento di cui dovrebbe farsi carico l’Unione Europea, perché la questione dell’immigrazione è un problema europeo, e che andrebbe sollecitato soprattutto dai Paesi più esposti, e tra essi c’è indubbiamente l’Italia, esposta a Sud e ad Est».

Pubblicato il: 24.05.08
Modificato il: 24.05.08 alle ore 7.59   
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« Risposta #66 inserito:: Maggio 25, 2008, 11:07:32 pm »

Gli otto padrini della svolta in Libano

Umberto De Giovannangeli


Diciotto mesi di paralisi istituzionale. Senza un Presidente. Con un governo assediato e privo di potere reale. Diciotto mesi di tensione, di paura, di scontri di piazza, di terrore. A un passo dal baratro, il Libano si ritrova. E oggi volta pagina con un nuovo presidente e un governo di unione nazionale. Nel Libano che sogna un futuro di normalità, otto sono gli uomini che ne scandiscono il presente. Gli otto uomini che hanno cambiato il volto del Paese dei Cedri.

MICHEL SULEIMAN. Sessant’anni, diventato capo dell’esercito nel 1988, sarà lui il dodicesimo Presidente nella storia dello Stato libanese. Cristiano maronita, Suleiman ha avuto il merito di essersi abilmente tenuto fuori dalle dispute politiche e confessionali che hanno tormentato il Paese dei Cedri. Nei recenti scontri di maggio che sono costati la vita ad oltre 65 persone, ha mantenuto una posizione di basso profilo senza schierarsi apertamente con o contro nessuno. Dalla maggioranza antisiriana c’è chi ricorda che la sua nomina a capo dell’esercito è avvenuta al culmine dell’egemonia siriana sul Libano e che suo cugino, Gebran Kuriyyeh, era il portavoce di Hafez Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar Assad. Altri non hanno gradito le sue parole di apprezzamento nei confronti di Hezbollah, subito dopo la fine della guerra con Israele nell’estate 2006. Si è conquistato invece i favori di tutti nell’estate 2007 quando i suoi soldati hanno represso con la forza la sollevazione di un gruppo islamico armato filoqaidista asserragliato nel campo profughi palestinese di Nahr Al Barid, nel Nord del Paese.

SAAD HARIRI. Trentasette anni, sunnita, una promettente carriera imprenditoriale sfumata in Arabia Saudita, porta sulle sue spalle la pesante eredità del padre, Rafik, l’ex premier, simbolo della battaglia politica per far uscire il Libano dal trentennale protettorato siriano, assassinato in un sanguinoso attentato sul lungomare di Beirut il giorno di San Valentino del 2005. Nel nome del padre, «Rafik il martire», Saaad ha guidato alla vittoria la variegata coalizione antisiriana del «14 Marzo». Dal giorno del suo ingresso, non cercato, nell’agone politico libanese, il giovane Saad vive «blindato». Ma non per questo ha rinunciato ad esercitare la sua leadership proiettandola oltre la comunità sunnita. Se il Libano non è precipitato in una nuova, devastante guerra civile, lo si deve molto a lui. E sarà il giovane Hariri, con ogni probabilità, il futuro primo ministro di un governo di unione nazionale. Unione tutta da realizzare. Lui ha promesso indipendenza, sovranità, giustizia, verità. Nel nome di quella «Primavera di Beirut» di cui è Saad Hariri è diventato uno dei protagonisti. E non solo nel nome del padre.

SAYYED HASSAN NASRALLAH. In molti lo indicano come il vero padrone del Libano, il vincitore della prova di forza politico-militare che ha portato al via libera ad un governo di «coesione nazionale» in cui Hezbollah e i suoi alleati potranno esercitare il diritto di veto. Amato e odiato: è il destino di Sayyed Hassan Nasrallah, 48 anni, leader del Partito di Dio sciita. Nato e cresciuto nel quartiere «al-Karantina» (Quarantena), uno dei più poveri della periferia orientale di Beirut, Nasrallah ha saputo coniugare l’irredentismo nazionalista in chiave islamica con la costruzione di una ramificata rete di assistenza sociale che ha fatto di Hezbollah uno «Stato nello Stato» libanese. Ambizioso, abile oratore, Nasrallah - eletto nel 1992 all’unanimità dai membri del Consiglio Consultivo, segretario generale di Hezbollah in successione di Sayyed Abbas al-Musawi assassinato dall’esercito israeliano il 16 febbraio 1992 - ha mantenuto e rafforzato il contropotere armato delle milizie sciite, che ha retto alla «Guerra dei 34 giorni» con Israele, e al tempo stesso ha «parlamentarizzato» Hezbollah, facendolo divenire uno dei partiti più influenti nella vita politica libanese.

NABIH BERRI. Ha pilotato con spregiudicatezza e consumata abilità la più lunga crisi istituzionale nella storia del Libano. Settant’anni, figura storica della comunità sciita, negli anni della guerra civile (1975-1990, oltre 150mila morti), i miliziani sciiti di Amal (Speranza), combattevano e morivano in suo nome. Nel nome di Nabih Berri. Col tempo, Berri ha guidato Amal verso una «conversione» politico-istituzionale che lo ha portato a essere eletto alla carica - che per gli accordi di Taif spetta ad uno sciita - di presidente del Parlamento libanese. Alleato, ma non succube, di Hezbollah, Berri ha saputo alternare irrigidimenti e aperture, divenendo uno dei protagonisti dei colloqui di Doha che hanno portato allo sblocco del lungo braccio di ferro che ha paralizzato per un anno e mezzo la vita politica del Paese dei Cedri. Per la Comunità internazionale, Nabih Berri è divenuto un interlocutore essenziale, per il Libano un fatto di equilibrio, per quanto instabile.

WALID JUMBLATT. Una vita vissuta in trincea, sempre nel mirino dei suoi numerosi nemici, sempre con l’obiettivo di preservare l’esistenza politica della comunità drusa di cui da tempo è il leader carismatico: Walid Jumblatt, 61 anni, studi a Parigi, riesce a tenersi lontano dalla vita politica fino alla morte del padre, Kamal, rimasto vittima di un attentato nel 1977. Diventato in piena guerra civile, leader del Partito socialista progressista libanese e della comunità drusa, grazie all’alleanza con la Siria e con i palestinesi dell’Olp respinse l’attacco lanciato dalle milizie cristiane maronite del Partito falangista di Amin Gemayel nella cosiddetta «Guerra delle montagne» (1983). Grazie ad un’accorta e spregiudicata politica delle alleanza, rivolta soprattutto a salvaguardare la comunità drusa, Jumblatt è divenuto una delle figure chiave nel complesso «puzzle» politico libanese. Nel 1989 si schiera a fianco della Siria con il leader cristiano maronita Michel Aoun, ma a partire dall’assassinio di Rafik Hariri, Walid Jumblatt diviene uno dei più tenaci avversari del regime di Damasco.

FOUAD SINIORA Nei giorni terribili della guerra israelo-libanese, ha rappresentato, con fierezza e dignità, il volto, ferito ma non annientato, di un Libano che continuava a sperare in una nuova rinascita. Contro ogni ingerenza. Amico d’infanzia di Rafik Hariri, il sessantacinquenne primo ministro libanese, ha un passato di capace tecnocrate che lo ha portato a ricoprire incarichi di responsabilità nella Banca Centrale del Libano e successivamente a livello ministeriale. Particolarmente apprezzato dalle cancellerie europee e dal Dipartimento di Stato Usa, Sinora è diventato premier di un governo di coalizione il 19 luglio 2005. È lui, durante la «Guerra dei 34 giorni», a presentare alla conferenza di Roma (27 luglio 2006) un piano in sette punti per una risoluzione del conflitto, contribuendo poi alla definizione della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite che ha posto fine al conflitto e al dispiegarsi nel Sud Libano dei caschi blu della missione Unifil 2. Dal novembre 2006 è alla guida di un governo dal quale sono usciti i ministri di Hezbollah. Assediato, costretto a una vita blindata, Siniora si appresta ora ad uscire di scena. Con dignità.

AMIN GEMAYEL Capo dello Stato libanese dal 1982 al 1988, Amin Gemayel, 66 anni, ha visto morire suo figlio Pierre, il giovane ministro dell’Industria ucciso in un attentato a Beirut il 21 novembre 2006. Leader delle Falangi cristiano maronite - fautore di una linea anti panaraba e filooccidentale per il "nuovo Libano" - Amin Gemayel ebbe a dire, in una recente intervista concessa a l’Unità, «ciò che vogliamo, ciò per cui ci battiamo, è l’unità e che tutto torni sotto l’autorità dello Stato libanese. La nostra è una cultura della pace e della vita». Personalità di primo piano nella coalizione antisiriana del «14 Marzo», Amin Gemayel non ha mai chiuso la porta alla possibilità di un dialogo con la Siria, a condizione, però, che Damasco «riconosca il Libano come Paese sovrano e indipendente». Instancabile negoziatore, anche nei momenti più aspri dello scontro con l’opposizione filosiriana, Gemayel ha mantenuto rapporti con il leader di Hezbollah, Nasrallah, e ha avuto un ruolo decisivo nel lancio della candidatura del generale Suleiman a capo dello Stato.

MICHEL AOUN Da fiero combattente antisiriano a sostenitore del fronte filo-Damasco. Comunque e sempre protagonista: 73 anni, cristiano maronita, tra il 22 settembre 1988 e il 13 ottobre 1990, nelle fasi terminali della guerra civile, il generale Aoun, già capo di stato maggiore, presiede un governo militare osteggiato dalla Siria e da altre fazioni combattenti. Tornato in Libano dopo quindici anni di esilio a Parigi, Aoun guida il Movimento Patriottico Libero che schiera a fianco degli sciiti di Hezbollah e Amal. Nelle elezioni parlamentari del 2005, Aoun e il suo movimento risultano tra i vincitori. «Sarei il Presidente ideale per il Libano», ha più volte dichiarato, confortato da sondaggi che lo indicavano come il più popolare tra i capi cristiano maroniti. Ma per «il bene del Paese» il generale ha dovuto fare un passo indietro, lasciando il campo libero ad un altro generale, Michel Suleiman. Ma lui, Michel Aoun avverte: «Non ho alcuna intenzione di ritirarmi a vita privata». Nel futuro del Libano continuerà a incidere, magari con un ruolo di primo piano nel nascente governo di «coesione nazionale».

Pubblicato il: 25.05.08
Modificato il: 25.05.08 alle ore 7.43   
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« Risposta #67 inserito:: Maggio 30, 2008, 11:23:16 pm »

Desmond Tutu: ho pianto davanti a Gaza in rovina

Umberto De Giovannangeli


Confessa di aver pianto nel constatare di persona i patimenti inflitti a una popolazione allo stremo. L’inferno di Gaza visto attraverso gli occhi dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace ’84, riconoscimento che gli fu attribuito per la sua lotta non violenta contro il regime dell’apartheid. Tutu in questi giorni è a Gaza, capo della missione del Consiglio dell’Onu per i diritti umani incaricata di indagare sulle violazioni israeliane nella Striscia e sull’uccisione di 19 civili, tra i quali molte donne e bambini, provocata da un bombardamento israeliano l’8 novembre ’06 a Beit Hanun.

Israele ha rifiutato di concedere i visti a Tutu e al suo gruppo: l’arcivescovo anglicano e i suoi collaboratori hanno aggirato le restrizioni israeliane entrando nel territorio palestinese dal valico di Rafah con l’Egitto che è stato aperto occasionalmente per loro martedì scorso.

Nella sua missione a Gaza, Tutu ha incontrato anche il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ma soprattutto si è intrattenuto con i sopravvissuti dell’attacco di Beit Hanun. Nel ricordare quell’incontro, il Premio Nobel per la Pace sudafricano non trattiene la commozione: «Tutti noi - racconta a l’Unità - siamo rimasti scioccati, devastati da quei colloqui. Si è trattato di una esperienza sconvolgente che non si augurerebbe al proprio peggior nemico».

Sulla strage di Beit Hanun, la commissione guidata da Desmond Tutu sta preparando un rapporto che sarà presentato alla riunione del Consiglio dell’Onu per i Diritti umani a settembre.

Un viaggio a Gaza. Quali emozioni ha provato?
«È stata una esperienza umana sconvolgente. In questi giorni abbiamo avuto modo di renderci conto di persona di una situazione disastrosa. A Gaza è in atto una tragedia umanitaria di fronte alla quale il mondo non può chiudere gli occhi. Perché se la verità fa male, il silenzio uccide».

Le più importanti agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente denunciato gli effetti provocati sulla popolazione di Gaza dal blocco imposto da Israele. Qual è in proposito la sua opinione?
«Quello in atto da mesi e mesi a Gaza è un assedio illegale; il blocco costituisce una violazione flagrante dei diritti umani ed è contrario agli insegnamenti delle sacre scritture, cristiane ed ebraiche e della tradizione ebraica di adoperarsi per i più deboli. Faccio davvero fatica a trovare le parole adatte per descrivere ciò che abbiamo visto e inteso. Di certo, tutto ciò è inaccettabile. La cosa più inconcepibile e mai giustificabile, è quello che si sta facendo ad un popolo per garantire la propria sicurezza (di Israele). Ciò che ho visto mi ricorda molto quello che accadeva a noi neri in Sudafrica, durante l’apartheid. Non mi riferisco solo a Gaza. Ricordo ancora un mio precedente viaggio in Terra Santa. Ricordo come se fosse oggi l’umiliazione dei palestinesi ai check points e ai blocchi stradali, soffrivano come noi quando i giovani poliziotti bianchi ci impedivano di circolare».

Qual è il messaggio che si sente di lanciare alla comunità internazionale?
«Il messaggio è che il nostro silenzio e la nostra complicità per ciò che sta accadendo a Gaza, fa disonore a tutti noi. Gaza ha bisogno di aiuti e di attenzione da parte del mondo, in particolare da quanti credono e si battono per la pace».

Lei ha avuto modo di incontrare a Gaza il premier di Hamas, Ismail Haniyeh.
«Ho chiesto ad Haniyeh di operare affinché Hamas interrompa il lancio di razzi Qassam verso Israele. Queste azioni finiscono solo per aggiungere dolore a dolore, sofferenza a sofferenza: la mia solidarietà va anche alla popolazione israeliana di Sderot, costretta a soffrire per il lancio dei razzi Qassam. Non è in questo modo che i palestinesi vedranno realizzati i propri diritti. Dal più profondo del cuore, mi sento di lanciare di nuovo un appello a entrambe le parti perché si ponga fine ad ogni atto di violenza, ed in particolare agli attacchi ai civili. Questi attacchi, comunque motivati, sono sempre una violazione dei diritti dell’uomo. L’unico modo per porre fine alle violenze e alle ingiustizie è che israeliani e palestinesi si ritrovino insieme intorno ad un tavolo per discutere: questo è l’unico modo per instaurare la vera pace».

E a Israele quale appello si sente di lanciare?
«Vorrei dire che Israele ha diritto a vivere in pace nella sicurezza ma che questo diritto non può fondarsi né realizzarsi compiutamente se proseguirà l’oppressione esercitata contro un altro popolo. Il popolo palestinese. Una vera pace può essere costruita solo su basi di giustizia. E giustizia vuole che oggi si porti conforto alla popolazione di Gaza».

Lei ha parlato di una realtà, quella della Striscia di Gaza, scioccante, disperata...
«E non mi riferivo solo alle condizioni materiali di vita. La disperazione è anche altro. È l’assenza di speranza, è la percezione diffusa che la realtà è destinata ancora a peggiorare. La disperazione è nei tanti ragazzi e ragazze che ho incontrato e che mi hanno confessato di non saper immaginare un futuro. La disperazione è nei bambini che hanno respirato solo violenza, paura...Questa è Gaza oggi. Lo ripeto: è una condizione inaccettabile, inumana. Alla quale non dobbiamo rassegnarci».

Ha collaborato Osama Hamdan



Pubblicato il: 30.05.08
Modificato il: 30.05.08 alle ore 14.31   
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« Risposta #68 inserito:: Giugno 06, 2008, 04:39:00 pm »

«A Barack dico, vieni a vedere l’inferno dei Territori»

Umberto De Giovannangeli


«Spero che il senatore Obama possa visitare presto i Territori palestinesi. Avrà modo di rendersi conto di persona della sofferenza di un popolo e di ciò che significa vivere sotto occupazione. Una cosa è certa: nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso e al dialogo con Israele, potrebbe mai firmare un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est come sua capitale». A parlare è l’uomo delle «missioni impossibili»: Ahmed Qurei (Abu Ala), già primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese, oggi capo negoziatore palestinese. Abu Ala - che fu tra gli artefici degli accordi di Oslo-Washington (1993) - si rivolge anche all’Europa: «Ciò che chiediamo - afferma - è che i governi europei e la Ue non innalzino il livello delle relazioni con Israele» fintanto che lo Stato ebraico «non avrà rispettato i suoi obblighi, in particolare la fine delle attività degli insediamenti e delle altre violazioni dei diritti umani».

Il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, ha affermato che Gerusalemme deve restare capitale indivisa dello Stato d’Israele. Qual è la sua risposta?
«Negli Stati Uniti si è in piena campagna elettorale e il senatore Obama parlava alla convention di una influente associazione proisraeliana. Il contesto può forse spiegare certi eccessi».

Resta l’affermazione
«Un’affermazione in sé sbagliata, inaccettabile, perché un accordo di pace tra Israele e Anp non può prescindere dalla definizione dello status di Gerusalemme. Al senatore Obama, di cui pure apprezziamo il suo sostegno alla nascita di uno Stato palestinese indipendente, diciamo che Gerusalemme può e deve divenire capitale condivisa di due Stati che vivano in pace uno a fianco dell’altro. D’altro canto, uno dei dossier in discussione nel negoziato in corso riguarda proprio Gerusalemme, il suo futuro. Discutere dello status di Gerusalemme non è più un tabù: sul tappeto vi sono idee, proposte che possono aiutare la discussione, sapendo la delicatezza estrema della materia e il fatto che il futuro di Gerusalemme non riguarda solo israeliani e palestinesi, perché Gerusalemme, è bene ricordarlo sempre, è patrimonio dell’umanità e città Santa per le tre più grandi religioni monoteistiche. Mi auguro che il senatore Obama rifletta su questo e ne tragga le dovute conclusioni da uomo di pace quale egli è».

È ancora possibile, come sostenuto dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush alla Conferenza di Annapolis (dicembre 2007), raggiungere un accordo definitivo di pace entro la fine di quest’anno?
«La speranza è l’ultima a morire, ma la realtà purtroppo non induce all’ottimismo. Diciamo che allo stato delle cose, solo un miracolo potrebbe portare ad un accordo entro il 2008. Di positivo c’è che ciascuna delle questioni cruciali che riguardano un accordo di pace globale, sono state affrontate in apposite commissioni. Nessun tema, neanche il più spinoso, è stato accantonato».

Questo l’aspetto positivo. E quello negativo?
«Il dato negativo è che finora non è stato registrato alcun progresso, e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace, soprattutto se questo tempo viene impiegato da Israele per porre nuovi ostacoli sul percorso negoziale».

A cosa si riferisce in particolare?
«Alla politica di colonizzazione portata avanti da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme. Una politica contraria alla legalità internazionale, condannata con decisione dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Non si può invocare il dialogo e allo stesso tempo imporre sul campo la politica dei fatti compiuti. Se davvero gli israeliani vogliono negoziati seri, allora devono fermare gli insediamenti, rimuovere i posti di blocco e i check-point, oltre 600, che hanno spezzato in mille frammenti la Cisgiordania, e porre fine alle punizioni collettive inflitte alla popolazione di Gaza. La colonizzazione è antitetica alla pace».

Ma da Gaza continua il lancio di razzi Qassam contro le città israeliane. Oggi (ieri, ndr.) è un razzo ha ucciso un civile israeliano e provocato diversi feriti.
«Il presidente Abbas (Abu Mazen) ha più volte e duramente condannato il lancio dei razzi. Questa pratica va contro gli interessi del popolo palestinese e va rigettata con fermezza, come va respinto ogni atto che coinvolga civili, palestinesi o israeliani. Ma il blocco della Striscia non ha indebolito Hamas, ha solo moltiplicato la sofferenza della popolazione. E sulla sofferenza e l’ingiustizia non possono radicarsi le regioni del dialogo».


Pubblicato il: 06.06.08
Modificato il: 06.06.08 alle ore 12.13   
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« Risposta #69 inserito:: Giugno 21, 2008, 11:18:46 pm »

Riccardi: il Nobel a Ingrid per premiare la non-violenza

Umberto De Giovannangeli


Il Premio Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt. L’iniziativa de l’Unità è condivisa dal professor Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e ordinario di Storia contemporanea alla Terza Università di Roma. «Io non conosco di persona Ingrid Betancourt ma ho avuto modo di conoscere la madre Yolanda - racconta Riccardi -: mi sembra che ci sia in loro qualcosa di indomito, di chi è disposto a lottare fino all’ultimo». Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio rileva un tratto unificante tra la vicenda di Ingrid Betancourt e quella che ha come protagonista un’altra donna-coraggio: la birmana, e già Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi: «Sia Aung che Ingrid - afferma Riccardi - nei diversi contesti, la prima in Birmania, l’altra in Colombia, rappresentano al meglio la capacità femminile di incarnare un Paese e di resistere in modo forte ma non violento». Ed è anche per questo che il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt avrebbe la positiva dirompenza di un messaggio lanciato alle giovani generazioni: «Purtroppo assistiamo ad una ripresa del culto della violenza - osserva il fondatore della Comunità di Sant’Egidio - ed è per questo che appare ancora più grande il messaggio di cui Ingrid Betancourt si è portatrice».

Professor Riccardi, quale significato può assumere il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt?
«Secondo me Il Nobel a questa donna che ha tentato una soluzione attraverso la sua persona, il suo impegno generoso alla grande contraddizione colombiana, un riconoscimento così importante significa che su questa donna viene posto il “mantello” protettivo della comunità internazionale, e si dice come la sua liberazione sia chiave per risolvere la situazione della Colombia. Insomma, non si esce dal muro contro muro, bisogna trovare una via di uscita che sia una via di uscita negoziata; ma prima di tutto bisogna garantire la libertà a quelli che sono stati vittime di questa guerra insensata».

Ingrid Betancourt parla al mondo dalla sua prigionia nella foresta dove da anni è tenuta segregata dai suoi carcerieri, attraverso le lettere. Che cosa traspare da quelle lettere?
«Queste lettere raccontano la passione e la resistenza di una donna ad una situazione impossibile; un animo indomito: io non conosco di persona Ingrid, conosco sua madre Yolanda e mi sembra che ci sia qualcosa di veramente indomito in loro, di lotta fino all’ultimo, come è stato il gesto di Ingrid di candidarsi alla Presidenza della Colombia, che per certi aspetti era una “follia”, però mi sembra che lei resti fedele alla sua intuizione, minoritaria ma ragionevole».

C’è un’altra donna, che è stata insignita del Nobel per la Pace, che è divenuta il simbolo del suo popolo in lotta, una lotta non violenta, per la libertà e il rispetto dei diritti umani: Aung San Suu Kyi. Dalla Birmania alla Colombia: da una casa-prigione birmana ad una foresta-prigione nella foresta amazzonica. Aung, Ingrid. Perché le donne divengono il simbolo di battaglie di libertà?
«Nei diversi contesti, Aung e Ingrid rappresentano al meglio la capacità femminile di incarnare un Paese e di resistere in modo forte ma non violento».

Questa non violenza, può essere un messaggio forte per le giovani generazioni alla ricerca di persone, di simboli in cui credere e identificarsi?
«Siamo in un mondo violento, in cui c’è il culto della violenza anche se è una violenza non più ideologica. Purtroppo c’è una ripresa del culto della violenza, ed è per questo che è ancora più importante il grande messaggio non solo lanciato ma impersonato da donne-coraggio come Aung San Suu Kyi e Ingrid Betancourt».

Pubblicato il: 21.06.08
Modificato il: 21.06.08 alle ore 8.14   
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« Risposta #70 inserito:: Giugno 23, 2008, 12:06:45 am »

Margherita Hack: «Sì al Nobel, Ingrid difende pace e libertà»

Umberto De Giovannangeli



«Non c’è da stupirsi che fatta eccezione, meritoria, de l’Unità, l’interesse dei grandi mezzi di informazione nei confronti della tragedia di Ingrid Betancourt sia pressoché zero. Il fatto è che in un Paese che sta imbarbarendosi e che affida le sue sorti ad un abile quanto cinico «venditore di tappeti», una donna che lotta fino allo stremo per nobili ideali a cui è disposta a sacrificare la sua stessa esistenza, una donna come Ingrid Betancourt è davvero fuori posto. Una ragione in più per sostenere la lodevole iniziativa de l’Unità: il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt». A parlare è Margherita Hack, tra le massime autorità scientifiche a livello internazionale nel campo dell’astrofisica.

Professoressa Hack, che significato potrebbe assumere il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt?
«Sarebbe il dovuto riconoscimento ad una persona che sta sacrificando la propria vita per la libertà di pensiero. Libertà vuol dire anche pace. E anche il fatto che a Firenze le daranno il premio Galileo… Galileo è stato un uomo, uno scienziato che è stato costretto ad abiurare ad una realtà scientifica, ed è stato un esempio di cosa significhi violare la libertà di pensiero. Il "premio Galileo" alla Betancourt è un riconoscimento della sua vita sacrificata in nome della libertà di pensiero. Ed è anche per questo che meriterebbe senz’altro il Nobel per la Pace, perché che pace ci può mai essere se non si riconoscono i diritti di libertà dei cittadini?».

Spesso si mette insieme la drammatica vicenda di Ingrid Betancourt con quella di un’altra donna coraggiosa: la birmana Aung San Suu Kyi. Perché le donne divengono oggi il simbolo di grandi battaglie di libertà?
«Le donne proprio perché sono state tenute lontane dal potere per tanti secoli, forse sono meno soggette a compromessi con il potere. Anche in politica quando parlano sono più dirette. E poi riempiono di idealità la loro concretezza».

Da anni, Ingrid Betancourt è tenuta prigioniera in una foresta. In questi anni di sofferenza, Ingrid ha continuato a comunicare attraverso le sue lettere. Cosa raccontano queste lettere?
«Sono la testimonianza del coraggio di una donna che crede in ciò che fa e che è rimasta fedele, nonostante i patimenti sofferti, ai suoi ideali. Quegli ideali che l’aiutano a vivere in quella terribile condizione; se non avesse una grande forza interiore credo che sarebbe crollata da tempo. Quegli ideali l’aiutano a resistere».

Quale messaggio le lettere di Ingrid Betancourt trasmettono ad un mondo globalizzato?
«Un esempio. Un bel esempio offerto ad un mondo che è sempre più succube del potere, della ricchezza, dell’apparire. Ingrid Betancourt è un esempio da seguire, l’esempio di chi crede negli ideali piuttosto che nel potere o nel proprio tornaconto particolare».

Ingrid Betancourt trasmette anche un messaggio di non violenza. Ingrid potrebbe diventare un modello per le giovani generazioni?
«Non potrebbe, lo è già. Ingrid è un modello di coerenza, un punto di riferimento per quanti nel mondo ancora credono e si battono per valori universali quali la giustizia, i diritti dei popoli, la liberazione da vecchie e nuove povertà. Sì, Ingrid è un modello per chi pensa in termini di "noi" e non di "io": di chi antepone gli ideali condivisi di libertà e di giustizia a quelli che sono i piccoli interessi particolari».

La storia di Ingrid Betancourt è intrecciata a quella di un popolo spesso dimenticato: il popolo colombiano.
«Per la verità, ora qualche segno di speranza l’America Latina sembra darlo: la Bachelet in Cile, Lula in Brasile, le nuove esperienze in Bolivia, Paraguay, Venezuela…La speranza è che a questi popoli sia permesso di portare a compimento un lungo, tribolato cammino di democrazia, di diritti e di giustizia sociale».

Ma la storia di questi popoli in lotta sembra spesso, troppo spesso, non "fare notizia" qui da noi… Lo stesso vale per la vicenda di Ingrid Betancourt…
«Purtroppo l’Italia oggi sta vivendo un momento di amoralità desolante. Gli ideali di libertà e di giustizia sono molto poco sentiti nel nostro Paese altrimenti non ci sarebbe oggi questo governo inqualificabile».

In queste dimenticanze c’è anche una responsabilità dei mezzi di comunicazione?
«C’è, eccome! Tantissima responsabilità. Durante la campagna elettorale la televisione, quella di Stato e non solo Mediaset, ha fatto veramente il lavaggio del cervello agli italiani, indottrinandoli in maniera assurda che tutto quello che il governo Prodi faceva era fatto male che stava portando l’Italia alla rovina, con una sinistra che non ha saputo propagandare ciò che di buono Prodi e il suo governo avevano fatto. Oggi siamo nelle mani di un abilissimo venditore di tappeti che continua a fare il lavaggio del cervello alla gente, con l’aiuto di tutte le televisioni. E in questo circuito mediatico una storia di ideali, di generosità quale quella di Ingrid Betancourt non interessa; non interessa a chi pensa solo ai propri interessi».

Pubblicato il: 22.06.08
Modificato il: 22.06.08 alle ore 14.39   
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« Risposta #71 inserito:: Giugno 23, 2008, 11:43:47 pm »

Yael Dayan: «Un simbolo per le donne di pace»

Umberto De Giovannangeli


«Chi vive “in trincea” da una vita, può comprendere meglio di chiunque altro il sacrificio di una donna di pace come è Ingrid Betancourt. Da donna, da israeliana che crede nella forza del dialogo, aderisco con entusiasmo all’iniziativa lanciata da l’Unità per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt». A farlo è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, paladina dei diritti delle donne israeliane, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei Giorni, il generale Moshe Dayan.

Un Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt visto da Israele.
«Ingrid Betancourt è una donna che non si è chiesta mai se le cose in cui credeva incontravano il consenso delle élite al potere in Colombia o se potevano essere gradite dai narcoguerriglieri. Ingrid non ha sposato lo stato di cose esistenti nel suo Paese magari facendo valere la sua posizione sociale. È andata controcorrente, come spesso controcorrente sono andati e continuano ad andare qui nel mio Paese, Israele, coloro che si oppongono alla logica del più forte, che rifiutano di piegarsi al ricatto di chi crede possibile raggiungere la pace attraverso l’annientamento del nemico. Per questo io come tanti altri in Israele saremmo felici se il Nobel per la Pace fosse assegnato a Ingrid Betancourt».

Ingrid Betancourt, e come lei Aung San Suu Kyi: le donne assurgono a simbolo di grandi battaglie di libertà.
«È un fattore di speranza, perché un mondo nuovo, con meno oppressione e ingiustizia, non può che essere coniugato al femminile. Le donne sono portate a costruire laddove gli uomini alimentano i loro impulsi distruttivi; le donne sanno cosa significhi dare alla vita un essere umano e per questo, io credo, hanno più a conto la vita umana. Le donne combattono ma difficilmente odiano. E sanno trasformare il loro dolore in energia attiva. Lo vedo qui in Israele: penso alle associazioni di donne che hanno perso i loro figli nella guerra in Libano o in attentati terroristici: ho conosciuto molte di loro, ho scritto di loro, e ciò che più mi ha colpito è stata la loro capacità di trasformare una indicibile sofferenza, un dolore immenso, quale è la perdita di un figlio, in un’azione costruttiva, in un fare positivo. Ecco: il dolore che si fa energia di cambiamento. Questa considerazione mi riporta a Ingrid Betancourt, alle lettere da lei scritte dalla sua prigionia».

Cosa raccontano quelle lettere?
«Raccontano di una donna stremata nel fisico ma non piegata nel morale; parlano di una donna lucida, consapevole, che consegna alla scrittura non solo la sua tenace volontà di resistere ma anche la sua visione del mondo, la convinzione di essersi battuta per una causa giusta. Ingrid non fa abiure, non implora pietà. La prigionia non l’ha ridotta a schiava. I suoi carcerieri non sono riusciti a imprigionare la sua mente. Sì, Ingrid è nel suo essere più profondo ancora una donna libera».

Visto dalla comunità internazionale, che valenza politica potrebbe avere il Nobel alla Betancourt?
«Significherebbe assumere la liberazione di Ingrid come impegno esplicito della comunità internazionale, come un fatto politico, per l’appunto, e non solo come un gesto umanitario».

Lei ha parlato del coraggio delle donne israeliane. E quelle palestinesi?
«So di tante madri palestinesi che hanno alzato la loro voce per dire “no” all’uso dei propri figli come “shahid”, terroristi suicidi, ribellandosi così ad una cultura, oltre che ad una pratica, di morte. Conosco giovani donne palestinesi colte, sensibili, impegnate nel dialogo, che anche nell’inferno dei campi profughi, anche nei giorni più duri dello scontro tra l’esercito israeliano e le fazioni dell’Intifada, hanno continuato a costruire il futuro, ad esempio insegnando ai bambini, o mandando avanti con grande dignità la famiglia. Queste donne che non si rassegnano al peggio rappresentano una ricchezza della società palestinese e una speranza di pace per Israele».

Di pacificazione parla e per la pacificazione si è battuta Ingrid Betancourt.
«Sento Ingrid vicina anche per l’idea di pace che ha ispirato la sua azione. Quella di Ingrid non è una pace generica, utopica. Ingrid coniuga pace con giustizia sociale, pace con democrazia, pace con rispetto dei diritti umani e civili, pace con lotta alla corruzione e alla falsa rivoluzione imposta dai narcoguerriglieri. È una pace impegnativa, scomoda, quella che Ingrid propugna. Ed è per questo che è sempre stata invisa ai corrotti del suo Paese e alla falsa alternativa di chi con Ingrid tiene in ostaggio un intero popolo».

Una speranza?
«Di poter festeggiare il Nobel con Ingrid libera, e magari farlo qui, in Israele, per raccontare che in questo mondo a tinte fosche si possono vivere e raccontare anche storie a lieto fine».

Pubblicato il: 23.06.08
Modificato il: 23.06.08 alle ore 9.31   
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 24, 2008, 05:04:32 pm »

Betancourt, Harlem Dèsir: Ingrid è malata il Nobel l’aiuterebbe a resistere

Umberto De Giovannangeli


«Dobbiamo fare in modo che a Ingrid Betancourt giungano segnali forti dell’interesse, della solidarietà, dell’affetto, dell’iniziativa internazionali nei suoi confronti. Questi segnali possono contribuire fortemente a tenere Ingrid attaccata alla vita. Ben venga l’iniziativa lanciata da l’Unità: un segnale forte è l’assegnazione del Nobel per la Pace a questa donna straordinaria». A parlare è Harlem Dèsir, fondatore di SOS Racisme e oggi eurodeputato socialista francese.

Quale significato avrebbe il Nobel per la Pace assegnato a Ingrid Betancourt?
«Questo è un momento decisivo perché Ingrid Betancourt si trova in grave pericolo. Dalle ultime notizie pervenute attraverso gli ex ostaggi e dagli stessi membri delle Farc, il suo stato di salute si è fortemente deteriorato. A ciò va aggiunto che la situazione politica nella regione, per quanto riguarda il rapporto tra le Farc e il governo colombiano, è molto tesa. Per queste ragioni la comunità internazionali deve intensificare i propri sforzi e cercare di trasmettere dei messaggi molto forti, rivolti sia alle Farc che al governo colombiano. Ingrid Betancourt è un simbolo di coraggio: lei crede nella democrazia, si è impegnata in prima persona nel difendere le proprie idee e ha persino cercato di tendere la mano ai guerriglieri delle Farc, è andata loro incontro trasformandosi in tal modo in un obiettivo facile da raggiungere. Ingrid ha fatto tutto questo, ha messo in gioco se stessa, la propria vita, per cercare una soluzione alla situazione della Colombia. Ingrid Betancourt rappresenta anche i valori in cui noi crediamo. Proprio perché si trova ora in una situazione di grande pericolo, spetta a noi agire. In questo senso, l’assegnazione del Nobel per la Pace rappresenterebbe non solo un giusto, doveroso, riconoscimento, ma sarebbe anche per lei un incoraggiamento a resistere e la tutelerebbe».

Dalla sua prigionia nella foresta colombiana, Ingrid Betancourt comunica col mondo attraverso le sue lettere. Cosa raccontano di lei quelle lettere?
«Quelle lettere mostrano una donna "intatta" nelle sue convinzioni, e al tempo stesso danno conto di una grande fragilità. Noi sappiamo che a giunge l’eco delle notizie dal mondo; sappiamo, ad esempio, che riesce, che le è consentito dai suoi carcerieri, ascoltare Radio France Internazionale, per cui dobbiamo fare in modo che le possano giungere dei segnali che l’aiutino a resistere, a restare aggrappata alla vita. E la campagna promossa da l’Unità, alla quale mi unisco, per il Nobel va in questa direzione».

Quale America Latina emerge da questa drammatica storia?
«L’America Latina è un continente che ha subito feroci dittature, spesso coperte dal silenzio se non dalla complicità dell’Occidente: ricordiamo il Cile di Allende e di Pinochet, l’Argentina dei generali e degli squadroni della morte. Ma l’America Latina è stato, è anche un continente che è uscito fuori da queste dittature attraverso le lotte democratiche, come quella condotta da altre donne coraggiose: le madri di Plaza de Mayo. Tuttavia, è un continente, quello latinoamericano, che vive ancora grandi strappi ed è segnato da conflitti e da grandi disuguaglianze economiche e sociali, con enormi problemi di sviluppo e una povertà estrema. Disuguaglianze, sacche di povertà, disperazione sociale e violenza: basti pensare alle gang e alla brutale repressione che marchiano le favelas di Rio. In questo quadro, la guerriglia delle Farc ha conosciuto un processo degenerativo: da lotta popolare a una guerriglia di narcotrafficanti, per la quale la presa di ostaggi è diventata un fine in sé per autofinanziarsi. E come in un gioco di specchi, il governo colombiano si alimenta di questa lotta per giustificare un comportamento non rispettoso dei diritti umani. Ingrid è proprio l’immagine, il simbolo vivente di chi vuol far uscire la Colombia, e più in generale l’America Latina, da questa situazione, cercando, come Lula in Brasile, di risolvere i gravi problemi sociali, economici e politici con gli strumenti della democrazia».

Betancourt, Menchù, San Suu Kyi...Perché le donne sono oggi il simbolo di grandi battaglie per la libertà e i diritti nel mondo?
«Perché portano avanti la loro lotta attraverso la propria voce, lottano con le loro idee, con le proprie convinzioni e non con le armi, dimostrando così che tra la rassegnazione e una devastante pratica militarista c’è una terza via da seguire: quella della disobbedienza civile, della lotta non violenta. Le donne come quelle da lei citate cercano di mobilitare le coscienze, dicono delle verità scomode e pagano per questo di persona, come sta facendo Ingrid Betancourt. Le loro battaglie interrogano le nostre coscienze e noi che abbiamo la fortuna di vivere in Paesi democratici dobbiamo impegnarci affinché il peso dei nostri Paesi sia dalla parte di Ingrid e delle altre donne-coraggio. Dalla parte di queste straordinarie messaggere di pace».

Pubblicato il: 24.06.08
Modificato il: 24.06.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #73 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:40:55 pm »

Levi Montalcini: il premio a Ingrid

Umberto De Giovannangeli


L´emozione traspare dal suo ricordo: «La signora Betancourt, Ingrid, mi aveva inviato il suo libro con una dedica personale. Poi c´eravamo sentite per telefono, avevamo deciso di incontrarci, ma qualche giorno dopo Ingrid Betancourt venne rapita». Inizia così, con questa testimonianza personale, il nostro colloquio con una donna straordinaria: Rita Levi Montalcini, senatrice a vita e Premio Nobel per la Medicina nel 1986. La senatrice Montalcini ci riceve nella sua abitazione a Roma: la sua agenda è fitta di impegni, riunioni al Cnr, conferenze, dibattiti, impegni in Italia e nel mondo che Rita Levi Montalcini, a 99 anni, assolve, ci dice il suo inseparabile assistente, Piero Iempile, con l´entusiasmo di una giovane ricercatrice. E con altrettanto entusiasmo la senatrice Montalcini ha accettato di incontrare l´Unità per dare la sua adesione alla campagna per l´assegnazione del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt.

Senatrice Montalcini, partiamo da un ricordo personale…
«Ingrid Betancourt mi aveva inviato una copia, con una dedica personale molto gentile, del suo libro "Forse domani mi uccideranno". In quel libro la signora Betancourt parlava del periodo in cui lei era già in pericolo, aveva portato via dalla Colombia i suoi figli perché temeva che potessero essere rapiti. Ricordo che quel giorno nel quale dovevamo incontrarci, ho saputo che lei era stata catturata. D´allora, e ormai sono passati più di cinque anni, non ho avuto più sue notizie. Ricordo di aver letto il suo libro con molta commozione perché parlava dei pericoli ai quali andava incontro».

Quale significato avrebbe il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt?
«Un doppio significato. In primo luogo, vuol dire riconoscere il coraggio col quale ha combattuto - come hanno fatto altre donne straordinarie, insignite del Nobel per la Pace come Aung San Suu Kyi, Rigoberta Menchù, ed anche la keniana Wangari Maathai per il suo impegno in difesa dell´ambiente - per gli ideali in cui crede. Ingrid Betancourt è una politica e sapeva di essere in pericolo; viveva nel terrore che i suoi nemici potessero far del male ai suoi figli e per metterli in salvo dovette separarsi da loro, portandoli via dalla Colombia per poi riportarli con lei. Ma non ha avuto il tempo per godere del loro affetto, perché è stata rapita. Il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt farebbe onore non solo a chi lo riceve ma anche a coloro che lo assegnano, sarebbe il tributo al coraggio dimostrato da questa giovane donna, dandole un premio prestigioso, riconosciuto a livello planetario, un premio di tale importanza che potrebbe far sì che quelli stessi che la tengono prigioniera si rendano conto del danno a loro che gli viene nel tenere segregata in quella foresta una donna che il mondo ha riconosciuto come "patrimonio universale" insignendola del Nobel per la Pace. Il Premio Nobel è una cosa di tale prestigio che quelli che vanno contro non hanno vantaggio alcuno nel tenere prigioniera una persona insignita del premio più prestigioso che esista. Io spero vivamente che il Nobel per la Pace sia assegnato a Ingrid Betancourt: lei lo merita davvero, per gli anni di sofferenza patiti, per il coraggio dimostrato negli anni precedenti al rapimento nei quali ha cercato di salvare a propri cari ancor prima di pensare a se stessa. Sì, Ingrid Betancourt merita il Nobel e per questo trovo meritoria la campagna di sensibilizzazione lanciata da l´Unità, alla quale do la mia adesione».

Lei ha fatto riferimento anche ad altre donne insignite del Nobel per la Pace. Le chiedo in proposito: perché le donne sono diventate un po´ il simbolo di grandi battaglie di libertà?
«Chi è stato per secoli e secoli in condizioni di non poter né studiare né altro, a chi per secoli sono stati negati diritti e possibilità; quante, le donne, hanno vissuto questa condizione di imposta sottomissione, sentono il bisogno di essere protagoniste di grandi battaglie di civiltà, come sono quelle per la pace. È logico che la donna che per molti secoli è stata tenuta in condizione di inferiorità totale, abbia desiderio e ansia di riconquistare la pace e lotti per questo».

In Francia c´è, a partire dai grandi mezzi di comunicazione, un´attenzione costante per la vicenda di Ingrid Betancourt, un´attenzione analoga in Italia è assente. Perché da noi c´è questo silenzio?
«Mi è difficile rispondere…Direi che in Francia si è molto orgogliosi di tutti i cittadini che in un modo o nell´altro fanno onore al Paese, mentre in Italia, purtroppo non è così. Di questo ne ho anche sofferto personalmente. Ero stata proposta per un premio scientifico prestigioso ma la Francia ha lottato e lo ha fatto avere al mio competitore, francese. Tutta la Francia si era mossa, in Italia nessuno lo ha fatto. E questo vale in generale: l´Italia non partecipa a queste cose, la Francia sì e ottiene ciò che noi non otteniamo».

Una donna come Ingrid Betancourt cosa può comunicare alle giovani generazioni, alla ricerca di simboli in cui identificarsi?
«Può comunicare coraggio, serenità e capacità di lottare contro condizioni terribili. Insomma, le donne hanno di più quel senso globale che le porta a battersi per problemi più generali, molto meno l´uomo. Siccome hanno sofferto per tanto, troppo tempo di essere umiliate in continuazione, è evidente che hanno bisogno più degli uomini di una ricompensa: una ricompensa che vale il bene dell´umanità».

Si è parlato prima dell´importanza del Nobel. Lei è stata insignita di questo prestigioso riconoscimento: il Nobel può essere uno «strumento» utile anche per coinvolgere, comunicare valori?
«Non c´è dubbio che il prestigio del quale godo deriva da questo prestigiosissimo riconoscimento. Questo premio è diventato del massimo riconoscimento possibile in diversi campi, e rafforza l´autorevolezza e la possibilità di essere ascoltato di chi lo riceve…».

Da questo punto di vista è dunque un premio utile…
«Direi di sì, anche troppo perché è faticoso far fronte a troppa popolarità. Non era per me».


Pubblicato il: 26.06.08
Modificato il: 26.06.08 alle ore 12.14   
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« Risposta #74 inserito:: Giugno 28, 2008, 06:00:37 pm »

Finocchiaro: isoliamo i rapitori con il Nobel della pace a Ingrid

Umberto De Giovannangeli


Il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt non è solo il doveroso riconoscimento al coraggio di una donna straordinaria. È anche un investimento sul futuro. Anna Finocchiaro, presidente del gruppo Pd al Senato, motiva il suo sostegno all’iniziativa lanciata da l’Unità. «Ciò che mi ha particolarmente colpito - osserva Anna Finocchiaro - è la forza che quel corpo infragilito di Ingrid riesce a trasmettere. La sua fragilità si contrappone alla potenza distruttiva dei suoi carcerieri».

Quale significato può assumere l’assegnazione del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt?
«Un significato straordinario, l’isolamento internazionale per i suoi rapitori, il far risaltare la miserabilità del gesto di fronte alla grandezza della persona. Al Senato abbiamo già presentato, noi del Pd e l’Italia dei Valori, una mozione per il sostegno alla candidatura al Nobel, su cui stiamo raccogliendo anche altre adesioni, che coinvolgono lo stesso schieramento di maggioranza. Mi sembra un segnale importante dato dal Parlamento italiano».

Dalla foresta nella quale è segregata da anni, Ingrid Betancourt parla al mondo attraverso le sue lettere...
«Ingrid parla al mondo con le sue lettere e parla un linguaggio diametralmente opposto a quello dei suoi carcerieri. Il suo è un messaggio di civiltà e speranza straordinario».

Ingrid Betancourt, ed anche Aung San Suu Kyi, Rigoberta Menchù...perché le donne assurgono a simbolo di grandi battaglie di libertà, diritti e giustizia nel mondo?
«Io ho una teoria molto personale: di fronte alla grande confusione e, soprattutto, a questa straordinaria violenza, è come se le donne conoscessero la lingua dell’”apriori”, di quello che sta prima di tutto e che è quello che ci può salvare. E hanno le parole per dirlo, e quando parlano il mondo le capisce».

Ed è anche un linguaggio che racconta come si può lottare, con efficacia, con l’«arma» della non violenza...
«È così: Ingrid, Aung, Rigoberta e tante altre donne coraggiose dimostrano come si può lottare attraverso la non violenza, come sia straordinariamente forte, e ciò nel caso della Betancourt è ancora più evidente, la fragilità del corpo: quanto è potente l’immagine di quella fragilità. È tutto il contrario di quello che è il linguaggio corrente nel mondo, dove la forza è collegata ai carri armati, ai bombardieri... E di fronte a questa esibizione di potenza armata ancora più forte appare la fragilità di quel corpo contro ogni violenza».

Perché una vicenda altamente emblematica come quella di Ingrid Betancourt sembra «non fare notizia» qui da noi?
«Non fa notizia perchè questo è un Paese che in particolare negli ultimi mesi, sta esprimendo un provincialismo davvero preoccupante. E chissà cosa dovremo vedere ancora...».

Rispetto ai modelli di identificazione delle nuove generazioni, una donna come Ingrid Betancourt potrebbe divenire un modello positivo?
«Secondo me sì, e anche per questo mi chiedo perché non organizzino discussioni nelle scuole su questo tema, perché non si parli di questo, della forza e della fragilità, della pace e della violenza, parlandone ma non in astratto, non per fare il tema di fine anno ma perché queste tematiche vivono nel mondo, vicino a noi, e sono testimoniate proprio dai corpi umani. Insisto molto sulla concretezza, sulla fisicità che esprime in sé, come nel caso di Ingrid, una volontà straordinaria di resistenza e di coerenza rispetto a quei principi in cui si crede. Io sono molto colpita da quel corpo così infragilito».

L’ultima domanda la rivolgo ad Anna Finocchiaro dirigente del Partito Democratico. Si parla spesso di valori unificanti in cui l’insieme del «corpo» del Pd possa riconoscersi. Una donna forte nella sua fragilità come Ingrid Betancourt non potrebbe essere un riferimento identitario unitario, coinvolgente?
«Identitario non lo so, un riferimento certamente sì, come in altri tempi e per altre storie lo furono, e lo sono ancora, donne di cui abbiamo parlato, come Aung San Suu Kyi e Rigoberta Menchù. Pochi giorni fa ho ricordato in Aula al Senato, per farle gli auguri, per i suoi 63 anni di Aung San Suu Kyi, da 12 anni agli arresti domiciliari...nessuno ci pensava. La stessa Rigobertà Menchù e se andassimo a cercare chissà quante altre donne, in particolare di Paesi asiatici, di Paesi islamici, che stanno testimoniando battaglie di libertà, di autonomia, di forza femminile».

È dunque importante rinnovare la memoria di queste donne in lotta...
«È straordinariamente importante e per questo torno a dire che le nostre ragazze, e anche i nostri ragazzi, dovrebbero sapere».




Pubblicato il: 28.06.08
Modificato il: 28.06.08 alle ore 8.26   
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