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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 92668 volte)
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« inserito:: Giugno 22, 2007, 04:22:20 pm »

Fadwa Barghuti: «Un golpe quello di Hamas, Barghuti è con Abu Mazen»
Umberto De Giovannangeli


«Marwan si è sempre battuto per l'unità del popolo palestinese. Anche dal carcere ha sempre sostenuto le ragioni dell'unità. Lo ha fatto guidando Fatah, lo ha fatto da parlamentare eletto dal popolo, lo ha fatto da prigioniero di Israele. Per questo Marwan ha condannato la prova di forza operata da Hamas a Gaza, perché essa attenta all'unità del popolo palestinese. Sì Marwan è molto preoccupato, perché è consapevole che ciò che è avvenuto rischia di infliggere una ferita mortale alla causa palestinese, mettendo in secondo piano la sofferenza del nostro popolo, il regime di occupazione in cui è costretto a vivere. Oggi si parla della guerra civile a Gaza e si dimentica che da un anno 1milione e 400mila palestinesi vivono sotto assedio, isolati dal mondo, del tutto dipendenti da Israele. Occorre ricostruire questa unità e rafforzare l'Autorità nazionale palestinese, l'unica in grado di preservare la nostra autonomia». A parlare è Fadwa Barghuti, avvocato, moglie di Marwan Barghuti, il leader di Al Fatah, l'uomo simbolo della seconda Intifada, detenuto in Israele condannato a cinque ergastoli per reati di terrorismo. Ma nella stessa Israele sono in molti - ultimo in ordine di tempo l'editoriale pubblicato ieri dal quotidiano Haaretz - a chiedere la liberazione di Barghuti, con la motivazione che la sua liberazione potrebbe rafforzare in modo decisivo la leadership di Abu Mazen: «Marwan - sottolinea Fadwa Barghuti - si è sempre proclamato innocente e ha contestato la legittimità da parte israeliana a processarlo: il suo arresto - l'arresto di un parlamentare palestinese - in territorio amministrato dall'Anp è stato un atto illegale, un vero e proprio rapimento. Marwan non è venuto meno alle sue convinzioni: occorre negoziare una pace giusta, tra pari, con Israele. Una pace fondata sulla legalità internazionale. La sua linea è quella delineata dal "Documento dei prigionieri": battersi per la costruzione di uno Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967; uno Stato con Gerusalemme est come sua capitale. Nulla di più, niente di meno».

Da più parti si è convinti che la liberazione di Marwan Barghuti potrebbe essere decisiva per rafforzare la leadership del presidente Abu Mazen.

«La liberazione di Marwan sarebbe innanzi tutto un atto di giustizia: Marwan Barghuti è un parlamentare palestinese eletto dal popolo palestinese, che Israele ha arrestato con un atto illegale, contrario al diritto internazionale e agli stessi accordi di Oslo. Marwan si è sempre battuto per l'unità dei palestinesi e ha combattuto contro chiunque attentasse ad essa…».

Ed è per questo che ha condannato il «golpe» di Hamas?

«Ciò che è avvenuto a Gaza è un fatto gravissimo: Marwan è convinto che il piano di attacco da parte di Hamas fosse stato preparato da tempo. C'era chi negoziava con Abu Mazen per formare un governo di unità nazionale, e chi metteva in atto il piano per la conquista militare di Gaza. Una doppiezza inaccettabile, che ha provocato morte, dolore, e messo in secondo piano la tragedia di un popolo sotto occupazione. Oggi a rischio mortale non è l'Anp, è la causa palestinese. L'unità va ricostruita, perché un popolo diviso è un popolo destinato alla sconfitta».

A Gaza si è registrata anche la disfatta di Fatah.

«Una disfatta che non ha sorpreso Marwan. Da tempo, infatti, Marwan aveva sottolineato l'urgenza di un ricambio di leadership in Fatah a Gaza e lo sviluppo di nuove forme di sicurezza. Logiche di potere personale hanno portato alla disfatta. Abu Mazen lo ha capito e ha assunto la decisione giusta: sciogliere il Consiglio di sicurezza dell'Anp e affidare la ricostruzione delle forze di sicurezza a dirigenti onesti, capaci, riconosciuti come tali dalla gente…».

La pace per Marwan Barghuti contempla il diritto all'esistenza di Israele?

«Marwan si è sempre battuto perché fosse realizzato il diritto del popolo palestinese a uno Stato indipendente. A questo ha consacrato la sua vita, non alla distruzione di Israele. Marwan ha sempre sostenuto con forza la linea secondo cui bisogna lottare e resistere all'interno dei territori del 1967 e non ci può essere né pace né sicurezza per nessuno se non con due Stati e due popoli, l'uno accanto all'altro, in Palestina. Per questo ha combattuto, dichiarandosi al contempo pronto a intavolare un vero negoziato di pace, che proprio perché vero non può fondarsi sui presupposti fallimentari che reggevano gli accordi di Oslo-Washington».

Marwan Barghuti ha dato il suo sostegno al governo Fayyad…

«Un governo di transizione che deve portare a nuove elezioni legislative e presidenziali, perché la parola deve tornare al popolo».

Pubblicato il: 22.06.07
Modificato il: 22.06.07 alle ore 8.34   
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 25, 2007, 07:15:10 pm »

Le trincee della Jihad
Umberto De Giovannangeli


Una dichiarazione di guerra. La volontà di saldare in un unico fronte tre «trincee» jihadiste: Iraq, Palestina, Libano. C’è tutto questo dietro l’attentato che ha investito ieri i caschi blu spagnoli impegnati nella missione Unifil nel Sud del Libano. Una missione che l’Italia ha fortemente voluto, per la quale si è battuta nelle sedi internazionali, e che vede impegnati sul campo 2.500 nostri soldati. È inutile farsi illusioni o affidarsi alla pur sperimentata esperienza dei nostri servizi di intelligence: anche l’Italia, anche i nostri soldati sono nel mirino dell’Islam radicale armato che intende trasformare il Medio Oriente in una polveriera.

Le forze della stabilizzazione vanno combattute ovunque e con ogni mezzo: e vanno combattute con ancora maggiore determinazione e ferocia se queste forze accompagnano a una indispensabile presenza militare un’altrettanta indispensabile visione politica che punta a rafforzare il dialogo e a costruire un fronte comune con i leader arabi moderati; con coloro, cioè, che scommettono ancora sulla possibilità di una pace giusta, stabile, con Israele, nella convinzione che essa serve anche a frenare la penetrazione fondamentalista nei loro Paesi. Spazzare via queste forze della stabilità è un imperativo per la nebulosa jihadista che ha scatenato l’offensiva del terrore in Medio Oriente. Nulla accade per caso in questa tormentata, e nevralgica, regione. Non è un caso, che si è colpito in Libano alla vigilia del vertice di Sharm el-Sheikh che vedrà oggi riuniti quattro leader che sono nel mirino del «fronte del rifiuto»: il presidente egiziano Hosni Mubarak; re Abdallah di Giordania; il presidente palestinese Abu Mazen; il premier israeliano Ehud Olmert. In questa strategia della destabilizzazione, il Libano rappresenta un tassello essenziale.

Infiammare la frontiera con Israele significa infatti saldare il fronte nord con Hamastan, quella Striscia di Gaza conquistata con la forza dalle milizie islamiche palestinesi che godono del sostegno attivo dell’Iran. Riportare il caos nel Paese dei Cedri significa minare un Governo, quello di Fuad Siniora, nato da quella «Rivoluzione dei Cedri» che reclamava, e continua a farlo, verità e giustizia sulla serie impressionante di attentati che hanno segnato il Libano, a cominciare dall’assassinio, nel febbraio 2005, dell’ex premier Rafik Hariri. Ma per destabilizzare il Libano non basta assassinare i parlamentari della maggioranza antisiriana e trasformare i campi profughi palestinesi in roccaforti jihadiste. Occorre alzare ulteriormente il livello dello scontro e investire quelle forze, quei Paesi che in Libano sono attivi per difendere la legalità internazionale e per evitare che il Sud divenga una base operativa dei gruppi qaidisti. Per questo i caschi blu dell’Unifil, tutti i caschi blu, sono nel mirino dei terroristi: perché la loro presenza fa da ostacolo a questa penetrazione e impedisce, da un anno, una nuova esplosione della frontiera con Israele. L’allarme rosso è scattato in Libano. Come in Palestina. Per disinnescarlo - l’Iraq lo insegna - non basta la potenza delle armi.

Occorre dispiegare l’"arma" della politica. Ridare speranza ai senza futuro di Gaza; operare per dare corpo ad un accordo di pace fondato sul principio di due Stati; favorire il dialogo nazionale in Libano: il terrorismo jihadista si combatte anche prosciugando quel «mare» di rabbia, frustrazione e di aspettative tradite dentro il quale si muovono e fanno proseliti gli integralisti in armi. In Medio Oriente, il vuoto di iniziativa politica viene sempre riempito dalla pratica del terrore. C’è anche questa amara verità dietro l’attentato di ieri in Libano. Si era detto: il cessate il fuoco non può reggere all’infinito se non diviene la premessa di una decisa e pressante azione della diplomazia internazionale. Questa azione non si è dispiegata. La tregua è finita.

Pubblicato il: 25.06.07
Modificato il: 25.06.07 alle ore 8.54   
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 12, 2007, 07:01:32 pm »

La strategia dei Dieci

Umberto De Giovannangeli


A preoccupare dovrebbe essere il vuoto. E invece a far discutere, innervosire, litigare sono presunte «invasioni di campo». È ciò che sta avvenendo attorno alla lettera aperta che i ministri degli Esteri dei dieci Paesi mediterranei della Ue hanno inviato nei giorni scorsi al neo inviato speciale del Quartetto, l'ex premier britannico Tony Blair. Invece di discutere sul merito dei «quattro punti» per il rilancio di una iniziativa di pace in Medio Oriente, si è inteso eccepire sulla correttezza dell'iniziativa.


Ora, se c'è una lezione che viene dal Medio Oriente è questa: il vuoto dell'iniziativa diplomatica viene sempre riempito dall'azione devastante delle forze del terrore. Il merito della lettera dei Dieci sta proprio nell'aver indicato una via per riempire con l'azione politica un vuoto pericoloso.

Quel vuoto che ha favorito la crescita del radicalismo arabo, se non del terrorismo jihadista, in Iraq, in Palestina, in Libano. Riempire quel vuoto avendo il coraggio intellettuale di fare i conti con i fallimenti del passato e proponendo verità scomode, indigeribili per gli assertori (nostrani e di oltre Oceano) di una lettura schematica, manichea della realtà mediorientale.


Una lettura che tende, ad esempio, a ridurre la complessità dell’Islam radicale arabo alla nebulosa di Al Qaeda. In questa logica semplificatrice (tanto cara ai neocon Usa e che permea il fallimentare unilateralismo da guerre preventive dell’amministrazione Bush), tutto è riconducibile ad una sorta di (improbabile) «Spectre» che tira le fila del Jihad globalizzato. Si spiega così, lo scandalo manifestato per un’affermazione contenuta nella lettera dei Dieci. Questa: «Non spingere Hamas a rilanciare... incoraggiare l’Arabia Saudita e l’Egitto, come il presidente Mubarak ha proposto, a ristabilire il dialogo fra Hamas e Fatah». Affermare questo, significa fare i conti con la realtà. E la realtà dei Territori, come quella libanese, dimostra che Hamas e Hezbollah sono movimenti islamo-nazionalisti che, come tali, sono fortemente radicati nelle rispettive società, e che da questo radicamento (non imposto con la forza delle armi) nasce il loro consenso.


Può piacere o no, ma questa è la realtà. Per averla evocata, Piero Fassino - che certo non può essere dipinto come un anti-israeliano - è stato arruolato a forza fra le quinte colonne del jihadismo mondiale. Vale allora la pena citare un passaggio della interessante intervista a Brian Jenkins pubblicata nell’ultimo numero de l’Espresso. L’intervistato da Palo Pontoniere non è un pericoloso fondamentalista, ma il padre dell’antiterrorismo moderno. «La decisione dei governi occidentali - affema Jenkins - si qualifica solo in termini anti-islamici. Hamas non è certamente il male peggiore e poi sono stati eletti, sono una realtà, bisogna cercare il dialogo». E aggiunge: «Teniamo rapporti con tantissimi governi dalla reputazione dubbia e apertamente ostili nei confronti dell’Occidente, perché non Hamas? Che cosa ne guadagniamo se non di spingere molti giovani nelle braccia dell’estremismo armato?».


Riempire il vuoto significa anche prendere atto una volta per tutte, e agire di conseguenza, che il tempo non ha mai lavorato per la pace in Medio Oriente, e che la politica del rinvio non si è dimostrata una buona politica. L’attuazione di un piano di pace può essere graduale, ma ciò che non può essere rimandata ad un futuro indistinto è la definizione immediata dello sbocco finale e, cosa altrettanto importante, la discussione senza pregiudiziali su tutti i nodi strategici del conflitto israelo-palestinese: dallo status di Gerusalemme alla questione dei rifugiati, al problema delle frontiere... Insomma, è il ribaltamento della logica di Oslo. I Dieci l’hanno indicato con chiarezza. E stato un atto di coraggio politico o una improvvida fuga in avanti?


Ed è una «fuga in avanti» evocare la liberazione da parte di Israele dell’unico leader che, per storia e carisma, può affrontare la «missione impossibile» di ricercare un’unità di intenti in campo palestinese: Marwan Barghuti? E muoversi in questa direzione non è anche essere, per davvero, «amici di Israele»? E non lo è il farsi carico del suo bisogno di sicurezza «anche prendendo in considerazione - affermano i Dieci ministri degli Esteri euromediterranei - l’idea di una forza internazionale robusta, del tipo Nato o Onu "capitolo VII", che avrebbe ogni legittimità ad assicurare l’ordine nei Territori e a imporre il rispetto di un necessario cessate il fuoco»?


Sono proposte concrete, non solo enunciazioni di principi. Per questo meriterebbero di essere discusse. Per riempire un vuoto. E per essere all’altezza di un grande generale che dopo aver combattuto per una vita i nemici del suo Paese, aveva imboccato la strada della pace, anche al prezzo della propria vita. Quel generale-statista si chiamava Yitzhak Rabin. Ebbe a dire più volte: «Bisogna negoziare come se il terrorismo non ci fosse, e combattere il terrorismo come non esistesse un negoziato». Una lezione che non va smarrita.



Pubblicato il: 12.07.07
Modificato il: 12.07.07 alle ore 16.07   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 14, 2007, 10:12:58 pm »

Khaled Fouad Allam: «La sfida di Prodi: portare Hamas ad abbandonare la violenza»

Umberto De Giovannangeli


Le affermazioni di Romano Prodi e le polemiche scatenatesi a livello interno e internazionale. Ne discutiamo con Khaled Fouad Allam, tra i più autorevoli studiosi del mondo arabo e islamico, autore di «Lettere a un kamikaze», vincitore del premio Elsa Morante.

Professor Allam, come valuta le considerazioni su Hamas formulate dal presidente del Consiglio?
«Le premesse vanno ricercate nelle affermazioni del ministro degli Esteri Massimo D'Alema, affermazioni che non sono state di cero ispirate da condizionamenti ideologici. D'Alema, e con lui Prodi, ha svolto una analisi dell'esistente che fa sì che l'attuale conflitto fra Hamas e al-Fatah abbia portato di fatto ad una divisione territoriale, più o meno virtuale: Gaza ad Hamas, la Cisgiordania ad al-Fatah. D'Alema ha rilevato, con realismo, che se è stato difficile porre il problema dello Stato di Palestina con un unico interlocutore, figuriamoci con due. Tanto più se uno di questi, Hamas, lascia realmente dubitare sulla sua volontà di fare la pace, mentre Abu Mazen sì, la pace la vuole davvero. Si tratterebbe poi di verificare se sia ami esistita una società palestinese così compatta a sostegno di un compromesso di pace con Israele; alla luce degli eventi di questi mesi c'è da dubitarne fortemente. Esiste poi un secondo livello del ragionamento di Prodi e D'Alema che ritengo di grande significato».

Qual è questo secondo livello?
«Sia Prodi che D'Alema ragionano su una geopolitica più complessa che va dal Libano all'Iran, dall'Iraq al Maghreb. In questo quadro, l'instaurazione di un sistema-Hamas a Gaza, potrebbe fornire le basi a una specie di emirato islamico fondamentalista nel cuore del Medio Oriente e a pochi chilometri da Gerusalemme e Tel Aviv: l'idea dell'emirato sovranazionale e fondamentalisti ricorre spesso nella storia dell'Islam radicale. Il problema che si pone a Romano Prodi e a Massimo D'Alema non è tanto il riconoscimento di Hamas ma piuttosto il lavoro politico e la strategia da adottare per far sì che Hamas abbandoni definitivamente il terrorismo e la lotta armata, e che riconosca, nero su bianco, lo Stato d'Israele. È questa la vera sfida politica che la Comunità internazionale, e non solo l'Italia, devono intraprendere. Perché una cosa è certa: non si può parlare di pace se Hamas continua a proclamare la sua volontà di annientare l'"entità sionista».

Professor Allam, guardando anche al di fuori dei confini mediorientali, c'è una esperienza storico-politica che potrebbe offrire un modello di riferimento?
«Con i dovuti distinguo per i differenti contesti politici e culturali, ritengo che si potrebbe trarre ispirazione dal lavoro negoziale svolto in Irlanda del Nord, che ha portato alla fine del terrorismo da parte dell'Ira. Ma quel negoziato ha avuto bisogno di molto tempo e altrettanta pazienza. Le stesse che devono essere impiegate in Medio Oriente».

Pubblicato il: 14.08.07
Modificato il: 14.08.07 alle ore 9.57   
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 26, 2007, 09:58:33 pm »

Sereni: «I diritti dei gay vanno difesi sempre e ovunque»

Umberto De Giovannangeli


«L’Italia fa bene a ricercare il dialogo con l’Iran su grandi questioni che riguardano la stabilità e la pace, ma questa ricerca deve accompagnarsi all’affermazione dell’intangibilità dei diritti fondamentali delle persone, e tra questi diritti inalienabili c’è quello della scelta nella sfera della sessualità. Per questo la vicenda di Pegah Emambakhsh ha una valenza che va anche al di là di quello che resta oggi l’obiettivo fondamentale: salvare la vita ad una donna che rischia la lapidazione per la sua scelta sessuale. Per raggiungere questo obiettivo occorre esplorare tutte le strade possibili: occorre premere sulle autorità britanniche perché concedano alla donna iraniana l’asilo, ma se questa via si dovesse rivelare impercorribile, l’Italia deve esser pronta ad accogliere Pegah». Ad affermarlo è Marina Sereni, vicepresidente del gruppo parlamentare dell’Ulivo alla Camera.

Sono queste ore decisive per Pegah. Qual è il suo pensiero in proposito?
«Per fortuna la mobilitazione e l’informazione hanno portato a conoscenza dell’opinione pubblica il caso della donna lesbica iraniana, un caso che richiama la necessità di difendere i diritti umani di tutte le persone, in ogni condizione e in ogni contesto. Pegah rischia la pena capitale per il suo orientamento sessuale. Noi già nelle scorse settimane avevamo sollevato nuovamente la necessità di una forte pressione sul governo iraniano affinché cessassero le esecuzioni capitali, perché la campagna che l’Italia sta conducendo a livello internazionale assieme a molti altri Paesi per la moratoria universale sulla pena di morte deve avere anche risultati concreti, non può restare solo una testimonianza di principio. Sul rispetto dei diritti umani non vi può essere un "doppiopesismo": questi diritti vanno difesi sempre e ovunque, non possono essere subordinati a interessi economici o a simpatie ideologiche. Sulla difesa dei diritti umani non c’è realpolitik che tenga. E tra i diritti da salvaguardare vi sono quelli inerenti alla sfera degli orientamenti sessuali».

Questa affermazione come si traduce nel caso di Pegah?
«In questo caso specifico, noi condividiamo e sosteniamo la linea seguita dal governo, siamo convinti che sia necessario continuare a esercitare una doppia pressione -politica e diplomatica, anche sulle autorità britanniche, affinché possa essere accolta la richiesta di asilo per Pegah e possa essere evitato il rimpatrio in Iran. Vanno esplorate tutte le strade che possano evitare alla donna il rimpatrio in Iran, inclusa, se necessario, l’accoglienza di Pegah nel nostro Paese. Una decisione che se dovesse essere assunta dal governo, sono certa che otterrebbe il consenso pressoché unanime del Parlamento, a cominciare dal gruppo parlamentare più grande, quello dell’Ulivo».

Salvare la vita di Pegah: è questa oggi la priorità assoluta. Ma più in generale, quali indicazioni è possibile trarre da questa vicenda?
«Ci sono due profili di cui tener conto. Da un lato, occorre sottolineare con forza come gli orientamenti sessuali non possano essere il terreno della violazione dei diritti umani fondamentali, il che significa non sottovalutare che molte discriminazioni hanno come vittime le donne e gli omosessuali. Dall’altro lato, l’Iran è un Paese nei confronti del quale riteniamo che debba essere esercitata un’azione volta ad aprire un dialogo sulle questioni complesse che riguardano la regione - dalla vicenda irachena a quella afghana, dalla stabilità del Medio Oriente alla questione del nucleare. Mettere all’angolo Teheran non giova alla pace. Al tempo stesso, però, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alle gravi violazioni dei diritti umani che avvengono in quel Paese. Ed è per questo che crediamo giusta la linea seguita dall’Italia: quella di accompagnare quest’apertura e disponibilità al dialogo con una intransigenza sul terreno dei principi e del rispetto dei diritti umani. Dialogo sì, ma senza censure».

Non ritiene che sino ad oggi la difesa degli orientamenti sessuali sia rimasta troppo ai margini dell’iniziativa per la tutela dei diritti umani, come se ne fosse un aspetto secondario?
«Sì, è così, e oggi invece risulta sempre più evidente che la qualità di una democrazia si misura dalla capacità di rispettare tutte le scelte etiche e gli orientamenti sessuali, e che anche in casa nostra, se vogliamo combattere la violenza, non possiamo trascurare quelle specifiche e odiose forme di violenza a sfondo sessuale o animate da odio omofobico».

Pubblicato il: 26.08.07
Modificato il: 26.08.07 alle ore 8.31   
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 26, 2007, 09:59:35 pm »

Lunedì a Roma sit-in per Pegah Emambakhsh


La donna iraniana Pegah Emambakhsh rischia la vita perché lesbica. Lo stabilisce - stando a quanto si è finora appreso - la Shari'a o legge islamica che viene applicata in Iran. Secondo alcune ricostruzioni della sua vicenda, la Emambakhsh è fuggita dall'Iran nel 2005 - passando prima in Turchia e poi andando in Gran Bretagna - dal momento che la sua compagna, nel loro Paese di origine, era stata torturata e condannata a morte per lapidazione. Ma non solo: anche il padre di Pegah sarebbe stato arrestato, interrogato e infine torturato dalle autorità per gli spostamenti della figlia. Che poteva rappresentare - evidentemente - una minaccia per la "immagine" del regime.
Adesso, c'è un pronunciamento del governo inglese da attendere. Per ora, si sa che l'asilo le è sempre stato negato, al punto che per martedì 28 agosto è già stato prenotato il volo per rimpatriarla (volo British Airways, numero BA6633). La partenza è stata fissata alle 21,35 ore britanniche. Per questo, lunedì organizzazioni gay e lesbiche italiane e alcuni gruppi - tra cui Verdi, i Radicali Italiani e i Ds - hanno organizzato un Sit-in di fronte all'ambasciate britannica, a Roma, affinché da Londra arrivi un ripensamento e alla Emambakhsh venga concesso asilo.

Ma se così non fosse, afferma il ministro della Giustizia Clemente Mastella, «la mia opinione e quella del mio governo è cioè di fare tutto perché Pegah Emambakhsh, nel rispetto delle leggi vigenti, abbidiritto di asilo». Aggiunge il viceministro degli Esteri italiano Patrizia Sentinelli: «Abbiamo attivato tutti i canali diplomatici per evitare che Londra la rimpatri in Iran dove rischia la vita. Ma se verrà espulsa siamo pronti ad accoglierla».   

«È una battaglia di civilità, mobiliti tutte le coscienze», chiede Ivana Bartoletti, responsabile nazionale Diritti civili dei Ds, e poi annuncia la sua partecipazione alla manifestazione. Anche i Verdi aderiscono al sit-in di lunedì pomeriggio per Pegah: «Mobilitarsi per salvare la vita a una persona condannata a morte solo perché accusata di essere lesbica è un dovere civile», afferma il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio. «È necessario formalizzare la disponibilità ad accogliere in Italia Pegah avanzata anche dal ministro Barbara Pollastrini perché altrimenti le dichiarazioni non impediranno il rimpatrio. E il tempo sta per scadere», ha dichiarato l'europarlamentare dei radicali Marco Cappato. Ma c'è anche il sindaco di Venezia ,Massimo Cacciari, che a sua volta aderisce «con totale convinzione alla campagna per la salvezza di Pegah Emambakhsh» e offre ospitalità alla donna nella «tradizione di Venezia città-rifugio per i perseguitati, già onorata in un recente passato».


Pubblicato il: 25.08.07
Modificato il: 25.08.07 alle ore 18.28   
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 03, 2007, 02:31:35 pm »

D’Alema: nessuna pace senza patto Hamas-Fatah
Umberto De Giovannangeli


Il fattore tempo è cruciale per ridare sostanza ad una prospettiva di pace. Quello attuale, insiste D’Alema, «è un momento di attività febbrile delle diverse diplomazie mediorientali, perché si avverte che effettivamente ci sono le condizioni per fare un passo in avanti importante. In questo contesto, ritengo che l’Europa abbia un contributo molto importante da offrire, e l’importanza del mio viaggio è data anche dalla molteplicità degli impegni. La coincidenza della rinione della Lega Araba al Cairo mi permetterà ad esempio di avere incontri bilaterali con diverse personalità, a cominciare dal ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, oltre al presidente Mubarak e al mio collega egiziano».

Al centro di questa offensiva diplomatica c’è la questione palestinese. Un tema che sta particolarmente a cuore a Massimo D’Alema. A Ramallah, il vice premier incontrerà sia il presidente Abu Mazen che il primo ministro Salam Fayyad. Agli interlocutori palestinesi, anticipa il capo della diplomazia italiana, «innanzitutto porterò l’incoraggiamento ad andare avanti con determinazione nella preparazione della Conferenza e nel dialogo con il governo israeliano, verso obiettivi significativi, che rendano concrete le prospettive di pace. Si tratta in primo luogo di ascoltare dai leader palestinesi a che punto è il dialogo diretto con Israele, che dalle informazioni che abbiamo sembra essere arrivato ad affrontare nodi veramente rilevanti. Ascoltare, dunque, e poi incoraggiare i miei interlocutori a procedere con coerenza e rapidità verso la definizione di una piattaforma per un possibile accordo di pace. È questo, a nostro giudizio, il passo cruciale che deve essere compiuto oggi». E lungo questa strada, rimarca D’Alema, «a un certo punto si presenterà il problema di una riconciliazione nazionale palestinese. Si tratterà di capire come loro valutano l’evoluzione della situazione, ma d’altro canto l’unica possibilità di una pace effettiva e di uno Stato palestinese unitario e vitale è quella di promuovere un processo di riconciliazione. Perché dovrebbe essere chiaro che non è pensabile un accordo di pace con metà del popolo palestinese, a meno che non si creda - ma nessuno sembra auspicarlo davvero - che debbano sorgere due Stati in Palestina». Quello della riconciliazione, e quindi di un rapporto rinnovato tra Al-Fatah e Hamas, è un tema caldissimo a cui D’Alema non si sottrae: «Se cominciamo - insiste - con una divisione tra Gaza e la Cisgiordania, è evidente che non ci sarà nessuna pace e nessuno Stato palestinese. L’esistenza di fatto di due componenti politiche è un’assoluta ovvietà ed è assurdo che si imbastiscano polemiche su questo. Il punto vero è come superare questa situazione».

Centrale resta il tema di come sostenere l’Autorità nazionale palestinese e, soprattutto, di come rendere meno drammatiche le condizioni di vita della popolazione di Gaza. Altro tema cruciale della missione del titolare della Farnesina. «L’Europa - ricorda D’Alema - sta continuando a fornire aiuti umanitari, e lo sta facendo sia attraverso la struttura delle Nazioni Unite sia con le organizzazioni umanitarie che hanno continuato ad operare nella Striscia, dalle quali c’è venuto anche in questi giorni un appello a non isolare Gaza. Questo sarà uno dei temi al centro dell’incontro che avrò con il primo ministro Fayyad, anche per capire come loro si pongono rispetto a questo problema».

Da Ramallah a Gerusalemme. Dall’Anp al governo israeliano. «Con le autorità israeliane - rileva D’Alema - ci saranno in agenda diversi temi, come quello del Libano, Paese dove certamente non mancano elementi di preoccupazione. Ciò che tuttavia non è mai stato messo in discussione da parte israeliana è un sentimento di sincera gratitudine nei confronti dell’Italia, che ci è stato più volte manifestato, per il ruolo propulsivo che abbiamo assunto e continuiamo a svolgere in una missione che, senza dubbio, contribuisce anche alla sicurezza di Israele. Il che non significa disconoscere o sottovalutare i problemi che ancora esistono: ad esempio, l’effettività dell’embargo delle armi, la situazione umanamente drammatica dei due soldati israeliani tenuti ancora prigionieri. Credo che i miei incontri a Gerusalemme mi daranno l’occasione di fare il punto su una serie di importanti questioni, e non solo sul punto - che resta cruciale - dei rapporti israelo-palestinesi».

Ma è innanzitutto su questo tasto che l’Italia intende battere con decisione. Lo dice chiaramente Massimo D’Alema. «Il nostro messaggio - afferma - è molto chiaro. Ed è un messaggio che è stato costante nel corso di questi mesi: se Israele vuole davvero sostenere i moderati palestinesi - una scelta giusta e politicamente saggia, che forse avrebbe potuto essere compiuta anche prima della fase attuale - il problema è offrire ad essi due elementi essenziali e politicamente qualificanti. In primo luogo, un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei palestinesi. Molto si può fare in questo ambito, ad esempio in vista della piena applicazione degli accordi di libertà di movimento, o sulla questione della riduzione ed alleggerimento dei check-point». In secondo luogo, ed è questo un punto decisivo, Israele deve dare ai moderati palestinesi «una prospettiva politica, il che significa mettere nelle mani di Abu Mazen un possibile accordo di pace, una concreta prospettiva di Stato palestinese. È chiaro che queste sono condizioni che consentirebbero ai moderati di guidare da una posizione più solida un processo di rinconciliazione interna, e di avanzare in modo realistico nella direzione della pace e dell’intesa con Israele».

«Io credo - rimarca D’Alema - che occorra incoraggiare Israele a rendere concreta questa opzione politica. Se da parte israeliana vi è la determinazione a dare forza ai moderati palestinesi allo scopo di isolare e sconfiggere le posizioni integraliste e terroristiche, allora oggi per far vincere Abu Mazen è necessario dargli davvero le carte per potersi presentare ai palestinesi come l’uomo della pace, come colui che è in grado di ottenere un miglioramento delle loro condizioni di vita».

L’ultima tappa dell’intenso tour diplomatico è l’Egitto, dove D’Alema avrà anche l’occasione di un confronto a tutto campo con i ministri degli Esteri della Lega Araba. «Il cuore dei colloqui - annota il ministro degli Esteri - riguarderà la questione israelo-palestinese. Io ritengo che la Lega Araba possa davvero svolgere un ruolo fondamentale in questo momento. L’iniziativa di pace approvata al vertice arabo di Beirut nel 2002, rilanciata recentemente dai sauditi al vertice di Riad del marzo di quest’anno, rappresenta un punto di riferimento essenziale del processo di pace. Da questo punto di vista, penso che la Lega Araba potrebbe lanciare ad Israele ulteriori segnali di distensione e di apertura. Se per esempio la Lega Araba decidesse di avviare un proprio rapporto con Israele, di aprire un ufficio di collegamento.... Ma soprattutto l’iniziativa araba è importante proprio perché può dare ad Israele il senso che la pace con i palestinesi davvero coincide pienamente con una normalizzazione dei suoi rapporti con l’insieme dei suoi vicini, e quindi con una condizione di sicurezza basata sulla coesistenza pacifica, sul mutuo riconoscimento, e non soltanto sulla deterrenza. Su questo versante, non vanno sottavalutati impegni, posizioni, sollecitazioni che sono avvenuti nel corso di queste settimane e mesi».

Gli incontri del Cairo serviranno anche a fare il punto sul Libano. «Anche in Libano - osserva D’Alema - la Lega Araba ha tentato una mediazione. In Libano si terranno a breve le votazioni per eleggere il Capo dello Stato. Si tratta di un passaggio cruciale, che richiederà un forte impegno di tutti per uscire da una lunga impasse politica e istituzionale».

Altro dossier «incandescente» è quello iracheno. «Anche in Iraq - sottolinea D’Alema - il tema è quello di un processo di riconciliazione nazionale che sia effettivamente in grado di arginare la deriva di una guerra civile e religiosa, che è la minaccia più spaventosa per il futuro dell’Iraq, e su cui si innesta cinicamente il terrorismo».

Un’estate fa, il Medio Oriente era segnato da morte e distruzione, e da una nuova guerra: quella fra Israele e Hezbollah. Un anno dopo, il viaggio del vice premier è anche un’occasione per fare il punto con l’Unità su ciò che è cambiato in quella tormentata, e nevralgica, area del mondo. «Naturalmente - rileva D’Alema - permangono ancora tantissimi elementi di incertezza e, se guardiamo all’Iraq, di drammatica violenza. Tuttavia quest’anno è trascorso in modo positivo. Alcuni fattori politici nuovi stanno agendo: c’è una maggiore presenza della Comunità internazionale in quanto tale, dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite. Anche l’iniziativa araba è un dato positivo, ed ha rappresentato una novità importante. Ma soprattutto credo che si sia venuta definendo l’agenda vera che la Comunità internazionale deve perseguire in Medio Oriente».

Un ribaltamento delle priorità su cui D’Alema insiste da tempo. «Al primo punto dell’agenda - annota il vice premier - c’è la pace israelo-palestinese. Il merito delle vicende di questo ultimo anno è di aver riportato il tema israelo-palestinese al posto d’onore dell’agenda mediorientale, facendo cadere l’illusione che questa questione potesse essere affrontata in un quadro politico diverso e più ampio, sulla base cioè delle suggestioni del "Grande Medio Oriente" o su improbabili processi di democratizzazione "indotti"; suggestioni e politiche che non avevano molto fondamento e che non hanno dato molti frutti».

Pubblicato il: 02.09.07
Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.00   
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 08, 2007, 07:59:58 pm »

Barghouti: Haniyeh lasci Abu Mazen cacci i corrotti
Umberto De Giovannangeli


Condanna senza mezzi termini il colpo militare di Hamas. Lancia l'allarme: ciò che è avvenuto a Gaza potrebbe ripetersi in Cisgiordania. Avverte Abu Mazen: fai piazza pulita e presto di corrotti e falliti, solo un radicale rinnovamento di classe dirigente può evitare il tracollo finale di al-Fatah. Dal carcere di massima sicurezza israeliano di Hadarem, cella 28 - dove è detenuto dal 15 aprile 2002 e sta scontando la condanna a cinque ergastoli - parla Marwan Barghouti, l'uomo simbolo dell'Intifada, segretario generale di al-Fatah in Cisgiordania, colui che in molti, nei Territori ma anche in Israele, considerano l'unico leader in grado di contrastare Hamas e di far accettare un accordo di pace con Israele. Grazie ai suoi avvocati che hanno fatto da indispensabili interlocutori, Marwan Barghouti risponde ad alcune domande di strettissima, scottante attualità.

Come giudica ciò che è avvenuto nella Striscia di Gaza?
«Si tratta di un fatto gravissimo. Considero il golpe militare attuato da Hamas un attentato all'unità della patria e alla causa palestinese, una ingiustificabile deviazione della scelta della resistenza, un deliberato sabotaggio al principio della condivisione nazionale. Considero inoltre questo golpe una minaccia all'esperienza democratica e alla stessa scelta democratica, che io avevo apprezzato e sostenuto, che ha portato Hamas al potere. Lo ripeto: Hamas ha inflitto una pugnalata alle spalle all'Autorità nazionale palestinese. Agendo in questo modo Hamas ha inteso creare una dittatura politica, culturale e intellettuale, rendendo carta straccia gli Accordi della Mecca che erano stati alla base della formazione, da me sostenuta, di un governo di unità nazionale».

C'è il rischio che il colpo di mano militare attuato da Hamas a Gaza possa estendersi anche alla Cisgiordania?
«Questo rischio è reale. Hamas può approfittare della debolezza delle forze di sicurezza fedeli al presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.) per tentare una nuova prova di forza. Per contrastare questo pericolo, il presidente Abbas deve destituire i comandi degli apparati di sicurezza e nominare nuovi comandanti capaci di riformare e sviluppare le istituzioni della sicurezza palestinese, in tutte le sue articolazioni, in moda da renderle capaci di svolgere le proprie missioni: difesa della patria, dei cittadini, del progetto nazionale e delle istituzioni dell'Autorità, fronteggiare l'aggressione dell'occupante, il mantenimento della sicurezza pubblica, l'attuazione della legge, porre fine ai disordini e alle manifestazioni armate».

Sul piano politico, cosa chiede ad Abu Mazen anche nella sua veste di leader di al-Fatah?
«Senza un radicale rinnovamento della sua classe dirigente, Fatah è destinato ad un nuovo, irrecuperabile tracollo. Se ciò avvenisse sarebbe un colpo mortale per la stessa causa palestinese. Il rinnovamento non può attendere un giorno in più: abbiamo già pagato un prezzo altissimo all'immobilismo e alla conservazione. Chiedo che sia nominato un comitato d'emergenza per la direzioni di Fatah, formato da dirigenti combattivi, riconosciuti e apprezzati dalla nostra gente, radicati nel territorio, capaci di far rinascere il movimento, ricostituendo le sue istituzioni, processare gli incapaci, i corrotti, i falliti; un comitato di emergenza che sia capace di indire in tempi rapidi il Sesto congresso generale di Fatah, difendere il progetto nazionale, l'unità della patria e del popolo palestinese, e continuare la nostra lotta nazionale per realizzare gli obiettivi del nostro popolo: il ritorno alla libertà e l'indipendenza nazionale. Solo dopo aver praticato il rinnovamento sarà possibile affrontare nuove elezioni».

Cosa si sente di chiedere al leader di Hamas Ismail Haniyeh che in questi giorni ha rilanciato la proposta di un dialogo nazionale?
«Ad Haniyeh chiedo oggi una sola cosa: di accettare la decisione del presidente Abbas di destituirlo assieme al governo secondo una procedura legale, in rispetto alla Costituzione e alla legge fondamentale, e di collaborare con il nuovo governo guidato da Salam Fayyad per salvare ciò che è rimasto della legittimità palestinese e salvare così l'unità della patria, del popolo e della causa. Ripristinare la legalità a Gaza: è il passaggio obbligato che Hamas deve compiere per poter tornare a parlare di dialogo nazionale».

Molti vedono in Lei il successore di Abu Mazen. Come vede il suo futuro e quale sogno coltiva, visto che oggi è chiuso in un carcere condannato all'ergastolo?
«Sarò libero assieme agli altri diecimila palestinesi. Gli israeliani non possono tenerci in carcere tutti e diecimila. Ciò non avverrà domani, ma ritroveremo la nostra libertà. Penso che gli israeliani alla fine capiranno che l'unica strada percorribile è quella intrapresa in Sudafrica, in Irlanda. Il mio sogno? È quello di vivere da uomo libero in uno Stato democratico palestinese».

Ufficialmente Israele la considera un terrorista. Lei come si definirebbe?
«Ho sempre pensato e agito come un combattente per la libertà».
Così parlò il «comandante dell'Intifada». Per quanto ci riguarda, non possiamo che condividere la considerazione di uno dei più autorevoli conoscitori della realtà palestinese e mediorientale. Dominique Moisi, vicedirettore dell'Istituto francese di relazioni internazionali: «Ci si deve chiedere seriamente se esistano alternative a Marwan Barghouti se si vuole creare un Olp forte e che possa resistere a Hamas o a movimenti più estremisti ancora. Un Olp debole non è buona cosa né per gli israeliani né per la Comunità internazionale».

In questi giorni si discute molto di accordi di pace. Qual è in merito la sua convinzione?
«Ero e resto fermamente convinto che ogni accordo che non sancisca la fine dell'occupazione israeliana, la nascita di uno Stato palestinese libero e democratico con Gerusalemme capitale e il ritorno dei rifugiati non potrà resistere né oggi né mai».

(ha collaborato Osama Hamdan)

Pubblicato il: 08.09.07
Modificato il: 08.09.07 alle ore 12.44   
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 09, 2007, 07:30:04 pm »

Osama, il nuovo vocabolario dello sceicco del terrore

Umberto De Giovannangeli


Il nuovo non è nella barba «annerita». Il «nuovo di Osama» è nell'aggiornamento del vocabolario politico jihadista. Sta nella miscela tra vecchi cavalli di battaglia - l'Iraq trincea avanzata della resistenza ai Crociati del Grande Satana americano - e l'acquisizione di tematiche e riferimenti che proiettano il «miliardario del terrore» in un orizzonte davvero globalizzato. Nel nuovo vocabolario di Osama entrano le grandi multinazionali Usa - affamatrici del pianeta -; il fallimento - materiale e morale - del capitalismo; l'effetto serra; la povertà in Africa. Il «nuovo Osama» abbraccia e loda anche intellettuali e politici che un tempo avrebbe liquidato come «miscredenti» : dal politologo radical americano Noam Chomsky al vulcanico presidente venezuelano Hugo Chavez. L'Islam è la risposta, ribadisce Bin Laden. La risposta anche alle miserie del quotidiano che angosciano milioni di contribuenti, oberati «dal peso dei vostri debiti, legati ai tassi d'interesse, dalle tasse assurde e dai mutui immobiliari». «Le parole e i sentimenti sono più quelli di un giovane ribelle dell'Occidente che non del capo di Al Qaeda», osserva M.J. Gohel, analista dell'Asia-Pacific di Londra, sospettando che dietro vi sia la mano del nuovo responsabile della comunicazione della rete del terrore, l'islamico-californiano Adam Gadham. Nell'Islam c' anche una risposta al «taglieggiamento» delle grandi centrali finanziarie e degli erari che mettono pesantemente le mani nel portafoglio dei contribuenti. C'è una risposta perché - e qui il miliardario jihafista si fa ragioniere - «nell'Islam non ci sono tasse, ma c'è una limitata zakat pari al 2,5%» (la zakat è uno dei pilastri dell'Islam, ed è il versamento di una somma di beneficenza). Osama si fa anche critico letterario e cinematografico, denunciando «gli scrittori e i media che rappresentano in modo distorto l'Islam e i suoi aderenti per allontanarvi dalla vera religione». Effetto serra. Mutui. Tasse. Hollywood. Passando per una stoccata al neopresidente francese Nicolas Sarkozy.

Il «vocabolario» politico di Osama si fa dunque più articolato e per questo ancor più insidioso, perché capaci di aprire nuovi spazi di proselitismo per un Jihad globalizzato targato Al Qaeda. Contenuti e look. Osama rinuncia a tuta mimetica e kalashnikov a favore della «dishdash», una lunga tunica bianca comune nel Golfo Persico, su cui era appoggiato un mantello beige, in testa il suo classico turbante bianco. «Vuole dire "non sono il vecchio Osama Bin Laden, sono il leader spirituale di Al Qaeda», riflette Abdel Bari Atwan, direttore del quotidiano internazionale in lingua araba Al Quds al-Arabi. Non solo l'esaltazione degli «shahid». Non solo l'affermazione che a sei anni di distanza dall'attacco al cuore dell'America, il network qaidista è ancora in piedi, sempre più ramificato e pronto a colpire. Il «nuovo Osama» s'insinua nelle contraddizioni e nella ricerca di senso dell'Occidente e mette a nudo l'ambiguità di quei «leader che parlano di libertà e diritti umani e allo stesso tempo lasciano la gente in balìa dell'avidità e del'avarizia delle grandi compagnie e dei loro rappresentanti». Parla dell'Inquisizione, dei lager nazisti per gli ebrei, del massacro degli Indiani d'America e Hiroshima. Non è la barba ringiovanita. E neanche il look meno aggressivo. Il pericolo aggiunto del «nuovo Osama» è nel proporsi come il Vendicatore, tra il jihadista e il «no global» dell'umanità vessata dall'America. Da Atta alla zakat. Il nuovo «alfabeto di Osama» all'assalto del corrotto Occidente.

Atta. Sei anni dopo, il capo del commando che colpi nel cuore dell'America viene esaltato come il modello da emulare. Resta lui, Mohammed dagli occhi di ghiaccio, lo «shahid» da emulare, uno dei «19 giovani che, per volere di Allah, hanno cambiato la direzione della bussola» della iperpotenza americana.
Bush. Trenta minuti per sfidare il Nemico numero uno. Trenta minuti di sermone per dimostrare la bancarotta del presidente che sei anni fa aveva promesso ad un popolo sgomento e terrorizzato la testa del Terrorista numero uno. Il messaggio è chiaro: io, Osama bin Laden sono ancora in campo. Sono vivo: e già questo è la dimostrazione del fallimento della politica anti-terrorismo dell'inquilino, in uscita, della Casa Bianca.
Chomsky. Il «nuovo Osama» parla come un esperto analista americano. Si scaglia contro i neocon, bacchetta i leader Democratici, ed esalta il grande linguista Usa da sempre punto di riferimento del pensiero liberal americano, fortemente critico verso la «disastrosa» politica muscolare portata avanti dall'amministrazione Bush in Medio Oriente.

Ghavza. Il «vocabolario» di Osama si nutre anche di una dimensione epica, che sollecita l'immaginario collettivo dei potenziali mujahiddin. È il caso dei ghazva, i cavalieri sacri che seminavano terrore tra i nemici «grassi e corrotti». Nell'immaginario jihadista, gli uomini-bomba dell'oggi altro non sono che gli eredi dei cavalieri islamici.

Iraq. Resta la trincea avanzata del Jihad globalizzato, il grande campo di addestramento delle nuove reclute qiadiste. L'Iraq, come per altro l'Afghanistan, doveva essere la tomba di Al Qaeda. Sei anni dopo l'11 settembre, Osama si mostra come un leader che, al pari di George Dabliu, muove le sue pedine nell'insanguinato pantano iracheno.
Jihad. È il credo del miliardario del terrore. È il collante che unisce i mille tentacoli del network Al Qaeda: da Algeri a Baghdad, dall'Indonesia alle cellule emerse di recente in Gran Bretagna, Danimarca, Germania. Jihad: è la pratica terrorista ma anche la cifra di vita che percorre ogni passaggio della storia di Al Qaeda. Nel nuovo «vocabolario» di bin Laden, il jihad espande i suoi confini ideologici, si alimenta di nuove suggestioni terzomondiste e «no global». Il messaggio è chiaro: l'Islam radicale può divenire il rifugio identitario e lo strumento di riscatto di tutti i «Dannati della Terra».
Madrassa. Le scuole coraniche rappresentano uno dei fondamentali centri di reclutamento dei mujiahiddin qaidisti. L'indottrinamento è per il "profeta" bin Laden non meno importante dell'addestramento militare. Ed è proprio nelle madrasse più radicali del Pakistan che Al Qaeda ha ancora oggi un inesauribile serbatoio di reclutamento.

Moschea. È l'altro luogo cardine del reclutamento qiadista. Non solo nel mondo arabo e musulmano ma anche nell'Europa multietnica. È il caso della Gran Bretagna: «I jihadisti imperversano nelle moschee britanniche»: a lanciare il grido d'allarame è stato il Times di Londra in una inchiesta condotta all'interno dei luoghi di culto religiosi del Regno Unito. Delle 1.350 moschee, quasi la metà sarebbe in mano a una setta fondamentalista, quella dei Deobandi, dilagante in particolare in Pakistan.

Palestina. Resta una delle fonti principali della propaganda jihadista di Osama e del numero due di Al Qaeda, la mente operativa del network terrorista: Ayman al Zawahiri. La Palestina come ferita aperta nel mondo arabo e musulmano, emblema della «odiosa» politica dei due pesi e due misure praticata dall'America nel Medio Oriente. Ma la Palestina è divenuta, assieme al Libano, anche un luogo di penetrazione dei gruppi jihadisti affiliati ad Al Qaeda. Nei Territori, rileva un recente rapporto dell'intelligence militare israeliana, sarebbero presenti almeno sessanta cellule che hanno come referente il network di bin Laden.

Sarkozy. Nel «vocabolario» politico di Osama il presidente francese diviene l'emblema della perdurante ambiguità europea: a lui come al nuovo primo ministro britannico Gordon Brown, Osama lancia un avvertimento: sganciatevi dal Satana americano.

Umma. È la comunità sovranazionale propugnata dall'Islam radicale come superamento-distruzione degli Stati nazionali. È l'«Internazionale» in versione bin Laden. Da sempre il capo di Al Qaeda è stato un oppositore accanito del nazionalismo arabo socialistizzante. I suoi testi sono colmi di condanne senza appello delle vocazioni nazionaliste che rompono la compattezza e l'omogeneità della umma.

Zakat. Altro che il Cavaliere nostrano. È il capo di Al Qaeda a porsi alla guida della moltitudine di contribuenti vessati nell'opulento Occidente. Nell'Islam che si fa «umma», proclama Osama, «non ci sono tasse, ma c'è una limitata zakat pari a solo il 2,5% . La religione si sposa con la terrena convenienza. Il «nuovo Osama» non garantisce solo il Paradiso di Allah, ma anche meno tasse e mutui agevolati.


Pubblicato il: 09.09.07
Modificato il: 09.09.07 alle ore 15.10   
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 24, 2007, 11:11:32 pm »

Qadura Fares: «Se fallisce il summit Fatah aprirà ad Hamas»

Umberto De Giovannangeli


È il leader della «nuova guardia» di Al-Fatah. Ex ministro dell´Autorità palestinese, membro dei comitato centrale di Al-Fatah, esponente dei giovani all´interno della dirigenza dell´Anp, Qadura Fares è anche il più stretto collaboratore dell´uomo simbolo della seconda Intifada: Marwan Barghuti. Basta e avanza per prestare grande attenzione alle sue considerazioni e al messaggio che l´astro nascente di Fatah lancia alla comunità internazionale alla vigilia dell´atteso incontro a New York tra George W.Bush e il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Al centro dell´incontro c´è la Conferenza di pace convocata dagli Stati Uniti per metà novembre.«Il fallimento della Conferenza - avverte Fares - potrebbe giustificare un cambiamento della nostra posizione attuale», il che significa che da quel momento in poi Fatah e Hamas potrebbero tornare a collaborare. È la prima volta dopo il colpo di mano militare di Hamas a Gaza del giugno scorso, che un esponente di primo piano di Al Fatah evoca questa possibilità.

Oggi a New York il presidente Bush cercherà di vincere le ultime perplessità di Abu Mazen sulla Conferenza di metà novembre. Qual è in proposito la sua posizione?

«Questa Conferenza non può ridursi ad un evento mediatico privo di contenuti e di prospettive. Se così fosse una tale Conferenza non sarebbe solo inutile ma controproducente. Occorre che tutti abbiano consapevolezza delle conseguenze di un fallimento».

Vale a dire?

«In discussione non rientrerebbe solo il dialogo con Israele ma anche i rapporti all´interno del campo palestinese. Tutto dipende dagli esiti della Conferenza di novembre, perché se l´accordo non ci sarà allora il dialogo con Hamas sarebbe utile che riprendesse. Mentre è chiaro che se in quella occasione riusciremo a fare sostanziali passi in avanti verso la creazione di uno Stato palestinese, allora toccherà ad Hamas riconsiderare il suo atteggiamento».

Abu Mazen discuterà con Bush anche degli inviti alla Conferenza.

«Questa questione è stata anche affrontata da Abu Mazen nel suo recente incontro a Ramallah con Condoleezza Rice. La segretaria di Stato Usa sembra aver accolto la richiesta palestinese di un ampio coinvolgimento di Paesi arabi nella Conferenza. L´incontro di domani (oggi, ndr.) a New York dovrebbe sancire questa apertura».

Apertura verso chi?

«Ciò che chiedevamo è che la Conferenza vedesse presenti oltre a Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Qatar, anche Siria e Libano. Questa richiesta sembra che sia stata accolta dagli Usa».

Questo per ciò che concerne la partecipazione. E sui contenuti?

«La Conferenza deve sostanziare l´affermazione di principio di una pace fondata su due Stati. Ciò significa entrare nel merito di questioni dirimenti come i confini, lo status di Gerusalemme, i rifugiati, il controllo delle risorse idriche. Non basta più parlare di due Stati, occorre chiarire cosa dovrebbe essere lo Stato di Palestina».

Lei è uno dei leader della nuova guardia di Al-Fatah. Per riconquistare il consenso perduto basta un buon esito della Conferenza di pace?

«Questa è una delle due condizioni fondamentali, perché non vi è dubbio che Hamas ha capitalizzato la delusione popolare nei confronti del fallimento di quella strategia negoziale fondata sugli Accordi di Oslo. L´altra condizione riguarda direttamente Fatah: se vogliamo risorgere dalle macerie di Gaza, dobbiamo rifondare radicalmente il partito, fare piazza pulita di corrotti e imbelli. Solo così potremo contrastare Hamas».

Per rafforzare le prospettive del dialogo quale atto dovrebbe a suo avviso compiere Israele?

«La cancellazione delle nuove sanzioni imposte alla Striscia di Gaza. Quelle sanzioni rappresentano una odiosa punizione collettiva inflitta da Israele a 1,4 milioni di palestinesi. Di fronte a queste sanzioni la parola dialogo rischia di perdere ogni significato».

Pubblicato il: 24.09.07
Modificato il: 24.09.07 alle ore 14.59   
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 02, 2007, 05:40:23 pm »

Il Muro israeliano fa scuola. Gli Usa lo vogliono copiare

Umberto De Giovannangeli


Sono venuti a studiare quel Muro per rafforzare quello di «casa propria». Ne hanno prese le misure, si sono informati sui sofisticati sistemi di difesa, hanno preso contatto con le aziende che hanno fornito il materiale per la sua realizzazione. Un Muro copia l’altro. E insieme creano l’illusione che un mondo globalizzato possa arginare rabbia, malessere, frustrazione, ma anche diritti e ansie di libertà, erigendo a più non posso barriere di separazione. La notizia: qualche giorno fa, una delegazione di funzionari americani si è recata in Israele per acquisire elementi di conoscenza sullo stato di realizzazione del «Muro» realizzato dallo Stato ebraico in Cisgiordania. La ragione di questa visita è tutt’altro che accademica. Perché gli esperti israeliani potevano, come hanno fatto, fornire consigli utili a rafforzare l’altro «Muro» che gli Stati Uniti hanno realizzato, e che intendono estendere e rafforzare, ai confini con il Messico.

Estendere non solo in lunghezza ma anche in altezza. Sì perché la barriera di separazione fra Usa e Messico - altrimenti detta Muro di Tijuana - è al momento una barriera fatta di lamiera metallica sagomata, alta dai due ai quattro metri, e si snoda per chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego. Il muro è dotato di illuminazione ad altissima intensità, di una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, connessi via radio alla polizia di frontiera statunitense, oltre ad un sistema di vigilanza permanente, effettuato con veicoli ed elicotteri armati. Potrebbe bastare? Niente affatto. Perché quel Muro non solo non va abbattuto ma va «migliorato». Come? Studiando quello realizzato da Israele in Cisgiordania. E poco o nulla importa che all’ombra di quei Muri si dipani l’esistenza di una umanità di «senza volto» ma non per questo inesistente. Melilla. La Cisgiordania. Cipro. E ancora il Sahrawi. E, per l’appunto, la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Sono i Muri nell’epoca della globalizzazione.

La delegazione americana non ha dubbi. È in Israele per apprendere come rafforzare una costruzione che non è solo fisica ma anche mentale: edificata sulla sconfitta della politica e sulla convinzione che un Muro possa contenere la rabbia, il dolore, il desiderio di rivalsa di intere popolazioni. E allora che si studi il «Muro» mediorientale. Quello che a Gerusalemme consiste in prevalenza in una barriera di cemento armato alta 8 metri, il doppio del muro di Berlino, quasi il quadruplo del «Muro di Tijuana».

Sono venuti a studiare un Muro che, una volta completato dal nord della Cisgiordania a Gerusalemme, farà sì che Israele si sarà annesso il 7% della West Bank, tra cui 41 colonie ebraiche. Laddove attraversa aree urbane - il 10% del percorso, ma con la più alta densità demografica - il «Muro» è composto da blocchi di cemento armato alti fino ai 9 metri. Nelle aree rurali, invece il «Muro» assume la forma di barriera larga dai 50 agli 80 metri e composta da vari elementi: filo spinato, trincea, rete metallica, sensori di movimento, pista di pattugliamento, e striscia di sabbia per il rilevamento di impronte. Ciò che sembra aver destato particolare interesse ai tecnici americani è la realizzazione del «Muro» israeliano nelle aree urbane.

Perchè anche la «loro» barriera è situata nelle sezioni urbane del confine, le aree che, in passato, hanno visto il maggior numero di attraversamenti clandestini. Queste aree comprendono San Diego, in California ed El Paso, in Texas. Il risultato immediato della costruzione della barriera è stato un numero crescente di persone che hanno cercato di varcare illegalmente il confine, attraverso il Deserto di Sonora, o valicando il Monte Baboquivari, in Arizona. Questi migranti hanno dovuto percorrere circa 80 km di territorio inospitale prima di raggiungere la strada, nella riserva indiana Tohono O’oadham. Ma molti non ce l’hanno fatta: dal 1998 ad oggi, secondo i dati ufficiali, lungo il confine fra Stati Uniti e Messico, le persone morte hanno superato le quattromila. Mentre gli arrestati dalla Polizia di confine statunitense mentre cercavano di attraversare illegalmente il confine - dal 1 ottobre 2003 ad oggi - superano abbondantemente i tre milioni. Cifre impressionanti. Come impressionanti sono le conseguenze determinate dalla costruzione del Muro in Cisgiordania: una barriera che spezza villaggi. Divide famiglie. Distrugge terreni agricoli. E crea enclavi (aree in cui la gente sarà totalmente circondata dal muro) entro le quali vivono già oltre 150mila palestinesi. Hanno preso appunti, i tecnici statunitensi. E hanno preso visione di quelle pareti di cemento armato alte 9 metri, delle torri di controllo ogni 300 metri, delle trincee profonde due metri, delle recinzioni di filo spinato e delle strade di aggiramento. Sono andati a scuola di Muri. Per apprendere una lezione. Una brutta lezione.

Pubblicato il: 02.10.07
Modificato il: 02.10.07 alle ore 8.17   
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« Ultima modifica: Novembre 28, 2007, 05:28:42 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 04, 2007, 11:21:14 pm »

Palestina, la pace offerta da Abu Mazen

Umberto De Giovannangeli


La pace di Abu Mazen I punti qualificanti di un Accordo di principio per il quale «Mahmoud il moderato» è pronto a sfidare Hamas e il fronte del rifiuto arabo. Nel giorno in cui il presidente palestinese e il premier israeliano Ehud Olmert sono tornati a incontrarsi a Gerusalemme, l’Unità ha potuto prendere visione del piano che Abu Mazen ha messo a punto e che - è la posizione palestinese - dovrebbe essere acquisito, come solida base di discussione, in vista dell’incontro internazionale in programma ad Annapolis (Maryland) a fine novembre. «La Conferenza internazionale rappresenta l’ultima chance per rilanciare il processo di pace», ha ribadito il leader dell’Anp nell’incontro - due ore la sua durata - con Olmert. Il premier israeliano e il presidente palestinese aspirano ad avviare negoziati sull’assetto definitivo del conflitto dopo la Conferenza di novembre, affermano fonti israeliane. La novità, da parte palestinese, è la definizione, nero su bianco, dei punti fondamentali della «pace di Abu Mazen».

Insediamenti Israele dovrà sancire un immediato congelamento nella costruzione di nuovi insediamenti e nell’ampliamento di quelli esistenti. Nel contempo, dovrà avviare lo smantellamento degli avamposti come di altre colonie che s’incuneano in profondità nella Cisgiordania. Israele s’impegnerebbe a lasciare intatte le strutture esistenti in tutte le colonie dalle quali accetterà di ritirarsi. Passerebbero così sotto il controllo della Palestina alloggi, strade, impianti pubblici. Questi beni verranno immobiliari verranno stimati e il loro valore detratto dal contributo di Israele al fondo di risarcimento per i rifugiati.

Confini È uno dei nodi strategici cruciali per realizzare il principio di due popoli, due Stati. Nel piano elaborato dagli uomini a cui Abu Mazen ha affidato questo delicatissimo incarico, (l’ex premier Ahmed Qrei (Abu Ala), il capo negoziatore Saeb Erekat e l’ex ministro e membro del Comitato esecutivo dell’Olp Yasser Abed Rabbo), l’Accordo di principio dovrebbe sancire che le linee di confine fra i due Stati sono quelle del 1967 precedenti la Guerra dei Sei Giorni.

La novità sostanziale è nella quantificazione di possibili modifiche e di uno scambio di territori che tenga conto - tasto su cui Israele insiste con forza - delle modifiche intervenute sul campo in questi trent’anni. Nel piano-Abu Mazen, si configura la possibilità di uno scambio di territori limitato al 2-3% della West Bank in modo tale da garantire comunque la contiguità territoriale dello Stato di Palestina e impedire la creazione di una serie di cantoni circondati da insediamenti. «La contiguità territoriale - dice a l’Unità Yasser Abed Rabbo - è una delle caratteristiche che differenziano uno Stato da un sistema di bantustan».

Inoltre, il territorio da scambiare deve essere uguale nella «quantità e nella qualità». Questo capitolo prevede una possibile variante: invece di riferirsi ai confini, l’Accordo di principi farebbe riferimento alle «compattezza» del territorio della West Bank che farebbe parte dello Stato di Palestina (circa 6.500 chilometri quadrati).

Palestina smilitarizzata La Palestina verrebbe dichiarata Stato non militarizzato. La legittima difesa dei palestinesi è assicurata dal forte corpo di sicurezza previsto, ma anche e soprattutto dalla presenza programmata di una forza internazionale e di un Comitato di sicurezza trilaterale (Israele-Palestina- Onu). Passaggio sicuro: la continuità territoriale tra la Cisgiordania e Gaza è assicurata da un corridoio posto sotto la sovranità israeliana - in quanto si trova effettivamente sul territorio riconosciuto come israeliano - ma soggetto all’amministrazione palestinese.

Gerusalemme Altro nodo cruciale. Nel piano-Abu Mazen, viene ribadito il concetto di una sovranità condivisa su Gerusalemme. Lo Stato di Palestina eserciterebbe la propria sovranità su Gerusalemme Est e dunque anche sulla Città vecchia, compresa la Spianata delle Moschee/Muro del Tempio, ad eccezione del Muro del Pianto e del quartiere ebraico, che sarebbero soggetti alla sovranità israeliana. L’amministrazione della città sarebbe gestita da due enti distinti, uno palestinese e l’altro israeliano, più un Consiglio congiunto.

Rifugiati È il punto su cui la dirigenza palestinese mostra la maggiore apertura alle preoccupazioni israeliane. Nel piano predisposto dallo staff di Abu Mazen, Israele dovrebbe riconoscere la sua responsabilità nella sofferenza dei profughi e impegnarsi ad un loro risarcimento. Il diritto al ritorno (sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite) verrebbe così acquisito ma non avrebbe un’attuazione meccanica tale da stravolgere il carattere ebraico (anche nella sua composizione demografica) dello Stato d’Israele. Il risarcimento economico può interagire con la volontà dei rifugiati di far rientro nello Stato di Palestina.

Confederazione Dopo l’applicazione di tutti i punti concordati, si «determinerebbero le condizioni» per rendere fattibile la prospettiva di una confederazione giordano-palestinese fra Stati sovrani.

Pubblicato il: 04.10.07
Modificato il: 04.10.07 alle ore 9.22   
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 08, 2007, 10:33:04 pm »

Abu Ala: «I nostri punti irrinunciabili per un sì alla Conferenza»

Umberto De Giovannangeli


Nel momento della verità Abu Mazen si è affidato a colui che aveva realizzato il «miracolo di Oslo». Ex primo ministro, già presidente del Consiglio legislativo palestinese (il Parlamento dei Territori), figura storica della dirigenza palestinese, Ahmed Qrei (Abu Ala) è il capo del team negoziale dell´Anp chiamato a definire la «Dichiarazione di principi» israelo-palestinese che dovrebbe aprire la Conferenza sul Medio Oriente fortemente voluta da Bush che dovrebbe svolgersi a fine novembre a Annapolis, in Maryland. Ma il condizionale è d´obbligo. E in questa intervista a l´Unità Abu Ala ne spiega le ragioni: «Se nelle prossime tre-quattro settimane non giungeremo a mettere a punto una dichiarazione congiunta con gli israeliani, la nostra partecipazione alla Conferenza verrebbe rimessa in discussione», avverte l´ex premier palestinese. «Quello che per noi è importante -sottolinea Abu Ala- è il contenuto e la sostanza del documento, ma se esso rimarrà vago, allora non avrà alcun valore».

Il dialogo fra l´Anp e Israele è entrato in una fase cruciale. Il nodo del contendere in vista della Conferenza sul Medio Oriente a novembre negli Usa sembra la Dichiarazione congiunta israelo-palestinese. Oggi le delegazioni palestinese e israeliana si vedono per iniziare la stesura della Dichiarazione. Come stanno le cose?
«Stanno che per quanto ci riguarda la dichiarazione congiunta non può risolversi in una generica esternazione di principi. Se così fosse, la Conferenza perderebbe di valore e si ridurrebbe ad una "photo opportunity" del tutto priva di contenuto. A nostro avviso la Dichiarazione deve indicare chiaramente le cose su cui le due parti sono d´accordo e su cui basare la fase successiva dei negoziati».

Un problema di contenuti...
«Di contenuti e tempi. L´esperienza dovrebbe avere insegnato a tutti noi che il fattore tempo è decisivo per dare senso ad un processo negoziale. Le trattative che dovrebbero avviarsi poi alla Conferenza non possono proseguire a tempo indeterminato: deve essere bene indicato un loro inizio e una loro conclusione».

Per restare ai tempi. In che arco temporale è pensabile definire il raggiungimento di un accordo globale fra Israele e Anp?
«Se c´è la volontà politica delle due parti e le trattative vengono svolte seriamente, ritengo che un accordo finale possa essere raggiunto in 5-6 mesi».

Dai tempi ai contenuti. Quale dovrebbe essere a suo avviso la base di questa Dichiarazione?
«Le basi non possono che essere le risoluzioni Onu, il piano di pace arabo, le indicazioni più volte ribadite da Bush su una pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Va da sé che ogni discussione dovrà includere Gaza e Gerusalemme».

Diverse sono le questioni sul tappeto. Tra queste, la definizione dei confini. Qual è il punto di vista della delegazione palestinese?
«Il quadro di riferimento è rappresentato dai confini del 1967, quelli antecedenti alla Guerra dei Sei giorni».

Ma la dirigenza israeliana ha ribadito che un accordo deve prendere atto di una realtà che sul campo si è molto modificata nel corso di questi trent´anni.
«Si è modificata per atti unilaterali compiuti da Israele ma mai riconosciuti non solo dai palestinesi ma dalla Comunità internazionale. Una pace giusta non può essere la proiezione dell´unilateralismo israeliano. Detto ciò, siamo disposti a qualche piccola modifica (rispetto ai confini del 1967), che però non comprometta i nostri sulle risorse naturali (accesso alle riserve d´acqua, ndr.) e sulla contiguità geografica. Una volta sancito il principio dei due Stati, la trattativa deve concentrarsi sui caratteri propri di uno Stato indipendente da realizzare, quello di Palestina, accanto a uno già esistente, Israele. Lo stesso principio dovrà valere sugli altri punti chiave del negoziato, come lo status di Gerusalemme, il ritorno dei profughi».

Lei è stato uno degli artefici degli accordi di Oslo. Oggi l´impresa è ancora più ardua?
«Nonostante tutto, non sarei così pessimista. A differenza dei precedenti negoziati, sia noi che gli israeliani abbiamo ben chiari i termini del problema, grazie ai tanti colloqui avuti negli anni a Stoccolma, Camp David, Taba, Ginevra. La fotografia insomma è nitida, ora si tratta solo di trasformarla in un accordo».

L´Italia insiste perché la Conferenza di novembre sia la più estesa possibile per ciò che concerne la partecipazione dei Paesi arabi.
«È una posizione che condividiamo totalmente. L´Italia sta dando un contributo importante per il rilancio del dialogo in Medio Oriente e le idee del premier Prodi e del ministro degli Esteri D´Alema sui caratteri della Conferenza vanno acquisite. Un forte coinvolgimento dei Paesi arabi rafforza la prospettiva di una pace che possa davvero cambiare, in meglio, il volto dell´intero Medio Oriente».



Pubblicato il: 08.10.07
Modificato il: 08.10.07 alle ore 9.37   
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 09, 2007, 11:34:49 pm »

Haim Ramon: «Gerusalemme non è tabù»

Umberto De Giovannangeli


«Sono d'accordo con quanto sostenuto da Ahmed Qrei (Abu Ala, l'ex premier palestinese, capo negoziatore dell'Anp, ndr.): né noi né i palestinesi possiamo permetterci un fallimento della Conferenza internazionale. È un’occasione irripetibile per dare un impulso decisivo al negoziato di pace». A sostenerlo è Haim Ramon, vice primo ministro d'Israele, esponente di punta di Kadima, il partito del premier Ehud Olmert. Ramon apre anche sulla questione cruciale di Gerusalemme: «Discutere su una sovranità condivisa di Gerusalemme - afferma Ramon - non è più un tabù».

In una intervista a l'Unità, l’ex premier palestinese Ahmed Qrei ha affermato che la Conferenza internazionale di novembre è un occasione da non fallire.

«Sono anch'io di questo avviso. L'incontro internazionale è un'occasione importante, forse irripetibile, per definire con i nostri partner palestinesi un orizzonte politico condiviso. Non possiamo fallire questa opportunità. L’alternativa, in caso di fallimento, è che dovremo fronteggiare e combatter Hamas, vera testa di ponte in Medio Oriente dell'Iran. Lavorare per un successo dell'incontro è il modo migliore per sostenere la leadership del presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.); una priorità che è parte di una politica di contenimento di Hamas».

Tra le questioni cruciali sul tappeto vi è quella dei confini.

«Dobbiamo cercare, insieme ai nostri partner palestinesi, di conciliare questioni di principio con il principio di realtà. I palestinesi reclamano una contiguità territoriale del futuro Stato. Noi riteniamo che la realtà si sia profondamente modificata in questi trent'anni. E un accordo di pace per reggere non può chiudere gli occhi di fronte alla realtà…».

Tradotto in concreto?

«Discutiamo sui confini, fissiamo un principio fondamentale su cui imbastire la discussione: il principio di reciprocità. Nella definizione dei nuovi confini, i palestinesi dovranno tener conto delle esigenze, non solo di sicurezza, di Israele e noi dobbiamo aprirci ad adeguate contropartite territoriali. Si tratta, in definitiva, di prefigurare uno scambio di territorio. In questa ottica, ritengo che sia nell'interesse di Israele lasciare la maggior parte del territorio di Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr.) mantenendo soltanto gli insediamenti più grandi».

Il principio di reciprocità presuppone la fine dell'unilateralismo da parte israeliana.

«Tutta l'idea dell'unilateralismo è stata basata che sul fatto che non avevamo un partner, ma ora lo abbiamo. Non possiamo sapere quanto a lungo ci sarà un partner, dunque dobbiamo procedere con urgenza. Una ragione in più per non far fallire l'incontro internazionale di novembre».

Tra i nodi strategici da sciogliere c'è quello di Gerusalemme.

«Discutere sul futuro di Gerusalemme non è più un tabù. Possiamo, dobbiamo farlo, senza posizioni precostituite. In questa chiave, ritengo che sia possibile ragionare su una sovranità palestinese sui quartieri arabi di Gerusalemme Est. Ma anche qui, occorre avere come punto di riferimento il principio di reciprocità…».

Su Gerusalemme come dovrebbe coniugarsi questo principio?

«Se raggiungessimo un accordo con i palestinesi, il mondo arabo e la Comunità internazionale in base al quale tutti i quartieri ebraici di Gerusalemme fossero riconosciuti come (parte) capitale di Israele e quelli arabi (parte) della capitale palestinese, sarebbe un cattivo affare? Io credo proprio di no. È interesse di Israele affrontare la questione di Gerusalemme nei negoziati».

Dai confini a Gerusalemme. Quale è per Lei la logica che dovrebbe guidare Israele in questo passaggio cruciale nel dialogo con l'Anp di Abu Mazen?

«Non si tratta di farci guidare da un astratto principio di giustizia né di restare prigionieri dell'illusione che si possa perpetuare l'attuale status quo. Giungere ad un compromesso con i palestinesi è condizione fondamentale per preservare lo Stato d'Israele in quanto ebraico e democratico».

(ha collaborato Cesare Pavoncello)

Pubblicato il: 09.10.07
Modificato il: 09.10.07 alle ore 14.24   
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 12, 2007, 09:55:57 pm »

Haniyeh: «La conferenza Usa è una trappola»

Umberto De Giovannangeli


«Al presidente Abbas diciamo: non avallare la Conferenza degli inganni, voluta da Bush per cercare di mascherare il suo fallimento in Medio Oriente. Quella Conferenza è una trappola nella quale i palestinesi non devono cadere». A parlare è Ismail Haniyeh, leader di Hamas, il premier dimissionato da Abu Mazen.
In questa intervista a l'Unità, Haniyeh apre al dialogo con Fatah: «Non esiste altra strada che quella di un governo di unità nazionale. Siamo pronti da subito a sederci ad un tavolo con il presidente e Fatah, ma si deve sapere che quella attuata da Hamas a Gaza è stata una reazione ad un tentativo di golpe condotto da bande al servizio di gente che mirava solo a rafforzare il proprio potere»: il riferimento è all'ex uomo forte di Fatah a Gaza, Dahlan.

Abu Mazen e il premier israeliano Olmert sono impegnati nella definizione di una Dichiarazione congiunta in vista della Conferenza internazionale promossa dagli Usa. Qual è la sua posizione?

«Quella architettata da Bush è una Conferenza degli inganni. È una trappola nella quale noi palestinesi non dobbiamo cadere. Si tratta di un tentativo americano di mascherare il fallimento della loro politica in Medio Oriente. Al presidente Abbas dico: non prestarti a questo inganno».

Olmert si è impegnato a realizzare una pace fondata su due Stati.

«È un inganno. Olmert parla di continuo di pace ma sono parole. I fatti raccontano un'altra storia: terre confiscate, villaggi spezzati dal Muro in Cisgiordania, una popolazione, quella di Gaza, sotto assedio da oltre un anno. È questa la pace di Israele? Olmert parla di Stato, Bush parla di Stato, intanto la Cisgiordania viene spezzata in mille frammenti e vogliono chiamarli "Stato"».

Israele dice che Hamas ha come obiettivo non la costituzione di uno Stato palestinese ma la distruzione di quello ebraico.

«Hamas ha vinto le elezioni, libere elezioni, su un programma chiaro, al quale non siamo venuti meno: batterci per uno Stato di Palestina sui territori occupati nel 1967, uno Stato con Gerusalemme capitale. È questo il nostro programma di governo».

Ma se così è, perché Hamas ha realizzato il colpo di mano militare a Gaza?

«Siamo pronti ad accettare una commissione d'inchiesta della Lega Araba che faccia luce su ciò che è realmente avvenuto a Gaza».

E cosa sarebbe «realmente» avvenuto?

«Un tentativo di ribaltare le indicazioni che erano venute dalle elezioni. Le chiedo: ma dove mai si è visto che un movimento che ottiene un successo elettorale produca poi un golpe? La realtà è che a Gaza c'era chi voleva realizzare una prova di forza armata per ribaltare l'esito delle elezioni».

Con Fatah la parola è solo alle armi?

«No, non deve esserlo. Non esiste alternativa ad un governo di riconciliazione nazionale, e di questo ne è consapevole anche l'Egitto che si è offerto di mediare. Per quanto mi riguarda sono disposto a fare anche un passo indietro se può essere utile. La nostra amministrazione a Gaza è temporanea».

Hamas è disposto a negoziare con Israele? E se sì su quali basi?

«Non da oggi abbiamo affermato che siamo disposti a negoziare una tregua di lunga durata, 10-15 anni. A patto però che Israele ponga fine all'assedio di Gaza, alla costruzione del Muro in Cisgiordania, liberi i prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri, ponga fine agli assassini di militanti e dirigenti dell'Intifada. Israele sa bene che Hamas è in grado di rispettare e far rispettare gli accordi presi. La resistenza armata non è il fine di Hamas ma resta uno dei mezzi obbligati per ottenere la liberazione della Palestina. Ma sia ben chiaro: Hamas non è contro la pace, è contro la capitolazione».

Ma se siete per la pace perché non accettate di riconoscere lo Stato d'Israele?

«Perché a un popolo oppresso non si può imporre di riconoscere il proprio oppressore. Il riconoscimento di Israele non può essere la precondizione per un negoziato, semmai ne è parte».

Perché Hamas non accetta di andare a nuove elezioni?

«Non siamo certo noi ad avere paura del voto. Ma perché questo voto sia libero deve essere tolto l'assedio di Gaza e riconosciuto da tutti l'unico organo realmente rappresentativo della volontà popolare: il Consiglio legislativo palestinese (il parlamento dei Territori dove Hamas ha la maggioranza assoluta, ndr). Anche su questo siamo disposti ad avviare un confronto con Fatah senza ricatti».

In una intervista a l'Unità, il ministro degli Esteri D'Alema ha ribadito che a certe condizioni è ipotizzabili aprire un confronto con Hamas. Come risponde?

«Ho apprezzato la posizione italiana e lo sforzo fatto per non appiattirsi sull'ostracismo degli americani. Hamas è amico dell'Italia ed è disposto ad entrare nel merito delle richieste avanzate. L'Italia potrebbe farsi carico di una missione esplorativa: Prodi e D'Alema sono i benvenuti a Gaza. Ma discutere è una cosa, altro è subire diktat».

C'è chi sostiene che Hamas intenda dar vita a un «suo» Stato a Gaza?

«È falso. Lo ripeto: il nostro obiettivo era e resta quello di costruire uno Stato indipendente su tutti i territori occupati da Israele nel 1967. Non saremo noi a venir meno a questo impegno».

(ha collaborato Osama Hamdan)


Pubblicato il: 12.10.07
Modificato il: 12.10.07 alle ore 9.44   
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