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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 92670 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:52:17 am »

Midterm 2014, Kenneth Roth (Human Rights Watch): "Ora Obama può vivacchiare o avere scatto d'orgoglio sui diritti"

Umberto De Giovannangeli,
L'Huffington Post
Pubblicato: 05/11/2014 15:31 CET Aggiornato: 24 minuti fa

“Di fronte a un risultato di questo genere, il presidente Obama ha due possibilità: quella di subire l’offensiva conservatrice dei Repubblicani, accettando di vivacchiare nei prossimi due anni alla Casa Bianca, oppure di avere uno scatto di orgoglio e di determinazione, dando dei segnali forti a quella parte dell’elettorato progressista che è rimasta profondamente delusa della promesse rimaste tali. E questo, per quanto ci riguarda, investe il grande tema dei diritti umani e di come gli Stati Uniti si sono mossi, o meglio non si sono mossi, quando quei diritti venivano calpestati in molte parti del mondo".

A parlare è una delle figure più autorevoli negli Stati Uniti e a livello internazionale in tema di difesa dei diritti umani: Kenneth Roth, Direttore esecutivo di Human Rights Watch, una delle organizzazioni internazionali più importanti del mondo per i diritti umani, che opera in più di novanta Paesi. Prima di entrare in Human Rights Watch nel 1987, Roth è stato procuratore federale di New York e ha condotto l'indagine Iran-Contras a Washington. Laureato alla Yale Law School e la Brown University, Roth ha condotto numerose indagini dei diritti umani e missioni in tutto il mondo. "C’è chi ha accusato il presidente Obama di aver peccato di idealismo. La verità, forse, è un’altra, e opposta: aver cercato il compromesso a tutti i costi, sacrificando alcune battaglie che pure erano parte integrante di quel Change (Cambiamento) e di quella Hope (Speranza) che avevano portato Obama alla Casa Bianca nel suo primo mandato”.

L’America s’interroga sulla grave sconfitta subita dal presidente Obama e dai Democratici nelle elezioni di midterm. Visto dal suo osservatorio, quello di chi è impegnato in prima linea nel campo del rispetto dei diritti umani, come interpretare questa bruciante sconfitta?
”Con un grande senso di delusione, tanto più forte e diffuso se rapportato alle grandi speranze di cambiamento che anche su questo versante aveva suscitato il Presidente Obama soprattutto all’inizio del suo primo mandato presidenziale. Sì, Obama ha deluso molti, omettendo di fare dei diritti umani una priorità della sua agenda, non solo internazionale. Sbaglia di grosso chi crede che temi come il rispetto dei diritti dell’imputato anche in casi di sicurezza nazionale, la chiusura di Guantanamo, l’uso della tortura, siano di importanza marginale nell’orientamento di una parte dell’elettorato rispetto ai temi dell’occupazione, della sanità, in generale delle condizioni materiali di vita. Su questi temi, Obama ha deluso, e ha perso consensi, non perché sia stato troppo idealista, eccessivamente coraggioso, ma per aver dato l’impressione di non essersi impegnato abbastanza. Sia chiaro: nessun rimpianto per politiche interventiste come quelle portate avanti, con la forza delle armi, durante le presidenze dei Bush, padre e figlio, e che hanno prodotto tragedie come quella irachena. Il mondo - e chi si batte per il rispetto dei diritti umani, civili, politici - non evocava un Obama “interventista”, modello-Bush. La gente nota se gli Stati Uniti si alzano in piedi per i loro diritti. Non perché, è bene rimarcarlo ancora, il cambiamento possa essere imposta dall'esterno, come George W. Bush voleva farci credere, ma perché gli Stati Uniti possono aiutare a difendere lo spazio politico in cui le persone possono avanzare i propri diritti. E ciò non è avvenuto. Da questo punto di vista, direi che il presidente Obama, si sia dimostrato poco realista”.


In che senso?
”Nel senso di non aver tratto le dovute conseguenze da considerazioni che pure sono riecheggiate in diversi suoi discorsi. In un mondo in cui sempre più persone si battono perché alla globalizzazione dei mercati si accompagni la globalizzazione dei diritti, e che considerano libertà, pluralismo, parità di genere, accesso all’istruzione, principi universali, sostenere queste rivendicazioni contribuisce a rafforzare gli stessi interessi nazionali degli Usa nel mondo. Investire in diritti umani vuol dire avere una politica lungimirante, subire compromessi al ribasso è restare prigionieri del passato”.

Restando a tematiche legati ai diritti dei popolo e alla politica estera, può fare un esempio di un Obama contraddittorio tra enunciazioni e atti concreti?
”Un esempio? Israele. Il Presidente Obama ha più volte censurato la colonizzazione portata avanti da Israele nei Territori palestinesi occupati, salvo poi esercitare il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rispetto a risoluzione che condannavano tale politica”.

E sul fronte della lotta al terrorismo?
"In un discorso del maggio 2013, il Presidente Obama aveva rilevato che la guerra globale al terrorismo stava volgendo al termine. Questo avrebbe dovuto comportare modifiche normative su materie scottanti, quale l’uso dei droni. Gli attacchi dei droni dovrebbero essere regolati non da leggi permissive di guerra, ma da leggi più restrittive in materia di operazioni di polizia, in modo tale da consentire l’uso della forza letale solo come ultima risorsa per contrastare una minaccia grave e imminente. Lo stesso discorso vale per le detenzioni a lungo termine senza processo a Guantanamo o sull’uso di commissioni militari piuttosto che tribunali civili per processare persone sospettate di aver avuto un ruolo negli attacchi dell’11 Settembre. Last but non least Obama si è rifiutato di perseguire i torturatori di Bush, come invece il diritto internazionale e anche quello americano richiedeva. L’Amministrazione Obama ha invocato ragioni di opportunità politica, sottolineando la necessità di non indebolire il Paese nella guerra al terrorismo. Ma questa guerra non può giustificare la negazione di diritti fondamentali dell’individuo. Non può fare dell’emergenza, con la sospensione di diritti essenziali, come quello alla difesa dell’imputato, la normalità. Le ricette dei Repubblicani sono un ritorno al passato che va contrastato, così come l’illusione che l’America possa riconquistare autorevolezza nel mondo con l’esercizio della forza.

Cosa può fare ora il presidente americano?
Obama ha due anni ancora per provare a rilanciare, nel mondo e in America, quella “sfida dei diritti” che oggi appare cancellata. Si dice che a volte dalle grandi sconfitte possano nascere nuove, importanti vittorie. Mi auguro che sia così stavolta. A Obama chiedo coraggio, non viltà”.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/11/05/human-rights-watch-intervista-a-kenneth-roth_n_6106176.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #166 inserito:: Gennaio 15, 2015, 12:05:25 pm »

Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma: "Italia non riconosca lo Stato di Palestina. Di Renzi ci fidiamo"

L'Huffington Post  |  Di Giulia Belardelli; Umberto De Giovannangeli
Pubblicato: 15/01/2015 10:45 CET Aggiornato: 42 minuti fa

“Israele non ha alcuna intenzione di suicidarsi per far contento qualche leader europeo. Votare ora per il riconoscimento dello Stato di Palestina non potrebbe essere più sbagliato, per diverse ragioni. Spero che il Parlamento italiano non proceda con questo voto. Di Matteo Renzi ci fidiamo, è un amico di Israele. Ma bisogna tenere alta la guardia sulla tendenza dell’Europa a distinguere tra i terrorismi”.

Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, non risparmia critiche ai paesi europei che si sono già pronunciati a favore del riconoscimento dello Stato palestinese, discussione che – a meno di slittamenti – dovrebbe iniziare a Montecitorio questo venerdì. A sentirlo parlare si capisce come la pace, in Terra Santa, sia ancora molto lontana. “Di Abu Mazen non possiamo fidarci”, dice Gilon in diversi passaggi di questa intervista. “Inizio a pensare che non sia una figura all’altezza del raggiungimento della pace. E Hamas? Vogliamo parlare di Hamas? Per noi, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda: quello che vogliono è il califfato, l’imposizione della shariʿah. Oggi più che mai, il popolo ebraico deve difendersi da un nuovo e insidioso tipo di antisemitismo”.

Negli ultimi mesi diversi Parlamenti europei – Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Danimarca, Irlanda, Portogallo – si sono pronunciati per il riconoscimento dello Stato palestinese, scelta compiuta ufficialmente dal governo svedese. Come valuta questi pronunciamenti?

Penso che passi di questo genere non siano costruttivi per il processo di pace, perché israeliani e palestinesi a Oslo hanno concordato sul fatto che i problemi sarebbero stati risolti tramite negoziati diretti. Ora i palestinesi stanno stravolgendo il concetto stesso di Oslo. Pensano sia possibile far arrivare qualcuno dall'esterno a imporre l'esito dei negoziati, senza pagare alcun prezzo. Inoltre, questi voti a favore del riconoscimento dello Stato palestinese sono delle affermazioni teoretiche, quasi delle promesse fatte ai palestinesi: “il mondo ci riconoscerà come Stato”. Ma la praticabilità sul terreno è tutta un'altra storia. La verità è che i palestinesi devono venire a patti con Israele per avere uno Stato. Quindi, in un momento di massima tensione nel Medio Oriente, questi parlamenti non fanno altro che alzare le aspettative dei palestinesi, anche quando poi il risultato, probabilmente, sarà insoddisfacente – perché la vita quotidiana dei palestinesi, verosimilmente, non cambierà grazie ai pareri dei singoli parlamenti europei. Temo che la tensione che segna oggi il Medio Oriente e le relazioni israelo-palestinesi possa creare ulteriori problemi. Un altro aspetto riguarda il piano legale. La legge internazionale stabilisce che per creare uno Stato è necessario avere il controllo effettivo del territorio. Non so quale sia in Cisgiordania l'efficacia del controllo di Abu Mazen, ma penso che possiamo essere tutti d'accordo sul fatto che a Gaza non abbia alcun controllo effettivo. Penso che i voti europei non aiutino il processo di pace da nessun punto di vista, poiché non danno ad Abu Mazen alcuna motivazione per venire a parlare con noi.

Il Parlamento italiano si appresta a discutere sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Cosa si sente di dire ai parlamentari italiani alla vigilia di questa discussione storica? Una parte delle forze politiche, soprattutto sul versante del centrodestra, spinge per un rinvio della discussione perché considera il momento “inopportuno”. Cosa ne pensa?

Penso che il tempismo con cui si vorrebbe avviare ora una discussione su questi passi unilaterali dell'Europa non possa essere più sbagliato. Dobbiamo guardare a ciò che è appena successo a Parigi. Per molti ebrei, il messaggio che esce da Parigi è che l'Europa non è più un posto sicuro per gli ebrei. Ora parliamo di questi attacchi perché sono stati terribili, ma non bisogna dimenticare che gli ebrei in Francia vengono perseguitati ogni giorno, anche se non fa notizia. Gli ebrei sono bersagli costanti di un nuovo tipo di antisemitismo. Giorgio Napolitano è stato uno dei primi presidenti a mettere in guardia su questa nuova forma di antisemitismo. Spesso il nuovo antisemitismo si coniuga con posizioni anti-israeliane che mirano alla delegittimazione totale di Israele e del suo diritto di esistere. Il motore che c'è dietro è musulmano, ma ci vediamo anche una combinazione di elementi antisemiti dell'estrema destra e dell'estrema sinistra – probabilmente l'unica componente che hanno in comune.

Per noi ebrei – e parlo da figlio di un sopravvissuto all'Olocausto – Israele è l'unico posto sicuro al mondo. Non faremo mai nulla che metta a repentaglio questo posto. Se qualcuno dall'esterno pensa di poterci imporre qualsiasi tipo di soluzione che percepiamo come un suicidio – dopo che un terzo della nostra nazione è stato distrutto in Europa – si sta sbagliando di grosso. Gli ebrei oggi hanno Israele, hanno il loro esercito, sono pronti a combattere e a difendere le loro vite. Non commetteremo un suicidio per soddisfare le volontà politiche di alcune persone. Inoltre, il tempismo è terribilmente sbagliato anche dal punto di vista del ragionamento politico. Ora in Israele siamo in piena campagna elettorale. Fino a maggio, non ci sarà un governo effettivo. È come avere un unico proiettile e spararlo nel momento peggiore. L'obiettivo verrà mancato di sicuro.

Eppure diversi parlamenti – dalla Gran Bretagna alla Francia – hanno fatto valutazioni diverse... Perché l'Italia non dovrebbe seguire questo trend?
La maggior parte dei parlamenti europei non sta votando queste risoluzioni. Solo quattro o cinque nazioni si sono espresse in tal senso. La Germania, il paese oggi più potente in Europa, non lo ha fatto. Spero che il Parlamento italiano non si unisca a questa minoranza di parlamenti. Sarebbe un grande errore. Uno dei partiti che in Italia stanno spingendo molto questa mozione ha nel suo simbolo “Libertà” ed “Ecologia”. Qual è l'unico paese in cui è possibile parlare di libertà nel Medio Oriente? Israele. Siamo l'unico paese aperto e liberale, dove le donne sono protagoniste attive della politica e dove può svolgersi un gay pride. E poi: “ecologia”. Noi non sfruttiamo petrolio e gas naturali, siamo i produttori numero uno di tecnologie pulite. E chi è da biasimare? Noi, non Abu Mazen, che non è un leader democraticamente eletto. È un approccio sbilanciato di cui mi dispiaccio molto. Per fortuna, abbiamo tanti amici in Italia, tra cui la maggioranza del governo.

Ecco, appunto, ci parli del premier Renzi. Le piace la sua leadership?
Non voglio dare voti ai politici italiani. Conosco Matteo Renzi da molto tempo, penso che stia facendo bene all'Italia. Credo stia lavorando per ridare all'Italia il ruolo che le spetta. L'Italia è stata un paese leader dal punto di vista economico, industriale, culturale, e lo è ancora. Il potenziale è ancora tutto qui, anche se spesso viene offuscato dallo sconforto e dalla sfiducia. Ci sono problemi come la disoccupazione giovanile che devono essere risolti subito. E penso che Renzi stia davvero cercando di fare qualcosa di buono per il paese.

Quali sono, per Israele, i passi necessari al raggiungimento della pace?
Dovete capire che noi vogliamo la soluzione a due Stati. Da Oslo in poi, tutti i presidenti israeliani, incluso Benjamin Netanyahu, sperano nella soluzione dei due Stati. Noi vogliamo che si arrivi allo Stato palestinese, ma dobbiamo assicurarci che questo non diventi un'altra entità del terrore all'interno del Medio Oriente. Abbiamo già abbastanza entità del terrore attorno a noi. Dobbiamo essere sicuri che se creiamo uno Stato palestinese, esso sia forte, stabile e democratico. Sono almeno sei anni che non riusciamo ad avere dei negoziati seri con Abu Mazen; non è tornato al tavolo neanche durante i dieci mesi di congelamento degli insediamenti. Spesso ci sentiamo dire che questi pareri favorevoli non hanno un valore pratico, ma sono solo un modo di rafforzare Abu Mazen. Il punto è che ora Abu Mazen li sta utilizzando per andare alla Corte penale internazionale, ad esempio.

Ottocento personalità israeliane, tra le quali premi Nobel e i più affermati scrittori, che certo non possono essere tacciate di essere filo-Hamas o peggio, hanno rivolto un appello all’Europa perché riconosca lo Stato di Palestina. C'è una ex ministra della Giustizia che non può essere considerata un'estremista di sinistra, la signora Livni, che ha abbandonato il governo dicendo: “questo governo è in mano ai coloni e ai loro rappresentanti nell'esecutivo”, in particolare, come lei sa, il ministro dell’Economia Naftali Bennett. Questa parte di opinione pubblica israeliana è una nemica di Israele? E ancora: lei ha detto che Israele è ancora per una soluzione a due Stati. Ma dove dovrebbe nascere, secondo lei, uno Stato di Palestina, visto che una grande parte di Cisgiordania è ormai piena di insediamenti?

Come sapete, Israele è un paese democratico, una società molto liberale e aperta, dove è possibile ascoltare tutte le opinioni del mondo, tra cui quelle delle 800 persone in questione – anche se a me risulta siano meno. A breve ci saranno delle elezioni: saranno gli elettori a decidere, e allora vedremo cosa vuole davvero l'opinione pubblica di Israele. Sono certo che la maggior parte degli israeliani, da sinistra a destra, sia contraria a questo approccio unilaterale. Quanto a Tzipi Livni, so per certo che anche lei è contraria a questa risoluzione unilaterale. Solo una minoranza la pensa diversamente, e questo è legittimo. Per ciò che concerne gli insediamenti, la situazione è molto diversa: tutti gli insediamenti che abbiamo, compresa Gerusalemme, coprono tra l’1,5 e il 2% del territorio. Inoltre, la maggior parte delle costruzioni che stiamo facendo sono comprese in ciò che chiamiamo “area di insediamento”; difficilmente costruiamo altrove.

Quando nel 2005 Sharon decise di evacuare alcuni insediamenti in cui vivevano circa 11mila persone, l'attuale primo ministro Netanyahu – dello stesso partito di Sharon – gridò al tradimento da parte di Sharon, tanto è vero che l’allora primo ministro scisse il Likud e creò Kadima. Se per Israele evacuare da Gaza 11mila persone equivaleva a essere sull'orlo di una guerra civile, e un primo ministro di destra come era Sharon veniva definito un traditore, può spiegare all'opinione pubblica italiana ed europea come sia possibile evacuare, sulla base di un eventuale accordo di pace, 400mila persone?

Innanzitutto a Gaza non c'è stata nessuna guerra civile; come in ogni paese democratico, abbiamo avuto delle divergenze d'opinione. Ci sono state delle elezioni, Kadima ha vinto e ha portato avanti la sua linea. Ora non si tratta di evacuare 400mila persone. Come ho detto prima, il numero di persone che non si trovano nell'area degli insediamenti è molto, molto minore. La maggior parte delle persone si trova a Gerusalemme e nell'area di insediamento. Non so dire il numero esatto, ma parliamo di non più di 100mila persone. La maggioranza vive in luoghi che da tempo si assume debbano rimanere di Israele. L'evacuazione dei coloni a Gaza non è stata facile, ma è stata fattibile. Lo avevamo già fatto anche nei Sinai.

Non pensa che in futuro il problema per Israele, più che Mahmoud Abbas, possa diventare un signore di nome Abu Bakr al-Baghdadi? Lei sa che la società palestinese è comunque la società più pluralistica del mondo arabo, e presumibilmente uno Stato palestinese sarebbe uno Stato meno attratto dal fondamentalismo esasperato. Non crede che rinviando una negoziazione seria con l'attuale leadership palestinese il rischio sia che in Cisgiordania e a Gaza, invece di trovarvi di fronte ad al Fatah e Hamas, vi ritroviate i salafiti e l'Esercito islamico?

Abu Mazen non ha alcuna legittimazione e non sta facendo nulla per il bene del popolo palestinese. L'unico che ha provato a fare qualcosa è stato Salam Fayyad, che ora è stato relegato in un angolo. Sto iniziando a pensare che Abu Mazen non sia una figura all’altezza del raggiungimento della pace. Certo, ci può essere di peggio – puoi avere al Qaeda, l'Isis o qualcos'altro - ma è necessario capire che le aspettative di pace con Abu Mazen stanno svanendo. Prendiamo ad esempio la questione dei rifugiati: qualche settimana fa Abu Mazen ha detto che ci sono sei milioni di rifugiati palestinesi che devono tornare nelle loro città. Se qualcuno parla con Israele in questi termini, è chiaro che non vuole la pace. Non si può pensare di fare due Stati, uno senza ebrei e l'altro (dove c'è già un 20% di palestinesi) in cui dovrebbero arrivare qualcosa come sei milioni di palestinesi. E stiamo parlando di dividere una regione più piccola della Sicilia. Sempre più spesso sulla stampa palestinese si leggono incitamenti a uccidere tutti gli ebrei, anche sul sito di al Fatah si vedono cose incredibili. Abu Mazen può anche essere il leader migliore, ma sto iniziando a dubitare che possa bastare per la pace. Il problema è che i palestinesi continuano a essere evasivi sulle due questioni più critiche per Israele: i rifugiati e la sicurezza. Su questi due argomenti non c'è mai chiarezza. Con Arafat l'impressione era quella dell'approccio “a salame”. Con la prima fetta di salame, cerchi di ottenere da Israele quanto più possibile (i confini del 1967). Con la seconda fetta di salame, sfrutti gli strumenti della democrazia e della demografia per creare nel tempo, con i rifugiati, un secondo stato palestinese all'interno di Israele. Questa è la paura di Israele.

Dopo gli attacchi di Parigi, l'Europa è entrata in contatto con una paura nuova e profonda. Pensa che questo possa in qualche modo avvicinare i paesi europei a Israele?
Quando si parla di terrorismo, l'Europa fa differenziazioni del terrore. Il terrore contro Israele viene considerato un atto politico, e come tale un problema da giudicare in modo diverso. Quando il terrorismo è contro l'Europa, invece, si pensa che “oh, è terribile, questo è contro noi europei”. In realtà, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda. Nel grande quadro, il califfato è nel loro orizzonte. Hanno metodi diversi, Hamas non decapita, lo stile è un altro, ma il modo di pensare è lo stesso. Dal nostro punto di vista, il terrore è sempre terrore. Sfortunatamente non tutti in Europa la pensano così. Hamas non vuole che Israele esista. È lo stesso concetto espresso da al Baghdadi quando dice che vuole conquistare Roma: “Qui avremo la shariʿah”.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/01/15/naor-gilon-ambasciatore-israeliano-a-roma_n_6476294.html?1421315153&utm_hp_ref=italy


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« Risposta #167 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:51:46 pm »

Egitto, repressione e arresti del regime di Al Sisi.
La scrittrice El Saadawi: "È come Mubarak, ma lo spirito di Piazza Tahrir non muore"

Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post

Pubblicato: 05/02/2015 17:29 CET Aggiornato: 05/02/2015 17:42 CET

C'è chi li massacra per avere difeso fino in fondo la libertà di espressione. E c'è chi, invece, prova a difenderla contro il potere costituito e finisce in galera. A Vita. È questo il Grande Medio Oriente di Califfi e Generali. Il mondo di Abu Bakr al-Baghdadi e quello di Abdel Fatta al-Sisi. Se il primo è l'Incubo, il secondo è il Restauratore. Nel mirino, tutt'altro che metaforico, dell'esercito di tagliagole targato Isis come di quello legalizzato e in divisa, l'esercito egiziano, ci sono coloro che sono scomodi perché provano a difendere un principio di libertà: quello all'informazione.

Questo accade nel "nuovo Egitto" del presidente-generale che ha celebrato i quattro anni dalla rivolta popolare che cambiò il corso della Storia del Paese delle Piramidi, militarizzando le piazze e riempiendo le carceri. Buttando le chiavi delle celle. Duecentotrenta militanti del fronte anti-Mubarak, che hanno contribuito al rovesciamento del potere in Egitto nel 2011, sono stati condannati alla prigione a vita dalla Corte del Cairo. Dovranno anche pagare un'ammenda da 17 milioni di sterline egiziane (circa due milioni di euro). Tra di loro figura anche uno dei leader della protesta, Ahmed Douma, 29 anni. L'attivista liberale è stato condannato per le accuse di violenze fuori da una sede governativa vicino a Piazza Tahrir nel 2011. Douma, tra i pochi presenti in aula, è stato condannato a 25 anni di reclusione. Nonostante ciò, non è parso scoraggiato tanto da avere applaudito al giudice non appena ascoltata la sentenza, ottenendo così altri 3 anni di galera.

Al potere che usa i tribunali per frasi giustizia, Douma ha risposto con l'arma dell'ironia: quando il giudice Mohammed Nagi Shehata ha letto il verdetto che lo condanna all'ergastolo per aver manifestato contro la giunta militare nel dicembre 2011, si è messo a ridere e ha battuto le mani, tanto da provocare la rabbia del magistrato che lo ha minacciato di un'ulteriore pena di tre anni. Ahmed ha continuato a sorridere e si è girato per uscire dall'aula: «Va bene così, va bene così», ha sussurrato a chi gli stava intorno secondo il racconto dei testimoni. Così all'ironia aveva risposto il giudice: "Sei in piazza Tahrir? Non parlare altrimenti ti darò altri tre anni". E così ha fatto. Il tribunale, ha condannato inoltre 39 minori, che dovranno scontare 10 anni di carcere per il loro coinvolgimento negli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine nello stesso 2011. Ahmed Douma è già in carcere da dicembre con una condanna a tre anni per oltraggio alla magistratura perpetrato criticando sentenze contro Hosni Mubarak e Mohamed Morsi. Già nell'aprile 2014 Ahmed Douma, Ahmed Maher, e Mohamed Adel, i famosi leader del Movimento del 6 Aprile, bandito dopo qualche giorno, erano stati condannati a tre anni di carcere e a una pena pecuniaria.

Il governo egiziano colpisce chiunque osi alzare la testa, senza eccezioni. Ad un giorno di distanza da quella sentenza le forze di polizia avevano fatto irruzione negli uffici dell'Ecesr (Il centro egiziano per i diritti economici e sociali) durante la conferenza stampa per l'avvocato e attivista Mahienour el-Masry, sequestrato prezioso materiale sul caso, arrestato 15 tra i presenti, tra cui due minori, e molestato le donne che opponevano resistenza. Da almeno un decennio Alaa è uno dei blogger filo-democrazia più attivi in Egitto, cosa che di per sé fa di lui un bersaglio. A differenza di altri noti attivisti (come Mahmoud Salem, BigPharaoh e Zeinobia), che sono attivi sia in arabo che in inglese, scrive soprattutto in arabo. È dunque molto conosciuto in Egitto e un po' meno in Occidente, cosa che fa di lui una preda più facile per il regime. "Il potere ha paura delle voci libere e per questo le reprime. Nulla è cambiato dai tempi di Hosni Mubarak, a dettar legge è la stessa nomenklatura che fa scempio delle libertà e dei diritti sociali e civili. Quello instaurato da al-Sisi è un "mubarakismo senza Mubarak. E questo con il plauso del democratico Occidente", dice all'Huffington Post Nawal El Saadawi, l'autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. "Ma i golpisti - aggiunge la scrittrice - hanno sbagliato i loro calcoli: lo spirito di Piazza Tahrir non è stato sepolto, non abbiamo combattuto per la libertà e contro chi sognava la dittatura della sharia, per finire in pasto ad un regime militare. Golpisti e integralisti non hanno nel loro vocabolario la parola rispetto per chi esercita il diritto di critica. Per loro, la satira è più pericolosa del kalashnikov".

Quella di al-Sisi è una democrazia "blindata". Nel senso che funziona con i tank che occupano le piazze, con gli oppositori incarcerati, torturati, fatti sparire, con partiti messi fuorilegge e premi Nobel per la pace (Mohamed el-Baradei) costretti a riparare all'estero per non essere portati davanti a un tribunale speciale con l'accusa di tradimento, passibile di pena di morte. Eppure, l'Occidente lo omaggia, arrivando a ritenerlo un "moderato", l'argine più sicuro contro il "Califfo Ibrahim", al secolo Abu Bakr al-Baghdadi. Al Summit Davos è stato il celebrato ospite d'onore, il "nuovo Faraone" che ha promesso benessere e stabilità al Paese delle Piramidi. Per adesso, di benessere non se ne parla; quanto alla sicurezza, viene garantita con il pugno di ferro contro chiunque osi ribellarsi. "Questo è l'Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, il presidente-generale, una sorta di Pinochet in salsa mediorientale: il "suo" Egitto è un Paese militarizzato, con il sostegno entusiasta delle cancellerie europee, Italia compresa, e i finanziamenti a pioggia dell'Arabia Saudita, altro campione di diritti civili lapidati, come le persone, soprattutto se sei una donna. C'è l'inferno nelle carceri egiziane, documenta un dettagliato rapporto di Human Rights Watch. Morti sospette, cause da accertare. Sono sempre di più i prigionieri che perdono la vita dietro le sbarre egiziane, la maggior parte di questi sono sostenitori dei Fratelli musulmani, partito politico bandito dal governo di al-Sisi e riconosciuto come organizzazione terroristica.

Nonostante la costituzione egiziana vieti la violenza nei confronti dei detenuti, la tortura è ancora diffusa. Molte delle persone decedute, secondo Hrw, mostrano evidenti segni di percosse e maltrattamenti. In alcuni casi invece le morte è stata causata da condizioni igieniche inadeguate e dalla mancanza di cure mediche anche per i pazienti gravemente malati. "Le prigioni e le stazioni di polizia - afferma Sarah Leah Whitson - sono piene di sostenitori dell'opposizione arrestati durante i rastrellamenti. Le persone sono detenute in situazioni disumane di sovraffollamento. Le morti sono una conseguenza prevedibile di queste condizioni". Ancora non è chiaro quanti detenuti siano morti nel 2014 nell'intero territorio nazionale. Secondo un rapporto di una Ong egiziana, durante i primi cento giorni del governo di al-Sisi 35 persone sono decedute in carcere, mentre secondo le statistiche dell’autorità medica forense del ministero della Giustizia nei primi dieci mesi del 2014 almeno 90 persone hanno perso la vita mentre si trovavano in custodia a Giza e Il Cairo. Stando a questi numeri, rispetto al 2013 le morti in carcere sarebbero aumentate del 40 per cento. "Le autorità egiziane - conclude Whitson - sembrano incredibilmente compiacenti di fronte alla morte di tanti detenuti. Al contrario il governo dovrebbe investigare su ciascuna di queste morti e sulle accuse di abusi per garantire e mettere in pratica le leggi dello Stato".

Da Hrw ad Amnesty International. Questa è la fotografia dello stato dei diritti umani in Egitto. Una fotografi agghiacciante. "Negli ultimi sette mesi l'Egitto ha assistito a una serie di colpi ai diritti umani e a una violenza di stato senza precedenti. Tre anni dopo, le richieste di dignità e diritti umani della 'rivoluzione del 25 gennaio' restano più lontane che mai... e repressione e impunità sono all'ordine del giorno", rilevava Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Secondo Amnesty, "l'Egitto ha intrapreso decisamente la strada verso un ulteriore periodo di repressione e di scontro. A meno che le autorità non cambino orientamento, a iniziare dal rilascio incondizionato dei prigionieri di coscienza". Nella realtà dei fatti "la situazione attuale dei diritti umani è spaventosa. Le assicurazioni verbali resteranno prive di senso se la repressione sul terreno continuerà ad aumentare e se basterà un tweet per finire in prigione". Così il rapporto di Amnesty reso pubblico nel giorno del terzo anniversario della rivolta anti-Mubarak. Era il 25 gennaio 2014.

Un anno dopo la situazione è ulteriormente peggiorata. Gli intenti originari della rivoluzione del 25 gennaio, a tre anni dal suo scoppio, sono stati quindi palesemente traditi e la nuova legge che limita i raduni pubblici e le manifestazioni è il viatico palese di tutto ciò, limitando di fatto la libertà di riunione e dando il via libera all'uso della forza contro i manifestanti che dovessero trasgredire tale norma, a prescindere da caratteristiche quali genere o età. Come se non bastasse, infine, Sahraoui aggiunge: "È in atto un tentativo concertato di ridurre al silenzio ogni osservatore indipendente, dagli attivisti ai giornalisti, fino alle Organizzazioni non governative, che rende più difficoltoso operare in Egitto e continuare a documentare e denunciare le violazioni dei diritti umani". Persino la magistratura, poi, sarebbe un'arma contro il dissenso: "usata per punire gli oppositori, mentre agli autori delle violazioni dei diritti umani camminano liberi". "La situazione sul campo è molto pericolosa, soprattutto per noi giornalisti", dice Ahmed Hamdy El Sayed, reporter che lavora per un settimanale egiziano. "Quando andiamo a seguire le proteste, cerchiamo di non far vedere che siamo giornalisti per non essere presi di mira. In caso di arresto, se il direttore del giornale non interviene in tempo, si corre il rischio di restare nelle mani della polizia senza nessuna garanzia e senza sapere quando si verrà liberati".

E così, ancora oggi, giovani giornalisti e blogger dividono le cella del carcere del Cairo con veri criminali. Sono sottoposti a torture di ogni genere durante gli interrogatori al fine di far loro confessare i nomi di tutti i seguaci della pericolosa banda di scrittori virtuali, che danneggerebbe l'immagine del Paese. Per i vignettisti egiziani, lavorare ai tempi, attuali, della restaurazione militare è difficile soprattutto a causa della grande "quantità di leggi che restringono la libertà d'espressione" rimarca Jonathan Guyer, ricercatore sul ruolo delle vignette satiriche egiziane presso la Fullbright University, "ci sono leggi che impediscono di parlare del presidente, una legge che impedisce di parlare dei militari, una legge contro l'insulto alla religione". Questo è l'Egitto del nuovo Faraone: il regno dell'illegalità.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/02/05/egitto-al-sisi-repressione-e-arresti_n_6622352.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #168 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:30:08 pm »

Ban Ki-moon, l'irritazione dell'Onu per il vertice sull'immigrazione.
Il segretario a Roma tra Papa Francesco e il caso Prodi


Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post
Pubblicato: 26/04/2015 13:23 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Libia, che fare? Visto che “non esiste una soluzione militare alla tragedia umanitaria che sta avvenendo nel Mediterraneo”, e che l’Europa ha dimostrato di essere alquanto brava a versare lacrime ma altrettanto parca nel concedere asilo a quell’umanità sofferente che pur di fuggire dall’inferno di guerre, pulizie etniche, miseria e carestia, tenta la sorte con i “viaggi della morte”. Domani il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon sarà in Italia per incontrare Matteo Renzi, mentre martedì il numero uno del Palazzo di Vetro sarà a colloquio in Vaticano con Papa Francesco. Quella di Ban, dicono all’” Huffington Post” fonti diplomatiche occidentali al Palazzo di Vetro, è una “visita di lavoro”, tutt’altro che formale, la prima che il segretario generale delle Nazioni Unite fa in un Paese europeo dopo il Summit straordinario dell’Ue dedicato all’immigrazione. Un Summit che non è piaciuto al diplomatico coreano, che fuori dall’ufficialità delle dichiarazioni, non ha nascosto ai suoi più stretti collaboratori, confida la fonte all’Hp, la sua amarezza e delusione per le decisioni assunte in quella sede, ritenute non all’altezza della drammaticità della situazione. Una valutazione che trova concorde il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “Vogliamo che l'Europa democratica, protagonista settant'anni or sono nella lotta contro i responsabili dei peggiori crimini contro l'umanità, sappia rendersi consapevole oggi della propria responsabilità storica, e sia artefice di una iniziativa politica nuova verso i paesi dell'Africa e del Medio Oriente”., ha ribadito con forza l’inquilino del Quirinale.

SOCCORSO ALL’ITALIA - E non a caso, Ban ha scelto l’Italia per dar voce alle sue preoccupazioni, perché l’Italia è il Paese in primissima fila in questa perenne emergenza umanitaria, e l’Italia, è convinto Ban, continua a non ricevere il sostegno adeguato da parte degli altri Paesi Ue nell’attività di salvataggio dei migranti in balia dei trafficanti di esseri umani. Da Roma, il segretario generale delle Nazioni Unite lancerà un ennesimo appello rivolto a quei Paesi del Vecchio Continente che frenano sull’accoglienza, e ricorderà che altri Paesi, molto meno dotati di risorse dei recalcitranti Stati europei, si fanno carico, ed è il caso del Libano, di oltre un milione di profughi siriani. Valorizzerà lo straordinario impegno sul campo dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), Ban, ma soprattutto ribadirà un concetto a lui caro: “Non esistono soluzioni militari per porre un freno alla tragedia umanitaria nel Mediterraneo” e per affrontare in termini corretti il “caos libico”. Un caos armato. E qui sta il punto cruciale della missione di Ban Ki-moon in Italia. I più stretti collaboratori del numero uno del Palazzo di Vetro, non nascondono che il timore maggiore che Ban ha, anche alla luce degli esiti non soddisfacenti del Summit di Lussemburgo è che i Paesi Ue abbiano lesinato le risorse di supporto alla missione Triton e hanno frenato sull’accoglienza, perché l’impegno maggiore, ancora da definire nei dettagli ma non nell’impostazione, riguarda l’aspetto militare della lotta al traffico di esseri umani. Ban non entrerà nel merito del dibattito sugli strumenti militari da utilizzare nella ventila “guerra agli scafisti” – droni, motovedette armate di esplosivo, forze di terra, blocco navale… ma tornerà a ribadire la sua profonda convinzione che solo la politica può avere una chance per portare stabilità nel martoriato Paese nordafricano. In una intervista a “La Stampa”, Ban si dice convinto che "non ci siano alternative al dialogo. Il mio Rappresentante speciale, Bernardino Leon, e la sua squadra continuano a lavorare in maniera instancabile con le parti libiche coinvolte, per aiutarle ad arrivare insieme ad uno spirito di compromesso. Gli atti di terrorismo e di estremismo sono un duro richiamo al fatto che una soluzione politica all'attuale crisi va trovata rapidamente, per ripristinare pace e stabilità". Ma una Europa ingenerosa non è quella che potrà dare il contributo necessario per una emergenza umanitaria diventata ormai tragica normalità.

L’ASSE CON PAPA FRANCESCO - Martedì Ban sarà a colloquio con Papa Francesco. La posizione in merito della Santa Sede è chiara e durissima: "Il piano in 10 punti approvato dell'Ue sull'emergenza immigrazione è assolutamente debole e per certi versi vergognoso". Ad affermarlo nei giorni scorsi è stato monsignor Giancarlo Perego, il direttore della Fondazione Migrantes, promossa dalla Cei. “Ancora una volta - denuncia il prelato - si pensa di contrastare i trafficanti e non tutelare le persone attraverso i canali umanitari, un piano sociale europeo nei paesi di arrivo dei profughi e migranti, la cooperazione locale". Ban viene in soccorso dell’Italia: a testimoniarlo è un fatto inusuale nell’agenda degli impegni del segretario generale dell’Onu: quella di domani, è la seconda visita in Italia che Ban fa nel giro di poco più di un mese. Il 18 marzo scorso, infatti, il numero uno del Palazzo di Vetro era nel nostro Paese per incontrare il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi e il titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni. In quell’occasione, Ban sottolineò il ruolo “fondamentale” dell’Italia, perché questa “rappresenta una pietra miliare per la pace e la sicurezza internazionale” e chiede, come gli americani, che l’Italia si faccia carico delle missioni libiche, volte a scongiurare il rischio concreto che la penetrazione dello Stato islamico nel Paese nordafricano si allarghi a dismisura. Ban chiede, insomma, che l’Italia ripeta in Libia quanto fatto in Libano, un parallelo che il Segretario generale ha espresso chiaramente tramite il plauso all’operato della missione Unifil. D’altro canto, il via libera delle Nazioni Unite alle operazioni di polizia, necessarie per distruggere i barconi, ha i bisogno della copertura del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ed è di questo che martedì parlerà l’Alto Rappresentante dell’Ue per la politica Estera dell’Ue, Federica Mogherini, nella sua missione al Palazzo di Vetro. Ai suoi interlocutori europei, Ban ricorderà che sono almeno 1.600 le persone morte dall'inizio dell'anno nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, e rimarcherà come questa sia diventata "la rotta più letale al mondo per migranti e richiedenti asilo". I colloqui di stamattina con il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ma anche con i principali leader sono stati finalizzati a raccontare una banale verità: che il problema della Libia, a dispetto di alcune posizioni ideologiche o demagogiche, non è un problema di immigrazione. Sarebbe, lo dico provocatoriamente, quasi positivo perché c'è molto di più. Se fosse solo questo sarebbe grave ma lo potremmo affrontare. Noi stiamo sottovalutando che in quella zona del Mediterraneo si sta giocando una battaglia molto più grande, non un semplice regolamento di conti tribali. E' in gioco la capacità della comunità' internazionale di prevenire il rischio di estensione della minaccia estremista che sarebbe devastante non solo per l'Europa ma innanzitutto per l'Africa”. Così si espresse Matteo Renzi, parlando in Aula alla Camera, in un passaggio delle comunicazioni sul Vertice Ue del 19 e 20 Marzo. Da allora, la situazione è ulteriormente peggiorata e l’Europa non si è rivelata all’altezza di una sfida che non è solo umanitaria ma geopolitica.

IL CASO PRODI - C’è, infine, un aspetto “interno” alle tempestose vicende politiche italiane che Ban farà fatica a dribblare visto che è stato chiamato direttamente in causa: ”l’affaire-Prodi”. Intervenendo a “Otto e mezzo” di Lilli Gruber, il presidente del Consiglio ha risposto, alla domanda perché non è stato scelto l’ex premier italiano come negoziatore sulla Libia, che "l'Italia non ha presentato la candidatura di Romano Prodi al ruolo di mediatore in Libia perché le Nazioni Unite, così ha spiegato Ban Ki-moon, hanno deciso che era meglio non avere un ex primo ministro di un paese che aveva avuto forti relazioni con Gheddafi". Renzi anticipa anche che domani porterà su un elicottero e sulla nave San Giusto Ban Ki-moon “per fargli vedere plasticamente cosa sta facendo» l'Italia nel Mediterraneo e per dare il senso di vicinanza a ciò che sta facendo l’Italia”. Tirato in ballo pubblicamente, il Professore prima cerca di resistere alla tentazione di replicare, poi, però, si lascia andare a un sibillino “credo che Ban Ki-moon non la pensasse così...”. Allora, signor Segretario Generale, come stanno davvero le cose?

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/04/26/ban-ki-moon-irritazione-vertice-immigrazione_n_7145764.html
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« Risposta #169 inserito:: Luglio 30, 2016, 11:11:55 am »

Interviste
Umberto De Giovannangeli   
· 22 luglio 2016

Bonino: “L’Unione europea è cauta perché sui migranti dipende da Ankara”
L’ex ministra degli Esteri: “Colpisce l’entità della purga trasversale come se le liste di proscrizione fossero state preparate prima”

“Non so se Erdogan da questa vicenda ne esca più forte o più debole. Certamente ne esce molto più autoritario”. A sostenerlo è Emma Bonino, leader storica Radicale, già ministra degli Esteri e commissaria europea. Quanto all'atteggiamento dell’Europa, l’ex titolare della Farnesina, annota: “Diciamo che finora l’Europa è stata ‘cauta’. E non solo perché nella base turca di Incirlik sono custodite cinquanta bombe atomiche, ma anche, e forse soprattutto, perché l’Europa si è consegnata a Erdogan per risolvere o almeno tamponare l’arrivo di migranti e rifugiati. Il fatto è che, su questo tema cruciale, l’Europa è più dipendente dal ‘rubinetto-Erdogan’ che viceversa”.

In Turchia avanza il “contro-golpe” del presidente Recep Tayyp Erdogan. Che idea si è fatta in proposito?

Mi sono fatta due idee. La prima, è che solo il tempo farà chiarezza su alcune anomalie evidenti del putsch militare fallito. La seconda idea, è l’entità di questa purga massiccia, come se le liste di proscrizione fossero state preparate prima. A colpire non è solo la dimensione quantitativa di questa “purga” (ad oggi 50mila persone) ma la sua trasversalità. Non c’è ganglio dello Stato che sia stato risparmiato: giornalisti, funzionari a migliaia, 2750 giudici, tra i quali diversi membri della Corte Suprema, sono stati sollevati dall’incarico; oltre 8mila poliziotti sono stati messi fuori; trenta governatori rimossi, così come oltre 103 generali e quadri superiori delle Forze Armate. Su questo ultimo dato, vale la pena di ricordare che quello turco è, per dimensioni, il secondo esercito della Nato, dopo quello degli Stati Uniti. Oggi, di fatto, questo esercito è stato ridotto a un “teschio vuoto”, incapace di lanciare alcuna azione militare contro l’Isis o, come è avvenuto anche nei giorni precedenti il fallito golpe, contro i curdi. In più Erdogan ha chiesto ai suoi seguaci di stare nelle piazze per un’altra settimana, il che sembra significare che la “Grande purga” non è finita. E questo è un ulteriore elemento di preoccupazione. Compresa l’ipotesi di reintroduzione della pena di morte, torture ed umiliazioni pesanti per i “prigionieri” … e via aggravando.

Di fronte a questo drammatico scenario, reso ancor più tale dall'annuncio che Ankara ha sospeso la Convenzione europea sui diritti umani, come valutare l’atteggiamento sin qui tenuto dall’Occidente e in particolare dall'Europa?

Diciamo, per non infierire troppo, che l’Europa è stata fin qui “cauta”. D’altronde, nel recente accordo Ue-Turchia sui migranti, abbiamo di fatto appaltato alla Turchia, e ci apprestiamo a farlo con i Paesi africani, la difesa delle nostre frontiere esterne e la gestione di migranti e rifugiati. Della serie: la cosa per noi più importante è che ve li teniate, non importa come, in quali condizioni. Né importa molto cosa succede in Turchia, dichiarazioni a parte. Fatelo e noi saremo più “comprensivi”. L’arma più potente che Erdogan ha rivolta verso l’Europa, è rappresentata dai 2,700 milioni di rifugiati “custoditi” in Turchia.

Lei ha definito “cauto” l’atteggiamento sin qui tenuto dall’Europa nei confronti della “Grande purga” messa in atto da Erdogan all’indomani del fallito colpo di Stato militare. Spera che questa cautela possa trasformarsi in qualcosa di più incisivo?

Ci siamo così consegnati alla Turchia per risolvere i problemi che avremmo potuto e dovuto affrontare noi, e questa dipendenza è destinata a crescere ulteriormente, che è difficile fare poi credibilmente la voce grossa. Noi stessi ci siamo abituati ai morti annegati in Mediterraneo: solo oggi (ieri, per chi legge, ndr) venti morti asfissiati, e nessuna reazione palpabile.

Da leader radicale, come da commissaria europea e ministra degli Esteri, Lei ha sempre cercato di praticare la “diplomazia dei diritti” anche quando da più parti si sosteneva, con una grande dose di realpolitik, che i diritti umani non vanno d’accordo con la “diplomazia degli affari”. Questo assunto si presta anche al caso turco?

In questo caso più che agli affari veri e propri, e ci sono anche quelli, abbiamo sacrificato la difesa dei diritti umani e civili in Turchia sull’altare della crisi dei migranti, mettendo in secondo piano i principi basilari dello stato di diritto e della democrazia.

Il contro-golpe islamista di Erdogan, ha riparto il dibattito sulla compatibilità tra Islam e democrazia. C’è chi ritorna a sostenere che siano entità incompatibili.

Certamente c’è una relazione molto tesa, e questo soprattutto nel mondo arabo. Questa tensione è così forte che finisce per oscurare esperienze pure importanti come quelle che riguardano la Tunisia e il Marocco, che meriterebbero, invece, maggiore attenzione e, soprattutto, maggiore sostegno da parte dell’Europa. Per tornare alla Turchia, non possiamo dimenticare che nel primo periodo di Erdogan, la Turchia aveva fatto passi promettenti e importanti sul terreno della democrazia, tuttavia sono stati proprio gli europei, in particolare allora la Germania della cancelliera Merkel e la Francia del presidente Sarkozy, che si rimangiarono la decisione, che era stata presa all’unanimità, di avviare questo processo, che riguardava l’adesione della Turchia all’Unione europea. Dopo di che, la Turchia ha guardato verso un’altra parte. E al momento ha vinto l’altra parte, che è sempre più autoritaria. E il discorso, a ben vedere, può essere esteso anche all’Egitto.

La Storia, si dice, non si fa con i se e i ma. Eppure, proviamo per una volta a farla. Se l’Europa avesse insistito nel processo di adesione della Turchia…

Io ne ero convinta, pur sapendo perfettamente che il processo sarebbe stato lungo e pieno di contraccolpi. D’altro canto, ogni ingresso di nuovi Paesi nell’Unione non si esaurisce in poco tempo: per Spagna e Portogallo, ad esempio, ci sono voluti dieci anni. Era un rischio che però io avrei corso e affrontato con più tenacia e tenuta, invece fin dal 2006-2007 due grandi Paesi europei cambiarono idea e finirono per imporla a tutti gli altri partner.

Da - http://www.unita.tv/interviste/bonino-lunione-europea-cauta-perche-sui-migranti-dipende-da-ankara/
« Ultima modifica: Agosto 23, 2016, 11:07:16 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #170 inserito:: Agosto 23, 2016, 11:08:50 pm »

E il mondo guarda l’orrore
Siria

Umberto De Giovannangeli   
14 agosto 2016   

Milioni di esseri umani sono ostaggi di un feroce dittatore, Bashar al-Assad, e di un capo tagliagole sanguinario, il “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi

Come Sarajevo. Peggio di Sarajevo. Aleppo, la vergogna del mondo. Di un mondo “libero” che da cinque anni assiste impotente o complice alla distruzione di un Paese, la Siria, e all’annientamento del suo popolo. Milioni di esseri umani sono ostaggi di un feroce dittatore, Bashar al-Assad, e di un capo tagliagole sanguinario, il “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. In Siria operano quattro dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna – e agiscono potenze regionali schierate su fronti opposti – Turchia, Arabia Saudita, Iran. Hanno saputo bombardare, ma non hanno liberato il popolo siriano dall’inferno.

Le organizzazioni umanitarie, i medici eroi che ancora operano ad Aleppo, hanno lanciato in questi giorni, in queste ore, appelli accorati ai grandi della Terra perché facciano tacere, almeno per 48 ore, le armi, permettendo così i soccorsi ai feriti, l’evacuazione di donne e bambini attraverso corridoi sicuri. Quelle voci disperate si sono perse nel clamore dei bombardamenti, incessanti che, anche ieri, hanno colpito un ospedale. Ad Aleppo sono imprigionati oltre 300mila esseri umani. Non hanno più niente. Manca l’acqua, i generi alimentari di prima necessità, il latte in polvere per i più piccoli, stanno finendo. Non c’è luce. Un inferno in terra. Creato dagli uomini: quelli che combattono strada per strada, e i loro mandanti che risiedono comodamente nei dorati palazzi del potere, a Riad, Ankara, Teheran.

Ma la vergogna di Aleppo interroga anche le nostre coscienze, quelle di cittadini europei. I tanto frequentati social sono pieni di filmati che arrivano da Aleppo: morte e distruzione, dolore e violenza senza limiti, entrano nei nostri computer, nei nostri smartphone in tempo reale. Nessuno può dire: non ho visto, non sapevo. E il “chiuso per ferie” non può valere come alibi per non far nulla, per assistere inerti allo scempio di vite umane perpetrato senza soluzione di continuità ad Aleppo. Gli assassini, sotto qualunque vessillo si mascherino, non vanno in vacanza. Dobbiamo saperlo mentre ci si prepara all’e s o do di Ferragosto. E avere il coraggio di guardare i volti dei bimbi di Aleppo, smarriti, impauriti, alla ricerca di un giocattolo tra le macerie delle case distrutte. Provare vergogna è un dovere. Come agire perché Aleppo torni a respirare.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/e-il-mondo-guarda-lorrore/
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« Risposta #171 inserito:: Novembre 14, 2016, 05:30:17 pm »

   Interviste

Umberto De Giovannangeli   
· 11 novembre 2016

Dacia Maraini: “Hillary ha sfidato l’America misogina”
“Come donna ha dovuto scontrarsi con un’America in cui pesa ancora e tanto la misoginia”

«Da questa campagna elettorale, Hillary ne esce a testa alta. Come persona, come donna, prim’ancora che come politica. E come donna ha dovuto scontrarsi con un’America in cui pesa ancora e tanto la misoginia. E come candidata donna le sono imputate cose che non solo al suo rivale ma a qualsiasi politico maschio non sarebbe stato imputato. Lascio ad altri cimentarsi, a posteriori, su valutazioni più marcatamente politiche circa le ragioni della sua sconfitta. Per me, Hillary resta una persona all’altezza, una donna che non ha rinnegato se stessa».

A parlare è una delle più grandi scrittrici italiane: Dacia Maraini. Nel suo discorso il giorno dopo la sconfitta, Hillary Clinton ha lanciato un messaggio alle donne americane: “Non vi scoraggiate”. Quale idea si è fatta sulla sconfitta di Hillary?

«Anzitutto che è figlia dei tempi. Tempi bui, tempi segnati dalla paura. E la paura consiglia male e orienta in una direzione opposta ai valori democratici. La paura tende alla chiusura, favorisce la costruzione di muri, non solo fisici ma mentali, militarizza non solo il territorio ma anche le coscienze, e questo non lo scopriamo con Trump, ma lo vediamo da tempo in Europa. E poi c’è un’altra considerazione che mi viene da fare e riguarda ciò che l’America è realmente e non l’immagine che di essa ci viene data o che noi europei preferiamo avere».

A cosa si riferisce?
«Alla misoginia. E ciò, a mio modesto parere, ha pesato e non poco nella sconfitta di Hillary. Per averne una idea basta anche vedere i film americani, quelli in cui c’è il mito del guerriero, del conquistatore. L’America di John Wayne e dei suoi più recenti epigoni. Una delle cose che più mi ha colpito e fatto riflettere è l’accusa rivolta a Hillary Clinton di essere “fredda”. Ad un politico uomo non avrebbero mai rivolto una tale accusa. Ma in un politico, donna o uomo che sia soprattutto se si candida ad assumere incarichi di governo o addirittura di capo di Stato, la freddezza dovrebbe essere una dote e non certo una pecca. Un pregio, non un difetto. Ma questo non vale per Hillary».

A sconfiggerla è stato un miliardario “conquistatore”: Donald Trump. Analizzando il voto, c’è chi ha messo in evidenza che una parte dell’elettorato femminile ha voltato le spalle a Hillary e votato Trump. Le chiedo: cosa hanno cercato in lui?

«Un padre. Un capo branco. Wilhem Reich, il grande psicanalista che fu allievo di Freud, ha scritto un libro bellissimo che trovo di strettissima attualità: “Psicologia di massa del fascismo”, nel quale si spiega come e perché quando un popolo è in crisi e si vive in guerra, ecco andare alla ricerca di un “Padre”, di una sorta di capo branco. Non importa, o importa poco, che questo “Padre” sia cattivo, può essere anche un criminale. Ciò che importa davvero, rimarca Reich, che sia davvero un “Capo” e che del “Capo” possieda il carisma, come lo aveva Hitler o lo stesso Mussolini. Evidentemente anche le donne americane, o comunque parte di esse, sente di vivere nella paura e allora si va alla ricerca di “Presidente-Padre” anche se cattivo».

Come esce Hillary da questa battaglia che comunque ha lasciato i suoi segni.

«Ne esce a testa alta. Si dice che le persone vanno “misurate” nei momenti più difficili e questo è indubbiamente un momento difficile, durissimo, triste per Hillary. Ma nella sconfitta, si è dimostrata essere una persona con una grande dignità, grande come il fair play che ha dimostrato non solo in tutta la campagna elettorale cercando di trattenersi dal scendere ai livelli del suo avversario, ma questo fair play Hillary lo ha manifestato anche il giorno dopo la sconfitta, e lo stesso ha fatto Barack Obama quando ha detto di voler aiutare il suo successore alla Casa Bianca. Una lezione di stile, e di sostanza, della quale i politici italiani, non tutti ma molti sì, dovrebbero studiare e farne tesoro. Ma forse chiedo troppo».

A proposito di cercare subito l’”anti Trump”. In rete, sui social americani, è partita una petizione-appello perché tra quattro anni a sfidare Trump sia di nuovo una donna: Michelle Obama. Che ne pensa?

«Penso che Michelle sarebbe una ottima candidata. Indubbiamente, lei è dotata di un carisma, di una capacità empatica che Hillary non ha avuto. Ma Hillary aveva altre doti che personalmente, da cittadina, ritengo importantissime per decidere se fidarmi o meno di un politico: la competenza, ad esempio, e l’esperienza maturata in particolare in politica estera. Competenza di cui Donald Trump, neo presidente Usa, appare sprovvisto. E non è poca cosa».

Da - http://www.unita.tv/interviste/dacia-maraini-hillary-ha-sfidato-lamerica-misogina/
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« Risposta #172 inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:55:27 pm »

Interviste

Umberto De Giovannangeli   
· 6 dicembre 2016

Bolaffi: “La sinistra torni a capire il segno dei tempi”

Il filosofo della politica: “Populismo è diventato una sorta di passepartout che non dice niente”
«Ogni realtà nazionale trova in sé una chiave interpretativa che può spiegare, in parte, il perché di una sconfitta politica ed elettorale, tuttavia sarebbe un errore esiziale non alzare lo sguardo rendendosi conto di un dato generale di portata epocale: se la sinistra in Europa non riesce a ridefinire complessivamente le proprie opzioni strategiche e di analisi del reale, sempre che questo sia ancora possibile, essa è destinata inesorabilmente a un ciclo di sconfitte. La sinistra non può sperare di tornare a vincere se resta prigioniera del paradigma socialdemocratico». A sostenerlo è Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 direttore dell’Istituto di cultura italiana a Berlino, autore di numerosi saggi tra i quali ricordiamo: «Il sogno tedesco. La nuova Germania e la coerenza europea» (Donzelli, 1993), e il più recente «Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea». (Donzelli, 2013).

Professor Bolaffi il meno che si possa dire guardando al presente, è che la sinistra in Europa non se la passi bene. È possibile individuare un tratto comune di questa crisi?
«Direi di sì, e questo tratto va ricercato nel fatto che i processi strutturali legati alla globalizzazione, rendono obsolete o addirittura impossibili quelle che sono state le politiche economiche classiche della sinistra, come d’altronde aveva previsto Ralph Dahrendorf quando parlò, circa un quarto di secolo fa, di fine dell’età socialdemocratica. Paradossalmente, dunque, la sinistra socialdemocratica classica si può dire vittima del proprio successo, nel senso che ha realizzato quello che voleva, vale a dire le politiche keynesiane classiche, le politiche di redistribuzione salariale e dei diritti portate avanti dai sindacati. Non è riadattando al Terzo Millennio e all’età della globalizzazione totale, un neo keynesismo che la sinistra può sperare di uscire dalla crisi che l’attanaglia. Una crisi che è innanzitutto di categorie di analisi, e dunque di capacità di comprendere il segno dei tempi, prim’ancora che di programmi o di gestione. Ormai è necessario un cambio di paradigma, tanto è vero che laddove riescono a vincere rappresentanti di forze non riconducibili alle destre, come in Austria o in alcuni Länder tedeschi, costoro sono dei Verdi, i quali hanno sottoposto a critica il paradigma socialdemocratico classico».

Guardando alle sconfitte elettorali che la sinistra ha inanellato in Europa e proiettandosi verso gli appuntamenti elettorali del 2017, le presidenziali in Francia, le legislative in Olanda e Germania, si fa sempre riferimento ad una inarrestata “onda populista”. Ma questo termine, “populismo”, può spiegare tutto?

«Assolutamente no. “Populismo” è ormai diventato una sorta di passepartout che non dice niente, generalizzando fenomeni diversi. Proviamo a distinguerli: i risultati delle elezioni in Gran Bretagna, dove è stato sconfitto il Partito laburista, e negli Stati Uniti, dove a perdere sono stati i Democratici della Clinton, attengono a due Paesi che non avevano in un caso – il Regno Unito – l’euro e nell’altro, gli Usa, la moneta è il dollaro. Questi risultati non sono ascrivibili, come invece sostiene una diffusa narrazione in voga a sinistra, a cosiddette politiche economiche di austerità che sarebbero state imposte dalla Germania. Ancora: la presenza di forze “populiste” in Austria, Olanda e Germania, Paesi che non soffrono di crisi economica, può essere ascrivibile a problemi legati all’immigrazione ma non certo alle politiche economiche di austerità. I Paesi che invece hanno sofferto maggiormente per via della crisi finanziaria dell’euro, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, non presentano movimenti populisti di destra. Operare queste distinzioni non è un esercizio intellettuale ma è la base politica e concettuale indispensabile perché la sinistra affronti il “populismo “con un’analisi diversificata. Non c’è una spiegazione unica come non c’è un “populismo “unico. Certamente, sul piano politico, siamo di fronte a sommovimenti tellurici di portata globale che hanno bisogno di chiavi di lettura di cui la sinistra è oggi evidentemente priva».

È possibile, andando indietro nel tempo, individuare una fase, come quella dell’oggi, nella quale la sinistra era in così evidente difficoltà?
«Se vogliamo trovare in qualche modo una fase di difficoltà di tutta la sinistra in Europa, mi verrebbe da pensare alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, quando la ricostruzione dell’Europa occidentale venne guidata dalle forze moderate e conservatrici, mentre la sinistra era attestata su posizioni ideologiche quali l’opposizione all’Alleanza Atlantica e alla costruzione dell’Europa unita».

A proposito di Europa non travolta dalla marea populista, l’ultimo baluardo sembra essere la cancelliera tedesca Angela Merkel, che pure di sinistra certamente non è.
«Di nuovo: la sinistra deve fare i conti, fino in fondo, con la Storia. Anche negli anni del secondo dopoguerra, furono dei politici cattolici democratici, come Adenauer e De Gasperi, a guidare la ricostruzione dell’Europa e ad avviare il processo di unificazione dell’Europa occidentale e a dar vita, con la Nato, all’alleanza con gli Stati Uniti. Allora, nell’Europa della Guerra fredda, non solo la sinistra comunista ma anche la socialdemocrazia tedesca si attestò, sia pure in modi diversi, su posizioni ideologiche. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, la sinistra, meno ideologica ma più progettuale, dovrebbe ritrovare il senso di sé indicando all’Europa una prospettiva, una direzione di marcia. Renzi ci ha provato. Altri, no, e questo gli va riconosciuto».

Da - http://www.unita.tv/interviste/bolaffi-la-sinistra-torni-a-capire-il-segno-dei-tempi/
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« Risposta #173 inserito:: Gennaio 08, 2017, 09:35:30 pm »

l'Unità TV > Interviste
Umberto De Giovannangeli   
· 8 gennaio 2017

“Usa-Russia, è la Rete la nuova frontiera della Guerra fredda”

Mondo   
Parla Vittorio Strada, il più autorevole studioso italiano del “Pianeta Russia”
   
«Non siamo di fronte a un fatto isolato, ma a un strategia pianificata a tavolino che avrà altri momenti di attuazione. La frontiera della nuova “Guerra fredda” è quella che ha come campo di battaglia la rete. E su questo tavolo il gruppo dirigente russo ha puntato tutte le sue carte». A sostenerlo è il più autorevole studioso italiano del «pianeta Russia»: il professor Vittorio Strada. In questi giorni è in uscita il suo saggio, quanto mai di attualità, Impero e rivoluzione. Russia 1917-2017 (Marsilio Editori).

Professor Strada, l’intelligence Usa conferma: Putin ordinò d’influenzare il voto per le presidenziali che hanno «incoronato» Trump. Qual è il segno di questa ingerenza che il nuovo inquilino della Casa Bianca ha minimizzato ma non smentito?
«Indubbiamente ci troviamo a dover fare i conti con una svolta clamorosa, direi decisiva nella storia dei rapporti tra potenze. Lo scontro avviene ormai in forme mediatiche, viaggia nella rete, a “combatterlo” non sono soldati ma hacker. E questo tipo di conflitto viene teorizzato apertamente dagli strateghi della politica russa che attribuiscono alla rete un ruolo essenziale, addirittura di carattere strategico. E quella di cui stiamo parlando sarebbe la prima forma di un intervento diretto in una fase decisiva nella vita politica americana come sono le elezioni presidenziali. Quanto sia stata davvero pervasiva questa “ingerenza informatica” russa non è dato ancora sapere e forse non lo si saprà mai, ma basta il riconoscimento del fatto che ci sia stata per parlare, appunto, di una svolta clamorosa. Clamorosa e non episodica. Nel senso che questo non è che l’inizio di una forma di intervento che certamente, in questo caso in particolare, avrà conseguenze politiche di lunga durata».

Lunga quanto?
«Non azzardo previsioni temporali, ma quel che è certo è che il contrasto tra Russia e Stati Uniti, e più in generale tra la Russia, i suoi vecchi e nuovi alleati e l’Occidente, è già entrato in una fase di turbolenza nuova, di cui la tutt’altro che risolta crisi ucraina e ancor più la guerra in Siria sono le espressioni più evidenti, con una grande incognita, e cioè la linea di comportamento che sarà tenuta nei fatti, al di là delle dichiarazioni in campagna elettorale, dal nuovo presidente americano. In proposito, va sottolineato come nel mondo politico ufficiale russo, c’è una grandissima aspettativa per una svolta radicale nei rapporti tra le due potenze e questo sulla base della nuova linea di politica internazionale che viene attribuita a Trump».

Influenza il voto americano, si pone al centro della partita mediorientale: siamo all’apoteosi dello “Zar del Cremlino”?
«Vede, l’errore che si commette spesso nel raccontare le vicende russe, è quello dell’estrema personalizzazione, ritenendo che si sia di fronte, per l’appunto, a uno “zar ”. Nessuno può negare la forte personalità di Putin ma ciò non deve mettere in ombra l’affermarsi di una forma mentis, di una ideologia che sono proprie di una élite dirigente di cui certamente Putin è l’espressione più alta e non solo per la carica che ricopre. Alcuni commentatori politici si spingono a parlare di una fase “post putiniana”, anticipando i tempi, ma io penso che se anche uscisse di scena, ipotesi al momento fantascientifica, questa tendenza permarrebbe, perché è preparata da tutta un’azione che chiamerei politico-culturale, la quale attribuisce alla Russia il ruolo di leadership, addirittura etico-politica, rispetto a un Occidente in fase di decadenza».

In precedenza, Lei ha fatto riferimento alle aspettative dei circoli politici russi sulla presidenza Trump. C’è un ambito in particolare dove queste aspettative si orientano maggiormente?
«L’aspettativa riguarda un accordo globale, di carattere politico ed economico. L’intervento russo in Siria, che adesso, a missione compiuta, va riducendosi, è stato con tutta evidenza un intervento a favore del regime di Assad, tuttavia la richiesta fatta dalla dirigenza russa alle potenze occidentali, e in primo luogo agli Usa, è stata quella di un rinnovo dell’alleanza antifascista della Seconda guerra mondiale, riattualizzata in chiave di lotta al terrorismo dell’Isis. Questo ha rimescolato le carte sul piano dei rapporti tra gli Stati e in questo senso il caso della Turchia è il più significativo. In Russia addirittura qualcuno ha azzardato l’ipotesi di una uscita di Ankara dalla Nato. Di certo, il nuovo presidente americano e l’Europa si trovano a dover fare i conti con una situazione profondamente mutata rispetto a quella dei tempi recenti, e per l’Europa, intesa come Ue, questo rappresenta, ancor più che per gli Stati Uniti, una sfida politica cruciale, in quanto l’Europa è priva di una sua politica estera e di difesa condivisa e di una visione strategica, deficit ancora più gravi sotto l’impatto dei problemi migratori».

Nel pieno della crisi, armata, ucraina, Barack Obama, grande sostenitore delle sanzioni contro Mosca, definì la Russia una “potenza regionale”. Alla fine, a vincere è stato Putin?
«In quel caso, ma non solo in quello, Obama dimostrò di non aver capito la nuova politica estera russa. È chiaro che il gruppo dirigente russo ha dato una preminenza alla politica estera rispetto a quella interna, investendo nella prima tutti i mezzi e le risorse disponibili. I sostenitori della “marginalità” russa pongono l’accento sul fatto che la Russia attuale è una potenza economica del tutto secondaria sul piano mondiale, ma si dimentica, o si sottovaluta erroneamente, che la Russia è una super potenza nucleare che a suo tempo ha ricevuto dall’Ucraina il monopolio degli armamenti nucleari sovietici. E una potenza nucleare di questa portata, enorme, non può essere declassata a potenza “regionale” come ha fatto Obama. In definitiva, si può sostenere, a ragion veduta, che il gruppo dirigente russo guidato da Putin si è dimostrato il più abile giocatore sul piano internazionale. Resta da vedere se si tratta di un bluff o di una vera superiorità destinata a pesare nel tempo nella grande partita che è in corso. Per il momento il vincitore sta al Cremlino, è Vladimir Vladimirovič Putin».

Da - http://www.unita.tv/interviste/usa-russia-e-la-rete-la-nuova-frontiera-della-guerra-fredda/
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« Risposta #174 inserito:: Febbraio 26, 2017, 12:27:47 am »

   Interviste
Umberto De Giovannangeli   
· 17 febbraio 2017

Salvadori: “Giusto evitare scissioni ma l’eterna guerriglia è un danno”

Lo storico: «Il germe della divisione gettato dal giorno dell’elezione di Renzi a segretario sentito come un intruso. Io mi auguro che sia confermato»
Il Pd, tra rischio scissione e un possibile “Nuovo Inizio”. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli storici italiani: Massimo L. Salvadori, professore emerito all’Università di Torino. Professor Salvadori, sul Partito Democratico sembra aleggiare lo spettro della scissione.

Come legge questa vicenda? Siamo al capolinea di un progetto politico?

«In tema di scissione, siamo ancora su terreno delle ipotesi; anche se ormai vi sono segni vistosi che dall’ipotesi si stia passando alla realtà. Il germe della scissione è stato gettato dal giorno dell’elezione a segretario del partito di Matteo Renzi, quando si vide che la minoranza del partito non accettava, non solo politicamente ma anche psicologicamente, l’ “intruso “come proprio leader; dopo di allora i contrasti non hanno smesso di crescere fino a raggiungere il culmine nel corso della campagna del referendum costituzionale. Se si arriverà alla scissione anche in termini formali, non resta a questo punto che aspettare. Per un partito la scissione è la constatazione di una insuperabile incompatibilità tra componenti opposte. Una scissione è un danno grave.  Ma, quando i contrasti superano una certa soglia, ci si deve domandare dove stia il danno maggiore: se nel persistere in una unità solo apparente o nel tirare le somme di fronte ad una situazione che danneggia un partito all’interno e all’esterno. Cercare di evitare la scissione è un dovere, ma il prezzo dell’evitarla non può essere una continua guerriglia che sconcerta elettori e iscritti, indebolisce la leadership e alimenta confusione e al limite porta alla paralisi. Le scissioni sono state un male ricorrente nella storia della sinistra italiana e l’hanno sempre indebolita; e questo dovrebbe attivare senso di responsabilità e prudenza. Sennonché, ripeto, quando la volontà di stare insieme cessa, non rimane che prenderne atto. Se siamo o non siamo alla fine del progetto politico dell’odierno Pd, a decretarlo saranno coloro che opteranno per la scissione».

Il confronto-scontro sembra accentrarsi sulle regole, i tempi congressuali, le modalità del dibattito. Ma sono proprio questi l’oggetto del contendere oppure, come alcuni analisti sostengono, alla base vi è il fallimento di quella fusione fredda tra Ds e Margherita da cui è nato il Pd?

«Non entro qui nel merito della fusione tra Ds e Margherita. Ma osservo che attualmente le linee di demarcazione interna al Pd mostrano dal lato della maggioranza il convergere di personalità provenienti sia dalla Margherita che dai Ds, come è apparso nello scontro sulla riforma della Costituzione che ha fatto precipitare i contrasti».

Questione di contenuti, di visioni. Ma anche questione di leadership. E dunque, Matteo Renzi. Si è detto e scritto che ad animare il segretario del Pd sia una irrefrenabile volontà di rivincita. È così?

«Le visioni di un partito si esprimono nei contenuti del suo programma. E il prossimo congresso del Pd è chiamato a dotarsi di un programma chiaro ed efficace atto a convincere le menti e ad allargare l’area del consenso. Occorre sventare il pericolo che il congresso diventi in primo luogo la sede in cui malamente “regolare i conti” tra le opposte correnti (anche se misurare i reciproci rapporti di forza e trarne le conseguenze è fisiologico nella vita di qualsiasi partito). Circa il programma, credo che si debba dare ascolto a Orlando quando insiste sull’opportunità di dedicare le energie necessarie a che si arrivi al congresso con un bagaglio di idee e proposte che sappia offrire risposte all’altezza dei difficili problemi della società nazionale. Ma questo richiede un grande sforzo tanto necessario quanto indifferibile per dimostrare che il Pd possiede le indispensabili risorse in fatto di cultura politica. Renzi è animato da una irrefrenabile volontà di rivincita? Mi limito in proposito a due considerazioni. La prima che è proprio di un leader che sia tale avere la volontà di reagire a una sconfitta come quella subita il 4 dicembre. Alle primarie e al congresso metterà in gioco la sua leadership e si vedrà come ne uscirà. Io –per quanto valga la mia opinione –mi auguro che venga confermato, poiché ritengo che, quali che siano i suoi difetti e limiti, egli abbia una forza personale e una capacità di direzione che fanno spicco; e penso che la sua sconfitta di dicembre sia stata anzitutto una grande sconfitta per il Paese e che non possa mettere in ombra i successi che ha ottenuto nella guida del governo».

Nel pensare al futuro della sinistra, non solo in Italia ma in Europa, spesso si evoca un ritorno al pensiero socialista e socialdemocratico. Come a dire: se la sinistra è oggi in crisi, è perché ha abbandonato o addirittura tradito la sua migliore tradizione.

«Premetto che da tempo sono e oggi resto un convinto socialdemocratico. Nessuno che abbia anche solo un poco di sale in zucca può non ammettere che la socialdemocrazia è a livello internazionale in crisi profonda nelle sue linee ideali, programmatiche e pratiche. Ma non condivido la tesi di chi sostiene che la storia abbia mandato in soffitta insieme comunismo e socialdemocrazia. Il comunismo è finito in una crisi epocale senza possibilità di ritorno; la socialdemocrazia –che ha dato in passato le prestazioni più alte nel campo della giustizia sociale (anche se relativa) –continua a consegnarci un messaggio di vita civile, di equità, di lotta alle diseguaglianze che, pur bisognoso di tutti gli aggiornamenti resi indispensabili dai tumultuosi mutamenti avvenuti nella società, non ha pari e mantiene piena attualità. Lo dice bene Martin Schulz. Renzi dal canto suo ha avuto il merito di portare il Pd nel seno del Partito socialista europeo, evidentemente comprendendo il significato di fondo di quel messaggio. Certo, io lo vorrei più socialdemocratico».

Da - http://www.unita.tv/interviste/salvadori-giusto-evitare-scissioni-ma-leterna-guerriglia-e-un-danno/
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« Risposta #175 inserito:: Giugno 25, 2017, 04:16:03 pm »

ESTERI
Svolta in Arabia Saudita, il vecchio re Salman accantona il nipote per promuovere il figlio. Ringiovanire per perpetuare il dominio politico ed economico
Obiettivo ringiovanire la leadership e rilanciare la dinastia. Priorità ridurre la dipendenza dal petrolio e rinsaldare la leadership della Nato araba

 21/06/2017 13:44 CEST | Aggiornato 9 ore fa

Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam

Terremoto in "Casa Saud". Una successione che rivoluziona la scala gerarchica della petromonarchia più nevralgica del Golfo Persico: l'Arabia Saudita. Una "rivoluzione" dinastica che ha un marcato segno generazionale. Ringiovanire per perpetuare il proprio dominio, un'asserzione che vale anche nel regno del fondamentalismo wahabita. La notizia fa il giro del mondo: re Salman dimette il principe ereditario e nipote Mohammed bin Nayef, e promuove al suo posto il figlio Mohammed bin Salman che fino a ieri era il vice principe ereditario.

È un cambio politico destinato a pesare fortemente sul futuro del Regno Saud e sull'intero scenario mediorientale. A farlo intendere è la personalità del trentunenne erede al trono: da ministro della Difesa ha spinto per l'intervento militare in Yemen, la linea dura nei confronti dell'Iran, e il blocco nei confronti del Qatar, sospettato di finanziare i movimenti jihadisti legati ai Fratelli musulmani. Il cambiamento dà al principe Mohammed maggiore autorità nel mettere punto il suo piano, "Vision 2030", per ridurre la dipendenza del regno saudita dal petrolio. Il piano prevede fra le prime mosse importanti la vendita di una partecipazione del gigante petrolifero Saudi Aramco e l'inclusione di altre attività sotto il controllo del fondo sovrano nazionale.

L'obiettivo è più che ambizioso: cambiare totalmente il volto della nazione più importante del mondo arabo nei prossimi 13 anni. Cambiarlo quanto meno sul piano economico se non nell'introduzione di importanti riforme politiche e di costume (in particolare sul ruolo delle donne nella vita pubblica e nella sfera familiare).

Con una reputazione di riformatore, il nuovo erede al trono cumulava finora diversi incarichi: titolare della Difesa, secondo vicepremier, consigliere speciale del re e presidente del Consiglio degli affari economici e dello sviluppo, organismo che guida la compagnia petrolifera Aramco, la prima al mondo. La sua nomina come erede al trono è stata confermata da 31 dei 34 membri del Consiglio di fedeltà, secondo la televisione di stato El Ikhbariya. Questa istituzione ha il ruolo di designare il principe ereditario a maggioranza. E' stato creato in seguito a una riforma nel 2006.

Nell'ambito delle modifiche, l'attuale principe ereditario Mohammed bin Nayef, nipote del re, è spogliato di tutte le sue posizioni, inclusa quella di ministro degli interni, riporta l'agenzia di stampa statale mentre il nuovo principe ereditario mantiene il ruolo del ministro della Difesa e diventa vicepremier.

Mohammed bin Salman presterà giuramento stasera al palazzo al-Safa alla Mecca dopo la preghiera notturna del Tarawih. Lo ha stabilito lo stesso sovrano, come riporta l'agenzia di stampa ufficiale saudita Spa. Re Salman inoltre ha nominato con un decreto il principe Faisal bin Sattam bin Abdulaziz Al Saud come nuovo ambasciatore della monarchia in Italia con il rango corrispondente a quello di ministro. L'attuale ambasciatore saudita in Italia, Rayed Khalid Krimly, è in carica dal 2015. Tra le varie nomine decise nelle ultime ore, re Salman ha anche scelto il principe Khalid bin Bandar bin Sultan bin Abdulaziz Al Saud come nuovo ambasciatore della monarchia in Germania.

Che il giovane e ambizioso MBS (così è anche conosciuto) sia un uomo ambizioso e dalle idee chiare è confermato dal suo breve ma già intenso percorso politico. E non va sottovalutato il fatto che il nuovo erede abbia ottimi rapporti con Washington che non guastano in una fase in cui l'amministrazione Trump ha particolarmente spinto un riavvicinamento con gli alleati del Golfo. Ma la scelta del vecchio e malato re Salman non era nell'immutabile essere di una dinastia che conta più di 7mila principi. E' una scelta di discontinuità in un Regno che ha rinviato nel tempo qualsiasi elemento di discontinuità. Da questo punto di vista, la nomina di MBS rappresenta la presa d'atto da parte dell'ottuagenario re che il Regno andava puntellato ringiovanendole la leadership. Ma questo, a ben vedere, più che una prova di forza è un segno di debolezza o comunque d'incrinatura all'interno della famiglia allargata saudita. Perché ora c'è da vedere come reagirà il defenestrato l'ormai ex principe ereditario e nipote Mohammed bin Nayef.

Di certo, l'astro nascente, e affermato, della politica saudita imprimerà una ulteriore accelerazione alla crisi aperta con il Qatar. "Quel che è già evidente riflette in proposito Rami Khouri, tra i più autorevoli giornalisti libanesi - è la determinazione di alcuni Paesi arabi, guidati dall'Arabia Saudita, a ricorrere alla guerra economica e militare, a tattiche di deprivazione alimentare e ad altri mezzi pur di mantenere il mondo arabo nella sua fatiscente condizione attuale. È questa la reale minaccia che pende sui cittadini e le società del mondo arabo".

L'ambizioso obiettivo di MBS è quello di riportare sotto il pieno controllo saudita la "Nato araba", oggi profondamente spaccata. Ed è una lacerazione che porta con sé rischi di stabilità fortissimi non solo per il piccolo, ma ricchissimo, emirato qatarino, ma anche per la stessa Arabia Saudita.

Sullo sfondo di questa aspra contesa per la leadership nel mondo sunnita, c'è il rapporto, o per meglio dire, il mai sopito conflitto con il Paese guida dell'universo sciita: l'Iran. Qatar, Kuwait e Oman conservano da sempre rapporti più cordiali con Teheran. Il Qatar condivide nel Golfo Persico il più grande giacimento di gas al mondo, la fonte della sua immensa ricchezza, e ha tutto da perdere in una guerra aperta con l'Iran. Le posizioni sono poi diverso sul piano ideologico. Il Qatar ha come religione di Stato lo stesso wahabismo dei sauditi ma appoggia anche formazioni salafite "rivoluzionarie", come i Fratelli musulmani, che si sono sempre schierate contro la Casa dei Saud e vogliono abbatterla. "In questa ostilità accesa – rimarca Giuseppe Dentice, Associate Researcher ISPI - il rischio è che il protrarsi della contrapposizione tra Qatar e Arabia Saudita possa tramutarsi in un nuovo squilibrio geopolitico per l'area Golfo, con immediate e non meno pericolose ricadute ancor più destabilizzanti per l'intera regione mediorientale. Una crisi diplomatica e geopolitica, dunque, suscettibile di generare un nuovo corso politico nel Golfo".

MBS è chiamato, sul piano interno, a coniugare fermezza e rinnovamento, tradizione religiosa e modernizzazione economica, e sul fronte esterno, rafforzare i legami con l'alleato della Casa Bianca evitando, al tempo stesso, di spezzare completamente i legati (fatti di sostegno finanziario per condurre guerre di procura) con i movimenti che al wahabismo saudita si ispirano. Un'impresa titanica anche per un giovane ambizioso e determinato come MBS.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/06/21/svolta-in-arabia-saudita-il-vecchio-re-salman-accantona-il-nipo_a_22496975/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #176 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:03:54 pm »

ESTERI

Torture, sovraffollamento, malnutrizione, caldo, malattie.
L'inferno dei 12 centri di "accoglienza" libici
Cartoline dall'inferno dei luoghi sparsi fra Tripolitania e Cirenaica in cui i migranti diventano "merce" politica nella guerra per il potere

 07/08/2017 18:10 CEST | Aggiornato 14 ore fa

Umberto De Giovannangeli
Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam

Ora, non sono più solo "merce" buona per ingrossare gli affari milionari dei trafficanti di esseri umani. Ora, la massa di disperati che affolla la rotta mediterranea è diventata anche "merce" politica utilizzata dai signori della guerra libici, mascherati da improbabili statisti, per essere riconosciuti dall'Europa come i nuovi "Erdogan".

Sono almeno dodici, a quanto risulta all'HuffPost attraverso l'incrocio di fonti vicine al parlamento di Tobruk e a quello di Tripoli, i centri di detenzione nei quali vengono ammassati, in condizioni disumane, decine di migliaia di persone, senza distinzioni di età e di sesso, che dall'Africa subsahariana hanno raggiunto il Paese nordafricano. Che vi sia una collusione tra elementi, anche ai livelli più alti, della Guardia Costiera libica e le organizzazioni dedite al traffico di esseri umani, l'HuffPost lo aveva denunciato in tempi non sospetti, e ora questa collusione è confermata anche dalle accuse della Procura di Trapani.

Ma il punto di svolta, quello su cui si fatica ancora a ragionare, è che una tragedia umanitaria si sta trasformando in un'arma del fare politica nello Stato fallito, e tripartito, di Libia. Le fonti che hanno parlato con HuffPost concordano nel ricostruire un quadro nel quale affari e politica s'intrecciano indissolubilmente, chiamando in causa tutti i principali attori che, armi alla mano, si muovono nel caos libico. Una parte, almeno sette, di questi centri di detenzione si trovano sul territorio controllato da milizie-tribù che ancora hanno giurato fedeltà al governo di Accordo nazionale guidato da Fajez al-Serraj, il premier sostenuto dall'Italia e riconosciuto, a parole, dall'Onu.

Gli altri cinque centri si trovano, invece, sulla costa attorno a Sirte e ai confini tra la Libia e la Tunisia, dove ad operare sono milizie e tribù che hanno come riferimento l'uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar e, nel deserto tra Libia e Tunisia, nella sporca partita ci sono anche milizie jihadiste legate all'Isis. Una delle più agghiaccianti case dell'orrore si trova a Sabratha, uno dei porti clandestini d'imbarco dalla Libia verso l'occidente, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli e meno di 100 dal confine con la Tunisia. I migranti vengono rinchiusi in questo casermone, costretti a subire per mesi la crudeltà dei trafficanti di essere umani.

Altri due famigerati centri di detenzione si trovano nella località di Zuwara,, mentre tre si trovano in località Tajura. Zuwara è la nota località di imbarco utilizzata dalle bande di trafficanti, si trova a ovest di Tripoli. Tajura è 30 chilometri a est della capitale libica. Uno scafista marocchino, tunisino o egiziano riceve tra i 20 e i 30 mila euro per un viaggio e se riesce a riportare indietro la barca viene pagato il doppio. Se lo scafista è qualcuno dei paesi sub sahariani non riceve alcun pagamento ma può viaggiare gratis. Controllare i centri di detenzione è diventato un aspetto fondamentale della battaglia che vede contrapposti Tobruk e Tripoli, Haftar e Serraj, come, se non di più, del controllo delle aree dove sono presenti i più importanti centri petroliferi della Libia.

Il "modello turco" sta facendo scuola in Libia: il "Sultano di Ankara", al secolo il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, ha usato i quasi 3 milioni di profughi siriani come arma di ricatto nei confronti dell'Europa, ottenendo in cambio 6 miliardi di euro oltre che il silenzio complice rispetto alla "Grande purga" perseguita da Erdogan all'interno. Ankara ha garantito un "tappo" alla rotta balcanica, come voleva la Germania, e ora sia Haftar che Serraj intendono replicare quel modello sulla rotta mediterranea. I disperati intercettati in mare e rispediti indietro diventano così ostaggi nelle mani dei potentati "politici" di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, oltre che arricchire gli schiavisti del Terzo millennio.

Dall'inferno libico giungono altre testimonianze che danno conto di una situazione sempre più degradata: i centri di detenzione sono paragonabili a veri e propri lager, nei quali le persone sono costrette. "Una realtà - spiega Oxfam - fatta di abusi, torture e detenzioni illegali vissuta dalla gran parte dei migranti arrivati in Libia per mano di milizie locali, trafficanti e bande criminali", già denunciata a luglio da Oxfam insieme ai partner Borderline Sicilia e Medu (Medici per i Diritti Umani). "Persone che arrivano in Libia - paese che non prevede alcun sistema di richiesta di protezione internazionale - fuggendo dalla violenza perpetrata nei loro confronti per trovare solo altra violenza".

"A voi amici miei che vi trovate dalle parti dell'Algeria e del Marocco. In Libia non si scherza adesso, amici miei, non cercate neanche di metterci piede. E' disastroso, 80 morti in un massacro non più di una settimana fa. Uccidono i neri per nulla". Sono le parole scritte sul profilo facebook di un immigrato di origini camerunensi ospite di un centro di accoglienza del Centro Sud Italia, parole corredate da una serie di foto raccapriccianti: uomini di colore decapitati, altri con il cranio fracassato, o cadaveri avvolti in coperte. Tutti, comunque, abbandonati in strada, in un quartiere di Tripoli: la mattanza, spiega la nostra fonte, sarebbe avvenuta nel quartiere Gargaresh. Bande criminali in lotta per il controllo del traffico di droga e prostituzione avrebbero aperto una faida in cui sarebbe morto anche un agente di polizia. Per questo le forze di sicurezza all'indomani sarebbero arrivate sul posto per dare una lezione alle gang, coinvolgendo però molti migranti che lì vivono: "C'è un posto in quel quartiere che si chiama Chad, dove ogni mattina i neri si riuniscono per recarsi a lavoro. E' lì che è avvenuta la strage. Sono arrivati coi veicoli blindati, armati fino ai denti, ed hanno massacrato persone innocenti". "Fino a che non ci sarà in Libia uno Stato di diritto e un sistema di asilo funzionante bisogna assolutamente sospendere ogni collaborazione con la Libia", ribadisce Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

La stessa Amnesty International non può entrare nel Paese: "Non ci sono le condizioni per una nostra presenza, né dal punto di vista della sicurezza, né dal punto di vista politico", spiega Noury. Nel frattempo, Amnesty sta raccogliendo centinaia di testimonianze di persone scappate dalla Libia e tutte raccontano storie di schiavitù, compravendita di esseri umani, violenze verso le donne, in particolare quelle cristiane: vengono interrogate sul Corano e, se non sanno rispondere, vengono torturate e stuprate. Se hanno un crocifisso al collo la loro sorte è segnata. E poi ci sono anche i rapimenti a scopo di estorsione: non rilasciano fino a che la famiglia del sequestrato non paga il riscatto. "Queste sono le persone che hanno urgenza di partire dalla Libia e che i Paesi europei stanno invece cercando di bloccare là".

Cartoline dall'inferno. "Quando arrivi in Libia, quello è il momento in cui inizia tutto, quando cominciano a picchiarti", racconta Ahmed, 18 anni, proveniente dalla Somalia e arrivato in Libia nel novembre 2016 attraverso il Sudan. I trasportatori si rifiutavano di dare da bere e a volte sparavano a chi supplicava un goccio d'acqua, come è successo a un gruppo di siriani che stava morendo di sete. "Il primo siriano morto era un giovane, poteva avere 21 anni. Dopo ci hanno dato da bere ma nel frattempo era stato ucciso un altro siriano di 19 anni". I trasportatori hanno rubato gli oggetti personali dei due siriani morti e non hanno permesso di seppellirli. Paolos, 24 anni, un eritreo arrivato in Libia nell'aprile 2016 attraverso Sudan e Ciad, ha raccontato che i trasportatori hanno abbandonato un disabile nel deserto, poco dopo essere entrati in Libia diretti a Sabha. "Hanno gettato un uomo dal pick-up lasciandolo nel deserto. Era ancora vivo. Era un disabile", racconta Paolos.

"Sono stato arrestato da una banda armata mentre stavo camminando per la strada a Tripoli", racconta H.R., 30 anni dal Marocco: "Mi hanno portato in una prigione sotterranea e mi hanno detto di chiedere il riscatto alla mia famiglia. Mi hanno picchiato e ferito diverse volte con un coltello. Violentavano regolarmente gli uomini". "Un giorno, un gruppo di soldati è entrato nella nostra casa", ricorda K.M., 27 anni, originaria della Costa d'Avorio. "Mi hanno picchiata e sono stata violentata davanti a mio fratello e mia figlia". Ramya, un'eritrea di 22 anni, è stata stuprata più di una volta dai trafficanti che la tenevano prigioniera in un campo nei pressi di Ajdabya, nel nord-est della Libia, dove era entrata nel marzo 2015. "Dopo aver bevuto alcool e fumato hashish, le guardie entravano e sceglievano le donne. Poi le portavano fuori. Loro cercavano di opporsi ma quando hai una pistola puntata alla testa, non hai altra scelta se vuoi sopravvivere. Mi hanno stuprata due o tre volte. Non volevo perdere la vita".

Antoinette, 28 anni, proveniente dal Camerun, ha descritto i trafficanti che la tenevano prigioniera nel marzo di quest'anno: "Non gliene importa nulla se sei una donna o un bambino. Ci picchiano coi bastoni, sparano in aria per metterci paura... Avevo con me un bambino, forse per quello non mi hanno stuprata, ma l'hanno fatto alle donne incinte e a quelle che viaggiavano sole". "Abbiamo sentito storie di migranti che sono stati costretti a seppellire vivi degli amici perché si erano fatti male e non potevano camminare e i trafficanti, non volendo fardelli, li hanno costretti a seppellire vive queste persone, chiaramente sotto la minaccia delle armi e i loro amici non hanno potuto fare altrimenti", afferma Flavio Di Giacomo, portavoce dell'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim).

Storie di corpi cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Bastonate sulle piante dei piedi fino a spaccarli. Lesioni alle gambe, alle braccia. Sevizie di ogni tipo. Cadaveri abbandonati come spazzatura per le strade. "Noi dalla pelle nera, ci chiamano animali. E ci trattano da animali", racconta un ragazzo eritreo di 16 anni che ha trascorso quasi un mese e mezzo in un centro di detenzione. Racconta don Mussie Zerai, presidente dell'Agenzia Habeshia per la cooperazione e lo sviluppo: "Sono centinaia i profughi tenuti in condizioni di schiavitù a Kufra", dove "sono costretti ai lavori forzati da uomini armati, che li costringono a maneggiare armamenti pesanti, pulire carri armati, senza cibo ne' con un comunicato denunciava le inumane condizioni dei centri di detenzione libici dove, arbitrariamente, sono rinchiusi migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

La scarsa ventilazione, il sovraffollamento e il trattamento degradante agito nei centri di detenzione a Tripoli e Misurata stanno provocando malnutrizione, malattie della pelle e delle vie respiratorie oltre a gravi problemi di salute mentale. "In 40 anni di carriera non ho mai visto un orrore simile", ha affermato il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, facendo riferimento ai racconti di torture e violenze di cui è accusato Osman Matammud, ritenuto il presunto aguzzino di un campo di raccolta migranti in Libia. Gli orrori peggiori, durante i quali molti perdono la vita, raccontano di torture atroci come la cosiddetta "falaka", effettuata colpendo le piante dei piedi con fruste o oggetti simili, che provocano ferite talmente profonde da impedire alle persone di camminare. E.I. 28 anni, dalla Nigeria, ha ancora i segni di indurimento della pelle perché è stato costretto a continuare il viaggio trascinandosi sulle ginocchia. Vanno per la maggiore anche la tortura da film horror nota come sospensione "da macelleria", appesi con i piedi in alto e la testa in basso o costretti ad assumere altre posizioni stressanti (ammanettamento, in piedi per un tempo prolungato).

Cartoline dall'inferno. Cartoline dalla Libia, dove trafficanti, generali e premier si arricchiscono o usano "politicamente" i disperati della terra.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/08/07/torture-sovraffollamento-malnutrizione-caldo-malattie-linf_a_23068827/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #177 inserito:: Agosto 12, 2017, 05:24:18 pm »

IL BLOG

Giù le mani da padre Zerai, angelo custode dei profughi africani

 10/08/2017 17:33 CEST | Aggiornato 10/08/2017 17:33 CEST

Umberto De Giovannangeli
Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam

La sua storia pubblica parla per lui. Per un sacerdote coraggioso, che ha sposato la causa dei più indifesi. Da anni si batte per aiutare migliaia di disperati a fuggire dall'inferno di guerre, pulizie etniche, regimi sanguinari, povertà assoluta, sfruttamento disumano, disastri ambientali. Per questo, don Mussie Zerai era stato candidato al Nobel per la pace nel 2015. Ed ora si vede accusato di favoreggiamento all'immigrazione clandestina. Il politically correct porta a dire: fiducia nella magistratura, che faccia il suo corso. Ma la storia non può essere riscritta in un'aula di tribunale. Zerai è l'angelo dei profughi africani: da almeno otto anni il sacerdote di origine asmarina riceve chiamate a ogni ora da migranti in difficoltà lungo le rotte africane e in mare. E lui segnala. Lo faceva quando era studente nel collegio etiopico in Vaticano, lo fa ora in Svizzera dove è cappellano della comunità eritrea.

"Certo che invio messaggi alle Ong – conferma don Zerai a L'Avvenire –, di norma avviso Medici senza frontiere, Watch the med, Sea Watch. Pubblico anche su Facebook le coordinate dell'imbarcazione omettendo il numero da cui ho ricevuto la chiamata per evitare che si intasi. Ma non ho mai avuto contatti diretti con i tedeschi della nave Iuventa. Non so se hanno usato i miei messaggi per salvare persone in difficoltà, forse qualcuno glieli ha passati. Ma non erano messaggi privati". Don Zerai non ha mai dimenticato le sofferenze che patiscono ogni giorno, da anni, i suoi connazionali eritrei. Per loro, lo status di rifugiato non verrà mai preso in considerazione, anche se fuggono da uno dei regimi più feroci esistenti sulla faccia della terra, nonostante siano loro a riempire, ancor più dei siriani, le carrette del mare che solcano, e affondano, nel Mediterraneo. Sono i dannati della terra, gli ultimi fra gli ultimi: gli eritrei. I rapporti delle maggiori organizzazioni umanitarie internazionali sono pieni di racconti e testimonianze agghiaccianti: storie di donne violentate e poi venute ai nuovi schiavisti, racconti di abusi e torture indicibili. Amnesty International in un recente report indica che dall'Eritrea scappano mediamente 5mila persone al mese. In questi 10 anni si stima siano fuoriusciti 400mila giovani su una popolazione di sei milioni. Tuttavia per l'Europa gli eritrei fanno parte dell'universo dei "migranti", un universo di "serie b" rispetto a quello dei potenziali asilanti, perché, si afferma, in Eritrea non c'è la guerra. E così nella Nigeria di Boko Haram, nella Somalia degli al-Shabaab, nel Mali dove, nonostante l'intervento francese, è ancora radicata al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi)...È vero, in Eritrea, c'è qualcosa d'altro e, per certi versi, di peggiore: c'è un regime sanguinario, tra i più feroci al mondo, e tuttavia al regime di Asmara, la solidale Ue ha elargito negli ultimi due anni oltre 300 milioni di euro in quota "cooperazione allo sviluppo". Lo sviluppo di una tirannia tentacolare. Una comunità internazionale imbelle e distratta non ha nella sua agenda, neanche agli ultimi posti, il "caso Eritrea". E a smuovere le coscienze dei Grandi della Terra non servono i sempre più allarmanti rapporti delle più impegnate agenzie umanitarie.

L'arrivo in Italia avviene dopo diversi mesi dalla partenza dall'Eritrea e dopo un viaggio attraverso l'Etiopia, il Sudan e la Libia, estremamente rischioso, che può durare anche più di 2 anni. Dai racconti dei minori non accompagnati eritrei incontrati dagli operatori di Save the Children in frontiera emerge che la decisione di partire viene presa dai ragazzi da soli, spesso perché sentono forte la responsabilità di dover provvedere al mantenimento dell'intera famiglia, fin da piccoli. Il primo Paese che incontrano, lasciando l'Eritrea, è l'Etiopia. Per riuscire a raggiungere questo Paese devono attraversare due trincee, raggiungono a piedi il Tigrai, zone situata a nord dell'Etiopia contattando un trafficante che li guida oltre il confine. La situazione al confine è descritta dagli stessi ragazzi come molto pericolosa: riferiscono che molti loro compagni sono rimasti uccisi da militari eritrei. Arrivati in Etiopia, i militari etiopi presenti in trincea, portano direttamente i profughi in diversi campi. Quando riescono ad allontanarsi dai campi, per riuscire ad attraversare la frontiera clandestinamente tra Etiopia e Sudan, devono pagare circa 300 dollari e superare un grande fiume che si chiama Tekese. Esistono trafficanti che fanno attraversare il fiume ai profughi, a piedi, mediante l'utilizzo di animali come cammelli e mucche. In Sudan il percorso è ancora più rischioso per la presenza dei Rashaida, nomadi che si arricchiscono sequestrando e chiedendo ingenti riscatti (fino a 20mila dollari) per rilasciare i migranti. Durante la prigionia subiscono torture e violenze, come l'utilizzo di scariche elettriche. Attraversato il Sudan arrivano in Libia, da soli o ceduti dai trafficanti sudanesi a quelli libici. Trascorrono mesi in carcere da cui possono essere liberati solo a fronte di pagamento o andando a lavorare in condizioni di schiavitù.

Quando riescono a fuggire da queste situazioni resta solo da affrontare il mare per arrivare in Europa, rischiando, ancora una volta la propria vita. In altri casi vengono detenuti dai trafficanti in luoghi isolati, stipati per mesi, in gruppi di anche 40 persone, in un'unica stanza. Rimangono in attesa di partire in un viaggio organizzato dai trafficanti stessi con imbarcazioni fatiscenti. Ma se è vero che senza memoria non c'è futuro, vale la pena riportare alla luce testimonianze che danno conto, più di dotte disquisizioni geopolitiche, di una tragedia che non conquista le prime pagine dei giornali, che non smuove le coscienze, non costruisce mobilitazione dal basso.

Testimonianze come quella di una donna, una dottoressa coraggiosa: Alganesh Fessaha, eritrea, dell'organizzazione non governativa Gandhi: "Non solo eritrei, anche etiopi, somali e persone di altre nazionalità sono in grave pericolo, dopo aver vissuto per mesi nei lager Sinai. Persone che per svariati motivi – racconta - la maggior parte perché perseguitati dai dittatori nei loro Paesi, hanno lasciato affetti e radici alla ricerca di un posticino per poter continuare a vivere, diritto legittimo di ogni persona. Sono stati venduti ai trafficanti di uomini dalle guide a cui si erano affidati mentre attraversavano il Sinai per raggiungere Israele". Trafficanti crudeli, senza alcuna pietà. Donne stuprate davanti ai figli e i loro compagni, uomini e donne, e anche minori, torturati anche fino alla morte dai loro aguzzini. Mentre le vittime erano sotto tortura, i trafficanti di uomini chiamavano le famiglie delle vittime per estorcere denaro; riscatti altissimi, fino a 50.000 – 60.000 dollari, generalmente pagati da parenti lontani in Europa, Usa, Canada ecc. Chi non poteva pagare, spesso veniva ucciso, oppure sottoposto all'espianto degli organi, immessi poi nel mercato nero del traffico di organi. "Quando chiamano per chiedere i soldi del riscatto – aggiunge ancora la dottoressa Fessaha - i prigionieri vengono picchiati, viene loro versata addosso dell'acqua, poi viene attaccata la corrente così che le scosse elettriche li facciano urlare di più". Oppure, per farli gridare, li bruciano con plastica fusa, benzina e acidi. Sentendone le urla e le richieste disperate di aiuto, i parenti raccolgono tutto il denaro che riescono a racimolare indebitandosi, se necessario, o chiedendo aiuto ad altre famiglie. Il pagamento avviene tramite i circuiti internazionali del money transfer".

Un ruolo chiave nei rapimenti lo svolge l'Unità eritrea di controllo dei confini, guidata dal generale Teklai Kifle: questi spesso rapiscono i giovani di 16 e 17 anni, costretti dal regime a completare il ciclo di studi prestando servizio militare per un anno nel campo militare di Sawa. Una volta sequestrati, gli eritrei vengono torturati e rinchiusi in prigioni sotterranee. Le donne vengono stuprate a ripetizione, spesso anche in pubblico, e ai genitori vengono fatte ascoltare le urla dei figli attraverso telefonate durante le sevizie. Per i giovani eritrei viene di solito chiesto un riscatto di 10.000 dollari. Altri profughi, riusciti a fuggire dall'inferno del Sinai, etiopi ed eritrei, raccontano che i trafficanti beduini prendono in consegna gruppi di due-trecento persone per condurli in Israele, ma poi li rinchiudono in container e gabbie metalliche dove vengono picchiati, privati di cibo e acqua, sottoposti a torture, contusioni e scariche elettriche, appesi per i piedi o per le mani. Una di queste sventurate, Fatima, aveva raccontato così la sua tragedia: "Non abbiamo acqua potabile - dice Fatima - dobbiamo bere l'acqua del mare e molti di noi già hanno problemi intestinali. Ci danno da mangiare una pagnotta e una scatola di sardine ogni tre giorni, siamo costretti a vivere incatenati come bestie". "Negli ultimi 15 anni in Eritrea non è cambiato nulla. È un Paese completamente militarizzato che non dà spazio, soprattutto ai giovani che possono sognare un futuro diverso da quello che il regime ha prospettato per loro, ovvero la vita militare fino a 50 anni. L'assenza totale di una prospettiva diversa, di una possibilità di realizzare i propri sogni, come poter continuare gli studi o lavorare dove si desidera, è inaccettabile. In aggiunta c'è totale assenza di qualsiasi libertà, di qualsiasi diritto. I giovani non vogliono essere trattati da schiavi di fatto, perché il servizio militare è diventato una schiavitù legalizzata.

Ecco perché fuggono, vogliono avere un futuro diverso, senza rischiare la vita ogni giorno per qualcosa in cui non credono più". Parole che don Zerai, responsabile della pastorale degli immigrati eritrei ed etiopi in Svizzera e fondatore della Ong Agenzia Habeshia, non smette di ripetere cercando di incrinare così un muro di silenzi e complicità. L'Eritrea è diventata indipendente dall'Etiopia nel 1933: in 22 anni, è stata capace di produrre oltre 360mila profughi su una popolazione di 6 milioni di abitanti. Il "caso Eritrea" chiama in causa l'Europa e, pesantemente, l'Italia. Ogni mese circa 5000 persone, soprattutto giovani, fuggono dal regime di Isaias Afewerki, che nega ogni forma di democrazia, ogni libertà, anche la più elementare, avendo trasformato il Paese del Corno d'Africa in una "galera a cielo aperto". Nel luglio scorso, però, la Commissione ha negoziato con l'Eritrea un nuovo pacchetto di aiuti allo sviluppo, di oltre 300 milioni di euro. A molti non è chiaro come queste risorse verranno impiegate e, nel protocollo d'intesa, non risultano accordi con il governo eritreo sul rispetto dei diritti umani. Una colpevole dimenticanza. In un rapporto di 500 pagine, diffuso dall'Alto Commissariato Onu dei Diritti Umani, non ci sono solo resocontate le ingiustizie del servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato e la negazione di qualsiasi forma di espressione, già denunciati da numerose Ong e attivisti da anni. "Il governo eritreo ha creato un clima di terrore in cui il dissenso è sistematicamente represso, la popolazione è costretta al lavoro forzato e a carcerazioni arbitrarie, tanto da poter parlare di crimini contro l'umanità", dicono i commissari Onu.

Nel rapporto si parla di torture, incarcerazioni arbitrarie, soppressione di ogni libertà, di "governo del terrore" improntato sulla "regola della paura". La Commissione guidata da Sheila B. Keetharuth è arrivata a sostenere che la tortura verso i dissidenti venga applicata come una vera e propria "politica dissuasiva di governo" tanto da essere così diffusa da diventare sistematica. La risposta dell'Europa è in quei 300 milioni di euro elargiti, per il periodo 2014-2020, al regime di Asmara. Anche l'Italia ha riavviato i rapporti di Cooperazione, con un primo stanziamento di circa 2,5 milioni di euro. Il governo italiano è anche promotore del cosiddetto Processo di Khartoum, un piano di cooperazione tra paesi dell'Unione europea e del Corno d'Africa per prevenire la tratta di esseri umani. Difetto, non marginale, dell'operazione è l'inclusione del governo eritreo come interlocutore, quando l'oppressione del regime è proprio il motivo della fuga. Nessuna forma di aiuto economico o di cooperazione servirà a migliorare la situazione fino a quando non sarà avviato un serio percorso di democrazia e rispetto delle libertà fondamentali, suggerivano, inascoltati, i commissari delle Nazioni Unite. E con loro, don Mussie Zerai.

Da - http://www.huffingtonpost.it/umberto-de-giovannangeli/giu-le-mani-da-padre-zerai-angelo-custode-dei-profughi-africani_a_23073666/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #178 inserito:: Settembre 15, 2017, 05:53:04 pm »

ESTERI
Nobel contro Aung San Suu Kyi per il genocidio dei Rohingya. Yunus all'Huffpost: "Fa trionfare una malsana ragion di Stato"
Il "banchiere dei poveri" come Malala, Tutu, Dalai Lama e altri, critico per i silenzi della presidente birmana, che diserterà anche l'Assemblea Onu

 14/09/2017 17:31 CEST | Aggiornato 23 ore fa

Umberto De Giovannangeli
Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam

Nobel contro Nobel. Ovvero, la caduta di un'icona. Un simbolo infangato: Aung San Suu Kyi. La paladina dei diritti umani e della democrazia calpestati dai militari nel suo Paese, il Myanmar, che da presidente sembra aver chiuso gli occhi e rimasta silente di fronte alla brutale repressione dei Rohingya, la minoranza musulmana del suo Paese. Prima Malala, poi Desmond Tutu ora anche Mohammed Yunus, anche loro insigniti del Nobel per la Pace, prendono fortemente le distanze da San Suu Kyi e da una scelta politica dettata da una "malsana ragion di Stato".

C'è chi sta raccogliendo firme perché il comitato norvegese che assegna il Nobel per la Pace compia un gesto senza precedenti: decidere la revoca del riconoscimento alla presidente birmana perché "i suoi silenzi e la copertura alla sanguinosa repressione interna, ledono con i principi fondativi del Premio". Altri, invece, non nascondono il loro dolore e lo smarrimento per un comportamento che confligge con la storia di Aung. Cercano di capire, si appellano a quella che oltre che collega di Nobel è stata un'amica personale, una compagna di viaggio sul cammino delle libertà.

"Una democrazia è tale quando riconosce e rispetta i diritti delle minoranze, siano esse etniche o religiose. Purtroppo ciò che da tempo sta avvenendo in Myanmar va nella direzione opposta" dice all'HuffPost il Nobel per la Pace 2006 Mohammed Yunus, il "banchiere dei poveri", l'ideatore del moderno microcredito in Bangladesh. "Negli anni ho imparato a conoscere Aung San Suu Kyi, ne sono diventato amico. So il prezzo personale che ha pagato per la sua battaglia di libertà, ed è proprio per quei valori condivisi che reputo grave, assordante, il suo silenzio in questa tragica vicenda. È come se una malsana ragion di Stato avesse avuto il sopravvento sul rispetto delle minoranze e dei diritti umani. Per questo - prosegue Yunus - torno a chiederle di parlare, di condannare la repressione in atto, di non esserne complice. Moltissime di queste persone hanno cercato rifugio nel mio Paese, il Bangladesh, ma la situazione, per quel che ne so, diventa ogni giorno più drammatica e insostenibile. E a pagarne il prezzo più alto, come sempre, sono i più indifesi: le donne, i bambini, gli anziani".

Yunus racconta di aver provato diverse volte a contattare la presidente birmana: "Ma lei – dice – non ha mai risposto". E non lo farà neanche dalla tribuna dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite: il portavoce presidenziale ha annunciato che Aung San Suu Kyi non parteciperà all'Assemblea Generale dell'Onu prevista la prossima settimana a New York. La scorsa settimana il segretario generale Antonio Guterres aveva annunciato di voler inserire nell'agenda dell'Assemblea la questione della crisi della minoranza etnica islamica dei Rohingya, in fuga dalle violenze nello stato del Rakhine, nella Birmania occidentale. Una scelta destinata a rinfocolare le polemiche e a spiazzare ancor di più quanti chiedevano parole chiare e coerenza a quella che per anni è stata vista, a livello internazionale, come il simbolo della lotta per la democrazia.

Un comportamento censurato, con parole impregnate di delusione di dolore, da un altro "mito", assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime di apartheid in Sudafrica: Desmond Tutu. Così scrive l'ottantaseienne Nobel per la Pace 1984: "Sono ormai anziano, decrepito e formalmente in pensione, ma rompo il mio voto a rimanere in silenzio sugli affari pubblici spinto da una tristezza profonda per il dramma dei Rohingya, la minoranza musulmana nel tuo paese. Per anni ho avuto una tua fotografia sulla mia scrivania per ricordarmi dell'ingiustizia e del sacrificio che hai sopportato per via del tuo amore e del tuo impegno a favore della gente del Myanmar. Sei stata simbolo della giustizia". E ancora: "Il tuo ingresso nella vita pubblica ha alleviato le nostre preoccupazioni per la violenza perpetrata ai danni dei Rohingya. Ma ciò che alcuni hanno definito "pulizia etnica" e altri "un lento genocidio" non si è fermato, e anzi di recente si è accelerato. Mia cara sorella: se il prezzo politico della tua ascesa alla più alta carica del Myanmar è il tuo silenzio, allora quel prezzo è troppo alto. Un Paese che non è in pace con se stesso, che non riconosce e non protegge la dignità e il valore di tutta la sua gente non è un Paese libero. È incoerente che un simbolo di rettitudine guidi un simile Paese e questo accentua il nostro dolore".

Dal 25 agosto, oltre 400.000 rohingya sono scappati dal Myanmar per andare verso il Bangladesh, e altre migliaia stanno arrivando ogni giorno. Secondo le prime stime, circa il 60% di loro sono bambini. Il numero cospicuo di rifugiati ha messo sotto pressione i campi per rifugiati preesistenti, con i nuovi arrivati che cercano un rifugio ovunque trovino spazio. "C'è una grave carenza di tutto, soprattutto di rifugi, cibo e acqua pulita" afferma Edouard Beigbeder, rappresentante dell'Unicef in Bangladesh. "Le condizioni sul posto mettono i bambini in serio pericolo di contrarre malattie legate all'acqua. Abbiamo un grandissimo compito di fronte a noi: proteggere questi bambini estremamente vulnerabili." Una protezione che chiama in causa Aung San Suu Kyi.

Dal più anziano alla più giovane Nobel per la Pace, Malala, premiata nel 2014. "Negli ultimi anni ho più volte condannato questo trattamento tragico e vergognoso. Sto ancora aspettando che la mia compagna di Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi faccia lo stesso". Più che un appello, quello di Malala Yousafzai – pachistana, venti anni, premiata per aver difeso il diritto delle ragazze all'istruzione e per ferita e questo condannata a morte dai talebani - suona come un possente j'accuse. In un comunicato diffuso su Twitter, Malala ha lanciato un appello condiviso oltre 10 mila volte in meno di 12 ore: "Ogni volta che guardo le notizie mi si spezza il cuore per le sofferenze di quel popolo. Chiedo che si fermi la violenza. Oggi abbiamo visto le foto di bambini uccisi dalle forze di sicurezza del Myanmar. Questi bambini non hanno fatto male a nessuno, eppure le loro case sono state incendiate e rase al suolo". Alla sua collega di Nobel la giovane pachistana chiede assunzione di responsabilità, E ripete, per tre volte, lo stesso concetto: "Sto ancora aspettando". Aspettando parole di condanna e un impegno a porre fine a quella che appare come una vera e propria "pulizia etnica".

Una richiesta rilanciata da un'altra Nobel per la Pace: la yemenita Tawakkul Karman, premiata nel 2011, firmataria di un appello alla leader birmana sottoscritto anche da Emma Bonino e Romano Prodi. Quello sollevato da Yunus e Tutu è il grande e irrisolto tema del rapporto tra valori e potere, tra denuncia e governo, tra testimonianza e assunzione di responsabilità alle massime cariche politiche e istituzionali. Un tema che con Aung San Suu Kyi si coniuga al femminile.

Riflette in proposito Nawal El Saadawi, l'autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. Medico, psichiatra, già docente alla Duke University, Nawal El Saadawi, 86 anni, è autrice di romanzi, racconti, commedie, memorie, saggi. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. "Alle donne – dice la scrittrice all'HuffPost – viene sempre e comunque chiesto di più: più coraggio, più coerenza, come se ogni volta e in ogni campo dovessimo superare un esame per dimostrarci all'altezza. È la prova a cui oggi Aung San Suu Kyi è di nuovo chiamata. Stavolta, va aggiunto, con qualche fondata ragione, perché in gioco c'è il rispetto dei diritti, primo fra tutti alla vita, di migliaia di persone. Non intendo ergermi a giudice, non esprimo sentenze. In questa triste vicenda torna prepotentemente il tema del rapporto con il potere, con i compromessi a cui si è disposti a scendere per salvare non un posto di comando ma quello che si ritiene, a torto a ragione, un bene superiore. Di certo – aggiunge El Saadawi – la migliore risposta non è il silenzio né invocare la ragion di Stato. Governare significa sporcarsi le mani ma non la coscienza, e il compromesso non può arrivare al punto di ledere quei valori che hanno guidato la propria esistenza. Il peso del ruolo che ricopre può diventare a un certo punto insopportabile. Allora, se non si ha pienezza dei propri poteri, rinunciare a un potere dimezzato non è una fuga ma un atto di coraggio. Ecco, è questo che mi sentirei di dire oggi ad Aung San Suu Kyi".

Alla presidente birmana si appella anche il numero uno dei buddismo tibetano e Premio Nobel per la Pace 1989, il Dalai Lama, chiedendo a lei - buddista, ma appartenente a un'altra corrente - di trovare una soluzione pacifica alla crisi in Myanmar che ha portato 300mila musulmani Rohingya a fuggire dal Paese. "Mi appello a te e agli altri leader di raggiungere tutte le sezioni della società per tentare di ristorare relazioni amichevoli tra la popolazione in uno spirito di pace e riconciliazione", ha affermato il capo spirituale in esilio del Tibet in una lettera ad Aung San Suu Kyi. Parlando coi giornalisti, il Dalai Lama ha inoltre richiamato la figura del Buddha, "Le persone che minacciano i musulmani, dovrebbero ricordare il Buddha", ha detto il religioso. "Lui – ha continuato – avrebbe dato aiuto a quei poveri musulmani. Io lo sento. Sono molto triste".

Tristezza. È questo, in fondo, il filo che lega le considerazioni, anche le più severe, fin qui registrate. Tristezza e volontà di capire cosa spinge una donna coraggiosa al silenzio e alla difesa di qualcosa che appare indifendibile. Il potere ancora forte dei militari, la forzatura manipolatrice di una stampa che vede persecuzioni dove non esistono, si affrettano a spiegare i difensori di Aung. Troppo poco, troppo debole, anche per chi vive una realtà di frontiera, tutt'altro che pacificata, qual è ancora oggi Myanmar.

Una riflessione, da donna a donna, viene da un altro Paese di frontiera: Israele. "Vivo in un Paese da sempre in trincea – dice ad HuffPost Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare, paladina dei diritti delle donne israeliane – e a volte, forse troppo, si sono giustificate azioni repressive in nome dell'interesse nazionale, tirando in ballo anche la ferita più lancinante nella storia del popolo ebraico: la Shoah. E so bene, per averlo vissuto di persona – aggiunge la figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni. Il generale Moshe Dayan – quanto pesino decisioni che non sono in sintonia con i principi in cui si crede. So il dolore che si prova quando si è costretti a scendere a patti con la propria coscienza. Ma è proprio qui – conclude Yael Dayan – che si misura la statura di un leader, nella capacità di non tradire l'ideale di giustizia per il quale si è combattuto per una vita. Spero che Aung San Suu Kyi superi anche questa prova, forse la più difficile nella sua sofferta vita".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/09/14/nobel-contro-aung-san-suu-kyi-per-il-genocidio-dei-rohingya-yunus-allhuffpost-fa-trionfare-una-malsana-ragion-di-stato_a_23209106/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #179 inserito:: Settembre 25, 2017, 11:29:53 am »

ESTERI
"Due popoli, due Stati è ormai impraticabile, serve uno Stato binazionale".
Intervista ad Abraham Yehoshua

Lo scrittore israeliano vede un "orizzonte cambiato" nel rapporto fra Israele e Palestina. "Ora è importante la prosa più che la poesia"
 21/09/2017 16:55 CEST | Aggiornato 22 minuti fa

Umberto De Giovannangeli
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TEL AVIV - La sua passione civile e lucidità intellettuale resistono al trascorrere del tempo, così come la capacità politica e culturale di spiazzare gli interlocutori, con considerazioni che rappresentano un "sasso" di sagacia e immaginazione lanciato nell'acqua stagnante del dibattito in Israele e in Palestina. Un pragmatico sognatore: questo è Abraham Yehoshua, tra i più affermati e conosciuti a livello internazionale scrittori israeliani.

Prima di rientrare in Italia dalla loro missione in Israele e in Cisgiordania, Roberto Speranza e Arturo Scotto lo hanno incontrato nella residenza dell'ambasciatore italiano nello Stato ebraico, Gianluigi Benedetti. Per anni Yehoshua è stato un tenace sostenitore di una pace fondata sulla separazione: due popoli, due Stati. Ma ora l'orizzonte è cambiato, ragiona lo scrittore israeliano, è l'idea dei due Stati rischia di diventare una sorta di mantra ripetuto stancamente pur di non fare i conti con la realtà: e la realtà, annota Yehoshua, impone di abbracciare un'altra causa, di tentare un'altra strada: quella di uno Stato parzialmente binazionale, che riguardi, almeno in prima battuta, i palestinesi della West Bank e di Gerusalemme Est: "Da democratico – sottolinea con foga Yehoshua – non possono rinunciare al principio che tutti i cittadini devono essere eguali di fronte alla Legge, senza distinzione per appartenenza etnica o religiosa. Come progressista, guardo con preoccupazione al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e credo che in questo momento è importante la prosa più che la poesia, e ciò significa che riconoscere agli abitanti della Cisgiordania diritti sociali di primaria importanza, quali sono, ad esempio, il diritto alla sanità e alla pensione, sia un tratto fondamentale, perché tangibile, di ciò che può volere dire uno Stato binazionale. Prendere atto della realtà non vuole dire subirla, ma neanche cancellarla in nome di una idea, quella dei due Stati, divenuta ormai impraticabile".

Mette definitivamente nel cassetto l'idea di una pace fondata sul principio "due popoli, due Stati"? Insomma, Abraham Yehoshua corregge se stesso?

"Non sono tipo da parlare in terza persona, non mi ritengo così importante, però stiamo al gioco: Abraham Yehoshua, dopo cinquant'anni nei quali ha sostenuto e battagliato per questa prospettiva, ha preso atto che il tempo e gli uomini l'hanno resa impraticabile. E non mi riferisco solo alla destra israeliana, ma anche alla dirigenza palestinese. Prenderne atto non significa, però, accettare lo status quo e dimenticare la condizione di oppressione nella quale vivono i palestinesi. D'altro canto il fatto che tutti, da Netanyahu ad Abu Mazen, continuano a far riferimento a "due Stati", significa che c'è qualcosa che non va, che non funziona. Significa che 'due popoli, due Stati' è diventato un mantra che viene ripetuto per mettersi a posto la coscienza, specie in Europa, e chiudere gli occhi di fronte ad una realtà che questa prospettiva nega. Oggi il gap per quanto riguarda le condizioni di vita tra Israeliani e Palestinesi è cresciuto enormemente, la forbice si è allargata. Personalmente non me la sento di considerare questo, il peggioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi, come un fatto secondario, irrilevante rispetto ai grandi disegni politici. Sarò diventato un vecchio pragmatico, ma non un cinico che se ne frega di come vivano centinaia di migliaia di palestinesi a poche decine di chilometri dalla mia città (Haifa, ndr). Da democratico, penso che ogni cittadino debba essere uguale di fronte alla Legge e godere degli stessi diritti sociali e civili. E questo può avvenire solo in uno Stato binazionale"

Vorrei tornare all'idea dei due Stati. In precedenza, Lei ha affermato che a renderla impraticabile non è stata solo la politica dei governi, come quello attuale, della destra. E' un j'accuse alla dirigenza palestinese, passata e presente?

"È così. Diciamo che le leadership palestinesi non hanno perso occasione per perdere "l'Occasione". Nell'estate 2005, Israele (allora il primo ministro era Ariel Sharon, ndr) decise il ritiro da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia: la risposta palestinese non fu l'accelerazione di un negoziato, ma i razzi sparati da Gaza contro le città frontaliere israeliane. Nel 2006-2007 l'allora primo ministro Ehud Olmert avanzò una proposta che andava nella direzione dei due Stati che Abu Mazen rigettò. E si potrebbe andare ancora indietro nel tempo, quando altri erano i protagonisti: penso, ad esempio ai negoziati di Camp David di luglio 2000 tra Barak e Arafat, con Clinton come facilitatore: anche lì la proposta avanzata dal primo ministro laburista andava in quella direzione, ma Arafat non ebbe la saggezza dimostrata da David Ben Gurion: prendi meno di quanto speravi, ma consideralo un inizio, un qualcosa di tuo, nel quale edificare uno Stato... Non mi voglio ergere a giudice, non sto qui a distribuire sentenze, ciò che voglio sostenere è che in questi cinquant'anni di rinvii e di rifiuti la realtà si è modificata e oggi l'unica alternativa allo status quo è lo Stato binazionale".

C'è chi sostiene che quello dello Stato binazionale sarebbe un salto nel vuoto e che gli ebrei israeliani non accetterebbero mai di essere minoranza in uno Stato binazionale.

"La memoria è labile, soprattutto quando fa comodo per scansare i problemi. Nel '47, Ben Gurion diede subito la cittadinanza agli arabi. Io credo che si possa guardare ad altre esperienze per modulare le forme di uno Stato binazionale: potrebbe essere una confederazione di cantoni, potrebbe essere una Repubblica presidenziale nella quale esistano due Camere: una che rappresentasse le istanze e le esigenze di ciascuna comunità nazionale e altra come rappresentanza di tutti i cittadini...

E i coloni?

"In questo scenario, il problema fondamentale non sono i coloni. Il problema fondamentale è la democrazia. È sancire che ogni cittadino è eguale di fronte alla Legge, che gode degli stessi diritti sociali, civili, politici. Il problema è quello di realizzare una cittadinanza piena. L'alternativa è istituzionalizzare uno stato di apartheid. È questo che si vuole? Mi creda, l'ebraismo è molto forte, anche troppo. Troverebbe comunque i modi per far valere le proprie ragioni in uno Stato binazionale. Ciò che ritengo inaccettabile, e questo sì anti-democratico, che i diritti di cittadinanza siano modulati e gerarchizzati a secondo dell'appartenenza etnica e religiosa. Il nostro sguardo deve alzarsi e abbracciare il mondo, guardano a ciò che è stato realizzato in altri Paesi che pure hanno al proprio interno comunità etniche diverse. Un esempio, è l'America. Negli Stati Uniti non vige una democrazia etnica? Il sistema a cui tendere non si definisce su basi demografiche, ma può reggersi su un sistema di Cantoni con una loro autonomia codificata. Ragioniamoci insieme, io dico. E guardiamo in faccia la realtà: la scusa dei due Stati ci sta portando verso l'apartheid".

Lei ha sottolineato l'importanza di riflettere sul concetto di "confine" che chiama in causa il rapporto tra due pilastri dell'identità nazionale su cui si fonda lo Stato d'Israele: la democrazia e l'essere il focolaio nazionale del popolo ebraico?

"Sinceramente, non credo che ragionare su uno Stato binazionale voglia significare cancellare la storia d'Israele. Perché già da tempo Israele è uno Stato binazionale: il 20% della popolazione attuale d'Israele (1,1 milioni di persone, ndr) è araba e, viste le tendenze demografiche, è un numero destinato nei prossimi decenni ad aumentare sensibilmente. No, non credo davvero che uno Stato binazionale esteso ai palestinesi di Gerusalemme Est e della West Bank attenti all'identità ebraica. Il punto è un altro, e evidenziarlo fa male, ne sono consapevole, soprattutto a quel mondo della sinistra a me più vicino, e non solo Israele...".

E quale sarebbe questa amara verità?

"Oggi vi sono centinaia di migliaia di palestinesi alle porte delle nostre città che non hanno alcun diritto. E che subiscono una occupazione sempre più invasiva. E ci sono cittadini israeliani, i coloni, che praticano la sopraffazione in quanto cittadini israeliani che, come tali, sono protetti dall'esercito. La sinistra può continuare a recitare il mantra 'tutto si risolve con la nascita di uno Stato palestinese', intanto, però, il numero dei coloni cresce di anno in anno e sfido chiunque a sloggiarli. Oggi non c'è alcuna autorità, nessun leader politico che potrebbe portarli via dalle terre che hanno occupato, ma il termine più giusto è: rubato. Allargare i diritti di cittadinanza ai palestinesi è il modo più concreto, a mio avviso, per contrastare questa deriva. I diritti di cittadinanza rappresentano una risposta concreta all'occupazione. Mi lasci aggiungere che queste considerazioni cominciano a farsi largo anche nella parte più accorta e pragmatica della destra israeliana...".

Anche Netanyahu?

"Non esageriamo...Ma qualcuno di importante c'è: mi riferisco all'attuale Capo dello Stato, Reuven Rivlin. Lui è certamente un uomo di destra, ma di una destra liberale che non nulla a che vedere con quella ultra nazionalista dei Lieberman, dei Bennett... Rivlin non ha imbarazzo a parlare di diritti di cittadinanza per tutti i palestinesi. È poco? Sinceramente, non lo credo...".

In una precedente intervista concessa all'HuffPost, Lei sostenne che "l'occupazione dei Territori sta deteriorando moralmente Israele".

"Sono sempre di questo avviso. Considero l'occupazione una vergogna, l'ho detto e scritto migliaia di volte, ho firmato non so più quanti appelli. Ma dopo aver detto e scritto tutto questo mi chiedo: cosa fare per contrastarla, tenendo conto della realtà e non di principi, lodevoli quanto impraticabili: la mia risposta è agire perché i palestinesi della West Bank abbiano gli stessi diritti dei coloni israeliani, che siano uguali di fronte alla Legge e non, come è ancor oggi, discriminati".

Cosa può fare l'Europa e, in essa l'Italia, in questa situazione?

"Può fare, deve fare molto. Penso, in particolare, all'Italia che ha buoni relazioni sia con Israele che con i Palestinesi e che ha interesse a un Mediterraneo stabilizzato, e la creazione di uno Stato binazionale potrebbe contribuire a consolidare un tale processo. L'Italia può aiutarci e molto. Anche su Gerusalemme. Lo status dei Luoghi santi della città, non è un problema che riguarda solo ebrei e musulmani, ma investe anche i cristiani. E l'Italia è vista, per la presenza della Chiesa di Roma, come rappresentativa del cattolicesimo. Una ragione in più per far sentire la propria voce, per essere più protagonista da queste parti. È nel vostro, e nel nostro, interesse".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/09/21/due-popoli-due-stati-e-ormai-impraticabile-serve-uno-stato-binazionale-intervista-ad-abraham-yehoshua_a_23217982/?utm_hp_ref=it-homepage
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