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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 93007 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 16, 2007, 04:44:17 pm »

Aoun: «Intesa sul presidente solo con un governo di unità»

Intervista al generale cristiano Aoun: favorevoli a Suleiman ma il premier Siniora non può agire contro metà del Paese»

Umberto De Giovannangeli


Per i suoi nemici è un uomo assetato di potere. Per i suoi sostenitori è un mito inossidabile. I suoi più stretti collaboratori lo definiscono il Charles de Gaulle del Libano. I suoi detrattori lo chiamano «Napolaoun». Per tutti, è uno degli uomini da cui dipende il futuro del Libano. Ed è a lui che le forze di opposizione hanno affidato la «missione impossibile» di trovare in extremis un accordo con la coalizione di maggioranza. La parola al generale Michel Aoun, la cui storia personale s’intreccia indissolubilmente con quella del Paese dei Cedri. Ex premier, ex capo delle forze armate nei terribili anni della guerra civile, sconfitto nel 1990 dalle forze armate di Damasco, Aoun fu costretto all’esilio, che durerà 15 anni. Nel 2005 fa ritorno in Libano e alle legislative di quell’anno alla guida del Libero movimento patriottico ottiene il 70% del voto cristiano. Alleato degli sciiti di Hezbollah e di Amal, a 72 anni, Michel Aoun è ancora sulla breccia: «Sarei stato - dice - un ottimo presidente. Nessuno tra i candidati cristiani (per il sistema politico-istituzionale del Libano il capo dello Stato deve essere un cristiano maronita, ndr.) si avvicina lontanamente al consenso che ho io, ma in nome dell’unità nazionale ho detto di essere pronto a fare un passo indietro e a sostenere la candidatura del generale Suleiman, ma a precise condizioni…», che il generale Aoun ribadisce in questa intervista a l’Unità.

Generale Aoun, domani il Parlamento libanese dovrebbe provare a riunirsi per eleggere il nuovo capo dello Stato. Le precedenti sette chiamate sono andate a vuoto. Stavolta?

«Ho ribadito a più riprese che prima dell’accordo sul nome ci deve essere un accordo sul programma. Siamo disposti a sostenere la candidatura di Michel Suleiman ma all’interno di un accordo complessivo che riguardi anche il nuovo governo. Ciò che chiediamo è la costituzione di un governo di riconciliazione nazionale formato sulla base della rappresentatività parlamentare…»

Vale a dire?

«Il 55% alla maggioranza, il 45% all’opposizione, il che significa che su 30 ministri, 17 andrebbero alla maggioranza, 13 all’opposizione. E’ una richiesta ragionevole, che ha come interesse superiore il bene del Paese…».

Le forze della coalizione del "14 marzo" non sono di questo avviso e ribattono che la sua è una richiesta strumentale, che tende a procrastinare il vuoto istituzionale alla Presidenza del Libano.

«Di strumentale c’è il loro atteggiamento di chiusura, il comportarsi come una cleptocrazia… La verità è sotto gli occhi di tutti: il governo in carica (guidato da Fuad Siniora, ndr.) ha perso la sua legittimità. Costoro non possono pretendere di governare contro la metà del Paese. L’unità nazionale si ricostruisce con il dialogo e non con i diktat di chi si fa forte del sostegno esterno...».

Quanto a sostegno esterno, non può negare che l’opposizione di cui lei è tra i leader possa contare su quello della Siria.

«Mi ascolti bene: nessuno può darmi lezione su cosa significhi essere un vero libanese. Per me parla la mia storia. Dov’erano questi paladini della sovranità nazionale quando io mi battevo contro gli invasori? Proprio io che in quegli anni combattei i siriani, dico che sarebbe una follia pensare che il Libano possa rifiorire rompendo qualsiasi legame con la Siria. Noi dobbiamo far vivere una nuova concezione dei rapporti fra gli Stati, fondati sul rispetto reciproco e sul rifiuto di ogni tutela o ingerenza esterne. Ma questo discorso non può valere solo nei confronti della Siria, ma con tutti quelli che hanno interessi qui: la difesa della sovranità libanese è un bene che va preservato anche nei riguardi dell’America e dell’Europa, ma da questo orecchio Fuad Siniora non pare intendere».

Vorrei tornare all’elezione del nuovo capo dello Stato. Al di là del nome, quale ne dovrebbe essere a suo avviso il tratto politicamente più significativo?

«Deve essere una personalità forte e allo stesso tempo saggia. Il nuovo presidente deve essere il garante dell’unità nazionale e per questo non può essere imposto da una parte contro l’altra. Un presidente-garante non può scaturire da uno sfregio della Costituzione (per la quale il capo dello Stato deve essere eletto in prima istanza dai 2/3 del Parlamento, ndr.)».

Ma questa asserzione ha fin qui portato al vuoto istituzionale e all’impossibilità di eleggere il capo dello Stato per il continuo rinvio delle sedute del Parlamento.

«La responsabilità di questo stallo è di chi ha lavorato per dividere il Paese, illudendosi di poter governare prescindendo da una sua metà. Ma in democrazia quando c’è una maggioranza che non è in grado di governare da sola deve cercare delle intese con gli altri…».

Anche con Hezbollah?

«Gli sciiti rappresentano un terzo del Paese e Hezbollah ha i suoi rappresentanti in Parlamento ed ha un forte radicamento nella società libanese. Cosa si vorrebbe fare? Dichiararlo fuorilegge?».

Basterebbe disarmare le sue milizie…

«Questo deve essere lo sbocco e non la pregiudiziale per attivare un serio dialogo nazionale, a meno che non s’intenda agire contro Hezbollah per conto terzi…».

Vale a dire?

«Israele e America. Ma non voglio eludere la sua domanda: le armi di Hezbollah saranno messe sotto il controllo del governo quando gli israeliani libereranno tutto il nostro territorio nazionale, comprese le fattorie di Sheeba».

Nei giorni scorsi Beirut è stata teatro di un nuovo "assassinio eccellente": quello del generale Francois al-Hajj. C’è chi ha accusato la Siria di essere dietro a questo attentato.

«La Siria, sempre la Siria…Ma c’è chi dimentica che il generale al-Hajj aveva avuto un ruolo importante, in condivisione con la resistenza hezbollah, nel far fronte all’invasione israeliana di due estati fa. La mia idea è un’altra…».

Quale?

«L’attentato è avvenuto in un’area super protetta, sotto strettissima sorveglianza militare. L’uccisione di al-Hajj è un "crimine protetto", non lontano dall’esecutivo libanese…».

Tra i nodi da sciogliere c’è l’accettazione da parte dell’opposizione del Tribunale internazionale sull’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri. Generale Aoun, lei accetta questo Tribunale?

«Accettarlo? Ma se sono stato io a proporlo, ben prima di Saad Hariri (il figlio del premier assassinato il 14 febbraio 2005, ndr.). La decisione di istituirlo non può essere cambiata…»

La cosa non piace a Hezbollah…

«Ne discuteremo e troverò gli argomenti per convincerli, perché del generale Aoun si fidano».

ha collaborato Elias Toueni


Pubblicato il: 16.12.07
Modificato il: 16.12.07 alle ore 7.39   
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 20, 2007, 10:18:00 pm »

Che fine fanno i soldi destinati ai palestinesi

Umberto De Giovannangeli


Diciannove servizi di sicurezza. Oltre 170mila dipendenti pubblici. Ville da mille e una notte costruite a poche centinaia di metri dai miserabili campi profughi. Fuoristrada ultimo modello che sfrecciano sul lungomare di Gaza City con a bordo i rampolli della nomenklatura al potere. E ancora: conti all’estero di quadri dirigenti di Fatah - un nome per tutti, l’ex «uomo forte» di Gaza, Mohammed Dahlan - scoperti e congelati dal governo del tecnocrate Salam Fayyad, che arrivavano a centinaia di milioni di dollari. Solo pochi esempi, per raccontare una storia conosciuta dalla gente palestinese, quella che, nella Striscia di Gaza, vive sotto la soglia di povertà (oggi il 60%, ma secondo l’ultimo rapporto dell’OCHA - Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite - schizzerà al 75% entro il 2008), che dipende nel sostentamento quotidiano dall’assistenza delle agenzie Onu (843mila persone). Storia di miliardi di aiuti ricevuti negli anni della speranza - quelli susseguenti agli accordi di Oslo-Washington del 1993 - che invece di essere investiti per migliorare le condizioni di vita della popolazione dei Territori, o per implementare, strutturandola, l’economia palestinese, finirono nelle tasche di vecchi capi clan o di fedelissimi del rais (Yasser Arafat), e che, soprattutto, servirono al «padre-padrone» della causa palestinese per costruire un apparato pubblico mastodontico, per certi versi unico al mondo; basti pensare che nell’era-Arafat, l’Autorità palestinese contava più direttori generali dell’apparato statale della Repubblica Popolare di Cina.

Non era soltanto il clientelismo di un vecchio leader abituato a premiare per garantirsi la fedeltà dei suoi. Dietro quell’abnorme apparato pubblico, c’era anche il tentativo di sedare la rabbia sociale e la possibile deriva tribale. Alla lunga, questa politica si è rivelata fallimentare. Perché non ha frenato la corruzione, non è servita a consolidare la fiducia della popolazione nel processo di pace, perché ha frenato la formazione di una classe dirigente di uno Stato in costruzione, capace e moderna. Invece, sotto la cascata di aiuti internazionali, è cresciuta una genia di rampolli senza particolari qualità o meriti se non quelli di essere «figli di…». Ecco allora che il figlio primogenito dell’attuale presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen), abbia il monopolio sulla cartellonistica pubblicitaria in Cisgiordania, o che per lungo tempo l’ex capo delle forze per la sicurezza preventiva in Cisgiordania, Jibril Rajub, detenesse quello della benzina, mentre quello del cemento armato, a Gaza, ha contribuito alle fortune finanziarie di Mohammed Dahlan.

Storie senza fine di sprechi, di «ordinaria corruzione»: nel vivo della seconda Intifada il ministro per l’Agricoltura Abd al-Jawad Salah, uno dei politici palestinesi più noti e indipendenti, dichiara pubblicamente che alti funzionari del suo ministero hanno emesso false licenze per agrumi israeliani in modo da poterli commercializzare in Giordania secondo i termini dell’accordo commerciale giordano-palestinese. Salah ordina l’immediata cessazione di questa pratica, denunciando per due volte la frode e tutti i partecipanti al procuratore dell’Autorità palestinese, eppure la truffa è proseguita indisturbata. Salah, disgustato, decise di rassegnare le dimissioni. Storie di sprechi, di ruberie rimaste impunite, di distrazioni di fondi. Storie di fallimenti e di corruzione ai vertici dell’Anp su cui aveva aperto una inchiesta l’allora procuratore generale di Gaza Ahmed al-Meghani. Una inchiesta, che riguardava 12 anni dell’Autonomia, destinata a riscrivere la storia di una classe dirigente che sotto l’ombrello protettivo, e spesso connivente, di Arafat ha costruito le proprie fortune a scapito degli interessi della popolazione. A inchiesta ancora in corso, il procuratore al-Meghani aveva già messo a fuoco casi di sprechi e di fondi distratti dall’uso previsto per un ammontare superiore ai 700 milioni di dollari. L’inchiesta non è mai giunta alla fine. Storie di malversazioni, come quella che ha riguardato la società Middle East Water Pipe Co., che avrebbe dovuto costruire acquedotti e tubature nei Territori palestinesi con il contributo anche di aziende italiane. La società, finanziata con 4 milioni di dollari dall’Anp e con altri due milioni di dollari dall’Italia, esisteva solo sulla carta. Altri presunti illeciti hanno investito la Tv pubblica palestinese, società dei settori degli idrocarburi, dei tabacchi, della sanità.

Il disastro economico e l’emergenza sociale che devastano i Territori non sono dunque solo il portato delle restrizioni imposte da Israele, delle limitazioni di movimento, persone e merci denunciate dalle agenzie Onu che operano a Gaza e in Cisgiordania. Il peso di questa poco edificante storia, si fa sentire ancora oggi sulle aspettative dei palestinesi, segnate da un perdurante pessimismo. Nonostante le aperture registrate nella Conferenza di Annapolis, le probabilità che uno Stato palestinese indipendente sia proclamato entro i prossimi cinque anni sono «minime o inesistenti». Lo ritengono il 65% degli intervistati in un sondaggio di opinione curato dal Centro palestinese di politica e ricerca (Pcpsr) di Khalil Shikaki. Il 27% degli interpellati (a Gaza e in Cisgiordania) considerano di conseguenza la possibilità di trasferirsi all’estero. La situazione economica angustia molto i palestinesi. Essa è giudicata «negativa o molto negativa» dall’85% dei palestinesi interpellati a Gaza e dal 41% di quelli della Cisgiordania. Nella recente Conferenza di Parigi dei Paesi donatori, Abu Mazen aveva sollecitato la Comunità internazionale a stanziare 5,6 miliardi di dollari per evitare la «catastrofe totale» nei Territori e per finanziare un piano di sviluppo destinato a dotare un futuro Stato palestinese di istituzioni solide e di un’economia vitale. L’appello è stato raccolto e la «generosità» evocata dal rais palestinese è andata oltre le sue aspettative: dalla Comunità internazionale sono arrivati 7,4 miliardi di dollari di aiuti finanziari. La Commissione europea, principale donatore, ha annunciato 650 milioni di dollari, gli Stati Uniti 555, l’Arabia Saudita 500, la Gran Bretagna 490, la Francia, la Germania e la Svezia 300 milioni di dollari ciascuno. L’Italia destinerà altri 80 milioni che vanno ad aggiungersi ai 108 già stanziati in precedenza.

Il punto è: come non far dilapidare questa «generosità». Un problema di uomini e di vincoli alla fonte. L’uomo a cui è stato affidato il «forziere» è un tecnocrate rispettato in Occidente, stimato ex funzionario della Banca Mondiale, esperto di bilanci e mai sfiorato da accuse o voci di corruzione: l’attuale primo ministro Salam Fayyad. Spetterà a lui, più ancora che ad Abu Mazen, farsi garante del corretto utilizzo di questi 7,4 miliardi di dollari. Fayyad ha salutato quella elargizione come un «voto di fiducia» dei donatori internazionali nei confronti del suo governo e dell’Anp. Ma lo stesso premier è consapevole che si tratta di una fiducia «vincolata». È l’altra sostanziale discontinuità rispetto al passato. Questa volta, confida a l’Unità una fonte dell’Ue a Bruxelles, i finanziamenti saranno vincolati alla presentazione, documentata, di progetti di sviluppo in settori chiave sia economici - agricoltura, poli industriali - sia sociali - sanità, istruzione, giustizia -. In questi progetti "ad hoc" dovranno essere prospettati, oltre il budget necessario, i tempi di attuazione, le verifiche in corso d’opera, e i referenti sul campo. «I finanziamenti servono a ricostruire un tessuto sociale e ad affrontare una drammatica emergenza umanitaria. Il controllo deve essere ferreo, perché non si ripetano le nefandezze del passato», dice a l’Unità Hanan Ashrawi, paladina dei diritti umani nei Territori. E il controllo, aggiunge decisa, «deve essere anche dal basso, da quelle Ong non governative palestinesi che rappresentano il contraltare democratico al duopolio di potere Hamas-Fatah». In gioco è l’avvenire di un popolo, le sue speranze, i suoi diritti. In ballo è la credibilità di una leadership che deve dimostrare con i fatti di non essere una nomenklatura dedita all’arricchimento personale.

Pubblicato il: 20.12.07
Modificato il: 20.12.07 alle ore 8.23   
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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 23, 2007, 10:45:28 pm »

Il Padre: «Salvate il soldato Shalit»

Umberto De Giovannangeli


Non vuole rinunciare alla speranza. Da quel maledetto 25 giugno 2006, il giorno in cui il suo Gilad fu rapito da un commando palestinese, Noam non ha smesso per un solo istante di pensare a suo figlio. Non si arrende Noam Shalit, il padre del caporale israeliano Gilad Shalit, dal 25 giugno 2006 in mano dei suoi rapitori, miliziani di Hamas e della Jihad islamica. In questa intervista a l’Unità, Noam Shalit parla delle sue angosce di padre e della sua battaglia perché «Gilad e i suoi due commilitoni rapiti in Libano non siano sacrificati alla ragion di Stato».

A chi gli chiede chi è Gilad, Noam Shalit mostra delle foto: Gilad in divisa da carrista, con i pantaloncini corti e lo zaino il giorno della partenza per il servizio militare: a stento trattiene la commozione: «È ancora un ragazzino - dice - appena uscito dal liceo, sembra che stia partecipando a una gita scolastica». Noam Shalit si rivolge ai rapitori di suo figlio. Il suo è un appello accorato, struggente: «Ci diano una prova che Gilad è ancora vivo. Credo che coloro che tengono in ostaggio mio figlio abbiano una famiglia e dei figli e possono immaginare cosa io, mia moglie, gli altri miei figli stiamo provando. Ai rapitori dico: non dimenticate che Gilad è prima di tutto un essere umano».

Signor Shalit, cosa significa vivere ogni giorno con il pensiero ad un figlio di cui non si ha più notizie da oltre un anno e mezzo?

«Io e mia moglie Aviva stiamo continuando a vivere e lavorare. Ovviamente nulla è più come prima. Davanti ai nostri figli, Yoel e Hadas, tentiamo sempre di mostrare che non siamo nel panico, per i ragazzi non andrebbe bene. Proviamo a mascherare la nostra angoscia...cerchiamo di sopravvivere...».

Signor Shalit, da quanto tempo non avete più notizie di Gilad?

«Da mesi. Lo scontro tra le fazioni palestinesi ha reso ancora più difficile la vicenda di mio figlio, in particolare dopo la guerra a Gaza tra Hamas e Fatah. Appare impossibile trovare un interlocutore credibile nelle fila palestinesi. Per quanto mi riguarda, non mi arrendo. L’ho detto tante volte: sono disposto a incontrare chiunque voglia incontrare me. A Gaza, in Cisgiordania, a Beirut...., ovunque. Sono pronto a farmi personalmente garante. E, se occorre, sono pronto a recarmi a Gaza e restare nelle mani delle forze di Hamas fino a che le loro richieste non saranno esaudite».

In Israele si continua a dibattere sulla legittimità di negoziare con coloro che hanno rapito suo figlio.

«Non le rispondo come padre, ma come cittadino israeliano che ama il suo Paese. Israele ha già trattato con i terroristi e liberato terroristi che si erano macchiati di crimini sanguinosi, per avere in cambio nostri cittadini, non solo soldati. Perché ciò non deve valere anche per Gilad? Trattare per liberare un ragazzo mandato a combattere in prima linea, non è una prova di debolezza, ma al contrario il segno di una superiorità morale nei confronti del nemico. Perché per Israele, come recita il Talmud, ogni vita umana e sacra, e salvarne una significa salvare l’umanità...».

C’è da dire che diversi ministri non hanno escluso la possibilità di aprire un negoziato con Hamas.

«Io giudico il governo non per le parole ma per i fatti. E un fatto è che mio figlio è ancora prigioniero. E non credo che Gilad verrà rilasciato senza che venga pagato un prezzo. Certo, ogni genitore è pronto ad ogni sacrificio pur di salvare la vita del proprio figlio. Ma il discorso riguarda Israele e il nostro modo di guardare a coloro con i quali dovremmo comunque imparare a convivere. Dobbiamo cedere qualcosa se vogliamo averne qualche altra in cambio. Il vero problema è che Hamas pretende la liberazione dei suoi uomini e non accetterà null’altro in cambio, né soldi né nessun altro beneficio».

Alcuni mesi fa, prendendo la parola dal palco della settima Conferenza internazionale sul terrorismo di Herzliya, lei ha affermato: «Siamo molto delusi e preoccupati per l’incapacità dello Stato d’Israele, che nonostante la sua tecnologia avanzata e i suoi gloriosi servizi segreti non è in grado di riportare a casa un soldato rapito sul suo territorio nel corso di un’azione terroristica...».

C’è chi ha parlato dello sfogo di un padre disperato.

«No, non è così. Il mio non è stato uno sfogo, ma una constatazione amara. Non dubito delle buone intenzioni di Olmert ma di fronte ad un evidente insuccesso, non solo noi, le famiglie dei rapiti, dovremmo preoccuparci, ma ogni soldato israeliano ed ogni famiglia che ha un figlio nell’esercito dovrebbe essere preoccupata».

La recente Conferenza di Annapolis ha rilanciato una speranza di pace in Medio Oriente. Questa speranza può riguardare anche la sorte di Gilad?

«Lo spero, in cuor mio lo spero con tutte le mie forze, e prego per questo. Si parla della liberazione di altri detenuti palestinesi, ma la vicenda di Gilad sembra non c’entrare, come se facesse parte di un’altra storia. Per noi ciò è inaccettabile. Non intendo permettere che ci si dimentichi del caso di Gilad, che tra gli alti e bassi dei negoziati, si finisca col non parlarne più. E lo stesso discorso vale per altri due soldati di Tsahal, Ehud Goldwasser ed Eldad Regev, ancora in mano degli Hezbollah».

Signor Shalit, in passato lei ha avuto parole di solidarietà verso la popolazione di Gaza.

«Vede, Hamas non solo ha preso Gilad come ostaggio, ma sta infliggendo pesanti sofferenze ai palestinesi. A Gaza, in seguito alla prova di forza del giugno scorso, è molto peggiorata per la popolazione civile. Donne e bambini non sono mai stati così poveri e le cose vanno sempre peggio. Gaza è bloccata, sottoposta a embargo, e parte gli aiuti umanitari non c’è possibilità di entrare ed uscire neanche per andare in Egitto. La disoccupazione è alle stelle e gli unici a lavorare sono quelli che lavorano per Hamas. Israele ha ucciso molte persone durante le incursioni.. Questa non è vita...E essenziale migliorare la situazione non solo per Gilad ma per gli stessi palestinesi».

Signor Shalit, in questo colloquio, il dramma della sua famiglia si è intrecciato con le inquietudini, le paure, le speranze di un Paese: Israele. In conclusione, vorrei tornare sul suo vissuto personale: come è cambiata la sua vita da quel 25 giugno 2006?

«Sono tornato al lavoro per non impazzire, ma la mia mento non è al cento per cento sul posto di lavoro. Penso sempre a Gilad, un ragazzo silenzioso, chiuso, con una vita davanti a sé. Aveva appeno finito il liceo, si era arruolato da pochi mesi e so che ha avuto difficoltà agli inizi, ma non si è mai lamentato, a noi non ha detto mai niente. Sono sicuro che anche se adesso sta soffrendo non si lamenta. Lui sa che la sua famiglia non lo abbandonerà mai».

C’è qualcosa di incoraggiante in questa tragedia?

«Il calore del popolo d’Israele. Un sostegno che non è mai venuto meno: è come se Gilad fosse stato “adottato” dall’intero Paese. Questa solidarietà ci è di grande conforto. Israele non ha dimenticato un suo ragazzo, un suo soldato».

(ha collaborato Cesare Pavoncello)



Pubblicato il: 23.12.07
Modificato il: 23.12.07 alle ore 15.05   
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 29, 2007, 06:03:09 pm »

«Al Qaeda è ormai parte dello Stato pachistano»

Umberto de Giovannangeli


In Pakistan Al Qaeda è molto più che una rete terroristica dai mille tentacoli. In Pakistan, Al Qaeda non è solo l’anti Stato jihadista ma è parte dello Stato pachistano, perché i suoi uomini sono all’interno dei potenti servizi segreti pachistani e probabilmente anche nella catena di comando dell’esercito. Per questo, sbaglia chi legge l’assassinio di Benazir Bhutto come il colpo di coda di un’organizzazione in rotta. È vero l’esatto contrario». A parlare è uno dei più autorevoli studiosi dell’Islam radicale armato: Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al Ahram, al Cairo. «L’assassinio di Benazir Bhutto - rileva El Fattah - ha due piani di lettura: uno interno al Pakistan, l’altro proiettato su scala regionale».

Professor El Fattah, Al Qaeda ha rivendicato l’attentato che è costato la vita alla ex premier Benazir Bhutto e che ha trascinato nel caos il Pakistan. C’è davvero la mano di Al Qaeda dietro il massacro di Rawalpindi?
«Direi che è una ipotesi fortemente plausibile. Benazir Bhutto assommava in sé tutto ciò che più contrasta il pensiero e i progetti di Al Qaeda... »

Vale a dire?
«Innanzitutto la sua figura. Era donna, una donna islamica. Una donna impegnata in politica. Per l’ideologia jihadista era un triplice affronto. Ma non basta. Benazir Bhutto incarnava anche un’idea non chiusa, antimoderna, “claustrofobica” dell’Islam: il suo era un Islam aperto, pronto al confronto con l’Occidente senza per questo rinunciare alla propria identità. Altra colpa mortale per i qaedisti. Non basta ancora. Benazir Bhutto era divenuta un elemento fondamentale di quel faticoso processo di democratizzazione avviato, sia pur tra mille contraddizioni, in Pakistan. E Al Qaeda vede come fumo negli occhi, come una minaccia esistenziale ogni tentativo di democrazia avviato nel mondo islamico. Come vede, esistono fondate ragioni per ritenere che Al Qaeda abbia compiuto questo barbaro, ma non irrazionale, crimine. C’è però un punto che occorre mettere bene in luce... ».

Qual è questo punto?
«Dobbiamo chiarirci le idee su cosa sia realmente Al Qaeda oggi in Pakistan. Non è un esercizio accademico, perché solo rispondendo a questa domanda è possibile cogliere un aspetto strategico, tutto politico, che l’assassinio di Benazir Bhutto ha messo in evidenza: il fallimento della strategia di contrasto-contenimento del terrorismo jihadista messa in atto dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre; la strategia delle guerre preventive o del sostegno a regimi dispotici, come quello pachistano, considerati come l’unico argine esistenze contro la penetrazione jihadista. I risultati sono sotto gli occhi ditti, in Iraq come in Pakistan... ».

Vorrei tornare sulla questione cruciale da lei posta: cosa è oggi Al Qaeda in Pakistan?
«È molto più che l’anti Stato jihadista. Al Qaeda è parte dello Stato pachistano, perché ne controlla, attraverso le tribù fedeli, aree nevralgiche, come le regioni al confine con l’Afghanistan, e perché è evidente che suoi uomini sono interni a settori dei servizi segreti pachistani e probabilmente anche dell’esercito, per non parlare poi delle madrassa radicali, vere e proprie scuole di indottrinamento jihadista che forniscono alla rete di Al Qaeda militanti e consenso. Senza questi sostegni, Al Qaeda difficilmente avrebbe potuto mettere a segno l’attentato dell’altro ieri, avvenuto, non dimentichiamolo, in una città e in una zona super protette. E se non c’è collusione, di certo si può parlare di convergenza d’interessi: il nemico comune, per i jihadisti come per la casta militare al potere, resta la democrazia».

Qual è l’obiettivo strategico di Al Qaeda in Pakistan? Quello di conquistare il potere?
«No, è quello di destabilizzare il Paese. È la destabilizzazione la vera “conquista del potere” da parte di Al Qaeda. Perché un Pakistan destabilizzato significherebbe l’impossibilità di contrastare la presenza qaedista e talebana nelle regioni a ridosso del confine con l’Afghanistan; perché un Pakistan destabilizzato permette ad Al Qaeda di agitare, con maggiore efficacia, lo spettro della bomba atomica in mano ai “soldati di Allah”, perché un Pakistan destabilizzato diverrebbe ciò che era per Al Qaeda l’Afghanistan ai tempi del regime dei talebani, vale a dire una sorta di "nazione senza Stato", con pezzi di territorio direttamente controllati dai gruppi jihadisti. È ciò che peraltro avviene in Somalia».

Gli Stati Uniti non hanno lesinato critiche al presidente Musharraf.
«Sono critiche tardive, come tardiva è stata la comprensione che Benazir Bhutto rappresentava la carta migliore da giocare per portare avanti, dall’interno, il processo di democratizzazione. Gli Stati Uniti sono di fronte al fallimento della loro strategia, ma alla fine, di fronte alla prospettiva del caos in un Paese nevralgico come è il Pakistan, Washington sceglierà ancora una volta di sostenere il “male minore”: Parvez Musharraf e i generali pachistani. Ma in questi anni sono stati proprio i tanti “mali minori” disseminati nel Vicino e Lontano Oriente a garantire il rafforzamento dell’Islam radicale e jihadista».

L’essere un «male minore» è una garanzia di sopravvivenza politica per Parvez Musharraf?
«Forse nel breve periodo, ma in prospettiva Musharraf è già archiviato. Si tratta di vedere da quale “lato” cadrà. La morte di Benazir Bhutto segna anche l’inizio della sua fine».


Pubblicato il: 29.12.07
Modificato il: 29.12.07 alle ore 11.13   
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 15, 2008, 04:52:08 pm »

Barenboim, c´è un muro anche nella musica

Umberto De Giovannangeli


Un messaggio di speranza che viaggia sulle note musicali. Un messaggio tanto più pregnante perché a veicolarlo è un grande direttore d´orchestra: Daniel Barenboim. In Israele la destra oltranzista si è scagliata contro di lui per aver accettato il passaporto palestinese. Si è gridato al «tradimento», la stessa accusa a suo tempo lanciata contro il premier israeliano Yitzhak Rabin, colpito a morte da un giovane zelota per aver «osato» di fare la pace con il «Nemico», Yasser Arafat. Ma prima di riflettere sul significato del «doppio passaporto», vale la pena soffermarsi sul contesto nel quale questa scelta è stata annunciata.

Perché è quel contesto a dare il senso della straordinaria esperienza di cui Daniel Barenboim si è reso protagonista. I Territori palestinesi conquistano l´interesse internazionale quando sono associati a raid, atti di terrorismo, rappresaglie, sofferenze, patimenti... Ramallah, capitale della Cisgiordania, è balzata ai tristi onori della cronaca nei mesi dell´assedio israeliano alla Muqata, il quartier generale dell´Anp dove era confinato Yasser Arafat. Le «note» di quei mesi erano quelle, lugubri, di mitragliatori, colpi di artiglieria, missili... È con queste «note» che i giovani di Ramallah sono cresciuti, che sono stati costretti a «imparare» fin da piccoli. Ben diverse, erano le note che hanno riempito, l´altra sera, il Palazzo della Cultura di Ramallah. Note che hanno beato un pubblico di oltre 1200 persone. Molti avevano le lacrime agli occhi nell´ascoltare le composizioni di Beethoven eseguite dall´orchestra diretta da Barenboim.

È questo il «miracolo» maturato a Ramallah: invece di ingrossare le fila delle milizie armate, centinaia di ragazzi e ragazze palestinesi erano lì ad ascoltare quel maestro israeliano. E la sua orchestra. Un´orchestra composta da giovani musicisti israeliani e arabi( in maggior parte palestinesi). In platea c´erano ragazzi in jeans e donne velate. Quelle note struggenti hanno superato i Muri, quelli fisici e quelli mentali che segnano la Terra Santa. Note che uniscono. Che fannno sognare. Note che liberano la mente dalle angosce del presente, un presente di sofferenza per tanti palestinesi e israeliani. Il doppio passaporto è la carta d´identità di questa speranza. Perché la musica raggiunge i cuori prima e meglio di tante esternazioni politiche. Perché la West-Eastern Divan Orchestra - realizzata nel 1999 su un progetto che Barenboim aveva messo a punto assieme ad Edward Said, il più grande intellettuale palestinese, ora scomparso - racchiude in sé, più e meglio di tanti accordi scritti e mai praticati, una idea alta, nobile, e concreta, di cooperazione tra i due popoli. Tra le loro gioventù.

Quel doppio passaporto non è una provocazione. È un investimento sul futuro. La forza di Barenboim è di non voler vestire i panni del politico. Ed è per questo che il suo messaggio è ancora più (positivamente) dirompente, ed è per questo che è entrato nel mirino dei seminatori di odio: «Non credo che la musica sia il veicolo di qualcosa. Io vengo qui (a Ramallah) come un essere umano, con lo spirito di chi vuol far conoscere e migliorare la vita delle persone», ha spiegato dopo aver concluso il suo concerto. E la musica aiuta, e molto, a migliorare la vita dei giovani di Ramallah. E, se fosse per il maestro, le note di Beethoven riempirebbero anche Gaza. Se fosse per lui, porterebbe anche la Scala di Milano a Ramallah.

Non dà lezioni di diplomazia, Daniel Barenboim. Ma ricorda che «la musica ti dà soprattutto la possibilità di capire il mondo. Suonare in orchestra, ad esempio, è una grande lezione di democrazia. Forma l´abitudine ad ascoltare gli altri. Così i modi di fare musica possono, devono essere modelli per l´esperienza umana. E la missione della musica in questo millennio è quella di lottare contro chi la vuole staccata dalla vita...». Una lotta che Barenboim conduce con coerenza. Attraverso le note e l´esperienza di un´orchestra che parla ai politici dei due campi. E racconta di una pace possibile. «Proponiamo un modello - riflette Barenboim -. Dei ragazzi con in comune la musica possono esprimere se stessi e ascotare al contempo le ragioni dell´altro. Perché non esiste una soluzione militare, e i destini del popolo palestinese e israeliano sono inestricabilmente uniti». Uniti come la West-Eastern Divan Orchestra. Uniti come il doppio passaporto - israeliano e palestinese - di Daniel Barenboim.

Pubblicato il: 15.01.08
Modificato il: 15.01.08 alle ore 16.12   
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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 18, 2008, 05:26:23 pm »

Israele, bambini malati di guerra

Umberto De Giovannangeli


Vivere da sette anni sotto il martellamento continuo dei razzi sparati dalla Striscia di Gaza. Crescere con l’angoscia di una voce femminile che ripete con cadenza meccanica: «Treva Adom, Treva Adom (allarme rosso, allarme rosso». Giocare in asili trasformati in bunker. Essere bambini a Sderot, la cittadina israeliana bersagliata quotidianamente dai missili Qassam palestinesi. Tra il 75% e il 94% dei bambini e adolescenti di età compresa tra i 4 e i 18 anni di Sderot presentano i sintomi di stress post-trauma: è quanto emerge da un rapporto del Centro israeliano per le vittime del terrorismo e della guerra; anche il 54% dei genitori soffre di SPT (Sindrome Post-Traumatica).

Il rapporto sarà reso pubblico nei prossimi giorni, l’Unità ne anticipa i dati più significativi. E inquietanti. A coordinare l’équipe dei ricercatori è il direttore del Centro, Rony Berger. «Il 75% dei bambini di età scolare - dice a l’Unità il professor Berger - ha avuto gravi sintomi di ansia, di perdita di sonno e di concentrazione». Dalia Yosef, direttrice dello Sderot’s Trauma Center, sottolinea con preoccupazione che il numero dei bambini di età compresa tra 1-6 anni identificati come affetti da ansia e che necessitano di un trattamento lungo, sono in costante aumento. Dal mese di maggio, 120 bambini si sono aggiunti agli altri 305 per i quali si è rilevata la necessità di prorogare il trattamento psicologico perché affetti da traumi. È il caso di Lior, 5 anni, che ha visto il suo papà, Yorom Shimon Ben, ferito dalle schegge di un razzo Qassam che aveva colpito la casa dei loro vicini. Lior è sottoposta a una terapia a lungo termine per l’ansia. In terapia è anche Tahal, 4 anni. Quando Tahal torna a casa dall’asilo, si accuccia sotto il tavoli della cucina e lì rimane. Quando Tahal ha cominciato a comportarsi così, circa sei mesi fa, sua madre Ofra ha pensato che si trattasse di un gioco. Tuttavia dopo averla incoraggiata a parlarne Ofra si è resa conto che questo era il modo escogitato dalla figlia per controllare lo stress causato dall’allarme sicurezza all’ombra del quale Tahal ha vissuto gran parte della sua giovane vita. Tahal trasale al minimo rumore, così come fa Yaakov, suo fratello maggiore, sette anni: dallo squillo di un campanello ad uno sbattere delle porte. Se scatta la sirena d’allarme «Treva Adom», i bambini si bloccano immediatamente. Se accade di notte, corrono immediatamente nel letto della madre. Sono smarriti, impauriti, emotivamente destabilizzati. «È difficile - spiega la dottoressa Yosef - curare e prevenire lo stress post-traumatico quando non è “post”. Lavoriamo - aggiunge - con i genitori per creare un ambiente rassicurante per i loro bambini. Ma è sempre più difficile creare una situazione di “normalità” quando si convive con l’angoscia di un razzo che da un momento all’altro potrebbe distruggere la tua esistenza e quella dei tuoi cari». «Vivere con un genitore post-traumatico può essere molto difficile per un bambino», gli fa eco Ari Blum, un giovane psicologo che presta assistenza volontario a Sderot. «Questi genitori - aggiunge - cessano di essere tali, non sono in grado di prestare attenzione au figli e dimenticano come si fa anche solo a godersi il tempo trascorso insieme ai propri bambini». Perché la scansione della quotidianità a Sderot è scandita dalla paura. E dal dolore.

Una vita blindata. Un’infanzia violata. Le pareti degli asili di Sderot sono formate da enormi blocchi di cemento armati sovrapposti e dipinti di bianco, tutte le finestre hanno i vetri antiproiettile e di fronte ad ogni apertura verso l’esterno sono state costruite gate rinforzate per intercettare le schegge dei Qassam. Ogni luogo della normalità è stravolto: così i campi di basket che sono protetti da tettoie a prova di bombe. È una quotidianità che sconvolge. Destabilizza. «Molti bambini presentano sintomi di regressione: dal fare la pipì al letto al rifiuto di dormire da soli e di andare a scuola», dice la dottoressa Adriana Katz, che dirige la clinica per la salute mentale di Sderot. I bambini delle scuole di Sderot quando sentono la voce femminile ripetere con cadenza meccanica «colore rosso, colore rosso» (il codice convenuto con la popolazione per avvisare dell’arrivo imminente di razzi Qassam), si mettono a cantare forte per non avere paura aspettando con il cuore in gola che passino quei 15 secondi prima del bum. L’allarme rosso concede 15 secondi di tempo per salvarsi la vita. Quindici secondi. I maestri riuniscono velocemente i bambini, si mettono a cantare e così cercano di vincere il terrore. Ziva Korsa è la direttrice di un centro della Wizo, un asilo per novanta bambini dai sei mesi ai tre anni. «Io vorrei la pace - afferma - la quiete, vorrei che i miei figli e tutti i bimbi di Sderot fossero felici. Ma come si può fare? Io non so come si può fare. Che l’esercito torni là, a Gaza, no, non mi piacerebbe, però se la situazione continuerà a peggiorare...a me non piacerebbe l’esercito a Gaza però Sderot deve vivere...».

Ma il rimedio a questa situazione non può essere quello dell’avacuazione dei bambini di Sderot. Spiega il professor Muli Lahad, direttore del Mashabim Community Stress Prevention Center al Tel Hai Academic College: «Evacuare i bambini fino a 11-12 anni senza i loro genitori, aggrava i sintomi post-traumatici». «Quando i bambini sono lasciati soli, lontano dalla loro comunità, essi immaginano cose orribili che accadono alle loro famiglie, I bambini sono influenzati da ciò che sentono e vedono in televisione, e cresce in loro la paura, l’angoscia, il senso di perdita....», aggiunge il professor Lahad.

I bambini di Sderot. L’altra faccia della sofferenza. Da non dimenticare. Mai.

Pubblicato il: 18.01.08
Modificato il: 18.01.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 22, 2008, 04:33:04 pm »

«Da israeliana dico: nella Striscia la nostra vergogna»

Umberto De Giovannangeli


«Da cittadina israeliana che ha a cuore la sicurezza del suo Paese dico: ciò che sta accadendo a Gaza è una vergogna per Israele. Le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile sono il prodotto di una impotenza politica mascherata malamente con l’uso della forza militare. In questo modo finiamo per alimentare rabbia, disperazione, sentimenti che spesso si trasformano in desiderio di vendetta». A denunciarlo è una delle figure storiche della sinistra pacifista israeliana: Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», più volte parlamentare e ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. «La Comunità internazionale - afferma Aloni - deve raccogliere l’appello lanciato dalle colonne dell’Unità dal primo ministro palestinese Salam Fayyad: c’è bisogno di una forza internazionale d’interposizione a Gaza».

Le notizie che giungono da Gaza segnalano una drammatica emergenza umanitaria. Il governo israeliano ribatte che questa situazione è determinata dal lancio di razzi Qassam contro Sderot.
«Se anche così fosse, nulla giustifica lo strangolamento di una economia, la riduzione in miseria di migliaia di famiglie, i bombardamenti che provocano la morte di civili: tutto ciò non può essere rubricato sotto la voce "effetti collaterali" della guerra al terrorismo. No, non è così. Il primo ministro Olmert dica chiaramente se Israele ha deciso di muovere guerra a 1,5 milioni di palestinesi».

Resta la tragedia dei bambini israeliani di Sderot costretti a vivere con l’incubo dei Qassam palestinesi.
«Conosco bene la realtà di Sderot e faccio mio il dolore di quei bambini. Ma non si risolve quel dolore arrecando altro dolore ad altri bambini: quelli di Gaza. Questa non è buona politica, questo è spirito di vendetta che non fa onore a Israele né aiuta a riportare il sorriso sui volti dei bambini di Sderot».

Insisto: il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha ribadito che il blocco di Gaza finirebbe con il finire dei lanci di razzi su Sderot.
«Questa affermazione alimenta un circuito vizioso dal quale è impossibile uscire, visto che i miliziani palestinesi sostengono a loro volta che quei lanci sono la risposto all’assedio di Gaza e ai raid dell’esercito israeliano. Prima di ogni altra cosa va fatta una scelta morale, ancorché politica e militare, da parte israeliana».

E quale sarebbe questa scelta?
«Evitare le punizioni collettive. Escluderle a priori. Questo è per me un punto discriminante: l’esercizio del diritto di difesa non può finire per giustificare rappresaglie che investono pesantemente la popolazione civile».

C’è chi sostiene che la popolazione di Gaza farebbe bene a ribellarsi ai miliziani che continuano un lancio di razzi che, come sottolineato dal primo ministro palestine Fayyad nell’intervista a l’Unità, hanno prodotto catastrofi per i palestinesi.
«In altri termini, Barak pretenderebbe che donne, bambini e anziani di Gaza disarmassero i miliziani, riuscendo laddove neanche il nostro esercito è stato in grado di fare? E se questo non avviene, se questa rivolta non si scatena, la conclusione che ne dovremmo trarre è che tutti i palestinesi di Gaza sono complici dei lanciatori di razzi e quindi nemici di Israele, e come tali da colpire? Mi ribello a questa logica irresponsabile. Le punizioni collettive non indeboliscono Hamas, semmai lo rafforzano, perché quelle punizioni alimentano l’odio verso Israele».

Nel governo israeliano c’è chi invoca una massiccia azione militare nella Striscia.
«Sarebbe una tragedia che costerebbe migliaia di morti e finirebbe in un disastro, perché vorrebbe dire pensare di rioccupare stabilmente Gaza, con tutto ciò che una simile prospettiva comporterebbe, in termini di perdite di vite umane e non solo. Di nuovo, l’illusione che la forza possa supplire all’iniziativa politica. La strada da intraprendere è un’altra…».

Quale?
«Negoziare una tregua di lunga durata con Hamas. Perché se non la pace, almeno la tregua si negozia con il nemico».


Pubblicato il: 22.01.08
Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.14   
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 24, 2008, 06:27:47 pm »

Gaylard: «La situazione è esplosiva. Immorale chiudere gli occhi»

Umberto De Giovannangeli


Rifiuta di addentrarsi in analisi politiche: «Non è mio compito, anche se ho le mie idee, ma in questo momento la cosa peggiore da fare di fronte al dramma che si sta consumando a Gaza, è di usare la sofferenza della gente per finalità politiche". A parlare è Maxwell Gaylard, Coordinatore umanitario dell’Onu nei territori palestinesi. La sua esperienza sul campo, le sue indiscusse capacità organizzative, il riconosciuto equilibrio, fanno di Gaylard una fonte preziosa per dar conto ai lettori dell’Unità di quali siano oggi le condizioni di vita dell’1,5 milioni di civili palestinesi che sopravvivono, sempre più a stento, nella Striscia di Gaza.

Partiamo da una considerazione generale. Come si potrebbe sintetizzare la condizione dei palestinesi oggi?
«Tutti gli indicatori rimarcano chiaramente che i palestinesi attraversano una crisi generalizzata di povertà in aumento, un aumento della disoccupazione, un peggioramento delle condizioni di vita e degli attentati in grande scala contro la dignità dei palestinesi».

Lei parla di una crisi generalizzata di povertà. Può darci in merito qualche dato?
«Il 57% delle famiglie palestinesi vivono nella povertà (il 49% in Cisgiordania, il 79% a Gaza), mentre il tasso di disoccupazione complessivo nel 2007 ha raggiunto il 32,3%. A ciò si aggiunga, e qui entriamo nel vivo di una grave emergenza umanitaria, il 34% dei palestinesi soffre problemi di insicurezza alimentare, l’acqua disponibile pro-capite è scesa a 75 litri nella Striscia e a 80,5 in Cisgiordania. Sono solo alcuni indicatori che danno però sufficientemente conto di un peggioramento sostanziale della situazione».

Quanto pesano sulla determinazione di questa situazione, le limitazioni di movimento, per persone e merci, imposte da Israele nei Territori?
«L’incidenza è indubbiamente fortissima. Le restrizioni sul movimento della popolazione e dei beni stanno distruggendo l’economia palestinese con gravi conseguenze sulla qualità della vita nei Territori occupati. Questo "regime" di chiusura nel quale sono costretti a vivere i palestinesi, comporta il controllo e la restrizione degli accessi ai posti di lavoro, ai servizi sanitari, alle scuole, impedendo anche una normale attività economica: queste restrizioni di movimento sono la principale causa del deterioramento della situazione umanitaria».

Questo assedio rischia di minare alle fondamenta la società palestinese?
«Purtroppo è così. Il severo regime di chiusura influenza negativamente non soltanto la condizione economiche delle famiglie ma erode la stessa autostima della popolazione. E questo "furto" di dignità non aiuta certamente lo sviluppo di un processo di pace».

Quando si parla di restrizioni di movimento, il pensiero va ai check-point in Cisgiordania. il premier israeliano Ehud Olmert aveva promesso al presidente palestinese Abu Mazen, una loro riduzione. In realtà…
«In realtà la situazione non solo non è migliorata ma è addirittura peggiorata. Le barriere realizzate da Israele all’interno della Cisgiordania sono infatti aumentate da 528 a 563, moltiplicando le enclave palestinesi isolate l’una dall’altra. La realtà, purtroppo, è questa. E questa realtà dice che i palestinesi sono vittime di una negazione di diritti umani, economici, politici e sociali».

Mentre stiamo parlando, centinaia di migliaia di palestinesi si sono riversati, attraverso il valico di Rafah, in Egitto.
«Questa fuga disperata dà conto di una situazione davvero esplosiva. Dalle notizie che ci giungono, tra quelle migliaia di persone che cercano rifugio in Egitto vi sono moltissime donne e bambini: sono i più deboli a pagare il prezzo più alto della morsa che attanaglia Gaza. La comunità internazionale non può chiudere gli occhi di fronte a questa tragedia. Farlo, sarebbe un atto d’irresponsabilità immorale».


Pubblicato il: 24.01.08
Modificato il: 24.01.08 alle ore 12.43   
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 28, 2008, 05:32:21 pm »

Wiesel: «La Shoah male assoluto»

Umberto De Giovannangeli


«Non possiamo, non dobbiamo dimenticare ciò che accadde nei lager nazisti. E che al fondo dell'Olocausto vi era il proposito di annientare gli ebrei, colpevoli di esistere: chi lo nega infligge alle vittime dei campi di sterminio una seconda morte». A parlare, nella Giornata delle Memoria, è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, che nei campi di sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e Buchenwald trascorse 11 mesi.

Ricordare non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. «L'antisemitismo e l'odio razziale - riflette Wiesel - segnano anche questo inizio secolo. Non posso perdonare gli aguzzini e coloro che ne esaltano le gesta». Parla a ragion veduta, il grande scrittore, Lui il mostro nazista l'ha visto negli occhi: «Non credo - afferma - che esista il Bene assoluto, nella mia vita, almeno, non l'ho mai incontrato . Ma il Male assoluto l'ho conosciuto e da allora non mi ha più abbandonato: l'ho visto negli occhi dei nostri carnefici, e nelle pietose giustificazioni di chi ripeteva: "Io non c'entro, non sapevo" e lo ritrovo anche oggi in chi nega che l'Olocausto fu innanzitutto il tentativo di annientare gli ebrei». Oggi ricorda Elie Wiesel, lo spettro di una nuova Shoah torna ad essere agitato da «una figura che non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare "persona non grata", per ciò che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità. Il nome di questa persona è Mahmoud Ahmadinejad: costui rappresenta la parte più buia dell'orizzonte politico odierno». «Spero che il 2008 - afferma Elie Wiesel - possa essere davvero l'anno della pace in Medio Oriente», ma lo scenario internazionale, e non solo quello mediorientale, è segnato pesantemente dalla crescente insicurezza globale dovuta al terrorismo. «Stiamo lasciando alle nuove generazioni un mondo pieno di paura - riflette il grande scrittore della Memoria - cosa ne faremo, lo trasformeremo in una fortezza?».

Nella Giornata della Memoria, è importante raccontare soprattutto ai giovani cosa è stato l'Olocausto. Compito a cui lei non si è mai sottratto. A un ragazzo di oggi che le chiedesse: cosa è stato l'Olocausto?, che risposta darebbe?
«È stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l'annientamento di un popolo. Questo è stato l'Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l'orrore incancellabile della Shoah».

La memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene, che ricordare serve solo a perpetuare antiche divisioni.
«No, no, sono assolutamente contrario. Dimenticare le vittime significa null'altro che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c'è chi esalta l'oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. Ed ancor oggi l'Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito».

Molti dei suoi libri hanno trattato il tema della memoria, del ricordo e dell'oblio, e di come la tragedia dell'Olocausto si è trasmessa di padre in figlio nel popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora.
«È il tema dell'identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come "separazione" dal mondo dei "Gentili". In uno dei miei libri, L'oblio, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: "Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri". Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, nella Giornata della Memoria, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell'Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna».

Signor Wiesel, per chi ha vissuto l'esperienza dei lager nazisti ha un senso la parola «perdono»?
«È la domanda che ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell'inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka.... No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantatre anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: "Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen...Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».

Dal passato che non passa, ad un presente inquietante. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano Ahmadinejad. Perché?
«Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente accertate, nell'offendere la memoria dei sopravvissuti all'Olocausto ancora vivi, glorifica l'arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo, da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la "soluzione finale" di Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadinejiad, non c'è stato un Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì, ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue "promesse". Sarebbe un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti: chi c'è dietro l'organizzazione terrorista degli Hezbollah? L'Iran. L'Iran li fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le loro milizie. Ma cosa vogliono gli Hezbollah? Concezioni territoriali? No. La creazione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco con Israele, cosa che personalmente mi auguro? No. L'unico obiettivo di questo movimento - e del presidente iraniano - è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare "persona non grata", per quello che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità».

Nella sua visita in Israele, il presidente Usa Bush, al museo dello Yad Vashem, si è chiesto del perché gli Alleati non avessero bombardato prima Auschwitz. Secondo un filone storiografico, ciò non avvenne perché gli Alleati temevano che bombardando avrebbero ucciso migliaia di prigionieri del campo.
«Questa motivazione non regge. Prima però mi lasci dire che ho molto apprezzato le parole del presidente Bush. Il suo è stato un atto di coraggio che è mancato ai suoi predecessori...».

Lei parlava di una scusa...
«Io ero ad Auschwitz. E posso dirle che ogni volta che assieme ai miei compagni di sventura sentivamo gli aerei sorvolare Auschwitz, pregavamo che bombardassero: sarebbe stata una morte preferibile alle camere a gas. La verità è che non solo gli angloamericani ma anche i russi, avrebbero potuto bombardare i binari della ferrovia che portava ad Auschwitz. In tal modo si poteva salvare la vita di decine di migliaia di ebrei. Così non è stato. E credo che il rimorso per non aver dato l'ordine di bombardare abbia accompagnato i responsabili per tutta la loro vita».



Pubblicato il: 28.01.08
Modificato il: 28.01.08 alle ore 6.49   
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 09, 2008, 05:46:59 pm »

La rete dell'odio

Umberto De Giovannangeli


L’antisemitismo naviga in rete. Un odio antico, mai sopito, usa i moderni strumenti della comunicazione. Pervasivi, spesso incontrollabili. Su Internet si danno appuntamento i «moderni» facitori di odio contro l’«Ebreo», ieri come oggi assunto come emblema della diversità che si vorrebbe cancellare. Quella «black list» di 162 docenti universitari non è un caso isolato. Perché il mondo di internet è contagiato da blog che, sotto sigle diverse, diffondono lo stesso pregiudizio.

La loro quantità è impressionante. Inquietante. Crescente: sono ormai migliaia i siti che predicano l’odio razziale, che alimentano il pregiudizio antisemita, che fomentano la violenza, che inneggiano alla distruzione di Israele. Guai a sottovalutarne la pervasità.

Il virus dell’antisemitismo sta crescendo, diversificandosi nella sua esplicitazione. Si odia l’Ebreo perché «domina il mondo»; si odia Israele perché è «lo Stato degli Ebrei». L’Ebreo viene raffigurato con le mani imbrattate di sangue (palestinese) e con le tasche gonfie di dollari. Tutto si tiene. Nulla è affidato al caso. E non è un caso che nel mirino dei «moderni» antisemiti siano finiti docenti universitari, vale a dire «trasmettitori» di cultura. Ebrei e insegnanti. Doppiamente pericolosi. Doppiamente nemici. Come lo furono in un passato che non passa, i docenti ebrei cacciati dalle università e dai licei del Regno d’Italia dal regime fascista. Quella lista della vergogna non è altro che la riedizione, moderna, dei falò dei libri bruciati dai nazisti nella notte dei cristalli.

Senza memoria non c’è futuro di libertà: è bene ricordarlo oggi, di fronte ad un fatto di una gravità enorme. Il salto di qualità non deve sfuggire: non siamo più solo alla reiterazione di vecchi slogan antisemiti. Siamo alla formulazione di vere e proprie liste di proscrizione, con tanto di nomi e cognomi. Centossesssantadue persone, donne e uomini da mettere alla berlina se non da indicare come bersaglio. Di nuovo tornano a riecheggiare, sinistramente, concetti demonizzanti quale la «Lobby ebraica», cavallo di battaglia del peggiore antisemitismo. A cui si accompagna la definizione degli ebrei come «minoranza etnica». Sono le stesse accuse che venivano rivolte agli ebrei nel ventennio fascista; accuse che rievocano le leggi razziali che - proprio settant’anni fa - portarono all’espulsione dei professori ebrei dalle università. Non è solo un passato che non passa. Perché dietro la lista della vergogna c’è anche altro. Che parla ai democratici, che interroga la sinistra. Che reclama a pesare ogni parola. Non si tratta di condannare, con la massima determinazione, gli eredi di Eichmann. Questo è scontato.

Il problema è un altro: quella «black list» non è composta solo da docenti ebrei. Quella lista riporta nomi, cognomi e università di appartenenza di 162 persone, poi rivelatesi non tutte docenti né tutte ebree, selezionate sulla base degli elenchi dei nomi presenti nella petizione pubblica proposta dalla comunità ebraica di Roma contro il boicottaggio attuato dalle università inglesi nei confronti di Israele.

Israele. Visto come «lo Stato del Male». Lo Stato carnefice. E come tale da combattere. Osteggiare. Annientare. L’antisemitismo si maschera con l’antisionismo. Gli estremi si toccano. Sarà solo una causalità temporale, ma non può non far riflettere che la «lista di prosrizione» accompagna le polemiche scatenate dal boicottaggio invocato contro la Fiera internazionale del Libro «colpevole» di aver voluto Israele e i suoi scrittori come Paese ospite della ventunesima edizione. Sia chiaro: i propugnatori del boicottaggio non hanno nulla a che vedere con gli estensori della «black list». Tuttavia, demonizzare Israele, mettere alla gogna la sua cultura. alimenta, al di là delle volontà soggettive, l’antisemitismo. E questa è una responsabilità imperdonabile.

Pubblicato il: 09.02.08
Modificato il: 09.02.08 alle ore 9.37   
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« Risposta #40 inserito:: Febbraio 12, 2008, 03:28:16 pm »

Jumblatt:«Filo-siriani, se volete la guerra, i libanesi sono pronti»

Umberto De Giovannangeli


Pesa le parole. Ma poi è un torrente in piena. Una «piena» che rischia di trascinare il Libano in una nuova, devastante guerra civile. Dal suo castello-fortezza sui monti dello Chouf, Walid Jumblatt, leader druso, figura storica della politica libanese, avverte l’opposizione filosiriana: «Voi volete la guerra? Sarà la benvenuta». Il suo tono, calmo, fa da contrasto alla pesantezza dell’affermazione. Jumblatt sa di essere da tempo in cima alla lista dei politici da eliminare stilata, e praticata, da coloro che hanno dato vita alla stagione del terrore in Libano, inaugurata, proprio tre anni fa, con l’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri. Le forze della maggioranza antisiriana si apprestano a celebrare il terzo anniversario dell’assassinio di Hariri con una imponente manifestazione in Piazza dei Martiri, nel cuore di Beirut. «Porteremo in piazza milioni di libanesi - anticipa Jumblatt in questa intervista esclusiva concessa a l’Unità -. E non sarà solo una giornata dedicata al ricordo di Rafik Hariri e delle vittime di quel massacro. Il 14 febbraio 2008 sarà il giorno in cui rilanceremo la nostra battaglia di libertà: il Libano sarà libero, sovrano, indipendente o resterà sotto l’ipoteca di Iran e Siria. Teheran e Damasco hanno rafforzato le loro carte in Libano». Il leader del Partito socialista progressista libanese si erge a difesa del governo guidato da Fouad Siniora: «O il governo sopravvive - avverte Jumblatt - o dovremo accettare il colpo di Stato fomentato da Iran e Siria. È in gioco la permanenza della democrazia in Libano». Il leader druso ha parole durissime nei confronti del presidente siriano Bashar el-Assad: «Bashar è un mafioso che gioca con l’Occidente e per questo cerca l’appoggio dell’Iran. Il gioco dei siriani è spietato. Hanno ucciso e continueranno ad uccidere chiunque in Libano rivendichi giustizia e indipendenza e chieda di fare piena luce sull’assassinio di Rafik Hariri e degli altri parlamentari, giornalisti e intellettuali che hanno osato sfidare il protettorato siriano». Tra i politici da eliminare c’è anche lui, Walid Jumblatt: «Non ho paura per me, ma per il Libano», è la sua risposta.



Tra pochi giorni il Libano ricorderà il terzo anniversario dell’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri. Anniversario che vede il Libano stretto in un inquietante caos istituzionale, con un Parlamento bloccato da oltre un anno, con le votazioni per la nomina del nuovo capo dello Stato rinviate già 14 volte. In questo contesto, qual è il messaggio di questo 14 febbraio 2008?



«Sarà un messaggio di libertà e di determinazione. Siamo pronti a tutto per difendere l’indipendenza e l’integrità territoriale del Libano. A tutto. Il 14 febbraio di tre anni fa, noi abbiamo preso nelle nostre mani e impiantato nei nostri cuori la dignità, la libertà, la difesa del pluralismo politico, culturale, religioso. Per questi valori siamo pronti a combattere e a morire».



È un messaggio rivolto al leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah?



«A Nasrallah dico: unisciti a noi nella costruzione e nella difesa di un Libano libero, sovrano e indipendente, e abbandona gli infedeli e i tiranni. Entra nei ranghi degli uomini liberi, se ne hai il coraggio. Ma se così non sarà».



Se così non sarà?



«Dovranno fare i conti con la nostra determinazione a combattere perché il Libano non ritorni sotto tutela siriana. Combattere, sì. Non assisteremo più a braccia conserte che altri parlamentari antisiriani vengano assassinati, e come loro ufficiali dell’esercito, giornalisti liberi, intellettuali coraggiosi. La nostra dignità e la salvezza del Libano vengono sopra ogni altra cosa. Noi non accetteremo più accuse di tradimento, non subiremo nuove umiliazioni. Ai nemici della libertà dico: volete il caos? Sia il benvenuto. Volete la guerra? Sia la benvenuta. Noi non abbiamo problemi a procurarci le armi, non abbiamo problemi con i missili. Noi sappiamo dove prenderli e sappiamo come usarli. Non vi temiamo. Se non abbiamo reagito finora non è per ignavia ma per senso di responsabilità. Ora basta».



Il leader di Hezbollah sostiene di non voler disarmare le sue milizie perché quelle armi servono a difendere il Libano dalle aggressioni israeliane.



«Noi non ne possiamo più di una guerra aperta con Israele, combattuta con dei pretesti fallaci al servizio del regime siriano e dell’impero persiano. Dietro falsi slogan patriottici e filo-palestinesi, costoro mascherano il loro essere strumenti al servizio di persone vili, come Bashar el-Assad e la sua cricca. Noi ne possiamo più del loro fragrante rifiuto della giustizia e della volontà di occupare con la forza intere aree del Paese sottraendole al controllo dello Stato centrale; aree in cui si accumulano armi e dalle quali partono le operazioni terroristiche contro l’esercito e gli uomini liberi del Libano».



I leader dell’opposizione chiedono che l’elezione del nuovo capo dello Stato sia legata alla nascita di un governo di unione nazionale.



«Questa non è una richiesta, è un ricatto. Inaccettabile. Il vero obiettivo che si prefiggono è la paralisi politica e istituzionale. Ciò che pretendono è rimettere in discussione gli accordi di Taef (che posero fine alla sanguinosa guerra civile che marchiò il Libano per quindici anni, dal 1975 al 1990, ndr.). La grande manifestazione di giovedì prossimo sarà un test per Taef. O quel documento è mantenuto tale e quale a come Rafik Hariri l’ha voluto, per tutelare l’unicità del pluralismo islamo-cristiano su cui si fonda l’assetto istituzionale libanese, o esso sarà cancellato con il pretesto di una democrazia consensuale. In questo modo ogni decisione democratica verrebbe bloccata, laddove fossero creati rapporti politici "contro natura". Quei rapporti che sono falliti in passato e che sono destinati a fallire in futuro, quei rapporti che sono sostenuti dal regime siriano e finanziati dall’imperialismo persiano».



Per giovedì prossimo le forze del «14 Marzo», la maggioranza antisiriana, hanno indetto un raduno popolare in Piazza dei Martiri, a Beirut, per il terzo anniversario dell’assassinio di Rafik Hariri. Lei sarà tra gli oratori. Cosa chiede in questo frangente ai libanesi?



«Di partecipare in massa alla manifestazione, sventolando solo bandiere libanesi, il simbolo di una unità nazionale minacciata. Questo 14 febbraio, è un giorno di sfida ancora più dura, difficile di quella che del 14 febbraio 2005. Noi dimostreremo ancora una volta che siamo un popolo che ha forte il senso dell’onore, della giustizia e della libertà: ideali che appartengono ai forti e non ai deboli».

Pubblicato il: 12.02.08
Modificato il: 12.02.08 alle ore 10.09   
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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 13, 2008, 11:03:00 pm »

Antonio Cassese: «11/9, la richiesta di pena di morte è contro la Costituzione Usa»

Umberto De Giovannangeli


Pena di morte per 6 reclusi di Guantanamo. Cosa c’è dietro questa richiesta. E ancora: la guerra al terrorismo e i diritti della persona. L’Unità ne discute con Antonio Cassese, docente alla facoltà di Scienze politiche «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze, già presidente, per sei anni, del Tribunale penale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia.


Professor Cassese come valuta la richiesta avanzata dal Pentagono per sei detenuti di Guantanamo accusati di aver preso parte agli attentati dell’11 settembre?



«È una richiesta sorprendente per diversi motivi: anzitutto, perché gli imputati sono stati detenuti per cinque anni senza sapere di cosa erano accusati; poi, questo potrebbe essere il primo vero processo contro detenuti di Guantanamo. Sorprende anche la circostanza che venga applicata una legge emanata nel 2006 che su alcuni punti viola non solo il diritto internazionale ma anche i principi fondamentali della Costituzione statunitense, nonché una sentenza recente della Corte Suprema degli Usa, nel caso Hamdan».



Sulla base di queste considerazioni, come spiega questa richiesta?



«Una precisazione è d’obbligo: si tratta soltanto di una richiesta da parte della pubblica accusa di rinvio a giudizio di sei imputati; richiesta che sorprendentemente è anche accompagnata da una richiesta di pena di morte. Spetterà al giudice di rinvio decidere se iniziare un vero e proprio processo. Ciò premesso, per quanto riguarda la spiegazione “politica” di questa richiesta chiaramente sollecitata dal Pentagono, come è stato giustamente osservato dal New York Times, essa è motivata dal desiderio del presidente Bush di vedere processati e puniti, prima della fine della sua presidenza, i presunti organizzatori del terribile attentato dell’11 settembre».



Ma la lotta al terrorismo può giustificare circuiti penitenziari e tribunali speciali?



«No, non la giustifica affatto. La risposta al terrorismo deve essere condotta sempre nel pieno rispetto della legge e del principio dell’equo processo. Come dice giustamente un noto procuratore antiterrorismo di Milano, la lotta contro il terrorismo va fatta con i codici in mano».



Guantanamo è tornata al centro dell’attenzione internazionale. A più riprese, le più importanti associazioni umanitarie, oltre che diversi leader europei, ne hanno chiesto la chiusura. Oggi questa richiesta cade nel pieno della campagna per la Casa Bianca. Ritiene che la chiusura di Guantanamo sia ancora possibile?



«La decisione di chiudere Guantanamo è nell’aria. A me risulta anche che un ambasciatore itinerante statunitense si sia recato in più Paesi (di quelli che non torturano) per accertare se erano disposti ad accogliere i detenuti di Guantanamo. Penso che quell’ambasciatore non abbia trovato calde accoglienze. Va anche detto che molti detenuti sono stati liberati alla chetichella per mancanza di prove contro di essi; a Guantanamo ne sono rimasti trecento e le autorità statunitensi prevedono di iniziare processi solo contro una ottantina».



Allargando lo sguardo oltre Guantanamo, qual è a suo avviso lo stato di salute del diritto internazionale rispetto allo specifico della lotta al terrorismo?



«Il diritto internazionale consente un ampliamento dei poteri degli investigatori e dei pubblici ministeri nei confronti di persone sospettate di terrorismo; consente anche, oltre all’aggravamento di pene per reati di terrorismo, la punizione di attività che normalmente non sono in sé criminalizzate, come ad esempio il finanziamento. In altri termini, il finanziamento di attività terroristiche può essere considerato un crimine in sé e dunque punito. Tutto ciò, però, è consentito dal diritto internazionale purché si rispettino i diritti fondamentali dell’indiziato o dell’imputato di terrorismo, e a condizione che si accordi a presunti terroristi l’equo processo. Purtroppo ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti è contrario anche a queste norme del diritto internazionale».



Fin qui abbiamo parlato di diritti dell’indiziato o dell’imputato. Ma c’è chi, di fronte a queste sottolineature, è pronto a ribattere che i “garantisti” non si rendono conto, o sottovalutano colpevolmente, che di fronte si ha un nemico spietato.



«Rinunciare a principi fondamentali della civiltà giuridica occidentale, come la presunzione di innocenza e l’equo processo, comporta non solo una violazione di importanti valori giuridici e morali, ma anche una grave perdita di credibilità delle democrazie occidentali. Non v’è dubbio, a tal proposito, che gli Stati Uniti stanno pagando un prezzo altissimo, in termini di credibilità e di prestigio, per Guantanamo e Abu Ghraib».



Insisto nell’eccepire: c’è chi ritiene che il pugno di ferro, anche sul piano delle procedure, possa scoraggiare i terroristi.



«Non credo. La fermezza, l’efficienza organizzativa ed investigativa, il coordinamento costante e fattivo tra investigatori di più Paesi nel lottare contro il terrorismo sono la ricetta migliore per sconfiggere il terrorismo e prevenirne nuove manifestazioni. Il pugno di ferro, che in fin dei conti significa tortura negli interrogatori e trattamenti disumani nel corso della detenzione, non pagano e imbarbariscono lo Stato democratico».



Sul piano del rispetto dei diritti dell’imputato, l’Europa può essere un riferimento anche per altre aree del mondo?



«Sì, assolutamente, anche perché in Europa abbiamo la fortuna di un controllo giudiziario su tutto il continente che è esercitato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Se uno Stato devia da questi principi di civiltà giuridica, la Corte di Strasburgo interviene subito e lo può condannare».

Pubblicato il: 13.02.08
Modificato il: 13.02.08 alle ore 9.06   
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« Risposta #42 inserito:: Febbraio 16, 2008, 11:15:24 pm »

Umberto Ranieri: «Ma Pristina avrà un’indipendenza sorvegliata»

Umberto De Giovannangeli


Umberto Ranieri, presidente della Commissione Esteri della Camera, domani dovrebbe essere il giorno della proclamazione dell’indipendenza del Kosovo. Che valutazione dare di questo evento?



«Il governo italiano si è adoperato a lungo affinché si giungesse ad una decisione sullo status del Kosovo sulla base di una intesa tra Belgrado e Pristina. Non è mancato mai il nostro sostegno al negoziato tra le parti. La verità è che a prevalere sono state reciproche pregiudiziali che hanno impedito il raggiungimento di una intesa: da un lato l’irremovibile opposizione del governo serbo a discutere dell’indipendenza, e dall’altro lato la posizione delle autorità kosovare che ritenevano che l’indipendenza costituisse una rivendicazione non negoziabile, mentre per Belgrado ciò era del tutto inaccettabile. Quindi non è stato possibile raggiungere quel compromesso tra le parti per il quale si era fortemente adoperato il nostro Paese che ha mantenuto buoni rapporti con Belgrado e con Pristina. Io penso che non abbia favorito l’affermarsi di un compromesso anche la condotta tenuta sia dalla Russia che dagli Stati Uniti nel corso del negoziato».



Su che base fonda questa valutazione?



«Mosca ha sostenuto la posizione irriducibile di Belgrado e Washington ha fatto lo stesso con Pristina. Gli Stati Uniti hanno continuato a dire agli albanesi del Kosovo che avrebbero potuto contare su una rapida indipendenza, senza concessioni alla Serbia e questo ha indebolito qualunque eventualità di ulteriori trattative. La ricerca di una soluzione più equilibrata e di compromesso è stata resa vana dal sostegno pregiudiziale che ai contendenti è venuto da Stati Uniti da una parte e Russia dall’altra. Il mio rammarico è che una questione squisitamente europea è stata invece condizionata nella ricerca di una soluzione dalle posizioni americana e russa».



Da Belgrado giunge un monito: difenderemo la nostra sovranità.



«Sono sicuro che Belgrado manterrà l’impegno assunto nel corso di questi mesi ad affrontare le questioni scongiurando in ogni caso il rischio che la situazione possa degenerare nella violenza. Io penso che l’elezione di Tadic a presidente della Repubblica serba la scorsa settimana, abbia chiamato ad assolvere a questo compito così delicato una personalità aperta alla prospettiva dell’integrazione della Serbia nell’Unione Europea, disponibile alla cooperazione con la comunità internazionale e con l’Europa in particolare. Spero che anche in questo momento particolarmente delicato nella storia serba, Belgrado mantenga questa impostazione. D’altro canto, credo che debbano anche essere considerate le ragioni che portano gli albanesi del Kosovo ad aspirare all’indipendenza. Nessuno può sottovalutare che tra serbi e albanesi del Kosovo si sia creato un abisso di inimicizia, di odio, di rancori. E nessuno può ignorare che gli albanesi hanno pagato un prezzo elevato a quella sorta di apartheid contro di loro, i cui primi segni si ebbero già negli anni di Tito per poi dispiegarsi compiutamente con Milosevic. Vanno comprese le ragioni che portano gli albanesi kosovari a porre la questione dell’indipendenza. Inoltre, questa prospettiva è apparsa inevitabile alla comunità albanese del Kosovo di fronte al dissolversi della ex Jugoslavia: hanno ottenuto l’indipendenza la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, il Montenegro, la Macedonia; la comunità albanese che rappresenta oltre il 90% della popolazione dell’intero Kosovo, aspirava a una prospettiva di questo tipo con ragioni. La mia opinione è che sarebbe stato necessario un processo diverso per giungere a questo esito. Un tempo l’impostazione della comunità internazionale era prima gli standard e poi lo status: vale a dire prima fare in modo che lo stato di diritto si affermi del tutto in Kosovo, garantendo una legislazione capace di imporre il rispetto delle minoranze e impegnando le autorità kosovare in una lotta alla criminalità e alla corruzione, e poi in un contesto profondamente rinnovato e più affidabile, affrontare anche il tema dello status, nel senso di riconoscere l’indipendenza. Così purtroppo non è stato».



Che indipendenza sarà quella del Kosovo?



«Sarà una indipendenza sorvegliata dalla comunità internazionale. In Kosovo resteranno migliaia di soldati della Nato e una missione civile della Ue sarà lì dispiegata per sostenere il processo di stabilizzazione e di democratizzazione di quel Paese».

Pubblicato il: 16.02.08
Modificato il: 16.02.08 alle ore 8.28   
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 02, 2008, 11:08:23 pm »

Altro che anno della pace

Umberto De Giovannangeli


Doveva essere l'anno della pace. Ma la speranza sta morendo nell'inferno di Gaza. Il linguaggio della diplomazia è messo a tacere. A dominare è quello che il martoriato Medio Oriente ha imparato a conoscere fin tropo bene: il linguaggio della forza. A Gaza è in atto una guerra. Le notizie che giungono in queste ore da quella prigione a cielo aperto dove sono ingabbiati un milione e 400mila esseri umani, sono angoscianti.

L´ offensiva scatenata da Israele in risposta al continuo lancio di razzi contro Sderot, Ashqelon, il sud del Neghev, sta mietendo decine, forse centinaia di vittime. Molti sono bambini e donne. Civili inermi.

Da Ramallah, il presidente palestinese Abu Mazen, uomo moderato, sostenitore del dialogo, usa parole durissime per denunciare ciò che sta avvenendo. E la parola più terribile, per ciò che evoca nella memoria collettiva, è: «olocausto». La comunità internazionale, il mondo civile, non può far cadere nel vuoto il drammatico appello lanciato da Abu Mazen: chi può, chi deve, intervenga subito per fermare le armi. Ma un silenzio assordante accompagna la tragedia di Gaza. Un silenzio che sembra accomunare, con rare eccezioni, la diplomazia degli Stati e quella dei popoli. Un silenzio imbelle se non complice, che stride con i buoni propositi declamati dal presidente americano Gorge W.Bush e da tutti i leader europei che si diedero appuntamento nel novembre scorso ad Annapolis, per quella che sembrò essere la «Conferenza della speranza».

Una speranza di cui non c'è traccia alcuna oggi a Gaza. Si era detto: il fallimento, l'ennesimo, del processo di pace può aprire la strada al peggio. Ebbene, il peggio si sta avverando. Il governo israeliano rivendica il diritto alla difesa. E nel farlo ricorda i razzi che continuano a bersagliare il sud dello Stato ebraico. Una realtà incontestabile. Ma ciò che in questi giorni, in queste ore, si sta consumando nella Striscia è qualcosa che va ben oltre il diritto alla difesa. La prova di forza, il pugno di ferro non indeboliscono Hamas, semmai lo rafforzano. A uscirne a pezzi è la leadership del moderato Abu Mazen, sono i palestinesi che credono nel dialogo e che si battono per una soluzione di pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Negli occhi terrorizzati dei bambini di Jabaliya si specchia il dramma di un popolo che non conosce pace ma solo frustrazione, disincanto, sopraffazione, violenza.

Le punizioni collettive non sono mai giustificabili. Mai. Con quale credibilità Abu Mazen può oggi parlare di dialogo, sostenere la necessità del compromesso, contrastare l'estremismo di Hamas, in uno scenario in cui l'unico bilancio sempre in attivo è quello dei morti? In passato Israele ha eliminato i capi di Hamas, ma altri hanno preso il loro posto, e la forza del movimento integralista è cresciuta.

A Israele si chiede un esercizio di lungimiranza politica e non di potenza (militare).

Perché il suo sacrosanto, inalienabile, diritto alla sicurezza non potrà mai fondarsi sull'oppressione di un altro popolo. Perché l'oppressione produce solo rabbia e alimenta una unica pulsione: quella della vendetta.

Un grande scrittore israeliano, Amos Oz, ha scritto che la tragedia del conflitto israelo-palestinese è che a scontrarsi non è il Bene contro il Male, la Ragione contro il Torto; l'unicità di questa tragedia senza fine è che ha scontrarsi sono due ragioni, due diritti ugualmente fondati: il diritto alla sicurezza per Israele, il diritto a uno Stato indipendente per il popolo palestinese. Due diritti che rischiano di essere sepolti per sempre sotto le macerie di Jabaliya.


Pubblicato il: 02.03.08
Modificato il: 02.03.08 alle ore 10.37   
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« Risposta #44 inserito:: Marzo 03, 2008, 06:02:46 pm »

Saeb Erekat: «Non è autodifesa, è un’aggressione che uccide la pace»

Umberto De Giovannangeli


«A Gaza Israele sta distruggendo le ultime speranze di pace. Uccidere decine e decine di palestinesi, molti dei quali donne e bambini, non può essere giustificato con il diritto all'autodifesa. È molto, molto di più: è pretendere l'impunità di fronte ad una carneficina». A parlare è uno dei leader palestinesi più impegnati nelle trattative con Israele: Saeb Erekat, già capo negoziatore dell'Autorità nazionale palestinese, oggi il consigliere politico più ascoltato dal presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).

Israele non fermerà le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza. A ribadirlo è il premier israeliano Ehid Olmert. Che ha aggiunto: nessuno può negarci il diritto a contrastare le organizzazioni terroristiche. Qual è la sua risposta?
«Distruggere case, colpire la popolazione civile, provocare la morte di civili inermi, tutto ciò non può essere derubricato come "effetti collaterali" nella lotta al terrorismo. Quello che Israele sta compiendo in questi giorni, nel momento stesso in cui noi stiamo parlando, non è solo un eccesso spropositato del diritto all'autodifesa, è qualcosa di molto più grave e assolutamente ingiustificabile. La nostra condanna al lancio di razzi contro le città israeliane è netta: chi compie questi atti si rende corresponsabile delle sofferenze subite dalla popolazione di Gaza. Ma, lo ripeto, quello che si sta perpetrando a Gaza è un massacro che l'intera comunità internazionale dovrebbe condannare con fermezza e agire di conseguenza sulle autorità israeliane perché pongano fine ad un'azione che rende improponibile il proseguo del negoziato di pace. Ed è per questo che abbiamo deciso di sospendere ogni contatto con Israele, a qualsiasi livello fino a quando non sarà posto fine a questa aggressione».

Israele ribatte: noi ci fermeremo se i palestinesi finiranno di bersagliare con i loro razzi Sderot, Ashqelon, il sud del Neghev.
«Siamo pronti come Anp ad assumerci le nostre responsabilità. Esiste, e Israele ne conosce ogni dettaglio, un piano messo a punto dal primo ministro Fayyad con il sostegno dell'Egitto, che prevede un più severo controllo del valico di Rafah (la frontiera tra Egitto e la Striscia di Gaza, ndr.) e l'assunzione del controllo da parte delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese dei valichi di frontiera tra Gaza e Israele. Abbiamo le capacità oltre che la determinazione per assolvere a questo compito. A Israele diciamo: metteteci alla prova invece di fare terra bruciata a Gaza».

E se questo appello non verrà, come sembra, accolto?
«Allora si aprirebbe una fase di destabilizzazione che potrebbe portare ad una escalation incontrollata della violenza. Questa, sia chiaro, non è una minaccia ma è una realistica previsione, condivisa da quei leader arabi, da re Abballah di Giordania al presidente egiziano Hosni Mubarak, che hanno sostenuto con convinzione il rilancio del processo di pace».

Domani la segretaria di Stato Usa Condoleezza Rice inizia una nuova missione in Medio Oriente. Tra le sue tappe c'è Ramallah. Può anticipare a l'Unità cosa chiederete alla responsabile della diplomazia Usa?
«Diremo alla signora Rice che non si può dialogare mentre la nostra gente continua a morire a Gaza, che l'esercizio della forza da parte d'Israele non indebolisce i nemici della pace ma al contrario li rafforza. Gli Stati Uniti si sono fatti garanti del processo di pace riavviato con la conferenza di Annapolis (novembre 2007, ndr.). Alla signora Rice chiederemo gesti coerenti con gli impegni assunti e di premere sul governo israeliano perché siano ristabilite le condizioni minime per poter tornare al tavolo del negoziato. E la prima di queste condizioni è che sia posto fine al massacro di Gaza».

Il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, ha accusato il presidente Abu Mazen di aver avallato, "direttamente o indirettamente", l'offensiva militare israeliana.
«Si tratta di un'accusa vergognosa, strumentale, che serve a mascherare le pesanti responsabilità che Hamas ha nell'aver determinato la drammatica situazione in cui versa la popolazione della Striscia. Hamas ha fallito su tutti i fronti e a pagare il prezzo del fallimento è la gente di Gaza e la causa palestinese».

Oltre a lanciare accuse ad Abu Mazen, Hamas chiama tutte le fazioni palestinesi, tra le quali al-Fatah di cui lei è uno dei dirigenti, a combattere insieme il "nemico sionista".
«Con i golpisti non è possibile alcuna azione comune. Hamas sa cosa deve fare per ritornare ad essere per noi un interlocutore credibile: riconoscere il governo legittimo di Salam Fayyad e ristabilire l'autorità delle istituzioni palestinesi a Gaza».


Pubblicato il: 03.03.08
Modificato il: 03.03.08 alle ore 9.07   
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